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sabato 25 settembre 2010

America!

Avevo intenzione da tempo di scrivere questo post, che con lo sdegno provato per la barbara esecuzione di ieri mattina (ora italiana) in Virginia di Teresa Lewis, una donna insana di mente e conseguentemente e logicamente innocente, potrei anche titolare "Contro la pena di morte. Senza se e senza ma" e comporre con parole diverse da quelle che avevo da prima in mente, ma, dopo avere subito imprecato su Twitter contro quell'assassinio "legale" (altro non é la pena capitale!), mi sono detto che almeno un momento di riflessione lo dovevo mandare avanti.

Ho idealmente destinato alla grande maggioranza degli statunitensi, che si tengono cara quella atroce consuetudine, che non si chiedono se ci sia qualcosa di sbagliato nell'avere una popolazione carceraria di tre milioni di rei (un cittadino ogni cento, dieci volte di più che in Italia!) in uno stato dove si vendono armi a tutti come se fossero noccioline e che vivono una vita fredda ed arida, fiocamente illuminata dall'evoluzione storica delle sdolcinate commediole hollywoodiane, quella colorita e volgare espressione che nella versione inglese tutti in tutto il mondo imparano subito. E che James Ellroy usò qualche anno fa a a marchiare quella barbara istituzione di sicuro nel caso specifico in conclusione di un suo agile libretto, nel quale, ricostruendone la tragica vicenda, spiegava come dall'alto della sua ormai acquisita fama di autore avesse inutilmente cercato di impedire l'esecuzione di un giovane di colore da lui ritenuto non colpevole. Solo che, da quel poco che so dell'attuale vita privata di Ellroy, dubito che sia in ogni occasione veramente contro la pena di morte

Ho da sempre sinceramente, ad usare un eufemismo, provato grande difficoltà, ma qualcosa del genere ho sempre nutrito anche per tante vicende e per tante rappresentanze ufficiali del consesso umano, a ritenere la nazione americana autenticamente civile, come ripetutamente viene affermato da fonti autorevoli in rapporto a leggi, consuetudini, comportamenti ufficiali per quanto attiene democrazia e legalità: e non solo per la sadica soddisfazione di governanti e governati di quel grande paese ad applicare proterviamente la pena di morte.

Da tempo mi tornano alla memoria due immagini contradditorie, forse in termini moderni maggiormente emblematiche di tanti travagli. L'interpretazione distorcente dell'inno americano fatta dalla chitarra di Jimi Hendrixx, oggetto subito di tanto scandalo, ma forse atto d'amore artistico per la propria terra natale. E la scena finale de il film "Il cacciatore" di Cimino, in cui quel gruppo di amici, pensando a due di loro morti perché diversamente travolti dalla follia della guerra in Vietnam, ascoltano la versione ufficiale di quella marcia musicale, ma non so (ambiguità della settima musa?) se si sentono stranieri e addolorati perché di origini slave o invece acriticamente inquadrati nella "american way".

Alcuni autori hanno sostenuto che il genere western sia una potente metafora dell'amore per la natura e per la libertà individuale: sentimenti condivisibili di sicuro, ma poi un pensiero moderatamente civile corre subito al massacro dei nativi, che gli americani già iniziarono a perpetrare quando erano ancora sudditi di sua maestà britannica e che il loro cinema ha iniziato a compiangere solo da poco.

La storia e gli atti formali degli Stati Uniti, dalla Dichiarazione d'Indipendenza al contributo enorme arrecato per stroncare nella seconda guerra mondiale la minaccia nazi-fascista, sono ineludibili e chiari nei loro significati profondi. Ma altrettanto ineludibili e chiari sono o sono stati su un versante negativo altri fattori, quali (a trascurare un pregresso imperialismo che nella unilaterale guerra all'Iraq e nella cinica lotta ai narcos - l'altro giorno é stato ucciso con raffinati mezzi di guerra moderna il capo delle Farc colombiane, responsabile tra l'altro del sequestro della Betancourt - e ai terroristi ha trovato i suoi colpi di coda) un apartheid, conseguente all'abolizione della schiavitù, durato in pratica sino ai nostri giorni, e un'esaltazione sfrenata di un competizionismo sociale ed economico, magnificato anche da filosofi e da storici dell'economia, nel quale probabilmente affonda le radici l'insensibilità diffusa, popolare ed istituzionale, con rare eccezioni, verso gli emarginati e i derelitti di ogni etnia.

Difficile sfuggire al fascino di certo cinema, di certa letteratura, di certa musica, anche di certa arte figurativa nordamericani. Ripensandoci, le ispirazioni più autentiche derivano dalle interpretazioni date alle incommensurabili contraddizioni di quel grande paese.

Amore e grande critica, se non, talora, odio, allo stesso tempo allora verso gli americani. Grande attenzione, sempre, comunque!

Così é la vita!

domenica 19 settembre 2010

Il Casino Forcalquier

Mi preme tornare a scrivere qualcosa di Pierre Magnan, scrittore francese in primis di polizieschi, anche se alle sue opere ho fatto talora cenno in precedenti post, perché raramente ho trovato in un autore tanta passione e tanta precisione in riferimento alla vita sociale, al costume, ai poveracci, ai notabili, alle persone avide, temi, mi sembra, sempre di attualità. Nel suo caso per quasi duecento anni di storia francese, poi. E, in materia, mi urge riferire subito quanto mi disse tanti anni fa' un mio ex-compagno di scuola, di madre transalpina, circa il fatto che i francesi avessero sempre amato tenersi i risparmi (l'espressione puntuale erano "le monete d'oro") sotto i materassi.

La prima volta in cui lessi Magnan, restando magari perplesso sulla trama, non potei fare a meno di ritrovarmi per intero in una mia personale idea geo-fisica di Francia, quella dei viali di platani, delle piazzette alberate e di certe locande d'entroterra, per intenderci. E' uno dei miei autori preferiti.  Per un certo periodo, almeno, sono stato in buona compagnia, se é vero che Camilleri in un racconto della serie "gli esordi di Montalbano" fa' dire al suo personaggio che forse era il caso, nonostante vari impegni, di continuare la lettura del libro di Magnan, che aveva appena iniziato. Né ha fatto certo difetto a questo autore essere stato amico e discepolo di Jean Giono, suo conterraneo del dipartimento oggi denominato Alpi dell'Alta Provenza (con Digne capoluogo).

Sussistono varie testimonianze della pregressa civiltà materiale disseminate nei libri di questo autore, quali divise di portalettere modellate su quelle dei soldati di Napoleone, divise dei ferrovieri, tele cerate, cappellini antiquati, calendari delle Poste dalla ricca iconografia, tamburi sgargianti, polveri (di insetti) fortemente afrodisiache, attrezzi inconsueti (dei falegnami, dei maniscalchi, dei carbonai, dei tartufai, degli apicoltori), macchinari complicati tutti in legno per i molini ad acqua, tipiche costruzioni agricole provenzali dalle circoscritte destinazioni d'uso, arredamenti maestosi e severi degli studi dei notari, destinati a sfidare le guerre ed i decenni.

Su tutte le storie incombe la natura (e, qui, mi vado a ripetere) con il vento impetuoso che scende dalle montagne; cime (la Lure in primo luogo) per arrivare alle quali si passa dalle coltivazioni intensive specializzate alle boscaglie e a qualche foresta, per rinvenire pianori erbosi non di rado sprofondanti in doline (e rupi e sassi e burroni); cappelle e chiesette di campagna; reperti archeologici romani; piante rare, piante endemiche, piante officinali, profusione di fiori a primavera; maestosi castelli diroccati; lo scrosciare, talora pauroso, specie nella brutta stagione, delle acque della Durance e della Bleone e di tanti torrenti, spesso con accompagnamento di diluvi di pioggia e di spaventosi fulmini; ed anche il sole e la neve, certamente. E tanti giardini, tanti orti, tanti alberi che, più che coltivati, sembrano ormai crescere da soli e sfidare le intemperie, perché messi a dimora da qualche antenato più avveduto, il tutto a completare la parte di paesaggio che dovrebbe essere precipua cura dell'uomo. Ci sono i paesi, i villaggi, le città, di cui il lettore, grazie alle descrizioni, può quasi direttamente vedere stazioni, ville, terme, palazzi, monumenti come la fortezza di Sisteron.  E a Sisteron una grande pianta di glicine, abbarbicata per tutta l'altezza di una bella casa borghese, in un episodio memorabile narrato da Magnan.

E' necessario, ora, che io venga a specificare che la maggior parte dei romanzi di Magnan hanno come protagonista il commissario Laviolette, che qualcuno ha voluto definire il Maigret delle Basse Alpi (come più o meno si chiamava una volta quel dipartimento con capoluogo Digne), ma che, a mio avviso, differisce molto dal commissario parigino, non solo perché é uno scapolo che si concede qualche rara avventura sentimentale, bensì per il suo profondo radicamento nel territorio in cui é nato ed opera (e troviamo lì già suo nonno e suo padre entrambi graduati, il secondo di sicuro brigadiere, della Gendarmeria) e per un accentuato senso di tolleranza per le debolezze umane. Non poteva, forse, essere diversamente, poiché é stato partigiano su quelle montagne come il suo autore. Da un lato, tutto questo aiuta a capire la larga visione del protagonista a fronte di tante (anche se spesso pittoresche) miserie umane, dall'altro contribuisce ad inquadrare l'arco temporale (principalmente gli anni '80) della sua azione, che lo vede ad un certo punto coinvolto in indagini, ancorché ormai pensionato.

Il riferimento alla Resistenza é importante, anche per il contributo sotto veste romanzesca a dissipare luci ed ombre umane di quell'eroico periodo, che non poteva essere esente da micidiali provocazioni del nemico e da tradimenti.

Con l'artificio, poi, di antefatti che risalgono nel tempo o dei racconti del nonno o della narrazione di vicende del padre vissute o viste da bambino, Laviolette porta talora il lettore anche oltre gli inizi del '900, con pagine in cui sembra proprio di respirare la storia, proprio perché, essendo storia minore, emergono personaggi, riferimenti, vicende, fatti, veri o verisimili, largamente misconosciuti, io credo anche in Francia: non per niente Magnan ha conseguito diverse attestazioni ministeriali transalpine per il suo meritorio impegno di divulgazione storica.

Non posso non delineare brevemente le figure femminili di Magnan. Il primo termine che mi viene in mente é sensualità, una sensualità sana, mi viene da aggiungere, anche nelle donne che delinquono. Altro aspetto é che, talvolta vittime, ci sono donne criminali e, ripeto, non tutte le donne sono delle vittime, questo forse alla luce di uno storico, non dichiarato matriarcato di quelle zone. E le donne sono in genere belle e formose, anche nella maturità!

"Il Casino Forcalquier" é un romanzo storico, a sè stante, per così dire, al pari de "La casa assassinata" e de "Il periplo del capodoglio". Ricorrono in tutti le peculiarità di cui ho detto già largamente. E i primi due sono anche dei noir. Accenno solo ad alcune particolarità. Il primo, ambientato intorno al 1870, ha l'andamento di un grande romanzo d'avventura, con tanto di briganti e di tesori; de "La casa assassinata" va almeno detto che porta il lettore a non dimenticare, anche se inquadra marginalmente reduci e mutilati, la tragedia della Prima Guerra Mondiale; ne "Il periplo del capodoglio", che ha anche qualche decisa venatura comica, l'unico che si svolge fuori contesto, lungo un fiume idealizzato che si può identificare con il Rodano, dopo aver avuto la soddisfazione di incontrare per qualche attimo significativo Stendhal in persona, si rimane estasiati da delle splendide figure di donne.

Lascio da ultimo "Guernica", dove appare un Laviolette ancora giovane e in vacanza in Spagna, nella Spagna franchista, ma coinvolto in un episodio veritiero (mi sono documentato!) di feroce stampo medievale, si sarebbe detto una volta, che lo perseguiterà a lungo, anche in Italia. E' un libretto agile, dove la penna del maestro rifulge veramente grande, ma per il quale ho voluto annunciare all'eventuale lettore un'atroce crudeltà ivi descritta, forse non a caso ambientata a Guernica, città martire immortalata da Picasso.

venerdì 17 settembre 2010

L'anatra messicana

I giornali hanno riportato notizie circa le imponenti manifestazioni del 15 settembre per il bicentenario del Messico (dalla data di inizio della guerra di indipendenza contro la Spagna). Alcuni hanno, nell'occasione, sottolineato lo spaventoso dramma segnato dallo strapotere criminale dei narcos, che miete ogni anno in quel paese migliaia di vittime, in gran parte innocenti. Qualche editorialista, in particolare, ha voluto rievocare la tragedia, maturata in quel clima spaventoso dove ogni sorta di orrendo delitto può verificarsi, delle centinaia di giovani donne, torturate, stuprate, uccise sulla strada dell'emigrazione clandestina verso l'America. Ed altre vicende tristemente similari, meno ampie per entità numerica, certamente non meno disumane. Non sono mancati, a completare le cronache, commentatori messicani che, in sostanza, hanno detto che la polvere va messa sotto il tappeto, a pena di fare mancare energie per tentare di uscire dalla corrente crisi economica. Un ritornello che si sente spesso anche dalle nostre parti, pure se in riferimento a situazioni non così allucinanti.

Avevo accennato in precedenti post a questo dramma smisurato, perché anticipato o rivissuto in dolenti pagine di partecipazione umana da una buona, alta letteratura, del tutto inane, ma non potrebbe essere diversamente, ad incidere positivamente. E non sono certo che l'opinione pubblica europea ne sia molto al corrente.

"Il potere del cane" di Don Winslow é un romanzo che, procedendo, a mio avviso, con grande respiro artistico, dipinge un affresco impressionante di questo Messico, nel quale risaltano altresì le complicità politiche locali. E le abbinate interferenze spionistiche e malavitose nordamericane di lunga data, le stesse viste in esercizio, ad esempio, in altri paesi centro-americani. Dopo di che, come già capitato a Panama, gli USA bandiscono sacre crociate, nelle quali tutto é permesso, per tentare di arginare all'estero, alle fonti, la produzione ed il grande smistamento della droga che dilaga al loro interno.

Anche il cinema ha provato con esiti molto alterni a parlare del Messico contemporaneo.

"L'anatra messicana" é, invece, un degno romanzo noir di James Crumley, che non affronta in toto la questione di questi narcos, ma per il modo con cui li mette in scena ne attesta parimenti la terribile, impunita efficacia criminale.

Altri libri, altre pellicole, lo ripeto sommariamente, hanno registrato negli anni lo sviluppo progressivo della spirale perversa in cui si dibatte oggi la nazione che fu' dei Maya e degli Aztechi.

Sono lontane, perse, le speranze di un giovane John Reed, che trepidava per la rivoluzione dei peones di Villa e di Zapata, del resto subito tradita, e di Eisenstein, che, poco tempo dopo, tentando di girare "Que Viva Mexico!", auspicava la continuità di quegli ideali. Lampi sul Messico, appunto, come qualcunò andò a titolare il prodotto dello scempio compiuto con il materiale girato, e precipitosamente abbandonato in quanto costrettovi, dal regista sovietico!

E, fatte le debite proporzioni, preso atto della situazione messicana, forse andrebbe fatta qualche riflessione sull'Italia, che di trame eversive, interferenze straniere, poteri criminali non si é fatta e non si fa' tuttora mancare nulla.

martedì 14 settembre 2010

Il Gruppo Sbarchi della Resistenza (Intemelia)

Ieri si sono svolti a Bordighera i funerali del partigiano Renzo Biancheri (Rensu u Longu). Mac Fiorucci mi ha consentito di pubblicarne una testimonianza da lui raccolta, testimonianza di Renzo Biancheri, che riporto qui di seguito in corsivo.

La mia storia nella Resistenza è legata a filo doppio con Renzo Rossi.

Nell’agosto del ‘44 mi aggregai al gruppo partigiano di Girò [Pietro Gerolamo Marcenaro], che operava nella zona di Negi [Frazione di Perinaldo (IM)], dove godevamo anche dell’appoggio di Umberto Sequi a Vallebona e di Giuseppe Bisso a Seborga; tutti e due membri del CLN di Bordighera. Negi era il punto di contatto tra le varie formazioni partigiane che operavano nella zona: Cekoff [Mario Alborno], Gino Napolitano ecc.

Facevo da staffetta tra Negi e Vallebona.

In settembre insieme a Renzo Rossi partecipai all’incontro con Vittò [Giuseppe Vittorio Guglielmo, in quel periodo comandante della V^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione "Felice Cascione" e, da dicembre 1944, comandante della Divisione stessa]. Ci accompagnò Confino, maresciallo dei Carabinieri che aveva aderito alla Resistenza. Vittò investì formalmente Renzo Rossi del compito di organizzare, per la nostra zona, il SIM (Servizio Informazioni Militare) e i SAP (Squadre d’Assalto Partigiane), e io fui nominato suo agente e collaboratore.

In novembre mi aggregai al battaglione di Gino Napolitano a Vignai, ma dopo alcune operazioni di collegamento tra Vallebona e il comando di Vignai, il comando mi richiamò ad operare nel Gruppo Sbarchi.

Nell’estate, i servizi segreti americani avevano inviato sulla costa una rete di informatori, capeggiati da Gino Punzi. Dovendosi recare in Francia, per passare le linee, Gino si avvalse della collaborazione di un passeur, che però era passato dalla parte dei tedeschi e durante il viaggio lo uccise. Il comandante tedesco si infuriò perché avrebbe voluto catturare vivo il Gino (1). Sul suo cadavere furono rinvenuti dei documenti, dai quali i tedeschi vennero a conoscenza che sarebbero stati inviati altri agenti e telegrafisti alleati. 
(1) Luigi Punzi, Medaglia d’Argento al Valore Militare con la seguente motivazione: Combattente in territorio oltre confine non si arrendeva ai tedeschi ed in impari lotta opponeva fiera resistenza mantenendo alto l’onore e il valore del soldato italiano. Benché ferito riusciva a sfuggire alla cattura e unitosi al movimento clandestino francese organizzava la partecipazione al “Maquis” di formazioni partigiane composte di connazionali in Francia. A Peille, Peiracava e alla Turbie si univa ad essi ed eseguiva ardite missioni per collegare e coordinare nella zona di frontiera ed in quella rivierasca l’azione dei partigiani francesi e italiani. Mentre rientrava alla base di ritorno da una missione particolarmente rischiosa, veniva proditoriamente colpito da un sicario prezzolato che lo finiva a colpi di scure. Cadeva nel compimento del dovere dopo aver riassunto nella sua opera le belle virtù come militare e  partigiano d’Italia - Alpi Marittime - Ventimiglia, 8 settembre 1943 - 6 gennaio 1945

I tedeschi predisposero una trappola e quando arrivò il telegrafista “Eros” lo catturarono ferendolo. Si avvalsero di lui per trasmettere falsi messaggi al comando alleato di Nizza.

Con questi falsi messaggi fu richiesto l’invio di un’altra missione: la missione “Leo”.

La missione andò a rotoli con il ferimento [la maggior parte delle fonti indicano come data l'8 febbraio 1945] di “Leo” [Stefano Carabalona], che venne nascosto nella cantina di casa mia.

I tedeschi rastrellarono tutta la zona cercando “Leo”; “visitarono” anche la mia casa: sulla porta rimasero le impronte dei chiodi degli scarponi di quando sfondarono l’ingresso a calci.

Ma non cercarono in cantina, si limitarono ad arraffare del cibo dalla cucina. Con Renzo Rossi nascondemmo tutti i documenti del SIM e del CNL nel mio giardino, preparandoci al trasferimento di “Leo” in Francia. Il Gruppo Sbarchi aveva frattanto predisposto una barca e Renzo Rossi con Lotti avevano preavvisato i bersaglieri della necessità di effettuare l’imbarco quanto prima possibile. La collaborazione dei bersaglieri fu determinante per tutte le operazioni del Gruppo Sbarchi. Il sergente Bertelli comandava un gruppo di bersaglieri a Collasgarba e aveva manifestato la volontà di aderire alla Resistenza. Fu avvicinato dai fratelli Lilò [Bartolomeo ed Ettore Biancheri di Bordighera, martiri della Resistenza, fucilati a Forte San Paolo di Ventimiglia il 21  marzo 1945] per stabilire le modalità della diserzione, quando il plotone fu distaccato alla difesa costiera giusto sulla costa di Vallecrosia in prossimità del bunker alla foce del Verbone. I Lilò convinsero i bersaglieri a non disertare, ma ad operare dall’interno, consentendo e agevolando tutte le Operazioni Sbarchi.

Alla data convenuta, in pieno giorno trasferimmo “Leo” a Vallecrosia, sempre sulla canna della bicicletta di Renzo. In pieno giorno, perché approfittammo di un furioso bombardamento. Le strade erano deserte, solo granate che esplodevano da tutte le parti. Ricoverammo “Leo” in casa di Achille [Achille "Andrea" Lamberti] aspettando la notte. Al momento opportuno ci trasferimmo sul lungomare; il soldato tedesco, come al solito, era stato addormentato da Achille con del sonnifero fornito dal dr. Marchesi [fratello dell'insigne latinista Concetto Marchesi] che era laureato in chimica.

I bersaglieri ci aiutarono a mettere in acqua la barca [nella notte tra il 5 ed il 6 marzo 1945] e a caricare “Leo” ferito. Cominciammo a remare, ma, dopo poche centinaia di metri, la barca cominciò ad imbarcare acqua. Non potevamo tornare indietro. Mentre io e “Rosina” [Luciano Mannini] remavamo, “Leo” e Renzo si misero di buona lena a gottare, con una sassola che, per puro caso, avevamo portato con noi. Riuscimmo a tenere il mare e ad arrivare al porto di Monaco. Con la pila facemmo i soliti segnali, ma non ricevemmo alcuna risposta; entrammo nel porto e accostammo alla banchina. Chiamammo una ronda di passaggio, che ci portò al comando di Polizia, dove chiedemmo di informare Milou, l’agente di collegamento. Arrivarono gli inglesi e “Leo” fu finalmente ricoverato al Pasteur di Nizza. Anche io e “Rosina” ci facemmo medicare il palmo delle mani piagate dal remare.

Il nostro ritorno fu programmato subito con il motoscafo di Pedretti [Giulio "Corsaro" Pedretti di Ventimiglia (IM)] e Cesar, che doveva recuperare anche alcuni prigionieri alleati (i 5 piloti: 2 inglesi, 2 americani, 1 francese); ma il motoscafo in mare aperto andò in panne e non ne volle sapere di riavviarsi. Eravamo in balia delle onde, Renzo Rossi, Pedretti e Cesar sotto un telo, al chiarore di una lampada, rabberciarono alla meglio il motore. Quasi albeggiava e la missione fu annullata perché ormai troppo tardi.

Sulla spiaggia di Vallecrosia il Gruppo Sbarchi attese invano con i 5 piloti.

I piloti vennero trasferiti in Francia nei giorni successivi da Girò e Achille.

Io, Renzo Rossi, Achille e Girò ritornammo con un carico di armi. Per sbarcare dovemmo attendere il segnale dalla riva, ma, come altre volte, non arrivò alcun segnale. Sbarcammo proprio davanti alla postazione dei bersaglieri, vicino al bunker.

Pochi giorni dopo, senza Achille, che rimase a dirigere il Gruppo a Vallecrosia, effettuai con Girò un’altra traversata, accompagnando “Plancia” (Renato Dorgia) a prendere armi e materiale per i garibaldini. Il ritorno lo effettuammo con la scorta di una vedetta francese, che accompagnò il motoscafo di Pedretti. Vi furono momenti di apprensione perché da bordo della vedetta si udì distintamente il rombo del motore di un motoscafo tedesco; non si accorse della nostra presenza e passò oltre. Trasbordammo sul motoscafo e sul canotto gli uomini e il materiale delle missioni “Bartali” e “Serpente”, composte da agenti addestrati al sabotaggio. Nelle operazioni di trasbordo alcuni caddero in mare e recuperarli nel buio non fu cosa facile, dovendosi osservare il silenzio assoluto. Attendemmo i segnali convenuti da riva. Anche quella volta nessun segnale. Gli ordini erano di annullare tutto, ma Girò accompagnò ugualmente a terra tutta la missione, mentre io tornai a bordo della vedetta, e nel buio pesto Girò riuscì ad individuare il tratto di spiaggia dinanzi a casa sua.

Le difese di quel tratto di costa erano così composte: un bunker alla foce del torrente Borghetto, uno nei pressi della foce del Verbone, un altro quasi alla foce del Nervia.

Tra il bunker del Borghetto e quello del Verbone, era tutto un campo di mine, eccetto, giusto alla metà tra i due bunker, un passaggio largo meno di un metro, dalla battigia fino al rio Rattaconigli. Sbarcarono a Rattaconigli e superarono il campo minato attraverso quel sentiero.

Quella sera dal bunker di Vallecrosia fino alla foce del Nervia era tutto un pullulare di tedeschi e fascisti. Ci aspettavano. La fortuna fu dalla nostra.

Girò tornò al Petit Rocher [villa nella baia di Villafranca, o Villefranche-sur-Mer, base delle operazioni integrate degli alleati e dei partigiani] da dove ripartì per l’ultima missione.
 
 
Poi Mac mi manda un'altra email con la quale, tra l'altro, afferma: "... ti allego parte della testimonianza del Partigiano .... Renato, (Plancia), anche lui del Gruppo Sbarchi, dove racconta un episodio di Rensu u Longu, durante il soggiorno alla sede di St. Jean Cap Ferrat (villa Le Petit Rocher, sede del SOE, servizi inglesi). U Longu appena arrivato dopo l'ennesima traversata, telefona a una non individuata donna e le canta "Polvere di Stelle", Stardust. Quando Renato me lo raccontò rimasi scettico; poi lo stesso Rensu me lo confermò, cantandomela ...."
 
Quindi, da un racconto Renato "Plancia" Dorgia veniamo a sapere che:

.... La base alleata in Francia era a Saint Jean Cap Ferrat, nella baia di Villafranca, nella villa Le Petit Rocher. Da Vallecrosia si partiva, naturalmente di notte, e si raggiungeva il porto di Montecarlo, facilmente individuabile perché l’unico illuminato. All’ingresso del porto, una vedetta intimava l’alt e accompagnava il natante all’approdo sotto stretta sorveglianza. Qui l’equipaggio forniva alle sentinelle alleate del porto di Monaco solo un numero di telefono o di codice e il nome dell’ufficiale dell’Intelligence Service. In meno di un’ora erano presi in consegna dai servizi segreti alleati.

Anche io fui condotto a Montecarlo, con Renzo Rossi, Girò e Renzo Biancheri, già allora sordo come una campana. Per me era la prima volta, mentre per gli altri si trattava dell’ennesima traversata.

Fummo accolti dal capitano Lamb, che ci condusse a Le Petit Rocher. Ci diede qualche istruzione, tra le quali ricordo che, alla mia richiesta di una qualche sorta di documento, ci disse che a eventuali controlli dovevamo solo rispondere che eravamo maltesi e di riferire il suo nome, Cap. Lamb, con il numero di riconoscimento.

Mettendo mano al portafoglio, Lamb cominciò a distribuire una banconota da 500 franchi. La sua intenzione era di consegnarne una per ognuno di noi, ma Renzo Rossi, intascata la prima banconota ringraziò dicendo che 500 franchi bastavano per tutti.

Il capitano, sorpreso, ci fissò negli occhi uno per uno e domandò: “Ma voi siete proprio Italiani?”.

Scoppiò poi a ridere, ma, per un attimo, vidi nel suo sguardo il sospetto che fossimo sabotatori. 

Renzo Biancheri chiese di poter usare il telefono, compose il numero e ottenuta la comunicazione tra lo stupore generale iniziò a cantare Polvere di Stelle.

Renzo era sordo e come tutti i duri d’orecchio cantava bene.

Sussurrava la melodia d’amore di “Polvere di Stelle” alle orecchie di una interlocutrice, evidentemente conosciuta in qualche precedente missione e con la quale di certo non scambiava lunghe conversazioni:

Sometimes I wonder why I spend
The lonely night dreaming of a song
...........
 
Renzo Biancheri in Giuseppe Mac Fiorucci, Gruppo Sbarchi Vallecrosia < ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia - Comune di Vallecrosia (IM) - Provincia di Imperia - Associazione Culturale "Il Ponte" di Vallecrosia (IM) >, 2007

domenica 12 settembre 2010

Marsiglia

Su Marsiglia intendo esprimere rapide impressioni, diversamente da quanto mi é capitato con Genova. Perché la conosco veramente poco, ma esercita su di me fascino. Del resto, sia su Internet che su vari blog si possono in merito trovare molte notizie.

Ho l'impressione, per ricordi personali, che 40/50 anni fa' fosse destinazione di immigrazione italiana, scarsamente tollerata nell'ambiente locale.

Ho scoperto in una conversazione con chi in quel momento, purtroppo per lui, c'era coinvolto che all'8 settembre 1943 sussisteva a Marsiglia anche una guarnigione italiana, coinvolta anch'essa nello sbandamento tragico di quei momenti.

All'epoca della mia escursione ad Aubagne, mi sono perso un'occasione preziosa per saperne di più su una "diversa" Marsiglia. In compagnia di un personaggio autorevole non prestai molta attenzione a quanto di carettere sociale e di costume mi stava dicendo, perché tutto teso a prepararmi e a fare domande, dal medesimo puntualmente ed elegantemente eluse, sui suoi trascorsi politici ed antifascisti, locali e nei dintorni. Soprattutto per quanto riguarda La Canebière, la via più famosa di Marsiglia, nella quale volle a tutti i costi recarsi.
 
La Canebière (via Google)
A me La Canebière sinceramente non é mai piaciuta, non fosse altro per l'ininterrotto traffico veicolare che la soffoca, ma mi sono meglio reso conto in seguito che da lungo tempo é il salotto della città, nel quale si sono sviluppate un numero incredibile di vicende. E così, pescando a caso nella memoria delle mie letture, posso maldestramente citare gruppi di belle ragazze a passeggio per destare l'ammirazione maschile.

In letteratura e nel cinema, invero, Marsiglia é stata teatro o riferimento di tante opere. Credo che Jean-Claude Izzo, dal quale penso di avere tratto le immagini femminili di cui poc'anzi, ne sia stato l'ultimo grande cantore. Avendone già scritto ed essendo abbastanza noto, mi limiterò a lodare in lui, scrittore di noir, il grande cuore cosmopolita.

Di Marsiglia si é a più riprese occupato il cinema, soprattutto, mi pare, per toste storie criminali (con epicentro la "French Connection"). Marsiglia, con un briciolo di autonomia anche sotto il regime dispotico del Re Sole, da allora é sufficientemente al centro della storia transalpina. Marsiglia ha il Porto Vecchio e un grande moderno porto, il più grande del Mediterraneo. Ha monumenti, cultura, dintorni naturalistici e paesaggistici notevoli. E potrei continuare, se non fosse per l'assunto iniziale.

Come personale nota di curiosità, posso accennare ancora una volta al ben noto ventaccio di Marsiglia. Aggiungere la meravigliata sensazione destata dai tanti colori e dai tanti odori dei prodotti (quasi del tutto a me ignoti, fatta eccezione per datteri e pistacchi) del sud del Mediterraneo esposti nelle bancarelle di negozietti nelle strette vie vicine al Porto Vecchio.

La grande emozione di carattere privato me la procurano la vicenda della fondazione di Marsiglia ad opera dei Greci di Focea (partiti dall'Asia Minore) e, all'epoca di Alessandro Magno, il cosiddetto periplo di Pitea, partito dal porto di questa città alla ricerca diretta di ambra e stagno verso ed oltre la Norvegia (l'ultima Thule degli antichi), costeggiando all'andata da occidente le isole britanniche, al ritorno l'attuale Germania. Perché si sa delle espansioni e degli empori degli antichi Massalioti verso l'odierna Spagna, ma anche, trascurando le lotte contro i Liguri, gli Etruschi ed altri popoli, della loro fondazione di Antibes, di Nizza, di Monaco, così vicine oggi al nostro confine.

venerdì 10 settembre 2010

White Jazz

James Ellroy - Fonte: Wikipedia
Un giudizio altamente lusinghiero é stato a suo tempo espresso su James Ellroy da Giancarlo De Cataldo, autore del noto "Romanzo criminale" e di altre opere noir, che contribuì a metà anni '90 a far conoscere questo autore americano nel nostro Paese.
Ellroy é uno scrittore noir, che, a mio personale avviso, ha portato il genere ad un elevato grado di intensità drammaturgica.

Procedo, tuttavia, con delle annotazioni estemporanee.

"White Jazz" é uno dei romanzi della cosiddetta quadrilogia dedicata da Ellroy a Los Angeles, una serie comprensiva di "Dalia nera", "Il grande nulla", "L.A. Confidential" (o "Los Angeles strettamente riservato"), un libro a me per imponderabile alchimia particolarmente caro, forse perché snodo significativo di quella fitta trama narrativa.  

La quadrilogia, nella quale emergono, sempre a mio parere, nuovi archetipi letterari rispetto al genere, si svolge in uno scenario storico preciso sin nei dettagli, in un'arco di tempo (con antefatti risalenti anche a prima della seconda guerra mondiale) che va' da fine anni '40 a fine anni '50, in una Los Angeles, che personalmente ho provato a ricostruirmi pensando a film come "La fiamma del peccato", "Viale del tramonto" e "Gardenia blu", perché l'autore su arredi urbani e paesaggi, forse per non appesantire trame di per sé già ponderose, non indugia più dello stretto necessario, pur non trascurando (quando, per ovvii motivi non é dovuto ricorrere a termini di fantasia) denominazioni precise ed accurate, quali strade, canjon, lunch, ristoranti, drive-in, locali notturni, stazioni di polizia, Centrale LAPD, Municipio, uffici di contea, prigioni, alberghi, tra cui il famoso Chateau Marmont, e così via.

I protagonisti sono anzitutto i poliziotti della LAPD, poliziotti violenti, disposti a violare la legge, chi in nome di ideali o presunti tali (pietà ossessiva per le tante, troppe donne vittime del crimine umano; pervicace convinzione di difendere l'astratta giustizia), chi per malinteso spirito di corpo, chi per corruzione congenita od acquisita, chi per la combinazione di diversi di questi fattori: tutte figure da grande tragedia, molte delle quali destinate ad una fine violenta, a volte una sorta di riscatto. Esiste, poi, il grumo di uno spezzone ancora più deviato della polizia losangelina, una sorta di vera e propria Gestapo, che interferisce in tutte le vicende narrate e che, in funzione di un antesignano maccartismo, poi connesso a quello nazionale, e di un razzismo da apartheid, non esita ad infiltrare e a colludere gli ambienti criminali, ivi compresa la mafia.

E, poi, ci sono i criminali per definizione; ma un po' tutti i personaggi sono dei criminali, anche gli ingenui (a volte omosessuali latenti) che perseguono scopi troppo azzardati. Anche i reduci di guerra, già persecutori dei nazisti. E poi ci sono i debosciati ed i pervertiti.

Ma le donne, anche le prostitute e le escort (le definizioni contano in questo caso!), non sono tutte delle criminali, anche perché sono sempre raffigurate come vittime, in molte occasioni soprattutto di omicidi. E spesso sono delle vere e proprie eroine.

Vicende affascinanti, perché narrate con equilibrato pathos, e nel contempo precise sul versante psicologico, nonché storico. Non mi rimane che accennare a situazioni e personaggi non molto noti, come la condizione dei neri e dei messicani immigrati (questi ultimi, ad esempio, protagonisti, insieme a sparuti gruppi di idealisti americani, durante la seconda guerra mondiale di una manifestazione sindacale repressa nel sangue), certe restrizioni di guerra, l'insegna sulla collina che viene ridimensionata per indicare solo Hollywood, i nomi di tante automobili (pacchiane per i rivestimenti e per i colori delle carrozzerie quelle dei "negri"), Downtown (il ghetto), il jazz, la musica popolare da ballo, la Dalia Nera (e di quella vera anche di recente hanno scritto i giornali italiani), Chavez Ravine e gli sfratti di forza contro i messicani per edificare lì un grande stadio, la costruzione delle prime autostrade, gli studios e gli scioperi del personale repressi dalla mafia con la connivenza della polizia in nome dell'anticomunismo, certi attori con il loro vero nome, certi attori ed altri personaggi famosi ed i loro vizi, altri personaggi, specie ricconi, dall'identità più o meno celata al lettore, un comunismo ed un sindacalismo da operetta, quattro gatti comunisti dipinti come intellettuali ed artisti falliti, politici corrotti, poliziotti d'alto grado e procuratori carrieristi e megalomani, qualche amministratore e qualche sindacalista puri d'animo, le riviste scandalistiche, i ricatti, il razzismo, tanto razzismo.

E la droga e la pornografia, importate da un Messico che non poteva non essere che antenato di quello attuale, insanguinato dalle lotte tra i vari cartelli della droga e destinato ad avviare tanti clandestini (e tante ragazze e tante bambine prima stuprate dai delinquenti di sempre, di qua e di là di quella frontiera) sui sentieri della morte nei deserti. Un Messico, quello di allora, destinatario dei turpi vizi di tanti nordamericani e delle scorribande dei loro poliziotti, sempre in combutta con i federales.

Ellroy, come ben si saprà, prima di mettersi a scrivere, ha avuto una vita che definire travagliata é dire poco, una vita da cui si é riscattato diventando, anche se da autodidatta, uno scrittore di razza.

Ha scritto molto altro ancora, Ellroy, qualcosa forse anche più vicino alla sensibilità o alle conoscenze più dirette degli italiani. Ci sono, comunque, almeno altri tre suoi libri fondamentali. Altre informazioni che lo riguardano possono completare un quadro critico della sua attività, da cui forse emergono le solite contraddizioni tra l'artista e l'uomo (americano, non dimentichiamolo!). Ma questo é solo un post, per cui qui termino. Rimando ad un prossimo nel quale scriverò anche dei casinò di Las Vegas, ancora di mafia, di personaggi (e quali personaggi) storici, di FBI, di CIA, della tentata invasione di Cuba, di Dallas, della guerra del Vietnam. Ed altro ancora.

domenica 5 settembre 2010

120, rue de la Gare


Prendo a prestito il titolo di questo post, 120, rue de la Gare, da un omonimo romanzo uscito miracolosamente (rispetto alla censura militare, e quale censura!) nella Francia occupata dai nazisti, benché trattasse e dei campi di prigionia dei soldati francesi e delle costrizioni di guerra a carico dei civili, per tentare di stendere qualche appunto sul noir francese. Soprattutto, sull'autore di quel libro, Léo Malet, che anche nella vita reale ebbe traversie non indifferenti.

Mi affido casualmente alla memoria, perché non intendo giocare allo specialista: anche perché le recensioni ci sono ormai anche per questo genere, "giallo", poliziesco, di investigazione, lo si chiami come si vuole, senza fare troppe sottili distinzioni, che lasciano il tempo che trovano, in quanto finalmente ne é stata riconosciuta la dignità letteraria, che da sempre in ogni campo riposa sulla grandezza dei singoli autori. Ma sto divagando e per tornare al tema che mi sono prefissato aggiungerò solo che cercherò di tornare in altre occasioni non solo sul "polar" transalpino ed altre opere similari, ma anche su quelle di altri paesi. E, anticipo che in Italia, a mio giudizio, abbiano nel ramo dei grandi scrittori!

Devo compiere di passaggio un omaggio, ma non di rito, come spero si capirà, al Maigret (troppo noto, perché io aggiunga ancora qualcosa) del grande Simenon (comunque, un belga, che ha vissuto molta parte della sua vita in Svizzera). Proprio in questi giorni nella storica collana della casa editrice che fece conoscere entrambi in Italia negli anni '30 e che dalle nostre parti ha dato, come ben si sa, il nome a questo genere di narrativa, compare un affettuoso ritratto sia dell'autore che del personaggio. Un'altra recente notizia mi fa' pensare sia a Maigret, che ad altri romanzieri. Leggendo di problemi di malattia (se ricordo bene) e di conseguenti pesanti rischi per la sopravvivenza dei platani in Francia, vengo a sapere in modo definitivo che pressoché tutti i viali transalpini del cinema e della letteratura erano piantumati in cotal guisa. Sono dei particolari, ma arricchiscono retrospettivamente di ulteriore atmosfera boulevards tanto ricorrenti e tanto amati dai lettori.

Léo Malet, allora. Fu per l'epoca in cui presentò per la prima volta il suo investigatore privato uno che seppe rompere decisamente gli schemi. Già chiamarlo Nestor Burma (il cognome pescato a caso da un atlante in lingua inglese: la Birmania!) comporta, pur nel realismo di fondo in cui sono collocate le sue avventure, una garbata ironia nei confronti dei già allora imperanti private-eyes statunitensi, ironia che viene prolungata nei comportamenti del personaggio, il quale con tipica verve, direi parigina più che francese, dà dei punti pur all'ottimo Philip Marlowe di Raymond Chandler. Si aggiunga il nome della sua Agenzia, "Fiat Lux", collocata in pieno centro di Parigi ed il quadro di riferimento inizia a farsi più preciso.

Una affollata galleria di comprimari, presi dalla vita vera, ci accompagna mentre seguiamo i casi affrontati da Burma, casi le cui radici affondano spesso prima della seconda guerra mondiale: tanti personaggi simpatici, uomini della strada e uomini importanti, civili e militari, perdenti come erano (con almeno un po' di dignità!) quelli di una volta, giornalisti (tra cui indimenticabile l'alcoolizzato e bisbetico Marc Covet, sempre informatissimo), ma soprattutto figure di delinquenti presi pari pari (così la intendo io!) dalle cronache dei giornali e non inventati di sana pianta, trafficanti e falsari d'arte, ricconi d'antan, poliziotti ottusi, ma trattati quasi con affetto dall'anarchico Malet, e le ragazze, le donne, ah, le donne!

Raramente ho rinvenuto ritratti più precisi, ma soprattutto affettuosi del nostro immaginario femminino, di quelli dipinti da Malet: ragazze quasi perdute che si riscattano; fanciulle innocenti di tutto ma sempre sul ciglio del burrone; una procace segretaria anch'ella dotata di grande senso dell'umorismo ed acuta osservatrice, ma destinata al nubilato casto, benché platonicamente innamorata del Nostro; anche belle ragazze per qualche flirt di Nestor, che vive, se ricordo bene, almeno una drammatica storia d'amore; cocottes, d'alto e basso bordo, e vere e proprie dark ladies, perché certo non potevano mancare; vecchie streghe e vecchine adorabili; e così via.

Con Malet ho respirato e respiro la cosiddetta storia materiale, la storia minuta, descritta, lo ripeto, con molta grazia, perché, scrivendo in tempo reale, da osservatore attento ha lasciato anche una documentazione, per così dire, imponente per gli anni '40 e '50 (per lo meno fin dove sono arrivate le mie letture). Proverò a spiegarmi con alcuni esempi, non senza prima aggiungere che sempre, con il giusto distacco dell'artista, Léo ha graffiato con gli artigli della denuncia sociale e politica.

Evidenzio solo ora che l'autore con la serie di Burma ha scritto almeno un romanzo ambientato in ognuno degli arrondissements di Parigi. Così la zona della Bastiglia e lì vicino un grande luna-park; vicoli stretti e solite brasseries vicino alle Halles, oggi Centro Pompidour; nei pressi l'ambientazione di un fatto per me molto curioso: come si essiccavano nei primi anni '50 prima di essere messe in vendita le banane, arrivate acerbe da paesi allora esotici; locali poveri e un po' malfamati un po' ovunque, specie a Saint Germain e Montparnasse; ma anche quelli "come si deve" (ma i night-club e certe balere?), soprattutto in centro; il Marais, la porta Saint-Denis ed altri siti storici; com'era Lione durante la guerra; e la Germania dei lager; un gigantesco serbatoio dell'acqua potabile a Montsouris; la Port d'Italie, ben prima degli sventramenti che l'hanno trasformata in snodo viario imponente e sede di centri direzionali; belle ville di una volta con grandi giardini nella periferia nord e appena fuori Parigi, con una campagna che sembrava entrare in città; scali merci e linee ferroviarie dappertutto, quasi dentro la Ville Lumiere, ma non mi sembra si parli quasi mai del Metrò, che sappiamo tutti essere da tempo colà una cosa imponente e pressoché obbligata: Burma, tutto elegante (altro particolare che avevo scordato prima), con uno chic più anni '40 che '50 che se ne va sempre in automobile, una bella automobile diciamo "intonata", o in taxi; ed anche abitazioni povere di operai e tuguri di sottoproletari, questi ultimi non solo in sottotetti di case malandate con scale esterne ancora più traballanti, ma talora sotto forma di un solo piano con quattro assi messe in croce in qualche cortiletto polveroso, comunque, più o meno malamente recintato; e potrei continuare, pur nel limite delle mie letture non complete. Dopo di che ognuno può farsi i confronti che vuole con la Parigi che conosce personalmente.

In Francia del personaggio Burma vennero, mi pare, fatti anche dei film; di sicuro dei fumetti molto belli, di cui alcune immagini scelte fanno da copertina a certe ristampe in corso in Italia. E di Malet la critica si é soprattutto occupata della sua trilogia noir, vraiment noir.



mercoledì 1 settembre 2010

Riaprono le scuole



Dedico con le righe che seguono un augurio affettuoso, ma non formale, agli allievi, ai docenti ed al personale tutto della scuola italiana che tra breve, con date diverse da regione a regione, riprende la sua attività uffficiale. E stendo un velo pietoso sulla perversa catena di responsabilità politiche che stanno conducendo questa fondamentale istituzione sull'orlo del baratro. Proprio questa mattina (quando si dice il caso!) ho incontrato un'amica di vecchia conoscenza, già insegnante, che mi ha confessato di essere andata in pensione appena possibile per disperazione professionale.

Mi accingo a stendere disordinati appunti di memorie personali, nella fallace illusione di contribuire ad un dibattito che latita da troppo tempo. E con la velleità di esaltare l'interazione della scuola con la società e con le famiglie.

Sono stato fortunato nel mio personale processo formativo.
Vorrei spendere qualche parola sul mio ambiente familiare, che è stato di stimolo alla mia curiosità sin da bambino e sempre tollerante con i miei esperimenti. Dai nonni materni rinvenivo libri scolastici degli zii, che leggevo con avidità, consolidando una mia naturale propensione per la storia, ma fissando nella mente quei fondamentali di quelle materie scientifiche che poi a scuola mi sarebbero sempre state ostiche. Era di grande interesse, poi, la vecchia enciclopedia (pur con le immancabili tirate fasciste di cui ho imparato subito a diffidare) comprata alla vigilia della seconda guerra mondiale dal nonno con un esborso economico notevole per quei tempi. Dei nonni paterni, invece, il ricordo nitido è per l'amorosa cura con cui conservavano riviste contenenti inserti su grandi pagine dell'arte e della storia. Ed è così che mi innamorai, e lo sono tuttora, de "La tempesta" di Giorgione: una sorta di strana magia! Ricevuta poco tempo fa per email da un amico blogger una serie di foto d'epoca, ho provato  una forte emozione vedendo nella prima il Presidente Lincoln ritratto in un accampamento unionista della guerra di secessione americana: l'avevo scorta la prima volta da bambino ed allora mi sono ritrovato chino su uno di quei settimanali conservati con diligenza dai nonni, avido di letture di grandi eventi del passato, corredati con i primi reportage fotografici della storia. Né posso dimenticare i racconti di guerra (che ho già citato in un precedente post) della nonna materna e i rimandi a storie avite (di ribelli a Maria Luigia, di garibaldini, di emigranti), compiuti dal nonno paterno, che a quelle, più che alla Grande Guerra, che pur aveva combattuto, preferiva, in dialetto parmense stretto, riandare nelle sue affabulazioni con il sottoscritto. E ancora devo ricordare con quale tolleranza e preveggenza mi venisse concesso di leggere a nove anni durante una vacanza a Gignese, incantevole balcone sul Lago Maggiore, in versione integrale "I tre moschettieri" e tanto Salgari, in rare, antiquarie edizioni che mi forniva un'altra meravigliosa figura di anziano, il nonno del mio coetaneo cugino di papà.

Sono stato fortunato per l'ambiente geo-fisico, per così dire, che mi circondava. Dal secondo mese di seconda elementare sino al compimento del Liceo, a piedi o con i mezzi pubblici, ogni mattina passavo in mezzo alla zona archeologica (l'antica Albintimilium) della zona Nervia (levante) di Ventimiglia. Ma già in prima elementare l'immagine che mi accompagnava era stata quella della Cattedrale romanica del centro storico con il suo bel Battistero. Ed anche i nomi forse hanno aiutato un certo gioco della mente. Dalle medie intitolate (tuttora!) a Giuseppe Biancheri, il ventimigliese, già deputato del Parlamento Subalpino e Presidente della Camera dal 1870 al 1876 e poi ancora in successive occasioni, a quel Liceo Classico, dedicato al nome di Girolamo Rossi, il primo a scavare e studiare in modo serio la Ventimiglia romana. E quando il Liceo Classico é stato accorpato, non molti anni fa, una certa ironia del caso ha voluto che lo fosse nel Liceo Scientifico Aprosio, dal nome di un frate erudito del '600 che a Ventimiglia donò un'importante Biblioteca dotata di libri di raro valore.

E potrei fare altri esempi.

Sono stato fortunato per come funzionavano, anche se erano veramente di classe, le scuole nel loro complesso: imperava quello che si può definire conservatorismo, a volte illuminato dalle testimonianze di singoli insegnanti, ma il dato prevalente era quello della professionalità. In un modo o nell'altro quel sistema scolastico ha reso tanti giovani capaci di dotarsi comunque di autonomi metodi critici per continuare a cimentarsi con la cultura e per interpretare la realtà. Per riassumere quello che dovrebbe essere un discorso più articolato e ben più motivato aggiungerò, a titolo di esempio, che a me personalmente é stato concesso sia nelle medie che nelle superiori, in particolare da insegnanti di religione pur fermi nelle loro diverse convinzioni, di fare anche infantile sfoggio di aspirazioni a militanza progressista: avevo solo l'esperienza di affrettate letture e di implicite diritture morali della famiglia.

Voglio solo aggiungere che esperienze come quelle che ho tentato di descrivere sono indubbiamente state tante nel nostro Paese, in ambienti e con riferimenti culturali ben più importanti dei miei, ma con sporadiche odierne prosecuzioni.

Il problema, a mio avviso, è quello di di farne tesoro.