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domenica 19 novembre 2023

La nascita dei GAP


Il 20 settembre 1943 a Milano in casa dei coniugi Morini nacque il Comando generale delle Brigate Garibaldi, alla presenza di Massola, Roasio, Novella, Negarville, Scotti, appena rientrato dalla Francia, e Secchia, giunto da Roma. Nei giorni successivi sarebbe arrivato anche Longo, mandando Negarville a Roma e assumendo la responsabilità militare delle Brigate del Pci, mentre Secchia era incaricato della guida politica. Nonostante la mancanza di un'effettiva struttura di partito in Italia, si scelse di rompere l'attesismo e lanciare nell'immediato l'attacco all'occupante e al suo collaboratore. Pur con supporti logistici da socialisti e azionisti, in Italia come in Francia, i comunisti risultano gli unici fautori del terrorismo urbano, mentre gli altri partiti antifascisti "non sono convinti della sua produttività, in termini di consenso da parte dei cittadini, e della praticabilità, in termini morali, del terrorismo urbano" <16. Per il PCI invece, l'esperienza di vita clandestina e di lotta in Francia fu di centrale importanza nella decisione di ricorrere a tale pratica, di cui conosceva già le modalità e i fini, ma anche i rischi e le difficoltà. La scelta di ricorrere alla guerriglia in città fu adottata consapevolmente, in accordo con il comportamento dei comunisti a livello europeo e con la convinzione di costituire l'avanguardia del movimento operaio nella liberazione. Una filiazione delle azioni dei GAP da quelle dei FTP, un filo diretto com'è dipinto da Amendola nel suo panegirico di Ilio Barontini, può forse essere valido sul piano strettamente personale, apparirebbe invece sul piano storiografico un salto deduttivo, in relazione alle scarse informazioni ufficiali sull'operato degli italiani a Marsiglia.
Per Amendola "l'azione all'albergo Terminus divenne l'azione compiuta dai Gap romani contro l'albergo Flora, con la stessa tecnica e l'ordigno gettato davanti alla coda della casa di tolleranza di Marsiglia, divenne l'ordigno gettato da Bentivegna davanti al cinema Barberini a Roma" <17.
Questi eventi potevano forse essere legati nella memoria del protagonista, che si servì del precedente di alcune azioni realizzate in Francia da comunisti italiani per la guerriglia in patria, ma, in assenza di testimonianze e riscontri documentari, tali parallelismi non possono valere sul piano storiografico. Si può tuttavia riconoscere che le strutture di un organismo già noto servirono da modello alla preparazione delle squadre deputate al terrorismo nelle città italiane. Santo Peli riconosce l'imprescindibilità dell'esperienza francese all'inizio della sua storia dei GAP, asserendo che "senza questi dirigenti, senza l'esperienza della concreta organizzazione della lotta armata nelle città di Lione, a Marsiglia, progettare la formazione dei Gap sarebbe stato impensabile" <18.
I comunisti passati per la Francia costituirono lo scheletro dei Gap ma dovettero scontrarsi in Italia con i nodi già presentatisi ai comunisti francesi, il timore delle rappresaglie, l'impreparazione della classe operaia italiana a questo tipo di lotta, la scarsità cronica dei reclutati. Com'era successo oltralpe infatti, la previsione di versare alla lotta armata in città il 10% dei propri effettivi fu impossibile da realizzare per tutta la durata dell'occupazione. La direzione comunista decise comunque che bisognava agire e i più versati nella lotta armata furono impiegati nell'attuazione della direttiva, colpire e sabotare il nemico in città sin dalle prime settimane. Anche i problemi logistici sorti in Francia, la necessità di documenti falsi, armi, vettovagliamenti e appartamenti, si ripresentarono in Italia, aggravati però dalla mancanza di una struttura clandestina preesistente alla lotta, come quella del PCF. I finanziamenti per i Gap vennero dai contributi richiesti ai tesserati al partito, ma anche dalle cosiddette azioni di recupero, ovvero rapine in banca o assalti alle caserme fasciste, esponendo i patrioti alla mescolanza con criminali comuni e con individui di dubbia moralità.
Ad ogni modo, il 25 ottobre Longo, telegrafando a Mosca sulle novità dell'estate e l'armistizio, poteva riferire sinteticamente "Sta nascendo la guerriglia" <19. Infatti le risorse umane più attive del partito erano mobilitate: sotto la guida di Longo e Secchia, Scotti era ispettore generale incaricato dell'organizzazione della lotta in Piemonte, Lombardia e Liguria, mentre a Roasio spettavano il Veneto, l'Emilia e la Toscana. Ritroveremo molti dei militanti addestrati in Spagna e Francia incaricati della costituzione delle singole brigate, mentre Ilio Barontini, prima di assumere la responsabilità militare in Emilia, viaggiò nelle principali città italiane per dare consigli ai comandanti di formazione e insegnare come fabbricare gli ordigni. Come in Francia quindi, non si attese di avere i mezzi e gli uomini necessari alla lotta, ma furono ampiamente dispiegate le risorse disponibili, nella convinzione che bisognasse agire subito, poiché spettava al partito il compito di innescare la miccia per l'azione delle masse.
Il 24 ottobre Ateo Garemi e l'anarchico Dario Cagno colpirono a morte Domenico Giardina, seniore della Milizia a Torino, e, catturati in seguito all'azione, lasciarono spazio al I Gap del Piemonte, guidato da Giovanni Pesce. Le prime azioni di Garemi e Cagno, che, pur avendo avuto contatti con il partito, non ne dipendevano, rientravano nell'ambito di azioni di disturbo da parte di un gruppo anarco-comunista, i cui obiettivi risultavano abbastanza casuali, come per altre cellule autonome, ad esempio Stella Rossa. Appunto per portare sotto la propria autorità la lotta urbana, il PCd'I convocò a Torino Remo Scappini in qualità di responsabile federale, Arturo Colombi, responsabile regionale, e Romano Bessone, commissario politico dei Gap per la città <20. Tutti e tre militanti di vecchia data, i primi due passati per Mosca, per l'emigrazione in Francia e la detenzione a Civitavecchia, Colombi anche per il confino a Ventotene. Bessone invece era nato nel vercellese nel 1903, operaio comunista dalla gioventù, era stato deferito al Tribunale Speciale nel 1927 per aver partecipato ad una riunione comunista nei pressi di Torino. Resosi latitante, fu arrestato il 25 ottobre 1930 e condannato a 16 anni di reclusione e 3 di libertà vigilata, ridotti poi a 7 per amnistia, fu scarcerato nell'ottobre 1935. Al momento dell'arresto dichiarò di essere tornato da Mosca e fu trovato in possesso di volantini comunisti. Durante la reclusione, a partire dal '32, gli fu impedito di tenere corrispondenza con Elodia Malservigi, dattilografa residente in Russia che dichiarò di aver sposato con rito sovietico a Nowieltz nel 1928. La sua scheda personale riporta che in carcere "tenne cattiva condotta politica, appalesandosi pericolosissimo comunista. Pertanto è stato incluso nel 2° elenco di sovversivi pericolosi da arrestare in determinate contingenze" <21. Infatti, dopo l'ingresso in guerra, il 20 luglio 1940, era stato inviato al confino a Ventotene, dove aveva ripreso contatto con i dirigenti confinati e da cui sarebbe stato liberato nell'agosto '43, poche settimane pima di ricevere la responsabilità della formazione dei Gap torinesi. La direzione fu invece affidata al venticinquenne Giovanni Pesce, che abbiamo incontrato tra i giovani accorsi in Spagna sette anni prima. Al rientro in Francia era tornato dalla famiglia nella regione della Gran Combe ma, vista la difficoltà di trovare lavoro e il timore di essere internato per la propria condizione di straniero comunista, entrò clandestinamente in Italia e fu arrestato a Torino il 23 marzo 1940. Trasferito a Ventotene sei mesi dopo, vi trovò compagni vecchi e nuovi: "Terracini, Scoccimarro, Secchia, Roveda, Frasin, Camilla Ravera, Spinelli, Ernesto Rossi, Li Causi, Pertini, Bauer, Curiel, Ghini" <22. In assenza di militanti provati da versare alla nascente formazione, Bessone e Pesce si volsero agli appartenenti a queste cellule di fabbrica spontanee, comuniste ma non legate alla linea di partito, reclutando giovani provenienti soprattutto dall'ambiente operaio.
In Lombardia invece, il comando regionale era assegnato alla metà di ottobre a Vittorio Bardini, responsabile politico, a Cesare Roda, responsabile tecnico, e ad Egisto Rubini, addetto alle operazioni. Il profilo di questi uomini è quello spesso incontrato nel nostro percorso: tutti sopra i 35 anni, divenuti nell'esilio rivoluzionari professionali, passati per la Spagna, e Rubini anche per i FTP del Sud della Francia. In questi parametri generali rientravano tutti i comandi regionali e i principali istruttori dei distaccamenti, che si esposero in un primo momento per dare l'esempio ai nuovi, sotto i trent'anni, che sarebbero stati i fautori del terrorismo urbano. Il primo obiettivo di grande rilievo fu Aldo Resega, responsabile della federazione del fascio a Milano, colpito dal primo nucleo operativo dei GAP milanesi, che sarebbe diventato il distaccamento Gramsci (Validio Mantovani Barbisìn, Carlo Camesasca Barbisùn, Antonio La Fratta Totò e Renato Sgorbaro Lupo). Come rileva Borgomaneri, autore del lavoro più completo sul terrorismo urbano a Milano, "il primo gappismo milanese nasce dalla fabbrica e affonda le proprie radici in quell'oscuro lavoro di agitazione, di propaganda e di proselitismo che l'organizzazione comunista è riuscita a tessere nel ventennio,[inoltre…] la prima forza combattente dei Gap è costituita da operai non più giovanissimi" <23. Essi erano infatti tutti operai dell'area di Sesto San Giovanni, il più giovane, Mantovani, aveva 29 anni, il più anziano, La Fratta, 35. I ragazzi, inesperti poco più che ventenni, sarebbero subentrati tra il gennaio e la primavera. Il 18 dicembre 1943, in concomitanza con uno sciopero che bloccava da giorni i principali stabilimenti milanesi, il federale venne atteso all'uscita della propria abitazione. La Fratta e Mantovani erano di guardia, uno accanto al portone e l'altro all'angolo della via, Camesasca e Sgorbaro nei pressi di un edicola leggevano un giornale, dietro il quale erano nascoste le armi. Resega venne colpito nel momento in cui il proprio cammino incrociava quello dei terroristi, che si affrettavano poi a raggiungere le biciclette e fuggire nel trambusto creato dagli spari. Le prime azioni, spesso improvvisate, rappresentavano per questi militanti, provati ma non temprati nella lotta, una prova del fuoco, lo scoglio da superare per altre azioni. Borgomaneri individua alla fine del '43 due distaccamenti, il Gramsci di Mantovani e il Cinque giornate di Oreste Ghirotti, composti ciascuno da tre squadre. Con le azioni iniziarono però anche le prime cadute. Il 19 dicembre Arturo Capettini, addetto alla logistica e ai rifornimenti di armi, fu arrestato. In seguito al rinvenimento di materiale bellico ed esplosivo nel suo magazzino di riparazione per biciclette, esso divenne una trappola per alcuni ragazzi del Cinque giornate, come Stefano Brau e Augusto Mori. L'individuazione di Sgorbaro portò inoltre all'isolamento del gruppo di Sesto, lasciando spazio alle azioni dei distaccamenti Matteotti e Rosselli, autori in gennaio di attacchi nei ritrovi tedeschi e mordi e fuggi in bicicletta. All'inizio di febbraio, per l'omicidio del nuovo questore di Milano, Camillo Santamaria Nicolini, fu richiamato il distaccamento Gramsci, del quale Camasasca e Mantovani erano stati promossi responsabile militare e politico. In questa fase più avanzata della guerriglia in città però, le autorità non si muovevano a piedi senza protezione: il piano prevedeva perciò di colpire Nicolini in auto da un'altra auto in corsa, una lancia Aprilia appositamente rubata a due tedeschi. L'azione, affidata ai giovani di Niguarda (Elio Sammarchi, Dino Giani e Sergio Bassi) ricorda ancora una volta come la riuscita di un colpo fosse questione di attimi, in cui non mancava l'intervento del caso. Un tram si interpose tra le due vetture e una frenata dell'autista di Nicolini impedì che venisse colpito. L'ultima azione di questa prima fase del gappismo milanese fu un attacco alla casa del fascio di Sesto San Giovanni il 10 febbraio 1944, compiuto con l'aiuto di un operaio della Breda infiltrato, Lacerra. Egli però, invece di lasciare la città (come previsto) si recò sul proprio posto di lavoro, dove fu arrestato due giorni dopo, portando ad una catena di arresti e delazioni che sbaragliò i gruppi di città, giungendo sino al vertice con la cattura di Bardini, Roda e Rubini. Quest'ultimo e Ghirotti si suicidarono in carcere dopo giorni di tortura. Il terrorismo urbano a Milano si sarebbe riacceso in estate, grazie alla riorganizzazione di Giovanni Pesce, che nell'inverno '43 era però ancora a Torino.
[NOTE]
16 Santo Peli, Storie di Gap, op.cit., pag. 31.
17 Amendola, Comunismo, Antifascismo, Resistenza, op.cit., pag. 364.
18 Santo Peli, Storie di Gap, op.cit., pag. 33.
19 Longo, op.cit., pag. 100-101.
20 Nicola Adduci, Il mito e la storia: Dante Di Nanni, in Studi Storici, fascicolo 4, settembre-ottobre 2012, pag. 260-262.
21 Acs, Cpc, fascicolo personale, busta 591
22 Giovanni Pesce, Senza Tregua. La guerra dei GAP, Feltrinelli, Milano 1967, pag. 161.
23 Luigi Borgomaneri, Due inverni, un'estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia. 1943-1945, Franco Angeli, Milano, 1995, pag. 24.
Elisa Pareo, "Oggi in Francia, domani in Italia!" Il terrorismo urbano e il PCd'I dall'esilio alla Resistenza, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa, 2019

sabato 11 novembre 2023

Per i bombardamenti di Marghera la parrocchia fu invasa da sfollati che occuparono ogni locale libero

Salzano (VE): Chiesa di San Bartolomeo apostolo. Fonte: Wikipedia

Meno pericolosi, ma impegnativi in egual misura, i sacrifici, sia materiali che psicologici credo, sopportati dalle famiglie, per poter accogliere gli sfollati, provenienti a centinaia dalle zone bombardate di Marghera e Mestre; vere e proprie «acrobazie di adattamento» <384, così come definite da Gino Pizzato, necessarie al fine di alleggerire l’inevitabile disagio derivante dalla coabitazione fra estranei sotto lo stesso tetto. I numeri risultano impressionanti, se sommati insieme, e bastano da soli a spiegare le esortazione dei parroci a collaborare, nel momento in cui, inevitabilmente, i locali della parrocchia, compresi la canonica, l’asilo ed eventuali istituti religiosi, fossero al completo.
Don Boschin, ad esempio, si prodigò per gli sfollati che, stando a quanto riportato da don Volpato, affluirono a centinaia nei territori della parrocchia di Gardigiano, facendo «pressione presso parecchie famiglie per l’accoglimento di tutti» <385; dopo averne accolto egli stesso dodici, nella canonica, «ove rimasero per più di 1 anno», mentre altri dieci furono ospitati nella casa del cappellano, dove «rimasero fin dopo la fine della guerra» <386. «[…] per i bombardamenti di Marghera la parrocchia [di S. Maria di Sala] fu invasa da sfollati che occuparono ogni locale libero» <387, mentre «La parrocchia [di Robegano] ha dato alloggio a circa 400 sfollati e tre famiglie furono alloggiate nelle aule della Casa della Dottrina Cristiana» <388; altri 300 a Briana di Noale, provenienti, per la maggior parte, da Marghera e Mestre, ma anche da Treviso, Padova e Zara. Don Zandonadi scrisse anche come le Suore Missionarie d’Egitto, anch’esse sfollate di Marghera, accolte nella Casa della Dottrina Cristiana, avessero aperto un asilo infantile, mentre vi trovò temporanea sede anche la Scuola Interparrocchiale per i seminaristi delle classi seconda e terza ginnasiale, gestita dal prof. don Mario Carraro, che ricevette personale ospitalità in canonica.
Manca qualsiasi riferimento ad eventuali soccorsi prestati dall’autorità civile, forse perché realmente non vi furono, forse per l’elogio che un simile operato, privo di eguali, avrebbe ricevuto; sta di fatto, comunque, che ciò contribuì non poco al delinearsi di un nuovo e più forte ruolo sociale della parrocchia. Ci fu un’eccezione, nella parrocchia di Mirano, dove, ad affiancare don Muriago, nel tentativo di garantire agli sfollati e alle famiglie povere dei richiamati l’aiuto necessario al sostentamento, c’era l’Ente Comunale di Assistenza, «al quale l’Arciprete prestò la sua opera assidua encomiata dalla superiore Autorità locale» <389, oltre alle istituzioni di S. Vincenzo De’ Paoli e S. Antonio.
L’impegno dei sacerdoti non poteva comunque fermarsi alla mera assegnazione di un alloggio, bensì doveva comprendere necessariamente anche il reperimento dei generi di prima necessità, quali cibo e vestiario innanzitutto, senza contare l’aiuto per la ricerca di un eventuale impiego lavorativo: il parroco di Gardigiano indisse «giornate di carità [sottolineato nel testo]» per la raccolta di generi alimentari «a prezzo modico o di calmiere» <390, mentre a Salzano mons. Eugenio Bacchion mise a disposizione dei circa tremila sfollati che giunsero in quel comune, «tutto il grano raccolto colle questue per la Chiesa sempre al prezzo dell’ammasso e così il grano di loro proprietà» <391.
E come dimenticare infine, il compito principale e più importante del sacerdote, quello caratterizzante il suo ruolo ecclesiastico, quello, cioè, concernente la cura spirituale dei propri fedeli? Nelle suddette circostanze, i preti, si trovavano di fronte ad una comunità, talvolta più che raddoppiata, alla quale era d’obbligo garantire, alla stregua dei parrocchiani residenti, la confessione, la somministrazione dei sacramenti, le visite di routine. Molto probabilmente i parroci si avvalevano del supporto di cappellani (sporadicamente menzionati nelle cronistorie) nell’esercizio delle mansioni spirituali, forse le cifre pervenuteci sono state volutamente esagerate, sta di fatto, comunque, che simili parentesi, che ci riportano ad un vissuto più quotidiano, dunque concreto, legato alle necessità della vita reale, simili parentesi, dicevo, hanno il pregio, non solo di ricostruire, anche se parzialmente ed in modo frammentario, le vicissitudini di un paese, ma soprattutto di restituire l’immagine di un clero curato quasi risvegliatosi dal torpore di una vita tranquilla, qual era quella di molte parrocchie del Miranese prima dello scoppio della guerra, e fors’anche del 1943; un clero travolto dagli eventi, al pari di qualsiasi italiano comune, ma che, anche in forza del proprio ruolo, riuscì a trovare il coraggio e il dinamismo necessario (chi più chi meno), per ergersi a guida delle rispettive comunità e condurle così alla fine di quel tragico “tunnel” che fu la storia dell’Italia settentrionale tra la fine del 1943 e la primavera del ’45. Piccole sfide nella quotidianità, affrontate di volta in volta all’insegna della collaborazione o dell’ostilità, della trattativa o della cauta attesa, ma che spesso, proprio a causa del contesto così familiare, molti sacerdoti hanno trascurato di riportare, consegnandone, così facendo, il ricordo all’oblio. Certamente molto è andato perduto, ma attenzione a non trasformare questa indubbia certezza in una cantilena, da ripetere fra sé e sé ogniqualvolta, da documenti di questo tipo, nulla emerge di straordinariamente evocativo dell’epopea resistenziale; noi contemporanei, condizionati come siamo dalle insistenza di certa storiografia su storie di preti eroici, espostisi in prima persona per la salvezza dei parrocchiani dinanzi al pericolo di rappresaglie, informatori delle bande partigiane, se non addirittura torturati e uccisi, siamo propensi a dare marginale importanza a testi che magari si limitano a riportare lunghe liste di bombardamenti sul paese o di nomi di soldati periti al fronte, o peggio, dispersi. Ciò che ritengo doveroso precisare è come la sola presenza del sacerdote, responsabile, lo ricordiamo, di un organismo che andava rivestendo un significativo ruolo di supplenza, era di per sé estremamente importante e decisiva per gli abitanti, forse addirittura per l’equilibrio morale e, aggiungerei, psicologico, degli stessi: trattavasi spesso della sola figura autorevole rimasta, nel momento in cui qualsiasi altra, nell’ambito civile, aveva abbandonato le proprie responsabilità, e la sola autorità degna di rispetto quando il forestiero occupò i posti di comando, nazista o repubblicano che fosse. Forse è in questo senso che vanno lette le affermazioni di don Zandonadi, relativa ai brianesi, una «popolazione cristiana, docile alle direttive del Parroco» <392, aiutati a non perdere «la [sua] calma e fiducia in Dio nemmeno nei momenti cruciali della ritirata tedesca» <393.
Così come l’operato dei parroci fu l’elemento decisivo per la tenuta, sia fisica che morale, della comunità, allo stesso modo tale merito può essere evidenziato nel prodigarsi di quella per i bisognosi, sfollati o soldati renitenti. Dinanzi ai primi bombardamenti aerei, ai segnali, cioè, dell’approssimarsi degli orrori della guerra, con l’emergente consapevolezza di essere coinvolti in prima persona nei fatti che avrebbero deciso del destino del popolo italiano, possiamo solo immaginare quanto significativo sia stato questo soccorso, non solo al fine della sopravvivenza di quelli, ma probabilmente anche nell’operare la scelta di darsi alla macchia; i combattenti erano sostenuti nella loro scelta ed incoraggiati da quel ampio retroterra di solidarietà ed affetti che era il tessuto della comunità parrocchiale, garantendo un senso di continuità esistenziale che andava oltre i referenti familiari.
[NOTE]
384 G. Pizzato, Sotto il terrore (I fatti di Peseggia). Alle vittime innocenti dell’odio fraterno, op. cit., p. 2.
385 Don R. Volpato, Cronistoria, op. cit., pp. I-II.
386 Ibidem.
387 Don G. de Pieri, S. Maria di Sala, op. cit.
388 Don A. Semenzato, Cronistoria della parrocchia di Robegano. 1939-1945, op. cit.
389 Mons. F. Muriago, Parrocchia di Mirano. Relazione degli avvenimenti durante il periodo della guerra 1940-1945, op. cit.
390 Don R. Volpato, Cronistoria, op. cit., p. II.
391 Mons. E. Bacchion, Salzano durante l’ultima guerra, op. cit.
392 Don P. Zandonadi, Allegato alla Cronistoria di Briana durante la seconda guerra mondiale, op. cit., p. 1.
393 Idem, Allegato alla Cronistoria di Briana durante la seconda guerra mondiale, p. 2.
Daiana Menti, Il clero del Miranese dall’inizio del Novecento alla seconda guerra mondiale nelle sue relazioni con le pubbliche autorità, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari - Venezia, Anno Accademico 2012-2013

mercoledì 4 ottobre 2023

All'inizio dei tentativi di epurazione dei fascisti in Italia



Da ultimo, le nuove autorità politiche avrebbero dovuto far luce, anche attorno ai numerosi episodi di violenza realizzati nel periodo della guerra civile (8 settembre 1943- maggio 1945): con particolare riferimento alle feroci rappresaglie naziste realizzate nel centro-nord della Penisola <4, al trasferimento di civili e militari italiani nei campi di prigionia nazista (c.d. I.M.I. Internati Militari Italiani), alla sorte dei soldati del Regio Esercito, abbandonati senz'ordini alla vendetta dell'ex “fratello d'arme” tedesco <5. Numerosi aspetti oscuri riguardavano anche la lotta partigiana, nelle cui maglie vennero sovente ad innestarsi, regolamenti privati tra cittadini e scontri tra bande ideologicamente rivali, nonché l'opera di liberazione condotta dagli eserciti alleati, nel corso delle cui azioni non mancarono episodi di violenza e aggressione ai danni delle popolazioni civili dei territori di volta in volta liberati <6. Si trattava, come è evidente di incombenze imbarazzanti che difficilmente la giovane ed inesperta democrazia italiana avrebbe potuto realizzare nel breve periodo, specie se si consideri che essa era, in pari tempo, chiamata ad affrontare ulteriori prioritarie questioni: la ricostruzione del Paese distrutto dai bombardamenti, la crisi economica post-bellica, la riconversione dell'industria militare agli usi civili, la riorganizzazione, infine, dopo un vuoto durato vent'anni del pluralismo politico e culturale, operazioni alle quali avrebbe dovuto procedersi, peraltro, sotto le spinte di una popolazione che ampiamente rivendicava una maggiore giustizia sociale ed una più incisiva partecipazione alle scelte politiche del Paese.
In un simile quadro, i primi sforzi del Governo Badoglio furono indirizzati alla “defascistizzazione” dello Stato, divenuto nel corso del ventennio quasi un unicum con il Partito di Mussolini <7: con R.d.l. n. 668/1943 venne disposta, infatti, la soppressione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, con R.d.l. n. 706/1943 si provvide allo scioglimento del Gran Consiglio del fascismo, infine, con R.d.l. n. 704/1943 venne liquidato il P.N.F. e le sue organizzazioni. Ulteriori provvedimenti diedero luogo all'abolizione dell'ordine corporativo e alla Camera dei Fasci e delle corporazioni. Una volta demolite le strutture del vecchio regime, con l'insediamento dei Governi ciellenisti Bonomi e Parri furono riattivate le regole del gioco democratico: vennero soppresse le antiche limitazioni alla libertà di stampa, si ristabilirono le libertà politiche e sindacali (d.lg.lgt. n. 369/1944), fu convocata (nell'attesa dell'insediamento di un nuovo Parlamento) una Consulta Nazionale, incaricata di formulare pareri sui problemi generali e i provvedimenti legislativi sottoposti dal Governo <8.
Per quanto concerne gli aspetti più dichiaratamente discriminatori del passato, con R.d.l. n. 25/1944 si provvide all'abolizione di tutti i decreti, le leggi e le singole disposizioni regolamentari in cui era fatto esplicito riferimento “all'accertamento o alla menzione della razza”, reintegrando al contempo tutti i cittadini di fede ebraica nel pieno godimento dei diritti civili e politici. Con riferimento specifico alle loro sofferenze economiche, il R.d.l. n. 26/1944 precisò, inoltre, la reintegrazione dei suddetti nei loro precedenti diritti patrimoniali <9.
Una corretta gestione del passato, non poteva prescindere, tuttavia, dalla realizzazione di una significativa opera di epurazione del personale dell'esercito, dell'amministrazione pubblica e degli organi di giustizia, nonché dalla persecuzione dei c.d. «delitti collaborazionisti» e dei più efferati crimini perpetrati durante la lunga vigenza del regime, specie nei primi tumultuosi anni della sua affermazione con la marcia del 1922. Tale ufficio rappresentava, peraltro, una delle condizioni (art. 30) specificamente imposte dai rappresentanti dell'esercito anglo-americano al momento della concessione dell'armistizio lungo dell'3 settembre 1943.
Assumendosi detto impegno, il Governo provvide, già il 28 dicembre successivo, durante il c.d. Regno del Sud, all'emanazione del D.l. n. 28/1943, per mezzo del quale si dispose l'assoggettamento a giudizio di chiunque si trovasse, al momento dell'emanazione, insignito della qualifica di squadrista, marcia su Roma, gerarca o sciarpa littorio, o avesse, in ogni caso rivestito in passato ruoli dirigenziali nel quadro organizzativo del Partito nazionale fascista, attribuendo al Consiglio dei ministri, ai consigli di amministrazione o di disciplina degli enti nazionali, nonché a commissioni di nomina prefettizia appositamente istituite, il compito di emettere la decisione e comminare la relativa sanzione. Al di là delle categorie su richiamate furono ad ogni modo considerati colpevoli gli autori di episodi configurabili come “attentato alla libertà individuale” dei cittadini.
Era evidente, in ogni caso, che, stante la divisione del Paese in due Stati in conflitto e la perdurante lotta tra bande partigiane e milizie repubblichine del Governo saloino, il provvedimento in argomento non poté conoscere puntuale attuazione, dando origine a risultati significativamente distanti da quelli auspicati.
Sulla questione dovettero intervenire, perciò, numerose ulteriori disposizioni. Sotto la vigenza dell'Esecutivo Bonomi fu adottato, in particolare il d.lg.lgt. n. 159/1944, per mezzo del quale furono inasprite le pene comminate dal precedente intervento, venne fornita più esatta indicazione dei soggetti destinatari della sanzione, si provvide ad istituire, quali organi di giudizio nelle operazioni, l'Alta Corte di giustizia, le Corti d'assise e i Tribunali militari, integrati questi ultimi, con giudici non togati appartenenti agli ambienti resistenziali. A garanzia del corretto svolgimento delle operazioni venne istituito, altresì, l'Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo, organo destinato ad essere successivamente assistito da quattro Alti Commissari aggiunti, ciascuno dei quali incaricato alla supervisione di uno dei settori di intervento: punizione dei delitti, epurazione dell'amministrazione, avocazione dei profitti del regime, liquidazione dei beni fascisti <10. Il provvedimento in esame stabilì, altresì, che, avverso le sentenze, le ordinanze e i provvedimenti emessi dell'Alta Corte di giustizia non avrebbe potuto proporsi gravame in appello, ma solo il giudizio in Cassazione la valutazione dei vizi di legittimità nell'applicazione di esso. Secondo dette disposizioni si procedette all'epurazione del Senato <11, dei dipendenti militari e civili dello Stato in posizione apicale, dei vertici delle aziende di Stato e delle imprese private, specie se titolari di rapporti di fornitura o di appalto con le amministrazioni pubbliche.
Il sistema predisposto, stando al parere della più recente storiografia <12, conobbe nel complesso, un apprezzabile avvio, tale da consentire - nel caso in cui fosse stato portato effettivamente a compimento - un effettivo rinnovamento del sistema amministrativo centrale e periferico dello Stato (prefetti, podestà, dirigenti della burocrazia ministeriale), nonché una più facile rielaborazione del problematico passato da parte della generalità dei consociati.
Le operazioni in tal modo avviate dovettero subire, però, un radicale mutamento con l'approvazione del d.lg.lgt. n. 625/1945, per mezzo del quale fu disposta la soppressione dell'Alta Corte di giustizia ed il trasferimento di tutti i procedimenti allora pendenti ad una sezione speciale (rectius specializzata) delle Corti d'assise.
La magistratura ordinaria (che era riuscita nel complesso a sottrarsi alle misure di epurazione) si trovò, così, investita del non facile compito di “defascistizzare” la Pubblica amministrazione, assumendo su di sé l'incarico di comminare sanzioni penali e disciplinari a funzionari e dirigenti rei di aver assunto, nel corso della propria carriera, atteggiamenti non dissimili da quelli posti in essere da essi stessi durante il lungo interregno della dittatura fascista <13.
Nell'esercizio di tale attività, fu evidente, quindi, che i magistrati presero ad assumere atteggiamenti di maggior indulgenza rispetto a quelli fatti propri dai componenti delle precedenti commissioni d'epurazione governative, i quali, nel passato, avevano generalmente rivestito ruoli di primo piano nelle file dell'antifascismo e della guerra di liberazione partigiana.
Il frequente ricorso da parte del legislatore a clausole interpretative quali “delitto per motivi fascisti”, “atto rilevante”, “dolo”, “faziosità” consentì ai medesimi, infatti, di procedere ad interpretazioni giurisprudenziali salvifiche delle condotte poste in essere dai dirigenti e dagli impiegati della struttura amministrativa dello Stato e delle sue articolazioni, assicurando ai medesimi una generalizzata e pressoché totale impunità ogniqualvolta non fosse incontrovertibilmente dimostrato - sulla base delle risultanze istruttorie contro di essi prodotte - il ricorso ad atteggiamenti settari o faziosi (requisito esso stesso, come è evidente, suscettibile di ampia interpretazione) nell'esercizio delle funzioni per le quali erano preposti.
[NOTE]
4 L'occupazione dell'Italia da parte delle truppe naziste nel periodo compreso tra l'8 settembre 1943 ed il 2 maggio 1945 (data della resa tedesca in Italia), provocò più di diecimila vittime tra la popolazione civile. Tra l'8 settembre 1943 e l'aprile del 1945 in tutto il centro-nord si registrarono oltre 400 stragi, tra le quali gli eccidi delle Fosse Ardeatine (335 vittime) e di Marzabotto (770 vittime) furono solamente gli episodi più conosciuti. L'area dell'Appennino tosco-emiliano, data la sua posizione strategica lungo la linea Gotica, conobbe, il maggior numero di violenze: tra l'aprile e l'agosto del 1944 le stragi furono 280 e 83 i comuni interessati (tra cui Sant'Anna di Stazzema, Bardine S. Terenzo, Fivizzano, Fosdinovo, Padule di Fucecchio). Le stime più attendibili sono al momento quelle avanzate da Gerhard Schreiber secondo il quale i militari italiani giustiziati nel settembre-ottobre 1943 furono 6.800 tra Balcani, Grecia ed Egeo; 22.720 furono, invece, i partigiani “uccisi nel disprezzo delle disposizioni internazionali” e 9.180 civili i sterminati. Autori di tali esecuzioni collettive non furono soltanto i nazisti delle SS, ma anche i soldati della Wermacht e della Luftwaffe - l'aviazione militare tedesca - nonché le milizie regolari e irregolari del partito fascista inquadrate sotto le insegne della Repubblica sociale italiana. Alla base di tali stragi vi furono sicuramente: il pregiudizio nei confronti degli italiani per reazione psicologica al “tradimento” dell'8 settembre; la decisione del comando supremo della Wermacht e del feldmaresciallo Kesserling (Capo supremo delle forze armate tedesche in Italia) di difendere ad ogni costo il territorio italiano in un momento in cui la guerra all'Est era ormai perduta, il timore di un'attività partigiana che si faceva sempre più efficace e che intimoriva i giovani ed inesperti soldati provenienti direttamente dalla Hitlerjugend; la volontà di ricorrere a dimostrazioni di forza e di superiorità, legittimata con la serie di misure repressive adottate dalle autorità di occupazione.
5 L'esempio più emblematico è senza dubbio l'eccidio di Cefalonia, ma episodi analoghi ebbero a realizzarsi anche nelle altre isole greche: Lero, Coo, Rodi. Con la resa del Governo Badoglio agli anglo-americani, i soldati italiani della 33ª Divisione fanteria "Acqui" si trovarono ad assumere il ruolo di “traditori” agli occhi del co-occupante tedesco. Di fronte alla sua richiesta di disarmo, e senza più conoscere ordini dallo Stato maggiore, le truppe di stanza si trovarono a dover affrontare l'ex alleato, intenzionato a ridurli in prigionia e trasferirli in Germania. La guarnigione comandata dal generale Gandin si oppose ed aprì le ostilità contro quello che ora era diventato il nemico della fazione alleata. Ebbe inizio una sanguinosa battaglia (13-22 settembre) alla quale, in spregio a qualsiasi norma di diritto internazionale militare, l'esercito tedesco vincitore fece seguire il massacro di 4750 soldati e 341 ufficiali. Migliaia di militari furono, invece deportati su navi poi fatte saltare nell'Adriatico.
6 Tra le violenze alleate, emerse nel corso degli ultimi decenni, l'episodio certamente più emblematico è quello delle c.d. “marocchinate”, documentato in letteratura già nel 1957 dall'opera “La ciociara” di Alberto Moravia (e a cui fece seguito il più noto adattamento cinematografico di De Sica). Con tale espressione ci si riferisce all'insieme di stupri e sevizie realizzate nel basso Lazio - all'indomani della battaglia di Montecassino - dalle truppe coloniali franco-marocchine comandate dal generale Juin (c.d. Goumiers). Le vittime furono circa diecimila tra donne, uomini, bambini, anziani e religiosi. All'origine di tali violenze, delle quali era a conoscenza lo stesso generale de Gaulle, vi era un forte sentimento di rancore da parte dei francesi nei confronti degli italiani, considerati colpevoli del “coup de pugnace dans le dos” del giugno 1940. Casi di violenza analoghi si registrano anche in Sicilia, in Toscana ed in altre zone del Meridione.
7 Per un'analisi approfondita della trasformazione dello Stato italiano in senso autoritario successivamente all'affermazione del movimento fascista si rinvia all'ormai classico A. ACQUARONE, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965.
8 Per maggiori approfondimenti sul tema della transizione italiana si rinvia a U. DE SIERVO, La transizione costituzionale (1943-1946), in Diritto Pubblico, 1996; V. ONIDA, (a cura di), L'ordinamento costituzionale italiano dalla caduta del fascismo all'avvento della Costituzione repubblicana, 1991; A. SACCOMANNO, La transizione italiana: le costituzioni provvisorie, in L. GARLATI, T. VETTOR (a cura di), Il diritto di fronte all'infamia del diritto, cit., 397-414.
Per un quadro sulla riaffermazione dei diritti civili e politici nella neonata democrazia italiana si cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Torino, 2005
9 Come giustamente sottolinea Falconieri, la reintegrazione dei cittadini di fede ebraica nel pieno possesso dei diritti si iscrive «a pieno titolo nel percorso di rielaborazione e edificazione di una memoria condivisa che avrebbe dovuto
coinvolgere tanto le élites politiche e intellettuali quanto la popolazione italiana del dopoguerra». Cfr. S. FALCONIERI, Riparare e ricordare la legislazione antiebraica. La reviviscenza dell'istituto della discriminazione (1944-1950) in G. RESTA, V. ZENO-ZENCOVICH, Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, cit., p. 141.
10 Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo venne nominato il liberale Carlo Sforza. Ad esso si affiancarono il comunista Mauro Scoccimarro (epurazione nella Pubblica Amministrazione), il liberal-democratico Stangone (sequestro delle proprietà fasciste), il democristiano Cingolani (illeciti profitti del regime) e Mario Berlinguer del Partito Demo-laburista (persecuzione dei crimini fascisti). Le quattro commissioni per l'epurazione furono istituite,
invece, con d.lg.lgt. 198/1944 e 238/44. Per l'intera ricostruzione del processo di epurazione in Italia si rinvia ai dettagliati e completi: A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., 2012, pp. 72-92; P. BARILE., U. DE SIERVO, Sanzioni contro il fascismo e il neofascismo, in Novissimo digesto italiano, Torino, 1969, pp. 541-564 e in sede storiografica a H. WOLLER, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia (1943-1946), Bologna, 1997, C. PAVONE, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in AA. VV., Italia 1945-1948. Le origini della Repubblica, Torino, 1974 e M. FLORES, L'epurazione, in L'Italia dalla liberazione alla Repubblica. Atti del Convegno internazionale organizzato a Firenze il 26-28 marzo 1976 con il concorso della Regione Toscana, Milano, 1977, pp. 413-467, infine M. SALVATI, Amnistia e amnesia nell'Italia del 1946, in M. FLORES, Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Milano, 2001, pp. 141-161.
11 L'art. 8 del d.lg.lgt. 159/1944 prevedeva all'ultimo comma la decadenza dalla loro carica vitalizia per i senatori che «con i loro voti o atti contribuirono al mantenimento del regime fascista ed a rendere possibile la guerra». Furono deferiti all'Alta Corte di giustizia 394 senatori su 408, di questi 275 furono dichiarati decaduti dalla carica. I senatori sanzionati appellandosi alla Corte di Cassazione (che riconobbe l'assoluto difetto di giurisdizione dell'Alta Corte) riuscirono ad ottenere l'annullamento dei provvedimenti irrogati. Alla fine del processo di epurazione, solo 51 furono dichiarati decaduti. Su questi punti si rinvia ancora a A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., 82.
12 Il giudizio sull'epurazione in Italia da parte della storiografia tradizionale è stato nel complesso negativo. Secondo la terminologia più corrente esso è stato definito una «farsa legale», un processo al termine del quale le élite fasciste mantennero le funzioni pubbliche tradizionali. Tale valutazione, seppur in sostanza non inveritiera, è stata però rivisitata e sfumata negli ultimi anni da magistrati come Canosa e storici come Woller, Minetti e Argenio. A parere di questi ultimi, infatti, gli sforzi per realizzare un'effettiva epurazione vi furono ed anche considerevoli. Ad una prima intensa attività delle commissioni seguì, però, un esito deludente causato dall'adozione dell'amnistia e da un'opera di interpretazione salvifica degli ex fascisti da parte della magistratura. Per un'interpretazione tradizionale del processo di epurazione si rinvia a Z. ALGARDI, Processi ai fascisti, Firenze, 1973, per le più recenti interpretazioni si veda ancora H. WOLLER, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia (1943-1946), cit.
13 La magistratura, come qualsiasi altro potere dello Stato aveva subito nel corso del ventennio una significativa opera di fascistizzazione, che si era compiuta per gradi attraverso il progressivo allontanamento degli elementi togati non allineati al regime. Nel 1925 i giudici ostili alla dittatura furono dispensati dal servizio e l'Associazione generale magistrati sciolta di diritto. I vecchi togati furono rimpiazzati con elementi più favorevoli alla dittatura, mentre i più giovani furono crebbero in un clima che finì per plasmarli completamente alle direttive del duce. Il fascismo creò anche una singolare commistione tra apparato politico-amministrativo dello Stato e funzione giudicante: il Procuratore del Re divenne, infatti, membro delle commissioni per la disposizione del confino politico ai cittadini accusati di antifascismo. Come ha sottolineato Franzinelli, infine, «molti magistrati andarono molto in discesa sul versante dell'autorità, in parte per fanatismo o per senilismo, ma soprattutto per la troppo facile convinzione che la legalità corrispondesse all'autorità: chi aveva a cuore la legalità doveva favorire l'autorità, senza star troppo a sottilizzare la qualità e la legittimazione sostanziale di chi rappresentava l'autorità». La completa fascistizzazione della magistratura trovò conferma in ogni caso nella legge sull'ordinamento giudiziario deliberata nel 1941, con cui si riservò l'accesso ai ruoli requirenti e giudicanti ai cittadini di «razza italiana», di sesso maschile, iscritti al Partito nazionale fascista.
Mirko Della Malva, Diritto e memoria storica nell'esperienza giuridica comparata: il difficile bilanciamento tra tutela della dignità delle vittime, libertà di manifestazione del pensiero, protezione della democrazia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2013-2014

martedì 26 settembre 2023

Da Novara ai campi di sterminio

Pietre d’inciampo in ricordo di Amadio Jona e Giacomo Diena posate a Novara nel 2022. Fonte: Anna Cardano, art. cit. infra

Una foto e una lettera
I nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona[1] sono noti da sempre a chi si è occupato delle persecuzioni antiebraiche sia in ambito novarese che vercellese. Insieme a Bertie Sara Kaatz[2], ebrea nata in Polonia e residente a Novara dal 1942, la cui storia è emersa più tardi e continua a essere poco conosciuta, sono i “sommersi” arrestati in città il 19 settembre 1943, spesso dati per assassinati nella stessa data. La loro sorte dopo quel giorno è ancora parzialmente ignota. Qui vorrei aggiungere qualche tassello a questa storia, nell’ambito di una più vasta ricerca in corso, avendo come riferimento soprattutto i fondi archivistici conservati all’Archivio di Stato di Novara, in particolare quelli della Prefettura (Divisione Gabinetto), quelli dell’Archivio storico del Comune di Novara, e in misura minore quelli relativi all’ospedale psichiatrico, e poi i registri del cimitero novarese, conservati negli uffici del cimitero stesso. Alcune notizie provengono dai fondi Egeli[3] e da quelli dell’Archivio di Stato di Torino e altre informazioni utilizzate si trovano in archivi privati[4] o provengono da testimonianze orali[5].
Nel 2014 stavo effettuando una ricerca all’Archivio di Stato di Novara sul comportamento delle amministrazioni pubbliche nell’applicazione della legislazione antiebraica, finalizzata anche a un possibile utilizzo didattico con i miei studenti, quando mi è arrivata una raccomandata postale da Alzano Lombardo contenente una fotografia in bianco e nero di Giacomo Diena, al quale si poteva dunque dare un volto, riportante in calce la dedica «Al mio unico amore», la firma Giacomino e la data del 2 agosto 1931. Sul retro era timbrato il nome di uno studio fotografico molto noto a Novara, quello dei fratelli Lavatelli, e una scritta successiva a matita «moroso zia Irene». La busta ricevuta conteneva anche un foglio ingiallito, scritto a matita in tre date diverse, l’11 ottobre 1943, il 20 ottobre 1943 e il 14 novembre 1943, e piegato tre volte fino a raggiungere la dimensione di un biglietto da visita. Riportava la firma di Giacomo Diena e un breve saluto dello zio materno Amadio Jona alle sorelle novaresi. È dunque evidente che né Diena né lo zio Jona erano morti lo stesso giorno dell’arresto. Diena segnalava come indirizzo del mittente «Carceri giudiziarie Torino». I due uomini erano quindi in carcere a Torino da quasi due mesi, dopo l’arresto del 19 settembre 1943, e dal 20 ottobre non erano più riusciti ad avere notizie dei loro familiari rimasti in città, Marianna Jona, madre di Diena, e sua zia materna Dolce, neppure tramite gli amici da cui speravano aiuto. Nel testo viene citata «la cara Irene», cioè Irene Cantoni (1897-1976), la donna novarese a cui la lettera era destinata e che l’avrebbe poi conservata per tutta la vita insieme alla foto. Dallo scambio di e-mail e telefonate con il nipote di Irene, Giuseppe Cantoni, oggi residente ad Alzano Lombardo ma di origini novaresi, ho appreso che la famiglia Cantoni voleva assicurarsi della futura conservazione a Novara di quei documenti.
Con le dovute cautele che occorrono quando si ha a che fare con memorie di bambini, ho saputo che suo nonno paterno Giuseppe, da cui aveva ereditato il nome, mediatore di risi e poi titolare di una trattoria in centro città, era appunto amico del Diena, che frequentava assiduamente la loro casa di corso della Vittoria, anche per far visita ad Irene. Diena è ricordato come un signore distinto, elegante e gioviale, con il distintivo degli invalidi della prima guerra mondiale portato sempre sulla giacca. La zia paterna del mio interlocutore, Irene, si era dedicata alla famiglia, al padre e agli altri fratelli, dopo aver perso la madre in giovane età, e lavorava in casa come ombrellaia. Uno dei suoi fratelli, Aldo, azionista, si era invece trasferito nel 1936 a Bergamo, con la famiglia, e lì avrebbe poi collaborato con la Resistenza come informatore. Il piccolo Giuseppe era cresciuto in una famiglia antifascista e ricorda che sia il nonno Giuseppe che il padre Aldo, tornando per questa ragione da Bergamo, dopo l’arresto del Diena avevano cercato sue notizie. Nel dopoguerra fu poi Irene, oltre ovviamente alla Comunità israelitica di Vercelli, a chiedere notizie di Giacomo e dello zio Amadio Jona al Comitato ricerche deportati ebrei, con sede a Roma, come risulta anche dalla documentazione conservata al Yad Vashem di Gerusalemme. Sarebbero dunque stati deportati in Germania, «presumibilmente», come riportano alcuni documenti degli anni cinquanta, ma senza alcuna indicazione certa sulla loro fine. Tornerò in seguito su questo punto.
In questi decenni la figura del Diena, considerato come uno di famiglia, è stata ricordata sia dal ramo della famiglia Cantoni rimasto a vivere a Novara, che in quello trasferitosi nel Bergamasco, nelle giornate del 2 novembre, del 25 aprile, e in seguito anche del 27 gennaio, Giorno della Memoria. Dopo la morte di Irene, la foto e la lettera erano state conservate da Giuseppe Cantoni.
La famiglia Diena-Jona e il suo radicamento a Novara
La ricerca di Liliana Picciotto sugli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah rileva che essi costituiscono l’81 per cento degli ebrei presenti allora sul territorio, senza sostanziali differenze tra ebrei italiani e stranieri[6]. Perché dunque Giacomo Diena non si salvò, nonostante fosse stato invitato a mettersi in salvo la sera del 18 settembre 1943? Diverse testimonianze, come quelle di Benvenuta Treves e di Ines Muggia, ebree novaresi che riuscirono a evitare l’arresto, riportate nella bibliografia già citata e in particolare in “Novara ebraica”, ci raccontano infatti dei messaggi che furono fatti pervenire agli ebrei novaresi grazie alla moglie del ragionier Celso Muggia, a sua volta av­visata da un ristoratore novarese che aveva raccolto l’informazione del previsto rastrellamento da un fun­zionario della Questura. Celso Muggia si era già allontanato da qualche giorno da Novara, era amico del Diena e certo il messaggio era attendibile. Riferisce la figlia Ines Muggia: «La cosa che ancor oggi mi rattrista è pensare che il povero ragionier Diena non cercò nemmeno di mettersi in salvo, convinto che il suo servizio alla Patria lo avrebbe in qualche modo tutelato»[7].
Sul suo passato militare il Diena contava dunque parecchio, tanto che aveva sperato di ottenere la discriminazione prevista per gli ebrei con meriti speciali, anche se questa non era mai arrivata. Probabilmente a influire sulla scelta fu anche la sua condizione familiare: mamma e zia anziane e malandate, così come lo zio Amadio Jona che, seppure residente a Torino[8], era spesso in casa con loro. Lui stesso inoltre era claudicante: uno spostamento del nucleo familiare non era affatto semplice e d’altra parte si sentiva integrato nella città in cui abitava da decenni. Il tono della lettera inviata a Irene Cantoni dalle carceri giudiziarie di Torino ci mostra così tutta la sua disperazione [...]:
Scrivete veloci notizie per carità
E pregate per noi e ricordateci
Torino 11/10/43 XXI
Carissime mamma e zia
Nell’inviarVi il Buono per la legna da ardere che presto ne avrete bisogno, mi raccomando di non lasciarlo scadere bisogna andare tutti i primi giorni del mese a pagarle e pregare che la portino a casa. Hai pagato l’affitto di casa? Nella mia del 1o corr vi domandavo se avete già ricevuto il carbone, vi domandavo notizie della vostra salute, e vi pregavo dei saluti della casa, ma fin’ora non ho ricevuto vostre care notizie. Scrivetemi presto.
La cara Irene credo che verrà da voi, pregatela a nome mio di aiutarvi e di scrivermi. /omissis/
Irene hai fatto quanto ti pregavo nella mia del 1o corr? Spero di sì e ti ringrazio il papà come sta? /…/ Scrivimi e ricordami bacioni tuo Giacomo”, /…/.
Carissime tutte
Tralascio perché sono disperato, non mi raccapezzo più, solo vi prego di avervi cura di farvi forza e di pregare per noi qui che il Buon Dio ci faccia ritornare tra di voi al più presto possibile. /…/.
Più avanti troviamo anche un la­conico saluto dello zio Amadio, allora set­tan­tanovenne, in data 14 novembre 1943:
Care Sorelle,
Oltremodo addolorato vi mando mie buone notizie e cari saluti a tutti e baci
aff. Amadio.
Per provare a capire lo sconcerto dei due uomini, occorre risalire a decenni prima e intravvedere le speranze di una famiglia con radici nell’Astigiano (gli Jona) e nel Torinese (i Diena), che a fine Ottocento decide di trasferirsi a Novara[9].
Il primo a giungere in città il 1 marzo 1891, dopo il trasferimento da Fossano, è Amadio Jona (registrato spesso come Amedeo), nato ad Asti il 4 dicembre 1864, che si stabilisce in via dell’Archivio, alla Casa Barabino dove viveva il negoziante Neemia Jona, con la moglie, la figlia, la madre (vedova del precedente capofamiglia Abramo Jona) e una cameriera. Il gruppo, arrivato da Milano, si sposterà poi a Mantova, conferma questa della frequente mobilità e intraprendenza di queste famiglie. Ritengo opportuno addentrarmi in questi particolari per segnalare che, come ben documentato in “Novara ebraica”, la presenza di ebrei a Novara non era residuale, anche se ostacolata per varie ragioni da diffidenze delle istituzioni e della cittadinanza.
Nel foglio di famiglia appena descritto il giovane Amadio è indicato come orefice e «congiunto» degli altri Jona. Amadio sceglie di fermarsi a Novara, la sua bottega da orefice è in pieno centro, in via Omar 2, dove nelle guide commerciali della città risulta un’attività di lucidatore di argenti e preziosi; probabilmente convince sorelle, cognato e nipoti a raggiungerlo a Novara nel 1899.
[...] Tra il 1939 e il 1943 non risultano altri documenti che spieghino la ragione della mancata conclusione del provvedimento di “discriminazione” a favore del Diena e nessuna annotazione relativa a iter in corso (presente invece per altri nominativi) risulta su tutti gli elenchi di ebrei visionati. E così, pensando ingenuamente di essere in salvo, quella domenica 19 settembre 1943, il cinquantaseienne Giacomo Diena di­venta una facile preda e viene arrestato dalle forze di occupazione tedesca da pochi giorni presenti a Novara, sulla base degli elenchi di ebrei residenti in città forniti dalla Questura. Prelevato dall’abitazione di piazza Sant’Agata con lo zio Amadio, che aveva allora quasi settantanove anni, e lasciando al loro destino la madre e la zia, viene portato insieme ad altri ebrei alle scuole Morandi.
Giorgio Hasenbohler, in una testimonianza del 1983[25], riferisce che suo padre, un industriale di origini svizzere trasferitosi a Novara da tempo, che si esprimeva bene in tedesco, aveva portato beni di conforto in carcere e cercato più volte di intercedere a suo favore presso il Comando germanico[26], venendo infine minacciato di fare la stessa fine degli arrestati. L’industriale conosceva bene i Diena-Jona perché abitava al terzo piano nello stesso edificio in cui loro abitavano al primo. Giorgio Hasenbohler ricorda che i fascisti, all’inizio del 1944, avevano messo nella loro casa una squadra di torturatori, fatto per cui erano seguite altre inutili proteste di suo padre.
Tre giorni dopo, mercoledì 22 settembre 1943, un ufficiale delle Ss si presenta alla Banca popolare di Novara chiedendo di aprire le cassette di sicurezza degli arrestati. Dissuaso, tornerà il giorno successivo, ma la direzione della Banca fa in modo che l’operazione di apertura forzata avvenga alla presenza del notaio Nicolitti, che ne redige verbale[27].
Sulla rapacità apparentemente disordinata di queste razzie (contemporanee alle note stragi sui laghi d’Orta e Maggiore del settembre 1943) e sulle modalità dell’occupazione in questi primi giorni non mi soffermo. Se è vero che sono le Ss i primi carnefici di questa particolare storia, la complicità degli uffici che avevano predisposto la rete di controlli sugli ebrei è tutta italiana. Dal 30 novembre del 1943, come è noto, sarà poi la polizia italiana a occuparsi di arresti e deportazioni. Il rastrellamento novarese avviene in tempi precoci, quando i diversi compiti tra autorità d’occupazione e autorità della Rsi non sono ancora bene stabiliti.
I decreti di confisca dei beni di Giacomo Diena e Amadio Jona sono stati effettuati alcuni mesi dopo, l’11 maggio 1944 (n. 01463) e il 19 maggio 1944 (n. 01498), come risulta dal Servizio Beni ebraici[28] nel suo accertamento eseguito il 31 lu­glio 1944 relativo ai sequestri effettuati in provincia fino a quel momento. Si segnala che al Diena viene confiscata la somma di 1.536,95 lire, competenze che la banca aveva assegnato all’ex dipendente alla fine del rapporto di lavoro, oltre a qualche titolo e ai mobili (la casa era stata utilizzata dagli occupanti come di consueto durante le requisizioni). Allo zio Jona, dichiarato “benestante”, vengono sequestrati titoli, azioni e un’importante rendita annua. I due non hanno proprietà immobiliari a Novara, ma a Torino, dove Jona risulta residente, la sua casa di via San Martino subisce analoga sorte. Sconcerta il carteggio, presente tra i documenti dell’Egeli, in cui l’amministratore del condominio torinese sollecita più volte le autorità competenti a effettuare quanto di dovere rispetto all’alloggio dell’ebreo Amadio Jona.
Dopo alcuni giorni di detenzione a Novara, Giacomo e Amadio vengono dunque trasferiti alle carceri giudiziarie di Torino nelle quali sono sicuramente presenti almeno dall’11 ottobre 1943 (prima data che risulta nella lettera citata all’inizio) al 1 dicembre 1943. Quest’ultima data è attestata da un altro elenco di ebrei[29] in cui compaiono i nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona, un passaggio di consegne che segna la loro uscita dal carcere di Torino e l’invio alla deportazione. Da controlli incrociati sulle altre persone in elenco con i nomi presenti ne “Il libro della memoria”[30], l’ipotesi più plausibile è che i due detenuti arrestati a Novara siano stati portati a Milano, a San Vittore, in attesa della partenza dal binario 21 per Auschwitz. Dei 19 nomi elencati nella lista, ben 13 risultano partiti col convoglio n. 5 formato a Milano e Verona il 6 dicembre 1943, giunto ad Auschwitz l’11 dicembre 1943. I prigionieri in partenza da Milano erano confluiti al carcere di San Vittore da Torino e da Genova. Un altro deportato della lista torinese risulta invece partito col convoglio n. 6, formato a Milano e Verona il 30 gennaio 1944, giunto ad Auschwitz il 6 febbraio 1944. Quest’ultimo convoglio aveva raccolto prigionieri provenienti da vari centri di raccolta provinciali e dalla frontiera italo-svizzera. Entrambi i convogli, sia il n. 5 che il n. 6, viaggiavano sotto sigla Rsha. Per altri tre deportati della lista torinese, nel volume citato si parla di immatricolazione dubbia e morte in data e luogo ignoti.
Per Diena e Jona, in assenza di documenti definitivi, possiamo quindi solo ragionare per probabilità. Morti in viaggio, oppure giunti a destinazione e poi subito eliminati? Alla Comunità ebraica di Vercelli risulta la lettera del Comitato di ricerche dei deportati ebrei (istituito dall’Unione delle Comunità israelitiche italiane) datata 25 ottobre 1945, nella quale si comunica che fino a quel momento nessuna notizia era giunta sui deportati Giacomo Diena e Amadio Jona. Come già visto, nemmeno Irene Cantoni era riuscita a sapere qualcosa di certo.
I nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona sono ora presenti su una targa scoperta il 17 gennaio 2019 a Novara a Palazzo Bellini, sede storica della Banca popolare di Novara dove il contabile lavorava[31].
 

Bertie Sara Kaatz. Fonte: Anna Cardano, art. cit. infra

Qualche notizia sulla più sommersa: Bertie Sara Kaatz
Bertie Sara Kaatz è la terza vittima della Shoah nella città di Novara, la meno conosciuta dei tre. A Novara non ci sono targhe o luoghi che ricordino la vicenda di questa giovane donna, ricostruita in “Novara ebraica”[32] qualche anno fa. Aggiungo solo qualche tassello che emerge dalle carte d’archivio, completandone i dati anagrafici nella speranza che anche Bertie sia presto ricordata a Novara. La famiglia Kaatz era arrivata a Novara da Milano, dove aveva presentato nel 1939 denuncia di appartenenza alla razza ebraica e si era stabilita in viale Roma, 8. Nei registri del Comune di Novara che aggiornano la situazione migratoria, nella settimana tra il 17 e il 24 giugno 1942 i nomi di Bertie Kaatz, nata a Breslavia (Polonia) il 26 febbraio 1912, e dei suoi genitori Ludwig Kaatz, nato a Schwerzen (Ger­mania) nel 1878, e Augusta Oppler, nata a Pleschen (Polonia) nel 1878, risultano tra i richiedenti residenza stabile a Novara. Ludwig è indicato come «senza occupazione». Per tutti e tre si precisa che sono di razza ebraica. Nella rubrica A[33] realizzata dalla Provincia di Novara sugli ebrei presenti in provincia, di cui si è detto sopra, risalente al luglio 1942, i componenti della famiglia Kaatz sono invece registrati come apolidi e benestanti. Evidentemente erano giunti in Italia per sfuggire alle persecuzioni in Polonia e forse con l’intenzione di emigrare negli Stati Uniti, dove viveva il fratello. Così sostiene Sandra Taccola[34], nipote di Margherita Rho, la portinaia del palazzo in cui abitavano. Sandra ricorda la madre di Bertie sulla sedia a rotelle, molto ammalata, e dalla nonna le furono negli anni seguenti raccontate le preoccupazioni di Bertie, che voleva trovarle una sistemazione e non partiva per questo. Essendo ebrei stranieri, avreb­bero potuto essere individuati per l’internamento e, anche se ciò non accadde, è evidente il clima di paura in cui la famiglia viveva. Tutti e tre erano iscritti alla Comunità israelitica di Vercelli.
Un’altra volta, prima dell’arresto, nel palazzo erano stati fatti dei sopralluoghi da parte dei fascisti, ma i Kaatz si erano nascosti in casa della portinaia ed erano sfuggiti ai controlli; il 19 settembre invece tutta la famiglia viene arrestata. Bertie non tornerà più.
Seguirà lo stesso percorso di Giacomo Diena e di Amadio Jona, prima alle carceri giudiziarie di Torino, dove è detenuta insieme ad altre undici donne ebree arrestate nel Torinese, nel Vercellese e a Genova nel settembre e ottobre 1943, poi trasferita al carcere di Milano, come risulta dall’elenco datato 1 dicembre 1943 predisposto per il passaggio di consegna delle detenute dal carcere giudiziario di Torino[35] a quello milanese di San Vittore. Anche in questo caso, dai controlli incrociati sulle altre donne in elenco (dieci su dodici erano cittadine italiane), con i nomi presenti ne “Il libro della memoria”[36] e con le banche dati già citate, si può concludere che molto probabilmente anche Bertie sia partita da Milano per Auschwitz il 6 dicembre 1943, col convoglio n. 5, giunto a destinazione l’11 dicembre 1943. Poi, la fine.
Di certo per i genitori la situazione precipita, nonostante trovino ospitalità presso la casa di cura dell’Ospedale mag­giore e alcune persone rimangano loro vicine. La portinaia Margherita sa­rà presente al seppellimento di Augusta Oppler il 10 dicembre 1943 al cimitero di Novara[37], insieme a Ludwig Kaatz, il quale morirà poi nell’ottobre successivo. I genitori di Bertie non furono comunque sepolti nel cimitero ebraico. Così come per Diena, il foglio di famiglia del Comune di Novara intestato ai Kaatz continuerà a rimanere attivo, come se Bertie fosse ancora viva anzi, dopo la morte di Ludwig e Augusta, è lei ad apparire intestataria del foglio stesso.
La triste vicenda di questa famiglia è emersa grazie a un carteggio postbellico tra Comunità israelitica di Vercelli e Istituto bancario San Paolo di Torino, che tentavano di prendere contatti col fratello di Bertie, Alexander Kaatz, che era stato in Italia al seguito delle truppe americane. Occorreva infatti restituirgli, in qualità di erede, i beni confiscati in precedenza alla famiglia. Il nome di Ludwig Kaatz risulta anche, appena dopo la Liberazione, in una nota[38] che il Comando dell’amministrazione alleata a Novara invia al prefetto Fornara il 21 maggio 1945, affinché vengano restituiti al più presto, agli ebrei elencati, i beni confiscati nel periodo nazifascista.
Come si vede, una lunga e terribile storia di elenchi.
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XL, n. s., n. 2, dicembre 2020
[NOTE]
[*] Devo ringraziare per la collaborazione a queste ricerche Rossella Bottini Treves, presidente della Comunità ebraica di Vercelli, Biella, Novara e Vco; Paolo Cirri, della Fondazione Bpn per il territorio; Chiara Mangione, Giuseppe Cantoni, Sandra Taccola, Gianni Galli, l’Archivio di Stato di Novara.
[1] Il nome di Giacomo Diena risulta sulla lapide commemorativa presente al cimitero ebraico di Vercelli; su quella del tempio ebraico appaiono i nomi di Amadio Jona e Giacomo Diena; solo recentemente (gennaio 2019) una targa con entrambi i nomi è stata apposta a Novara nel cortile interno della Banca popolare di Novara, nella sede storica di Palazzo Tornielli Bellini. I due nomi, presentati come vittime della Shoah in Italia, e dati come uccisi lo stesso giorno dell’arresto, compaiono in diverse fonti, tra cui Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), ricerca della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano, Mursia, 2a ed., 2002, e www.nomidellashoah.it, mentre l’ipotesi di una loro deportazione è già contemplata nella documentazione della Comunità ebraica di Vercelli, nelle ricerche di Gisa Magenes (“Fogli sensibili”, n. 3, ottobre-dicembre 1994), che data la morte del Diena in Germania al 1 novembre 1943, nella testimonianza di Giorgio Hasenbohler (“Corriere di Novara”, 13 ottobre 1983) e in www.ushmm.org. Le ricerche successive contemplano entrambe le ipotesi. In ambito vercellese, sono anche ricordati da Alberto Lovatto in Deportazione memoria comunità. Vercellesi, biellesi e valsesiani nei lager nazisti, Milano, Franco Angeli, 1998.
[2] La ricostruzione della vicenda di Bertie Sara Kaatz, iscritta alla Comunità israelitica di Vercelli, si trova in Rossella Bottini Treves - Lalla Negri, Novara ebraica. La presenza ebraica nel novarese dal Quattrocento all’età contemporanea, Novara, sn, 2005, pp. 86-93.
[3] I documenti dell’Ente di gestione e liquidazione immobiliare dei beni ebraici espropriati a seguito delle leggi antiebraiche del 1938 sono conservati nell’Archivio storico Intesa Sanpaolo.
[4] Archivio privato famiglia Cantoni, Alzano Lombardo (Bg), e Archivio privato famiglia Luca e Marcella Moia, Novara.
[5] Giuseppe Cantoni, conversazioni del 23 maggio 2014 e del 24 gennaio 2016; Sandra Taccola, conversazione del 21 febbraio 2019.
[6] L. Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah. 1943-1945, Torino, Einaudi, 2017, pp. 267-280.
[7] R. Bottini Treves - L. Negri, op. cit., pp. 94-97.
[8] Il motivo per cui Amadio Jona non si trova in nessun elenco di ebrei novaresi è dovuto al fatto che, dopo essere rimasto vedovo, aveva spostato la sua residenza da Novara a Torino, in una casa di proprietà in via San Martino, 10, come emerge dal fascicolo a lui intestato (Jona, Amadio, segnatura: 181 TO - GES 372 736) presente nel fondo Egeli già citato.
[9] Le notizie biografiche riportate provengono dai Fogli di famiglia intestati a Jona Amadio, Saulle Diena e poi Giacomo Diena, Archivio di Stato di Novara (d’ora in poi Asn), fondo Comune di Novara, parte III, Anagrafe, cassetta VIII, Foglio di famiglia n. 2120; fondo Comune di Novara parte antica, Reg. 64, Fogli di famiglia n. 9610; fondo Comune di Novara, bb. 1395 e 1396 sulla popolazione novarese, b. 1398, con i fascicoli nominativi degli ebrei residenti a Novara; fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 712.
[25] Si veda la nota 1, articolo ne “Il Corriere di Novara”, 13 ottobre 1983.
[26] Si vedano Carlo Gentile, Settembre 1943. Documenti sull’attività della Divisione Leibstandarte SS Adolf Hitler in Piemonte, in “Il presente e la storia”, n. 47, 1995, pp. 75-130, e i recenti studi dello studioso svizzero Raphael Rues.
[27] R.G.N.N. 24.016 del 1 ottobre 1943.
[28] Si veda la nota 16.
[29] Dell’elenco, proveniente dall’Archivio del carcere di Torino, sono venuta a conoscenza grazie a Rossella Bottini Treves.
[30] L. Picciotto, Il libro della memoria, cit. Oltre ai nomi dei deportati, il libro contiene l’elenco dei trasporti alle p. 44 e seguenti.
[31] La targa è nata dalla collaborazione tra Bpn, Cral e associazione “Noi della Bpn”, Comunità ebraica di Vercelli, Biella, Novara e Vco, Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola “Piero Fornara”.
[32] Si veda la nota 2.
[33] Si veda la nota 21.
[34] Si veda la nota 5.
[35] Anche di questo elenco di prigioniere, analogo a quello di Diena e Jona per i detenuti maschi, proveniente dall’Archivio del carcere di Torino, sono venuta a conoscenza grazie a Rossella Bottini Treves.
[36] Si veda la nota 30.
[37] Comune di Novara, Archivio del Cimitero, Registri dei seppellimenti, 1943 e 1944.
[38] Asn, fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 712.
Anna Cardano, I sommersi del 19 settembre 1943 a Novara. Giacomo Diena, Amadio Jona, Bertie Sara Kaatz, l'impegno - Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, 24 gennaio 2022

domenica 23 luglio 2023

Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill


Mentre gli eserciti alleati risalivano la penisola italiana, gli inglesi approfittando della situazione della resa italiana, stavano studiando uno sbarco in Istria, per dare la possibilità di effettuare operazioni militari attraverso la regione e la provincia di Lubiana in direzione dell'Europa centrale. Lo sbarco avrebbe avuto non solo conseguenze militari importanti, ma anche in ambito politico, e proprio per questo motivo rappresentava un problema, perché uno sbarco in quella parte della penisola dove viveva la gran parte della minoranza italiana, poteva provocare un peggioramento delle relazioni politiche, rendendo più difficili e sfavorevoli i rapporti e i problemi ancora irrisolti fra gli jugoslavi e gli italiani dell'Istria. Inoltre, lo sbarco venne respinto da Stalin e da Roosevelt alla conferenza di Teheran, perché ritenuto di poca importanza militare, giustificando la bocciatura classificando l'operazione di scarso valore militare, nascondendo le loro preoccupazioni politiche: gli americani consideravano la zona dei Balcani e il fronte italiano era considerato un fronte secondario, a differenza della Francia, mentre per i sovietici l'obiettivo, oltre a Berlino, era anche la presa di Vienna. <14
Mentre per la resistenza slovena e croata, la notizia dell'armistizio italiano, rappresentò una sorta di miracolo: perché da una parte i soldati italiani abbandonarono le caserme, lasciando l'Istria e la provincia di Lubiana sguarnite senza dare una presenza militare seria, permettendo così l'inizio della vendetta degli slavi contro i responsabili fascisti, che si macchiarono del tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia, durante il ventennio fascista, e delle violenze perpetuate dall'esercito italiano nei Balcani durante la guerra, ad esempio la circolare 3C del generale Mario Roatta <15: questa vendetta, verrà ricordata come i massacri delle foibe. In più da quella data le forze partigiane ampliarono il loro raggio delle operazioni militari, considerando che vennero abbandonate migliaia di armi, veicoli blindati e pezzi d'artiglieria italiani, riutilizzate dalle forze partigiane (secondo quanto detto dal generale cetnico Draza Mihajlović). Oltre al materiale bellico abbandonato, diversi reparti italiani si unirono ai partigiani jugoslavi, che subito diedero un contributo significativo nella battaglia di Turjak, contro i nazionalisti sloveni. Questi reparti si unirono alla resistenza, a seguito delle voci, fatte circolare dai titini, di uno sbarco alleato in Istria, che in realtà non ci sarebbe stato, e chiesero agli italiani in zona di unirsi alle forze partigiane e di affrontare il nemico comune, i tedeschi. <16
L'OF, “Osvobodilna fronta”, in sloveno fronte di liberazione, a seguito dell'ampliamento delle loro operazioni, divulgarono, tramite una commissione composta da diversi geografi, militari, politici e storici, teorie nazionalistiche tra la popolazione slava dell'Istria, dichiarando che i territori italiani, dall'Istria fino al fiume Tagliamento, erano territori storicamente appartenuti ai croati e agli sloveni, strappati dagli italiani dopo la Prima guerra mondiale. Queste rivendicazioni non  avevano solo motivi ideologici, ma anche strategici, nel senso che, dopo la sconfitta del nazi-fascismo, in previsione di un nuovo conflitto in Europa, la regione avrebbe svolto un ruolo cruciale per la difesa dello stato Jugoslavo. <17
Il Foreign Office aveva scoperto che se gli alleati avessero continuato a supportare militarmente sia le forze cetniche del governo jugoslavo in esilio a Londra, che le forze comuniste guidate da Tito, avrebbero creato due stati jugoslavi separati tra loro, provocando così una guerra civile, come avverrà nel caso della Grecia nel 1946. Pertanto, gli alleati da una parte avevano dei dubbi sulle forze cetniche guidate da Mihajlović, sospettando che collaborasse con le forze dell'Asse, ipotesi all'epoca falsa, ma che si rivelerà esatta in futuro a causa dell'abbandono del supporto degli inglesi a partire nel 1944. Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill usando la propaganda internazionale, dichiarando che il movimento comunista era l'unico che poteva fronteggiare i tedeschi e che godeva del pieno appoggio del popolo jugoslavo, anche se in realtà in quel momento, i titini non controllavano il Montenegro e la Serbia (roccaforte dei cetnici). <18
Il 28 novembre 1943, si tenne la conferenza di Teheran, per decidere sulle prossime operazioni alleate in Francia, sul fronte occidentale e sulla questione balcanica. Churchill e Stalin volevano che le forze jugoslave unissero le forze sotto un unico comando, per combattere contro i tedeschi. Secondo Churchill per cercare di trovare una tregua tra le forze partigiane, i cetnici dovevano unirsi sotto il comando di Tito e il re Pietro II doveva abdicare in favore delle forze comuniste. Stalin invece, dopo la conferenza, sollecitò i comunisti jugoslavi a prendere contatto con il governo in esilio di Šubasic, poiché l'AVNOJ (Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije - Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia) aveva stabilito che il re Pietro II non poteva più ritornare in patria, poiché ritenuto un traditore <19. Inoltre raccomandò ai comunisti jugoslavi di muoversi con discrezione per evitare di suscitare sospetti tra gli alleati sul nascere di un nuovo stato comunista nei Balcani. <20
Il 12 settembre 1944 re Pietro II, sotto la pressione di Churchill, esortò i serbi, croati e sloveni a riconoscere il nuovo governo sotto la guida di Tito. Il primo ministro inglese, dopo gli accordi, temeva che, non appena fosse arrivata l'Armata Rossa ai confini della Serbia, i sovietici avrebbero instaurato un regime comunista sotto la guida di Tito, per cui sospese i rifornimenti ai cetnici, nonostante la promessa di Mihajlović di continuare a combattere i tedeschi, e li indirizzò ai titini. Per questo motivo, chiese a Tito di incontrare il re per formare un nuovo governo in Jugoslavia per decidere quale sarebbe stato il nuovo sistema politico in Jugoslavia, ma Tito evitò l'incontro con il re, assicurando a Churchill che il suo sistema politico non sarebbe stato di stampo comunista. <21
Per cui, con le dimissioni del re, e con l'avanzata dell'Armata Rossa in Bulgaria e in Romania (che avevano firmato un armistizio con le forze sovietiche), Tito viaggiò segretamente in aereo, all'insaputa degli inglesi, per arrivare a Mosca per chiedere aiuti militari a Stalin e addestrare le sue truppe in modo da poter combattere efficacemente i tedeschi e cacciarli dalla Jugoslavia. Stalin approvò la richiesta <22, e il 20 ottobre 1944 l'Armata Rossa lanciò la sua terza offensiva verso l'Ungheria. In seguito divisioni sovietiche si riversarono su Belgrado e insieme alle forze titine la liberarono. Questa offensiva, l'offensiva di Belgrado, permise a Tito di stabilire il suo quartier generale nella capitale, diventando così il nuovo capo della Serbia, che insieme agli accordi diplomatici, già descritti, furono il suo primo grande successo in campo internazionale. <23 Tuttavia rimaneva la questione irrisolta della Venezia Giulia occupata.
[NOTE]
14 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
15 Rossi-Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, 2011, pp. 59-60
16 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
17 Pupo. Trieste '45. p. 42
18 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
19 Diego de Castro. Vol 1. p. 156
20 Novak, p. 96
21 Novak, pp. 97-99, ma non lo menzionò nei suoi discorsi politici al pubblico.
22 Consultare B. B. Dimitrijević and D. Savić (2011) Oklopne jedinice na Jugoslovenskom ratištu 1941-1945, Institut za savremenu istoriju, Beograd 23 Novak, p. 99
Matteo Boggian, La questione triestina 1945-1954, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2020-2021 

La crescente iniziativa dei partigiani dell'esercito di liberazione nazionale guidato da Tito e la sanguinosa guerra nazionale e civile delle diverse fazioni politiche attive in Jugoslavia, impegnate in una lotta senza quartiere al fianco o contro le forze di occupazione al fine di garantirsi una posizione di forza favorevole alla fine del conflitto, costrinsero Mussolini a dichiarare la Dalmazia, assieme al Montenegro, alla Slovenia e ai territori croati e bosniaci occupati, “zona di operazioniˮ. <187
In Dalmazia queste misure determinarono in primo luogo una selvaggia competizione per il potere tra il governatore Giuseppe Bastianini ed il generale Quirino Armellini, comandante del XVIII Corpo d'armata che si concluse a favore del primo. L'occupazione della Slovenia ebbe implicazioni cariche di conseguenze sulle sorti dei territori di confine: nella provincia di Lubiana il fascismo perseguì in un primo tempo una politica di moderazione nei confronti della popolazione civile.
Questa politica si differenziava notevolmente dalla prassi di germanizzazione violenta messa in atto dai tedeschi nella Slovenia settentrionale, in seguito alla quale circa 21.000 sloveni provenienti dalla zona di occupazione germanica si erano rifugiati nella zona italiana. Questi fatti suscitarono notevoli malumori da parte degli occupanti tedeschi della parte settentrionale della Slovenia, che dal canto loro andavano attuando un programma complessivo di germanizzazione delle aree adiacenti al confine austriaco attraverso deportazioni di massa della popolazione slovena. L'Italia venne accusata in tale frangente di aver favorito il formarsi a Lubiana del centro dell'irredentismo sloveno <188.
Lo stesso Mussolini in un primo tempo non intendeva procedere all'italianizzazione forzata della provincia: «Inizialmente le cose parvero procedere nel modo migliore. La popolazione considera il minore dei mali il fatto di essere sotto la bandiera italiana. Fu dato alla provincia uno statuto, poiché non consideriamo territorio nazionale quanto è oltre il crinale delle Alpi, salvo casi di carattere eccezionale» <189.
[...] Rispetto alla condizione in cui versava il paese, la situazione che venne a crearsi nell'area di confine fu ben diversa: qui andò dissolvendosi ogni simulacro di presenza statuale italiana; l'8 settembre non significò solo, nella Venezia Giulia, lo sbandamento di massa dell'esercito, ma anche la scomparsa delle articolazioni dello Stato italiano, cosicché il carattere di cesura vi si presentò in forme assai più accentuate che nel resto d'Italia <231 .
La firma dell'armistizio provocò un'accelerazione dei processi che erano andati delineandosi già a partire dal 1942, quando l'attività partigiana aveva trasformato la parte orientale del territorio in zona di guerra: i numerosi episodi di aggressione e disarmo di gruppi di soldati da parte di unità partigiane e le preoccupate reazioni degli alti comandi rappresentano infatti un indicatore dello stato di demoralizzazione delle truppe e delle conseguenze che avrebbero potuto sortirne. In seguito alla diffusione della notizia della firma dell'armistizio, varie unità si lasciarono sopraffare da contadini croati disarmati. Ad Albona, 1200 soldati si arresero a 30 croati, tra le quali diverse donne, mentre a Pisino circa 1000 effettivi si sbandavano, dopo aver abbandonato un armamentario composto da pezzi di artiglieria, mitragliatrici e mortai <232. Altri soldati si arresero nel villaggio dell'Istria interna di Pinguente, nella provincia di Lubiana, a Trieste, a Fiume e a Pola. A Gorizia si verificò invece un tentativo di resistenza e di cooperazione con le unità partigiane che circondavano la città: gli operai dei cantieri di Monfalcone, rifornitisi di armi raccogliticce, organizzarono la divisione Proletaria, che si oppose assieme ai partigiani sloveni all'avanzata tedesca; la maggioranza dei soldati che si arrendevano vennero internati in Germania, contro le precedenti assicurazioni dei comandi tedeschi. In Istria le cose andarono diversamente: qui ebbero luogo diverse sollevazioni, sia nei centri italiani sia in quelli croati; Giovanni Paladin, nel suo La lotta clandestina di Trieste, ricostruisce nei termini seguenti il passaggio dei poteri in Istria: «I partiti politici italiani non esistevano, la vecchia classe dirigente era scomparsa da lungo tempo, gli italiani dell'Istria, pur essendo in maggioranza, non disponevano più alcuna istituzione autonoma intorno alla quale raccogliersi e resistere. La disgregazione morale e politica aveva dissociato tutti i gangli vitali della comunità italiana dell'Istria. […] Nel vuoto lasciato libero, prima dal fascismo e poi dalle autorità civili e militari, si precipitarono dopo l'8 settembre i nuclei partigiani slavi, instaurando l'ordine nuovo per mezzo dei cosiddetti «poteri popolari» senza incontrare resistenza alcuna da parte degli italiani dell' Istria. La Venezia Giulia era diventata terra di nessuno…[…]. Quel giorno finiva di fatto la sovranità italiana sull'Istria e incominciava la dominazione balcanica che sovvertiva da cima a fondo l'ordine costituito <233».
Il 13 settembre 1943 si riunì a Pisino un'assemblea del neoistituito Comitato popolare di liberazione, composto da una trentina di quadri: il Comitato proclamava l'unione dell'Istria alla «madrepatria croata»; in seguito una più ampia assemblea, a cui parteciparono anche numerosi italiani, ratificò queste decisioni. Il 20 settembre, il Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia (Zavnoh), emise un decreto che dichiarava decaduti tutti i trattati e le convenzioni stipulate con l'Italia. L'Istria, la Dalmazia e le isole erano annesse ipso facto alla Croazia <234. Il proclama di Pisino era stato preceduto da numerose sommosse locali, in cui una prima rudimentale ossatura di contropotere partigiano, integrata poi da quadri comunisti provenienti dalla Croazia, aveva provveduto a disarmare le guarnigioni e le forze di polizia italiana, insediando i nuovi poteri e rafforzando le fila partigiane.
[NOTE]
187 M. Cantaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 216.
231 M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 241.
232 Ivi, p. 241 ss.
233 G. Paladin, La lotta clandestina di Trieste. Nelle drammatiche vicende del CLN della Venezia Giulia, Del Bianco, Udine 1960, p.74.
234 M. Pacor, Confine orientale. Questione nazionale e Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, cit., p. 211.

Margherita Sulas, Il confine orientale italiano tra contesto internazionale e lotta politica: 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2013

sabato 17 giugno 2023

Prime missioni alleate in Toscana


Nella nostra regione [la Toscana] esistevano, certamente fin da prima dell’inizio della guerra, cellule dei servizi di informazione alleati, soprattutto di quello britannico <62, che potevano trovare un’efficace mimetizzazione nella consistente e autorevole colonia anglosassone presente in Toscana e almeno in una parte della cerchia di parentele e di amicizie da questa intessute. Una parte di tale colonia si disperse all’inizio del conflitto, ma un’altra, italianizzata per matrimoni ecc, rimase, come rimase in piedi la trama di rapporti stabiliti in precedenza; appare infatti plausibile che questi ambienti abbiano fornito un supporto determinante per la preparazione e la riuscita iniziale dell’evasione dal castello di Vincigliata degli alti ufficiali britannici prigionieri di guerra ivi detenuti, verificatasi alla fine di marzo 1943, poiché la ricostruzione dell’impresa effettuata dalle autorità militari italiane presenta vari punti oscuri <63. In Toscana, ovviamente, erano presenti anche centri dei servizi informativi militari italiani ed è doveroso rilevare che le sezioni locali di tali organismi non passarono in blocco al servizio della Repubblica di Salò e dei nazisti e quelle rimaste fedeli alla casa reale svolsero una preziosa attività per contrastare gli intendimenti germanici: valga per tutti l’esempio della rete messa in piedi da Rodolfo Siviero, che a Firenze operò intensamente, ma sulla cui attività sappiamo qualcosa, non molto, solo in virtù delle avare notizie che egli ha reso note, soprattutto circa il salvataggio delle opere d’arte, anche se non si occupò solo di queste <64. Allo stato attuale non è chiaro se fossero in contatto anche con il gruppo di Siviero o altro gruppo analogo, i livornesi don Roberto Angeli e suo padre, che sembra si siano collegati con l’avvocato Eliso Antonio Vanni già nell’ottobre per provvedere al salvataggio degli ex prigionieri di guerra alleati <65. Ma durante il governo Badoglio alcuni ambienti romani vicini alla casa reale avevano provveduto a stabilire contatti con persone appartenenti alla borghesia medio alta, fedeli alla monarchia, per porre le condizioni atte a dar vita ad altri nuclei informativi, molto probabilmente non agganciati alla rete preesistente, facendo ricorso a figure politicamente appartenenti al mondo moderato-conservatore prefascista, anche se nel loro passato figurava una partecipazione all’iniziale movimento fascista, poi divenuta dissidenza e infine «separazione dal partito al potere, gravida di risentimenti di natura privata [...] nell’intento di determinare una crisi intestina che valesse a reintrodurli nel gioco politico» <66.
Uno di tali personaggi fu il giornalista e finanziere Filippo Naldi <67, coinvolto nelle indagini relative al delitto Matteotti ed espatriato nel 1925 per sottrarsi alle minacciose intenzioni del regime; questi al suo rientro in Italia, avvenuto subito dopo la destituzione di Mussolini, prima di recarsi a Romasi fermò nei pressi di Pescia, dove abitava l’ingegner Tullio Benedetti, con il quale dopo le elezioni del 1921 aveva militato nelle file del gruppo parlamentare della Democrazia liberale; tornò a Pescia alla fine di agosto o ai primi di settembre, dopo che a Roma aveva stabilito contatti ai massimi livelli con la casa reale e aveva incontrato lo stesso Vittorio Emanuele III, cui aveva sottoposto un progetto di coinvolgimento delle sinistre in un ampliamento della base politica del governo Badoglio. Sorpreso a Pescia dall’armistizio, sembra che Naldi abbia elaborato col suo ospite il progetto di collegare il nascente movimento partigiano locale con il governo badogliano di Brindisi e gli Alleati - operazione che avrebbe consentito a entrambi di tornare sulla scena politica - stabilendo verso la metà del mese un primo contatto con una delle prime formazioni partigiane pistoiesi, quella di Silvano Fedi, tramite Vanni La Loggia <68.
Tenuto conto dello spregiudicato pragmatismo del Naldi e del Benedetti, della loro conoscenza degli ambienti governativi e della comune appartenenza alla massoneria, che offriva loro la possibilità di molteplici contatti a livelli, in direzioni e per canali diversificati, appare difficile pensare che essi abbiano escogitato un simile piano senza avere un consistente margine di sicurezza sull’effettiva realizzabilità del collegamento con il governo di Brindisi e gli angloamericani, poiché se ciò si fosse rivelato un bluff la reazione dei resistenti avrebbe potuto essere assai sgradevole, soprattutto per il Benedetti, che, a differenza del Naldi, rimase nel Pesciatino <69.
Nacque così una delle prime maglie della rete informativa messa in piedi all’Office of Strategic Services (OSS) statunitense, rivelatasi in seguito assai utile per gli angloamericani, alla quale Naldi, giunto a Brindisi e divenuto autorevole componente degli ambienti della corte reale, provvide ad agganciare il gruppo pistoiese <70.
La scelta e l’impegno nel rischiosissimo campo della raccolta e trasmissione al Sud delle notizie sul regime e le forze armate nazifascisti furono decisioni prese autonomamente e senza secondi fini, ma solo per riscattare l’onta della guerra condotta dalla parte sbagliata e dell’occupazione germanica, anche da numerosi altri cittadini della nostra regione.
Firenze, in quei mesi a cavallo fra il 1943 e il 1944, era affollata da persone provenienti un po’ da tutta l’Italia, soprattutto da quella meridionale: profughi, persone che vi cercavano rifugio nella speranza che i tesori d’arte ivi raccolti allontanassero le offese belliche, perseguitati politici o razziali e militari fuggiaschi che speravano di far perdere le loro tracce allontanandosi dalle loro città. In questa folla in continuo movimento gli agenti dei servizi d’informazione alleati riuscivano a mimetizzarsi con una certa facilità, potendo inoltre contare sulla diffusa ostilità verso tedeschi e fascisti. Infatti proprio a Firenze il Partito d’Azione, mettendo a punto il suo apparato clandestino, dette vita a una Commissione per gli aiuti ai prigionieri di guerra alleati fuggiaschi e, soprattutto, a una Commissione radio, presto divenuta nota come CORA, che aveva l’obiettivo di mettere in piedi un sistema di collegamenti radio con i centri dirigenti azionisti milanesi e romani, con gli Alleati e con le nascenti formazioni partigiane; entrambi questi organismi nell’esplicazione della loro attività avrebbero avuto modo di entrare in rapporto e collaborare con missioni informative provenienti dall’Italia del Sud. Della prima commissione divenne, fin dall’inizio, parte attiva Ferdinando Pretini, un noto parrucchiere per signora di Firenze, il quale era entrato in contatto con una missione informativa, sbarcata nei pressi di Pesaro da un sottomarino britannico, capeggiata dal capitano Giovanni Tolleri, fiorentino, che egli pose subito in contatto con Max Boris e Luigi Belli, due responsabili dell’apparato militare clandestino azionista; la sera del 24 novembre 1943, giorno in cui fu arrestato dalla Banda Carità, Pretini doveva effettuare il collegamento fra la missione Tolleri e una "seconda missione badogliana, proveniente dall’Italia del Sud, incaricata, con mezzi finanziari a sua disposizione, di proteggere e mettere al sicuro prigionieri alleati, evasi dai campi di concentramento, e di stabilire contatti con il centro di resistenza dei Patrioti [...] La missione in parola era composta da un reverendo e da un signore, che dichiarava di esserne lo zio (era un generale)..." <71.
Non risulta che l’arresto di Pretini abbia avuto conseguenze sulla sorte di queste due missioni, delle quali però non è nota l’ulteriore attività. La Commissione radio, invece, i cui obiettivi comportavano ovviamente un’attività di intelligence, divenne il supporto fondamentale di una missione dell’8a Armata britannica dotata di radio ricetrasmittente, giunta a Firenze nel gennaio 1944, divenuta nota come Radio CORA dopo che uno degli animatori della commissione azionista, l’avvocato Enrico Bocci, di fronte alle esitazioni dei dirigenti locali del suo partito, del resto rapidamente superate, aveva accettato di assumersi personalmente la responsabilità di una collaborazione organica con detta missione, divenendo il capo riconosciuto di un’organizzazione, che riuscì a ramificarsi in ogni settore, civile e militare, potendo contare sullo spontaneo contributo di funzionari e semplici cittadini <72. L’importanza dell’attività svolta da Radio CORA ebbe il riconoscimento di un encomio - trasmesso per radio e quindi intercettato anche dai nazifascisti, da parte dello stesso generale Alexander, di cui i componenti della missione avrebbero anche fatto volentieri a meno - che, forse, contribuì in qualche misura alla tragica conclusione dell’impresa, ormai ampiamente nota <73.
Nel ribollente calderone umano di Firenze fra il dicembre 1943 e gli inizi di gennaio 1944 trovarono ricettacolo altri agenti e varie missioni provenienti dal Sud: agli inizi di dicembre vi era Giangiacomo Vismara, emissario dell’OSS, che ristabilì regolari collegamenti con il Benedetti a Pescia e venne raggiunto pochi giorni dopo dalla coppia Mario Rivano e Giovanni Fabbri - rispettivamente sottotenente d’artiglieria il primo, sottufficiale di marina e operatore radio il secondo - la quale faceva parte, con l’altra coppia formata da Renato Parenti, anch’egli sottotenente d’artiglieria, e il suo radiotelegrafista “Renatino”, sottufficiale di marina, della missione Pescia <74, posta alle dipendenze del Benedetti <75. Tra la fine del mese e i primissimi giorni di quello successivo giunse in città una missione del Servizio informazioni militari (SIM) italiano, di cui facevano parte il guardiamarina Antonio Fedele e il suo operatore radio Alfredo Shermann, destinati a rimanere in città, il sottotenente Dante Lenci, l’allievo ufficiale Ezio Odello e il radiotelegrafista Giuseppe Jacopi, destinati a operare sulla costa fra Livorno e Carrara <75.
[NOTE]
62 Interessanti a tale proposito, anche se, ovviamente, non espliciti, risultano i ricordi di K. Beevor, Un’infanzia toscana, La Tartaruga, Milano 2002, passim. Secondo un documento dello Special Operation Executive (SOE) del febbraio 1943, risulterebbe addirittura attivo a Firenze, oltre che in altri capoluoghi italiani, un gruppo di tale organizzazione, che aveva tra i suoi compiti principali la sovversione e il sabotaggio; la notizia, priva di riscontri oggettivi a oggi noti, deve essere presa con molta cautela, poiché non confermata da altri documenti della stessa fonte, cfr. P. Sebastian, I servizi segreti speciali britannici e l’Italia, Bonacci, Roma 1986, pp. 94-96.
63 La documentazione relativa a quest’evasione si trova in AISRT, Fondo Regione Toscana; NAW, T821, bob. 100, Ministero della Guerra, fasc. «Evasioni prigionieri di guerra»; per sintetiche notizie al riguardo cfr. Verni, Popolazione e partigiani dall’Alpe della Luna all’Abetone, cit., p. 169, nota 1.
64 Cenni sull’attività dell’organizzazione Siviero in R. Siviero, Seconda mostra nazionale delle opere d’arte recuperate in Germania, Sansoni, Firenze 1950, pp. 13-31; S. Ungherelli [Gianni], Quelli della “Stella rossa”, Polistampa, Firenze 1999, pp. 121, 129, 321, 334; Frullini, La liberazione di Firenze, cit., p. 98; qualche notizia in più in W. Lattes, ...E Hitler ordinò: “Distruggete Firenze”. Breve storia dell’arte in guerra, 1943-1948, Sansoni, Milano 2001, passim.
65 AISRT, Fondo CVL, b. 17, fasc. «Gruppo bande Teseo», s.fasc. «Banda di Pozzolatico», relazione dell’avvocato Eliso Antonio Vanni per il SIM allegata alla copia di attestato rilasciato al Vanni.
66 M. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 37.
67 Per sintetiche note biografiche su Naldi, ivi, p. 39 e nota 7.
68 G. Petracchi, Al tempo che Berta filava, Mursia, Milano 1995, pp. 46-51, passim.
69 Ivi, pp. 50-52.
70 Ivi, pp. 65-66.
71 AISRT, Carte processo Banda Carità, fasc. «Ferdinando Pretini», «Il mio diario. Deposizione resa all’Ill.mo Presidente della Corte d’Assise di Lucca al processo della banda Carità il 9 maggio 1951», dattiloscritto, pp. 2-3. Sui due componenti della seconda missione non disponiamo di altre notizie, ma le indicazioni fornite da Pretini suggeriscono che potrebbe forse essersi trattato di don Angeli e di suo padre.
72 G. Larocca, La “radio CORA” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Giuntina, Firenze 1985, pp. 39-44. Circa la spontanea partecipazione alla raccolta delle notizie, essa ricorda, ad esempio, le informazioni relative alla Linea Gotica, fornite a Bocci da un suo cliente residente in Mugello, ivi, p. 50.
73 Ivi, p. 67. Oltre a tale opera, fondamentale poiché l’autrice fece parte fin dall’inizio del gruppo, ci limitiamo a segnalare, fra gli altri testi C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1962, passim; L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci. Una vita per la libertà, Barbera, Firenze 1969; Contini Bonacossi, Ragghianti Collobi (a cura di), Una lotta nel suo corso, cit., pp. 313-318.
74. Petracchi, Al tempo che Berta filava, cit., pp. 70-73.
75 AISRT, Fondo CVL, b. 17, fasc. «Gruppo bande Teseo», s.fasc. «Banda di Pozzolatico», relazione dell’avvocato Eliso Antonio Vanni per il SIM allegata alla copia di attestato rilasciato al Vanni. Sull’attività e la sorte del gruppo comandato dal Lenci cfr. F. Bergamini, G. Bimbi, “Per chi non crede”. Antifascismo e Resistenza in Versilia, ANPI Versilia, Viareggio 1983, p. 79.
Giovanni Verni, La resistenza armata in Toscana in (a cura di) Marco Palla, Storia della Resistenza in Toscana. Volume primo, Carocci editore, 2006

Tullio Benedetti era il leader nazionale dei monarchici, che avevano formato la lista denominata Blocco della Libertà.
Ma chi era Tullio Benedetti, l’agente “Berta” collegato con lo spionaggio alleato durante il periodo bellico?
[...] Intorno all’8 settembre 1943 era suo ospite, nella villa di S.Lucia, l’amico Filippo Naldi, già suo collega parlamentare nel 1921. Entrambi monarchici e massoni “pensarono che, aiutando concretamente la gestazione di un movimento di resistenza sulle falde dell’Appennino, avrebbero allargato la base del consenso al governo Badoglio” <5.
Benedetti presentò Naldi a La Loggia (a cui Naldi disse essere un agente dell’Intelligence Service) per parlare della possibilità di aiuti aviolanciati per i partigiani. Fu così che Benedetti (in codice “Berta”) si trovò al centro di un’attività di collegamento tra l’OSS (Office of Strategic Services) dell’esercito americano e una parte delle forze partigiane, quelle che facevano capo ai “libertari” di Silvano Fedi e La Loggia e, dopo gli iniziali tentennamenti di “Pippo”, quelle dirette da Manrico Ducceschi. Ma quando nella primavera del 1944 lo smascheramento di Tullio Benedetti (“Berta”) fu totale e la minaccia perentoria e incombente, egli non ebbe altra scelta che sottrarsi alla cattura lasciando Pescia e riparando dietro le linee alleate a sud di Roma. Egli effettuò il passaggio del fronte, nella prima decade di maggio del 1944, comodamente trasportato in un’ambulanza che il genero, dottor Scanga (membro del Consiglio Nazionale delle Ricerche e commissario provinciale della Croce Rossa Italiana del Lazio) aveva inviato apposta da Roma per prelevarlo.
5 Giorgio Petracchi: Al tempo che Berta filava - MURSIA Editore - Milano, 1995 - pag.50
Pier Luigi Guastini, Tullio Benedetti: il quinto costituente, QF Quaderni di Farestoria Anno X - N. 2-3 maggio-dicembre 2008 

Anche il sessantacinquenne Filippo “Pippo” Naldi, personaggio controverso <54, riuscì a oltrepassare le linee nemiche verso gli Alleati allo scopo di offrire i suoi servigi alla causa comune. Naldi presentò a Bourgoin uno degli uomini 'più utili che io abbia utilizzato durante la campagna dei servizi segreti americani in Italia (…), esponente molto agiato della finanza e dell’industria' <55: Tullio Benedetti, denominato “Pippo”. Residente a quel tempo a Santa Lucia Uzzanese in Toscana, Benedetti aveva formato il primo gruppo di resistenti immediatamente dopo l’8 settembre, i quali erano collocati sulle regioni montuose degli Appennini, in attesa di ricevere aiuto dagli Alleati nella guerra contro il nemico.
[NOTE]
54 Secondo la testimonianza di Bourgoin, il 'gentleman' Filippo Naldi, noto giornalista prima del ventennio e impegnato in missioni di pace con il Governo Giolitti, fu esiliato dal regime fascista nel 1925 e fino al 9 agosto 1943 visse a Parigi. A. Bourgoin, From 20th September 1943 to 26th January 1945 cit., p. 36. Peter Tompkins, invece, ha scritto che “Pippo” Naldi aveva procurato a Mussolini finanziamenti francesi per il suo 'Popolo d’Italia'. Poi, in disaccordo con il Duce, si era rifugiato a Parigi, dove nel 1937 aveva incontrato un altro esule, Indro Montanelli, che, nel 1953, in un elzeviro fece un ritratto alquanto impietoso di 'Pippo Naldi faccendiere'. Per Tompkins, anche il Naldi era stato mandato da Badoglio per controllare la missione dell’OSS aggregato alla V Armata. Cfr. P. Tompkins, L’altra Resistenza cit., p. 395.
55 Bourgoin, così, lo definisce 'a very wealthy financier and industrialist, Tullio Benedetti'. A. Bourgoin, From 20th September 1943 to 26th January 1945 cit., p. 36. In un rapporto dell’OSS, Tullio Benedetti è ritratto quale 'uomo d’affari, monarchico, con uno spiccato carattere impetuoso e deciso. Dirige Il Giornale della sera'. P. Tompkins, L’altra Resistenza cit., nt. 5, p. 395.

Michaela Sapio, Servizi e segreti in Italia (1943-1945). Lo spionaggio americano dalla caduta di Mussolini alla liberazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2012 

Il 28 [dicembre 1943] cinque operatori del S.I.M. di due missioni dirette in Toscana (Livorno e Firenze), furono sbarcati dal MAS 510, partito dalla Maddalena, vicino al punto di sbarco di Castiglioncello (Buca dei Corvi) <94.
[NOTA]
94 Quella diretta a Firenze era formata dal guardiamarina Antonio Fedele, Tonino, e dal radiotelegrafista Alfredo Scirman. Di quella diretta a Livorno facevano parte il sottotenente del Genio Navale Dante Lenci (che aveva già preso parte alla resistenza fin dal 29 settembre 1943), il sergente universitario, ex-allievo dei corsi normali dell’Accademia Navale, Ezio Odello, e il secondo capo radiotelegrafista Lorenzo Iacopi. Svolgendosi nel periodo di massimo contrasto nazi-fascista all’attività della Resistenza nell’Italia Centrale, le due missioni furono molto accidentate. Alcuni dei collaboratori reclutati sul posto furono arrestati, anche a Roma, dove erano stati inviati per portare informazioni e ricevere istruzioni. Ai primi di aprile alcuni membri dell’organizzazione di Livorno, compreso Lenci e Iacopi, furono arrestati. Odello lasciò Livorno e avvertì personalmente Fedele di quanto accaduto; quindi, con le notizie in suo possesso, e con quelle fornitegli da Fedele relative alle fortificazioni e agli armamenti tedeschi, Odello si recò, in compagnia del partigiano Emilio Angeli, il nonnino, a Roma. Qui giunti i due furono arrestati, il 10 maggio 1944, e furono condannati a morte. Ai primi di giugno furono riuniti, con altri 26 condannati, nel cortile del carcere di via Tasso. Un primo gruppo di condannati fu caricato su un camion e raggiunse Bologna. Un secondo gruppo, che comprendeva Bruno Buozzi e Brandimarte, giunto alla Giustiniana, fu trucidato da uomini della G.N.R. in fuga. L’ultimo camion fece avaria, ciò che impedì di trasferire i 12 superstiti rimasti nel carcere di via Tasso, fra cui l’Odello, che furono liberati dalla popolazione il 4 giugno. Lenci fu fucilato l’11 settembre 1944 nel campo di concentramento di Bolzano.

Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (1943-1945) in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico trimestrale - Anno XXIX - 2015, Editore Ministero della Difesa