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sabato 16 settembre 2023

A Hollywood ogni sceneggiatore scopriva subito una triste verità


Se nei film su Hollywood la star è di norma votata alla tragedia e all’autodistruzione, lo sceneggiatore è invece un personaggio spesso in balia della frustrazione artistica, del cinismo e perfino della paranoia. Lo dimostra il caso di Viale del tramonto, dove la vittima oggettiva della storia è senza dubbio Joe Gillis, lo screenwriter di terz’ordine freddato da alcuni colpi di pistola per mano della sua amante. Tuttavia, mai una volta durante il suo celebre resoconto post mortem Joe ci fa percepire in maniera melodrammatica l’ingiustizia della sua fine violenta, mentre mantiene intatto, fino all’ultimo, un atteggiamento di cinico distacco mescolato ad amarezza per il suo fallimento professionale. Del resto, per parafrase il titolo originale di un altro celebre film coevo a Viale del tramonto, In a Lonely Place (Il diritto di uccidere, 1950) di Nicholas Ray, gli sceneggiatori sembrano aver occupato un “posto solitario” all’interno dell’industria fin dai tempi in cui l’introduzione del sonoro rende necessaria la presenza costante a Hollywood di scrittori in grado di fornire sceneggiature filmabili provviste di dialogo.
Larry Ceplair e Steven Englund riassumono così le difficoltà esperite da tale categoria professionale: "A Hollywood ogni sceneggiatore - sia che stendesse le sue sceneggiature a Normandy negli uffici della Fox organizzati come un villaggio, o negli asettici e angusti locali della MGM, o nelle malconce ma comode stanze della Paramount […], o nella speciale versione del Château d’If allestita dalla Columbia - scopriva subito una triste verità e prima o poi si doveva abituare a vivere con essa: il rapporto di cui doveva tener conto non era quello tra lui, sceneggiatore, e il pubblico che andava a vedere il film, bensì tra lui e il produttore. […]. Gli scrittori erano sì incoraggiati a presentare soggetti originali ma la forma mentis dei produttori era così rigida che solo raramente uno sceneggiatore riusciva a “piazzare” più di cinque o sei soggetti originali nell’arco della sua carriera. […]. Tutto dunque ruotava sul rapporto tra lo scrittore e il suo produttore. L’impressione era che, dovunque lo sceneggiatore vagasse nel labirinto hollywoodiano, saltava fuori il produttore a sbarrargli il cammino. Era lui che si doveva affrontare e soddisfare. Perciò lo scrittore doveva imparare subito che quel che contava era l’idea che il produttore, e non lui personalmente, aveva di una buona sceneggiatura" <117.
Sebbene i film autoreferenziali spesso denuncino una deliberata assenza di verosimiglianza nel descrivere il lavoro degli sceneggiatori all’interno dello studio system (ad esempio, molte volte è passato sotto silenzio il fatto che il loro principale compito consistesse di norma solo nell’adattare materiale già selezionato dall’ufficio-soggetti, e che di rado qualcuno riuscisse a far realizzare un progetto proprio), l’abisso di potere, che davvero separava questa categoria dai produttori, è sempre posto al centro del dramma. Se Il diritto di uccidere è senz’altro poco realistico quando ci descrive il lavoro di scrittura del protagonista Dix Steele (Humphrey Bogart) come un lavoro solitario e condotto in casa propria agli orari più improbabili, non lo è, però, quando ci comunica la frustrazione che questo stesso personaggio prova essendo costretto dalla sua professione ad adattare soggetti dozzinali per lo schermo. In tal senso, la violenza fisica di Dix e la sua sospettosità paranoide (evidenti soprattutto nel rapporto con l’altro sesso) non sono solo concessioni ai canoni del genere noir in cui il film di Ray s’inscrive, ma servono a tematizzare l’incapacità del protagonista di adeguarsi al modus operandi hollywoodiano.
Come osservano ancora Ceplar ed Englund, «gli scrittori che resistettero a Hollywood impararono a fare del loro meglio con qualsiasi materiale avessero a disposizione cercando di evitare allo stesso tempo (per quanto possibile) ogni coinvolgimento del proprio io nella sceneggiatura che avevano sotto mano. In generale questo tipo di sforzo è estraneo al processo creativo, ma la sopravvivenza degli scrittori impegnati nel processo produttivo dell’industria cinematografica richiedeva questa capacità e così molti di loro impararono in un modo o nell’altro ad adattarsi» <118.
A Dix Steele quest’adattamento non riesce perché equivale per lui, psicologicamente parlando, a essere declassato dal ruolo di artista a quello di semplice funzionario di livello medio all’interno di una grossa impresa produttiva.
Successivo di soli due anni a Il diritto di uccidere, Il bruto e la bella di Vincente Minnelli esamina, almeno in parte, questioni analoghe, ma lo fa mettendo al centro della diegesi proprio il personaggio del produttore, vale a dire la figura solitamente accusata di tutti i mali degli sceneggiatori hollywoodiani. Curiosamente, qui il personaggio di Jonathan Shields (Kirk Douglas), con ogni probabilità modellato sulla biografia reale del grande producer indipendente David O. Selznick, ha molti tratti in comune con Dix: ambizione, creatività, rabbia, desiderio di rivalsa sul milieu hollywoodiano, ma anche e soprattutto la medesima difficoltà a stabilire una relazione sentimentale non contrassegnata dalla violenza e dalla manipolazione psicologica. Insomma, sebbene Dix Steele e Jonathan Shields muovano da posizioni professionali opposte (il primo non tollera le restrizioni creative dettate dal suo produttore, mentre il secondo cerca, in tutti i modi, di controllare il lavoro e perfino i sentimenti dei suoi sottoposti), i due personaggi esibiscono problematiche psicologiche davvero affini.
L’immagine di Hollywood come ambiente professionale che esige dei temperamenti particolarmente ossessivi è di antica memoria e di grande forza drammatica. Peraltro, essa non ricorre soltanto nei film ma anche nella letteratura: Gli ultimi fuochi di Francis Scott Fitzgerald, scrittore che non a caso trascorre l’ultima fase della sua vita lavorando infelicemente come sceneggiatore, e Perché corre Sammy? (What Makes Sammy Run?, 1941) di Budd Schulberg, anch’egli sceneggiatore e figlio di un magnate dell’industria, ne sono una buona dimostrazione. Tuttavia, va notato come la figura del produttore spietato non faccia la sua comparsa nel cinema autoreferenziale fino agli anni Cinquanta (nei film degli anni Trenta, come A che prezzo Hollywood ed È nata una stella, i moguls del racconto sono figure pittoresche e bizzarre, ma tutt’altro che sadiche o egocentriche). È solo nel 1952 che Il bruto e la bella inaugura questo genere di caratterizzazione psicologica, che sarà poi ripresa più e più volte nelle opere immediatamente successive. Di nuovo, notiamo come il decennio dei Cinquanta si caratterizzi per una spiccata negatività nel tratteggiare il mondo dell’industria. Le contaminazioni noir in una cornice sostanzialmente melodrammatica, l’atmosfera di soffusa paranoia, la narrazione costruita per flashback che sembra rievocare, sulla falsariga del celebre modello di Quarto potere, il senso di una detection sulle vere ragioni del protagonista, sono solo alcuni dei tanti elementi che contribuiscono all’idea di Hollywood come luogo che distrugge qualsiasi felicità personale in nome dell’ambizione, del successo e del denaro. E tuttavia, il personaggio di Shields, pur nella sua negatività, risulta troppo affascinante, creativo e titanico perché si possa parlare, anche in questo caso, di una completa demistificazione del mondo del cinema.
Siccome gli sceneggiatori erano solitamente indicati come “gli intellettuali di Hollywood” e spesso provenivano da precedenti esperienze nell’ambito della letteratura, del teatro o del giornalismo, non sorprende se la tensione tra desiderio di libertà creativa da parte del singolo e potere schiacciante e indifferenziato dell’apparato economico sia molte volte rappresentata come scontro tra questa categoria professionale e quella dei producers. Talvolta, può accadere anche che a fare le spese del potere debordante dei magnati della Hollywood classica sia il personaggio del regista. A tal proposito, si veda l’esempio di La contessa scalza, dove il regista di talento Harry Dawes (Humphrey Bogart) è costretto a una posizione di sudditanza rispetto al sadico e mediocre Kirk Edwards (Warren Stevens), che si ritrova a capo di una major unicamente per questioni ereditarie. Anche in casi simili il conflitto è solitamente descritto come quello fra un’intelligenza creativa, che ambisce a emancipare la qualità dei progetti in cui è coinvolta, e un atteggiamento invece ottuso, rigido, incapace di riconoscere il vero talento se questo rischia di mettere in discussione la sua autorità.
Un’interessante variazione sul tema - su cui ci si soffermerà più volte tanto nelle pagine dedicate al film di Ray quanto in quelle dedicate al film di Minnelli - è rappresentata da Il grande coltello di Robert Aldrich dove lo scontro si consuma tra Stanley Shriner Hoff (Rod Steiger), tipica figura di tycoon spietato fino al punto di rasentare la malattia mentale, e Charlie Castle, star hollywoodiana stanca di interpretare film mediocri, e desiderosa di tornare all’esperienza del teatro d’impegno politico da cui proviene. Oltre a spostare per una volta l’attenzione dall’immagine della star femminile a quella maschile, e in particolare alla capacità anche del divo maschio di esprimere, attraverso il corpo, un ideale di bellezza ed erotismo (Charlie non è solo una stella ma anche un sex symbol), questo film ci ricorda uno degli aspetti più controversi dell’organizzazione economica dello star system classico. Infatti, come sottolinea Mark Cerisuelo, «il film [di Aldrich] è probabilmente l’unico del filone ad insistere sull’importanza del contratto settennale che legava gli attori alla loro casa di produzione» <119.
[NOTE]
117 Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema Americano 1930-1960, trad. it. Riccardo Duranti, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 15-7. (ed. or. The Inquisition in Hollywood. Politics in Film Community 1930-1960, Doubleday, Garden City, N.Y. 1980).
118 Ivi, p. 19.
119 Marc Cerisuelo, Hollywood a l’ecran. Essai de poétique historique des films: L’exemple des métafilms américains, Presses de la Sorbonne Nouvelle, Paris 2000, p. 287.
Diletta Pavesi, Poisoned Love Letters to the Movies. La contraddittoria rappresentazione di Hollywood nel cinema americano classico (1932-1962), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Ferrara, 2014

venerdì 31 marzo 2023

Sulla genesi del progetto di "2001: Odissea nello spazio"


Nel 1957, Alexander Walker intervista Kubrick nell'appartamento di New York in occasione dell'uscita di "Orizzonti di gloria". In quel momento arriva una consegna di film da visionare. Il critico nota che si tratta di un gruppo di film di fantascienza giapponesi <1. Sette anni dopo, durante un pranzo al Trader Vic's con Roger Caras della Columbia Pictures, Kubrick dichiara la sua intenzione di fare un film sugli extraterrestri. In questo momento il regista non ha ancora uno sceneggiatore ma sta leggendo tutti i principali scrittori di fantascienza. Il 1964 è l'anno di svolta nella carriera artistica e nella vita privata del regista. Anche il suo aspetto esteriore inizia a mutare: in un profilo pubblicato sul «New Yorker», il fisico e giornalista Jeremy Bernstein descrive un Kubrick dall'aspetto bohémien di un baro da crociera o di un poeta rumeno <2. Kubrick e Arthur C. Clarke si incontrano il 23 aprile <3, giorno di apertura della Fiera mondiale di New York, del 1964. Clarke propone al regista "La sentinella" <4, un racconto che aveva scritto per un concorso della Bbc durante le vacanze di Natale del 1948. Kubrick opta per un modo non convenzionale di stendere una sceneggiatura da lui concepita “la forma di scrittura meno comunicativa mai concepita”. Una stesura su carta era indispensabile dal momento che la Mgm si dimostrò interessata al progetto. Il regista propone a Clarke di scrivere insieme un romanzo da cui trarre un copione. La stesura del progetto avviene nella suite 1008 del Chelsea Hotel, al centro di Manhattan, dove lo scrittore prende residenza. Il problema della raffigurazione degli extraterrestri è imminente. Clarke suggerisce a Kubrick di parlare con il giovane scienziato Carl Sagan, astrofisico allo Smithsonian Astrophysical Observatory di Cambridge nel Massacchusetts. Sagan fu invitato da Kubrick a una cena-colloquio nel suo attico; la conversazione fu centrata su quale poteva essere l'aspetto delle creature extraterrestri. Secondo Kubrick la creatura doveva avere sembianze umane, Clarke era contrario. Sagan sconsiglia vivamente qualsiasi tentativo di raffigurare gli alieni. Martedì 23 febbraio 1965 la Mgm, dai suoi uffici al 1540 di Broadway a New York, diffonde un comunicato stampa che annuncia l'intenzione di produrre con Kubrick "Journey Beyond the Stars", un titolo di lavorazione usato per vendere l'idea. Il progetto sarebbe stato realizzato a colori e in Cinerama. Gli interni sarebbero stati girati negli studi Mgm di Londra. Nell'aprile 1965 Tony Masters si trasferisce da New York all'Inghilterra e viene assunto come scenografo. Nella primavera dello stesso anno Kubrick trasferisce la sua unità produttiva presso gli studi Mgm a Boreham Wood, ventiquattro chilometri a nord di Londra. Stanley e Christiane traslocano con tutta la famiglia in un grande appartamento al Dorchester Hotel di Londra. Come era avvenuto per "Lolita" e "Il dottor Stranamore", Kubrick sceglie l'Inghilterra. Grande attenzione è riservata al reparto dei giovani modellisti che, guidati da Wally Veevers - supervisore degli effetti speciali - si occupavano della creazione delle astronavi e dei pianeti. La produzione impiegava centotre modellisti con competenze diverse: Kubrick aveva convocato costruttori di barche, studenti di architettura, disegnatori, scultori, litografi, metallurgici e perfino alcuni intagliatori di avorio appena sbarcati da una baleniera. Ognuno era assunto con brevi contratti a termine e il ricambio era frequente. Per la documentazione Kubrick visiona film sullo spazio prodotti in tutto il mondo, programmi televisivi, cortometraggi, documentari, film realizzati per la Fiera Mondiale, film sperimentali. In questo modo viene scoperto "Universe", un cortometraggio prodotto nel 1960 dal National Film Board of Canada <5 che dimostrava al regista come una macchina da presa poteva diventare un telescopio puntato sui cieli. "Universe" era una produzione della Unit B del Canadian Film Board. Colin Low e Roman Kroitor, da sempre affascinati dalla cosmologia, creano questo progetto, nato cinque anni prima dello Sputnik, come proposta per un film scolastico <6. Kubrick non riesce ad assicurarsi l'intera squadra che aveva creato le immagini per il film - Colin Low, Sidney Goldsmith e Wally Gentleman - ma riesce ad avere quest'ultimo per parecchie settimane di lavoro preliminare salvo dare le dimissioni per motivi di salute. I collaboratori responsabili per gli effetti speciali di "2001" sono stati: Wally Veevers, Douglas Trumbull <ll7, Con Pederson e Tom Howard. È importante ricordare alcune date che segnano le tappe fondamentali per l'evoluzione iconografica del progetto. Il 28 maggio 1964 Clarke suggerisce a Kubrick l'idea che “they” - gli extraterrestri - potrebbero essere macchine che considerano la vita organica come una malattia orribile <8. Stanley accetta favorevolmente l'idea e la considera la base per ulteriori sviluppi narrativi. Il rapporto macchine/esseri organici sembra trovare proprio qui l'origine dell'interesse che Kubrick svilupperà pienamente con il progetto per "A.I.". Tre giorni dopo Clarke annota un'idea, di cui non è specificata la paternità, che poi viene scartata: diciassette alieni - piramidi nere - guidano auto cabrio lungo la Fifth Avenue circondati da poliziotti irlandesi. Questa densa iconografia rimanda a tre elementi importanti: la scorribanda in auto, New York e i poliziotti irlandesi. In "Arancia meccanica" e in "A.I." si ripresenta l'immagine di folli corse in automobile (e in motocicletta per i bikers di A.I.). La Fifth Avenue è un esplicito richiamo a New York, città amata dal regista e scelta come set per "Il bacio dell’assassino", "Eyes Wide Shut" e "A.I." l'avere specificato “poliziotti irlandesi” è un possibile riferimento alla New York degli anni 1945-1950 e al servizio fotografico scattato per la rivista «Look» del 27 settembre 1949 intitolato “Paddy Wagon”. “Paddy” è un soprannome irlandese che trae origine dal gaelico Pádraic, o Partick. Dato che la maggior parte dei poliziotti di New York aveva origini irlandesi, lo stesso nome, in modo un po' sprezzante, era stato utilizzato per etichettare il cellulare, il mezzo adibito al trasporto degli arrestati. Il 6 agosto Stanley decide che il computer sarà un femmina e porterà il nome di Athena. Il 17 ottobre Stanley ha la bizzarra idea - secondo Clarke - di “slightly fag robots” che creano un'ambiente vittoriano per mettere i protagonisti della storia a loro agio. Per il giorno di Natale del 1964 il romanzo era quasi terminato. In realtà è più opportuno parlare di una bozza che copriva i due terzi dell'intero sviluppo narrativo e che terminava proprio nel punto di massima suspense: Bowman alle soglie dello Star Gate senza sapere cosa sarebbe accaduto dopo se non in termini estremamente generali. L'8 marzo Clarke annota nel suo diario: "Fighting hard to stop Stan from bringing Dr. Poole back from the dead. I'm afraid his obsession with immortality has overcome his artistic instincts" <9. La dichiarazione di Clarke conferma che gli interessi di Kubrick circa il rapporto esseri umani/computer, mortalità e immortalità hanno origine in questi anni dedicati a letture e studi di scienza, astronomia, antropologia e fantascienza. Il 2 maggio Clarke termina il capitolo intitolato “Universe” per il quale il regista gli comunica approvazione in special modo per la sequenza “Floating Island”. Si noti come “Universe” sia un termine ricorrente nella fase di pre-produzione del progetto. L'influenza del film canadese è rintracciabile anche tra gli altri titoli pensati in alternativa a quello comunicato dalla stampa <10: "Universe", "Tunnel to the Stars" e "Planetfall" <11. Un'altra “Floating Island” molto amata dal regista compare nei disegni di Chris Baker per "A.I.", in specifico per il progetto dell'istituto di cariogenesi. Nel settembre 1965 Kubrick decide che la missione della Discovery non doveva andare su Giove ma su Saturno per sfruttare le possibilità visive degli anelli del pianeta. I tre mesi di preparazione per il progetto su Giove sembrano tempo e denaro sprecato ma presto il regista indirizza nuovamente la Discovery verso Giove insoddisfatto della resa su pellicola degli effetti speciali per la visualizzazione degli anelli. Clarke decide, il 25 agosto 1965, che il romanzo deve terminare con Bowman in piedi accanto a un'astronave aliena ma Kubrick non è soddisfatto. Solo in ottobre Stanley si concentra sul problema del finale. Il 3 ottobre Clarke, al telefono con Kubrick, gli propone Bowman che regredisce all'infanzia: “Lo vedremo come un bambino in orbita” <12. Il 15 ottobre Stanley decide di liberarsi di tutto l'equipaggio ad eccezione di Bowman <13. Il 18 novembre Clarke si reca al cinema a Londra e annota poche righe che, nella loro essenzialità, danno una spiegazione all'intero progetto: "Feeling rather stale - went into London and saw Carol Reed's film about Michelangelo,'The Agony and the Ecstasy'. One line particularly struck me - the use of the phrase: “God made Man in His own image”. This, after all, is the theme of our movie" <14.
Il 26 dicembre 1965 Kubrick dichiara di non amare il dialogo, trova il copione verboso e vuole che "2001" si basi più su immagini e suono che sulle parole. Il canadese Douglas Rain, già voce narrante di "Universe", era stato preso per la narrazione prevista dalla prima versione del copione, quella che Kubrick aveva chiesto a Clarke di scrivere per la sequenza che apriva il film, “l'alba dell'uomo”. Il testo viene poi eliminato e l'attore ha il compito di dare voce ad Hal. L'animazione dei modellini, affidata alla supervisione di Harry Lange che traduceva i suoi disegni in prototipi, e la sua visualizzazione su pellicola sono assimilabili alla metodologia artistica dell'artista americano contemporaneo Bill Viola. Per ottenere la giusta profondità di campo, in modo da creare l'illusione di un'astronave a grandezza naturale, il diaframma dell'obiettivo doveva essere aperto al massimo; affinchè le parti mobili dei modellini si muovessero in modo fluido, i motori che guidavano i meccanismi erano regolati al minimo, in modo che il movimento creato fotogramma per fotogramma fosse impercettibile. Kubrick racconta a Herb Lightman di «American Cinematographer»:
"Era come guardare la lancetta delle ore di un orologio. Abbiamo girato la maggior parte di queste scene usando esposizioni lente di quattro secondi a fotogramma, e se stavi sul set non vedevi nulla in movimento. Anche la gigantesca stazione spaziale, che sullo schermo ruotava a una discreta velocità, sembrava immobile durante le riprese delle scene. Per alcune inquadrature, come quelle in cui sulle astronavi si aprivano o chiudevano delle porte, un movimento di dieci centimetri richiedeva cinque ore di riprese. Non era possibile notare un movimento irregolare, se c'era qualche irregolarità, fino a quando non si vedeva la scena sullo schermo, e anche gli ingegneri non potevano mai essere sicuri circa il punto esatto dove l'irregolarità si fosse prodotta. Questo tipo di cosa implicava infiniti tentativi ed errori, ma i risultati finali sono un tributo alla grande precisione dell'officina meccanica della Mgm inglese" <15.
Il Natale del 1965 viene ricordato da Clarke come un periodo di intenso lavoro. L'immenso set del TMA1, contenente il monolito trovato sulla Luna, è stato allestito negli Shepperton Studios a sud-est di Londra. Stanley aveva solo pochi giorni per girare dato che la prima settimana del nuovo anno un'altra produzione avrebbe occupato lo studio. Il monolito occupa molte righe nei ricordi di Clarke per la difficoltà nella sua concezione, per la costruzione e l'adeguata illuminazione e tecnica fotografica: "My diary records that first day in some detail: December 29, 1965. The TMA 1 set is huge - the stage is the second largest in Europe, and very impressive. A 150 x 50 20-foot hole, with equipment scattered around it. ( E.g. neat little electric-powered excavators, bulldozers, etc. which could really work on the Moon!). About a hundred technicians were milling around. I spent some time with Stanley, reworking the script - in fact we continued through lunch together. I also met the actors, and felt quite the proper expert when they started asking me astronomical questions. I stayed until 4 p.m. - no actual shooting by then, but they were getting near it. The spacesuits, back packs, etc. are beautifully done, and TMA 1 is quite impressive - though someone had smeared the black finish and Stanley went on a rampage when I pointed it out to him".
[NOTE]
1 Vincent Lo Brutto, Stanley Kubrick. L’uomo dietro la leggenda, Il Castoro, Milano, 2009, p. 268.
2 Ivi, p. 270.
3 Si incontrano al Trader Vic's, popolare bar del Plaza Hotel.
4 Il racconto non vince premi. Scott Meredith lo vende alla rivista «Ten Story Fantasy» che lo pubblica nel 1951 con il titolo originale Sentinel of Eternity.
5 “È risaputo che Kubrick conosceva la produzione dell'ONF e dopo avere visto Very Nice, Very Nice, aveva chiesto a Arthur Lipsett di realizzare il cartellone pubblicitario de Il dottor Stranamore. Meno noto invece, il fatto che il regista avesse intravisto la possibilità di realizzare il suo capolavoro negli studi dell'Office a Saint-Laurent. In un'intervista rilasciata a Marc Glassman e Wyndham Wise, pubblicata la scorsa primavera sulla rivista «Take One», Colin Low, figura storica dell'ONF, racconta del suo incontro con Kubrick a New York. Aveva visto Universe, il celebre documentario sul sistema solare realizzato da Low e Roman Kroitor. Kubrick rimane impressionato dagli effetti speciali realizzati nel cortometraggio e vuole saperne di più in previsione del progetto che stava portando avanti con Clarke. Kubrick dichiara a Low: "Non ho intenzione di fare questo film a Hollywood. Potrei farlo in Inghilterra ma non è ciò che desidero davvero. Cosa ne pensate dell'idea di produrlo all'ONF?" Low risponde che l'ONF non aveva mai portato avanti progetti di quel calibro ma che si sarebbe potuto fare. Tornato a Montreal, Colin Low cerca di convincere Grant McLean, l'allora direttore di produzione, ad accettare la sfida. McLean raffredda gli entusiasmi di Low:"il lungometraggio di fiction non è di nostra competenza. Inoltre costerà un occhio della testa". Kubrick ingaggia Wally Gentleman, uno degli specialisti di effetti speciali dell'ONF e tenta di coinvolgere Sydney Goldsmith che preferisce rimanere a Montreal. Il resto è storia”, traduzione dal francese, Marcel Jean, ‘2001: A Space Odyssey’ aurait pu être un film de l’ONF, «24 images», n.100, inverno 2000, p. 43.
6 Si noti ancora una volta come Kubrick tragga ispirazione da forme artistiche che creano progetti specifici per la didattica: per il Napoleon è stata analizzata a fondo l'opera di “Job” e i suoi rapporti con i programmi educativi della scuola nella prima metà del Novecento.
7 Il membro più giovane del gruppo, Douglas Trumbull era un americano di ventitré anni. La sua formazione di architetto si arresta quando la Graphic Films Corporation di Hollywood vede il suo portfolio di illustrazioni spaziali e lo assume a capo del settore sfondi. Dopo Lifeline in Space per la Usaf e Space in Perspective per la Nasa, Kubrick scopre il suo nome nei titoli di To the Moon and Beyond, un film in Cinerama 360 prodotto per la Fiera Mondiale del 1964 e attraverso la Graphic Films gli commissiona alcuni disegni di sfondo; Kubrick gli assegna il compito di risolvere alcune delle principali difficoltà di 2001, inclusa la sequenza della Porta delle Stelle che conclude il film.
8 Arthur C. Clarke, The Lost Words of 2001, Sidgwick and Jackson Limited, London, 1972, p. 32.
9 Arthur C. Clarke, The Lost Words of 2001, op. cit., p. 36.
10 Journey Beyond the Stars.
11 Arthur C. Clarke, op. cit., p. 32.
12 Vincent Lo Brutto, op. cit., p.287. Kubrick a Jerome Agel: “Il finale fu alterato poco prima di girare. Nell'originale non c'era la trasformazione di Bowmann. Egli si limitava a girare per la stanza e alla fine vedeva l'oggetto. Ma non ci sembrava una soluzione abbastanza soddisfacente o interessante, e continuammo a cercare nuove idee, finchè ci venne in mente il finale che conoscete”.
13 Douglas Trumbull dichiara che la paternità dell'idea è sua: “[…] At an early stage, all the astronauts were to make it to the room in the penultimate scene. I told Stanley to kill all except Bowman, and he told me I was ridiculously stupid”, Stephanie Schwam (selected by), The Making of 2001: A Space Odyssey, Modern Library, 2000, p. 134.
14 Arthur C. Clarke, op. cit., p. 39.
15 Vincent Lo Brutto, op. cit., p. 292. 

Laura Matiz, Stanley Kubrick e le Arti visive. Da 2001: Odissea nello spazio a Eyes Wide Shut, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Ferrara, 2009

giovedì 19 gennaio 2023

Meridiano d’Italia si compiace di descrivere un Visconti furioso che abbandona immantinente Venezia


All’uscita di "Ossessione" (1942) Visconti raccolse con cura le recensioni in due album suddividendole tra favorevoli e contrarie. Tra di esse, ve n’erano fatalmente molte provenienti da giornali allineati al regime e capaci persino di invocare «legnate» <1 per il regista di quella che venne accolta come un’opera di esemplare degenerazione. In seguito Visconti prese a ostentare disinteresse per la critica, fatta eccezione per alcuni recensori con cui intratteneva rapporti personali, e certamente non ha continuato a occuparsi di quella d’estrema destra. Non è però vero il contrario: il regista è stato infatti per molti anni un bersaglio di questa stampa, tanto da stabilire un poco invidiabile primato eguagliato solo da Pier Paolo Pasolini.
È possibile persino seguire il migrare di questi suoi oppositori (critici anzitutto, ma anche scrittori, giornalisti e burocrati) dal regime alla Repubblica.
Lo scrittore Marco Ramperti, ad esempio, che nel 1944 attacca «quello sporco rigagnolo» <2 che è per lui "Ossessione", diverrà il più sguaiato dei corsivisti di “Meridiano d’Italia”; Adriano Baracco, che l’anno prima su “Film” aveva apprezzato l’esordio di Visconti ma insinuava sul modo in cui Clara Calamai era «tenuta un po’ in secondo piano da una regia banchettante con esagerato compiacimento sui muscoli di Girotti» <3, sotto lo pseudonimo Ugo Astolfo diverrà il critico cinematografico dello “Specchio”.
“Candido” (1945-1961), “Meridiano d’Italia” (1946-1962), “Il Borghese” (1950-1994) e “lo Specchio” (1958-1975), su cui concentreremo l’attenzione, sono solo quattro delle testate che nel dopoguerra raccolgono le spoglie della cultura di destra transitata dal regime <4. Le differenze che le separano non sono trascurabili, soprattutto nel rapporto che intrattengono con il ventennio, variabile tra la nostalgia dichiarata e l’atteggiamento più prudente di una destra «non più fascista ma nello stesso tempo estranea all’antifascismo» <5. Ma queste differenze, così come le vicissitudini interne delle singole testate, non impediscono loro di riflettere nell’insieme un immaginario coerente, fondato - nella sintesi di Germinario - sull’avversione per l’antifascismo, per la modernità, per la Repubblica e per il comunismo <6. Una consonanza, come vedremo, riscontrabile anche nell’atteggiamento assunto da questi giornali nei confronti di Visconti.
[...] non sorprende che "Senso" (1954) venga criticato per la sua rilettura gramsciana del Risorgimento. Sorprende semmai la pacatezza dei toni <7, ancora lontani dall’aggressività di cui i rotocalchi dell’estrema destra daranno prova in seguito, ad esempio quando Baracco definirà "Senso" «uno stupendo vassoio con sopra una carogna in putrefazione» <8. Anche nel caso di “Meridiano”, benché i suoi recensori siano sempre suscettibili quando la guerra è coinvolta o anche solo evocata in metafora, le espressioni salaci sono per ora riservate al neorealismo, con i suoi soggetti «trovati nelle pattumiere e nelle fogne dei suburbi» <9, i suoi «vergognosi e menzogneri miti della “liberazione”» <10, i suoi «concimi merdosi» <11. Visconti invece non provoca ancora insofferenza e in questi anni non è fatto oggetto di attenzioni privilegiate, come del resto non lo è lo spettacolo in generale: composto di sole quattro pagine fino al 1950, “Meridiano d’Italia” si occupa quasi esclusivamente di politica e di storia recente. Per il primo pezzo polemico sul cinema occorre aspettare il 1951, così come per la prima rubrica di recensioni <12, la cui attenzione si sposta presto dal cinema al teatro.
[...] Per il resto, "La terra trema" (1948) è appena citato in una serie di articoli dedicati a ricostruire il modo in cui i comunisti, non potendo fare aperta propaganda senza perdere l’appoggio del pubblico, preferirebbero mimetizzarsi con apporti di sceneggiatura e regia apparentemente privi di risvolti politici <14, mentre "Le notti bianche" (1957) riscuote misurati apprezzamenti, al punto che si esprime l’augurio che Visconti trovi i soldi per fare un nuovo film nonostante la crisi <15.
Alla fine del decennio però qualcosa cambia irreversibilmente il rapporto con Visconti. Annunciando la lavorazione di "Rocco e i suoi fratelli" (1960), il giornale si concede un primo affondo, ancora misurato: «[…] senza nulla togliere al merito di Luchino Visconti, perché questo regista va sempre in cerca di soggetti che han sempre da farsi perdonare qualcosa dalla vita?» <16. A settembre si colloca orgogliosamente fuori dal coro approvando la scelta della giuria di Venezia: nell’oltraggio generale di chi ritiene sopravvalutato "Le passage du Rhin" (Il passaggio del Reno) anche quando non si voglia compromettere con un appoggio esplicito a Visconti, “Meridiano d’Italia” difende il film di André Cayatte dalle accuse di essere «“fascista” o “nazista” […] per il semplice fatto che i personaggi tedeschi non sono dipinti con la solita tavolozza conformista del dopoguerra, come gente bieca, selvaggia, truce e bestiale; ma hanno caratteristiche umane come tutti gli altri», e di conseguenza si compiace di descrivere un Visconti furioso che abbandona immantinente Venezia <17. A distanza di qualche settimana prende inoltre posizione a favore dell’intervento della magistratura e quindi dell’oscuramento in proiezione dei punti ritenuti scabrosi: di fronte alla «sinistra sporca» e a coloro i quali «dovendo fare del teatro o del cinema ricorrono, per fare presa sul pubblico o per dar sfogo ai loro istinti, alle oscenità di ogni genere», “Meridiano” è persino disposto, con malcelato sforzo, a dichiarare che «si può dare ragione anche al Governo Fanfani» e a una censura addirittura «coraggiosa» <18.
Sin qui le ragioni della polemica sembrano legate nuovamente alle modalità di rappresentazione della guerra e a generiche questioni di moralità che coinvolgono sì Visconti, ma accanto a Fellini e a tutta una schiera di imitatori che stanno accelerando il processo di erotizzazione della cinematografia italiana.
Una virata fortemente sentita se il giornale arriva ad avallare l’operato di una DC che ha appena chiuso le porte al MSI dopo il disastroso naufragio di Tambroni. Se infatti la difesa di un film accusato di fascismo si accorda pienamente con la linea editoriale della rivista, l’anticomunismo (su questa come su tutte le riviste che andiamo considerando) si accompagna di solito ad altrettanta diffidenza nei confronti del partito di maggioranza relativa, soprattutto perché reo di rinnegare i trascorsi fascisti di molti suoi rappresentanti.
Nemmeno la posizione sulla censura può dirsi scontata se si considera come sia più diffusa nell’ultradestra la tesi della sua sostanziale inutilità, o peggio di una sua esizialità (perché fonte di pubblicità) rispetto alla quale si preferirà dare appoggio alla magistratura. La svolta va posta sullo sfondo della trasformazione radicale subita da “Meridiano” nel 1959 quando, conclusa la pubblicazione di una biografia a puntate di Mussolini che ne aveva monopolizzato le pagine per quasi due anni, adotta il modello del rotocalco e si apre ad argomenti variegati. Occorre inoltre tenere presente come "Rocco e i suoi fratelli" inneschi una reazione a partire da contenuti oggettivamente provocatori, aggravati dallo sfruttamento ideologico del film fatto da una sinistra incurante di deformarne in parte il senso. Visconti può infatti ora tornare a forme e contenuti che aveva già fatto affiorare nei suoi esordi sia cinematografici sia teatrali (aggirando la censura fascista e approfittando della sua temporanea abolizione nell’immediato dopoguerra) e che erano stati poi inibiti dalla censura restaurata da Andreotti (tanto a teatro quanto al cinema), come accade con l’affossamento di tutti gli adattamenti di Tennessee Williams progettati da Visconti tra il 1954 e il 1957 <19.
Tuttavia queste considerazioni non bastano a comprendere la portata del mutamento e il motivo per cui si instaura una campagna stampa che non muterà toni e contenuti di fronte a più innocui lavori successivi e che coinvolge tutta la stampa di destra, al di là del caso specifico dell’organo del MSI. Occorre dunque guardare a un quadro più ampio, di cui cinema e teatro sono parte integrante ma non costituiscono la totalità.
[NOTE]
1 L.L., Ossessione... di brutti film, in: “Italia Giovane”, 19 giugno 1943. I due album sono conservati presso la Fondazione Istituto Gramsci di Roma, Fondo Visconti, serie 7, unità 10, sottofascicoli 16 e 41.
2 M. Ramperti, Incontri e letture, in: “Stampa Sera”, 6 maggio 1944.
3 A. Baracco, Dalle zero alle 24, in: “Film”, a. VI, n. 23, 5 giugno 1943, p. 5.
4 Cfr. M.B. Sentieri, Dal neofascismo alla nuova destra. Le riviste 1944-1994, Roma, Nuove Idee, 2007.
5 R. Liucci, L’Italia borghese di Longanesi. Giornalismo politica e costume negli anni ’50, Venezia, Marsilio, 2002, p. 194.
6 Cfr. F. Germinario, Da Salò al governo. Immaginario e cultura politica della destra italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 2005. È altresì significativo che vi siano firme comuni a diverse redazioni: ad esempio, le differenze tra “Candido” e “Il Borghese”, pur rilevanti, non impediscono a Giovannino Guareschi di collaborare con quest’ultimo quando il suo giornale viene chiuso.
7 Cfr. Mario Monti, Senso, in: “Il Borghese”, 4 febbraio 1955, e Marco Monti, Dalle cannonate di Custoza ai carri di El Alamein, in: “Meridiano d’Italia”, 13 febbraio 1955.
8 U. Astolfo, Le stelle putrefatte, in: “lo Specchio”, 3 ottobre 1965, p. 31.
9 L. Jocca, Decima Musa, in: “Meridiano d’Italia”, 2 marzo 1952, p. 3.
10 E. Canevari, Cinema italiano, in: “Meridiano d’Italia”, 26 ottobre 1952, p. 3.
11 M. Ramperti, Crollo d’un baraccone, in: “Meridiano d’Italia”, 26 settembre 1954, p. 3.
12 In precedenza compaiono solo, nel 1946, la rubrica “Tra le quinte dello spettacolo” (dedicata ad aneddoti e folclore popolare legato a cinema e teatro, ma non a un vero e proprio esercizio critico) e, nel 1949, una serie di articoli in cui Ramperti rievoca la sua esperienza del cinema in lavorazione a Salò.
14 Cfr. A. Bolzoni, Falliscono i film comunisti, in: “Meridiano d’Italia”, 14 febbraio 1954.
15 Cfr. A. Bolzoni, Cinema, in: “Meridiano d’Italia”, 11 febbraio 1958.
16 A. Desmain, Rocco, il cocco di Luchino, in: “Meridiano d’Italia”, 24 aprile 1960, p. 11.
17 N. Frati, È caduto il festival dell’“apertura”, in: “Meridiano d’Italia”, 18 settembre 1960, p. 29.
18 Cfr. s.n., L’equivoca Arialda, in: “Meridiano d’Italia”, 27 novembre 1960, p. 34. Cfr. anche XYZ, L’offensiva dei pornografi, in: “Meridiano d’Italia”, 4 dicembre 1960.
19 Cfr. M. Giori, Poetica e prassi della trasgressione in Luchino Visconti. 1935-1962, Milano, Libraccio, 2011, pp. 186-188. Sui rapporti tra Visconti e il teatro di Tennesse Williams si veda ora A. Clericuzio, Tennessee Williams and Italy. A Transcultural Perspective, London, Palgrave, 2016
Mauro Giori, Alla corte di Re Luchino. Visconti visto dalla stampa dell’estrema destra laica in (a cura di) Massimo De Grassi, "Luchino Visconti oggi: il valore di un’eredità artistica", Trieste EUT Edizioni Università di Trieste, 2020, pp. 85-116

sabato 19 novembre 2022

L’affermazione della "Settimana Incom" giunse in un periodo di grande espansione del cinema in Italia


Il primo numero della "Settimana Incom" uscì il 15 febbraio del 1946. Chi lo mise in piedi non poteva sapere che il cinegiornale sarebbe andato avanti sino al n. 2554 del 1965.
La Industria Corto Metraggi, con sede a Roma in via Bellini 27, dopo una pausa di quasi tre anni, tornò sul mercato con un prodotto nuovo <45. Se in epoca fascista, come sappiamo, il regime aveva riservato all'Istituto Luce il settore dei film d'attualità, lasciando alla Incom e agli altri privati uno spazio di produzione solo nell'ambito del documentario, nel dopoguerra il vincolo cadde <46 e il direttore, che era sempre Sandro Pallavicini, decise di puntare sul cinegiornale per rilanciare la società <47.
Ad agevolare l'iniziativa privata, giungeva l'articolo 8 del decreto luogotenenziale n. 678 del 5 settembre 1945, che garantiva al cinegiornale il rimborso dei diritti erariali per il 3 per cento dell'introito lordo sugli spettacoli cui il breve filmato era abbinato. Il passaggio dal regime fascista al periodo di transizione fino alla repubblica, non danneggiò Pallavicini, anzi, con la fine della guerra, il potere del direttore crebbe. Egli intratteneva ottimi rapporti con i nuovi alleati d'oltreoceano, non tanto per motivi di parentela <48, che seppe peraltro certamente sfruttare, quanto per la sua capacità di presentarsi come l'artefice di un nuovo tipo di informazione. Pur facendo tesoro dell'esperienza maturata sotto il fascismo, Pallavicini sposò la causa dell'antifascismo e della difesa della democrazia come se fossero sempre stati i suoi valori fondanti. Il nuovo successo della Incom fu il risultato di una serie di fattori: in primo luogo, come vedremo, lo smaccato filo-atlantismo, evidente sin dal primo numero; in secondo luogo, la capacità di farsi espressione di quella parte politica del paese che già si intuiva dominante; in terzo luogo, lo stile «disinvolto, un po' superficiale ma spettacolarmente vivace» <49 che affondava le radici nelle produzioni realizzate sotto il regime; infine, un'aggressiva campagna di distribuzione, che si avvalse di una serie di concorsi a premi <50, appetibili al pubblico e, di conseguenza, agli esercenti.
La società riuscì ad occupare quasi per intero lo spazio di mercato dei cinegiornali, nonostante il decreto luogotenenziale del 1945 aprisse le sale italiane anche all'invasione straniera. «Negli anni che seguono, accadde un fatto abbastanza insolito - almeno non registrato negli altri paesi, Stati Uniti compresi -, che solo in parte è da imputare alla mancanza di informazione visiva libera del pubblico italiano durante il periodo fascista. Ci sono anche fattori di interesse, economici e politici insieme, che portano ad una vera e propria invasione delle testate di cinegiornali, molti dei quali però vivono per breve tempo» <51. Nella seconda metà degli anni '40 uscirono in Italia 9 cinegiornali, soprattutto edizioni nazionali di prodotti inglesi e statunitensi <52: "Notizie da tutto il mondo" della Eagle Lion, "Notizie del giorno" della M.G.M., "Fox Movietone" della 20th Century Fox, "Colpi d'obbiettivo" sul mondo della Paramount, "Universal News" della Universal, che diventerà poi "Film Giornale Universale" realizzato su commissione dalla Sedi. E' invece lo sport il tema di fondo di uno dei primi cinegiornali interamente “made in Italy” del dopoguerra: "Cinesport", edito dalla Compagnia Italiana Attualità Cinematografiche, dal 1945 fu prima quindicinale, per i primi tre anni, poi settimanale. Nel 1944 erano usciti tre numeri di "Attualcine", con il titolo di "Giro d'Orizzonte", in una Venezia appena liberata: erano dedicati all'insurrezione di Venezia, alla liberazione della città e alla manifestazione del primo maggio <53. Del 26 luglio 1945 è il primo numero del "Notiziario Nuova Luce", realizzato dall'Istituto Luce, che aveva cambiato denominazione in “Istituto Nazionale Nuova Luce”: i suoi cinegiornali andarono avanti per 22 numeri sino al 1947, quando il governo decise di fermarne la produzione <54.
Nonostante i numerosi concorrenti, la "Settimana Incom" riuscì a conquistarsi progressivamente un posto di primo piano. Lo staff della società <55 era rimasto pressoché invariato dai tempi del Ventennio: Sandro Pallavicini ne era ancora, come abbiamo visto, il direttore; Alfonso Cedraschi, altro membro della ricca famiglia di imprenditori italo-svizzeri, prese il posto del fratello Erminio come consigliere delegato; Domenico Paolella <56, che era stato uno dei registi, divenne redattore capo, e, dopo il 1948, direttore artistico; Guido Notari <57, una delle voci fuori campo dei documentari di epoca fascista, fu nel dopoguerra “la voce” della "Settimana Incom". Figura del tutto nuova era, invece, Giacomo Debenedetti <58, intellettuale di estrazione comunista, chiamato personalmente da Pallavicini a scrivere i testi dei cinegiornali. Debenedetti svolse questo compito per dieci anni e, almeno sino al 1950, fu l'unica attività retribuita dell'intellettuale. Questa informazione è importante, perché configura la sua collaborazione, che non risulta da nessun contratto e che non fu mai pubblicamente dichiarata nè da Debenedetti né dalla Incom <59, come un lavoro dettato dalle necessità della sopravvivenza, e contribuisce a spiegare l'adattamento del fine uomo di cultura allo stile superficiale e propagandistico del cinegiornale <60.
Le preziose dichiarazioni di Paolella chiariscono le modalità attraverso le quali avveniva la ricerca del compromesso all'interno della redazione: «Per cominciare, d'accordo con Pallavicini, io avevo fatto una redazione politicamente composita, in cui eravamo rappresentati un po' tutti. I commenti parlati, che sono un po' la chiave dei cinegiornali, li faceva Giacomo Debenedetti, grandissimo saggista, un comunista col quale ho avuto dimestichezza per cinque anni. Tra i redattori c'era un socialista e uno dell'Uomo Qualunque, che allora era un gruppo politico importante. Pallavicini era un po' al disopra e al di fuori, e naturalmente l'indirizzo lo dava lui, ma non poteva evitare che i collaboratori esprimessero un certo tipo di opinioni.» <61
Le indicazioni venivano date a Debenedetti anche in fase di preparazione del servizio, nel momento in cui si visionavano le immagini <62. A guidare la realizzazione del cinegiornale era l'idea che l'immagine e il commento dovessero procedere in sincronia: «La perfetta armonia di parlato e immagine resta una delle caratteristiche della Incom e una delle ragioni del successo» <63. L'impostazione data era di carattere giornalistico, con un occhio ai rotocalchi: La "Settimana Incom" proponeva cronache politiche, servizi sulla ricostruzione e sulle relazioni con gli americani, curiosità italiane e dal mondo, interviste a uomini politici, filmati sulle tradizioni religiose locali, cronache sportive e rubriche di moda. I filmati dovevano avere una lunghezza standard <64, e le inquadrature e il montaggio richiedevano la massima cura. Anche l'organizzazione interna ricalcava quella di un quotidiano a stampa <65: una volta ricevuta, dall'Ufficio Informazioni, la segnalazione di una serie di appuntamenti, questi venivano selezionati dal capo redattore, in accordo col regista che effettuava un sopralluogo. L'ufficio lavorazione organizzava la troupe <66, indicando circostanze, luoghi e persone da filmare, per poter procedere con la stesura del commento. Presso lo stabilimento sviluppo e stampa, che si occupava anche della catalogazione, venivano individuati i temi che potevano essere interessanti per l'esportazione all'estero <67.
«Avevamo adottato un certo tipo di comportamento verso le richieste di riprese che tutti ci facevano. È chiaro che i nostri telefoni erano bombardati dai partiti, dalle industrie, perché tutti ci volevano, e il problema era di convincerli che solo i grossi avvenimenti nazionali avevano senso, e non i tagli dei nastri. Ci avvalevamo di una serie di registi-giornalisti un po' in tutta Italia, una rete che avevo messo su perché funzionasse non solo in rapporto alla cronaca, ma anche rispetto agli avvenimenti politici importanti, e mi pare di aver reso in sostanza uno specchio veritiero dell'Italia di allora, con tutto quello che di difettoso c'era.» <68
L'affermazione della "Settimana Incom" <69 giunse in un periodo di grande espansione del cinema in Italia: nel '48 il numero delle sale era quasi il doppio rispetto a dieci anni prima e i biglietti venduti erano saliti del 75%. Nel settore dello spettacolo, il cinema non lasciava spazio ad alcun altro tipo di intrattenimento: nel 1949 su 70 miliardi incassati dagli spettacoli, il grande schermo se ne era aggiudicati 54. Dopo appena tre anni dalla fine della guerra, in Italia si contavano 6500 sale private e oltre 5000 sale parrocchiali. La crisi della guerra che aveva portato distruzione anche nel mondo del cinema era in via di superamento.
Nel 1948 la fisionomia della Incom si definì ulteriormente con l'ingresso di Teresio Guglielmone, in qualità di Presidente. Personaggio chiave della Dc, il finanziere piemontese diventò senatore con le elezioni del 18 aprile 1948, dotando la Incom di un potente sostegno politico <70. Parallelamente, il controllo sulla società da parte di Guglielmone garantì alla Democrazia Cristiana un efficace strumento di propaganda. «Il successo della Incom fu capillare e straordinario. E della Incom cominciò a interessarsi la Democrazia Cristiana, nella persona del senatore Guglielmone, che non so se da sé o attraverso comitati diversi, riuscì ad avere, proprio nel '48, il 51% delle azioni della società. Naturalmente le cose cambiarono, anche se, debbo dire, con una certa gradualità. […] A poco a poco però il cinegiornale peggiorò. Cominciarono a entrarci i tagli dei nastri […]» <71.
Il filo-atlantismo della Incom, portato quasi all'esasperazione, come vedremo, nei primi mesi del 1948, e che si esercitava anche attraverso l'utilizzo di materiali forniti direttamente dagli americani, che esaltavano gli effetti del sostegno statunitense sullo sviluppo economico italiano, valse a Pallavicini il plauso del rappresentante Usa a Roma, e qualcosa di più: «Già all'indomani della vittoria elettorale del 1948 egli si presenta agli americani per riscuotere i suoi crediti. L'ambasciatore americano a Roma, in una lettera del 27 aprile del 1948 al Dipartimento di stato, ne sottolinea caldamente i meriti filoamericano e sollecita da parte del governo, aiuti più continui e sostanziosi e soprattutto filtrati da canali governativi» <72. Il sostegno politico della Dc e quello finanziario degli americani garantirono alla società Incom il dominio incontrastato per quasi vent'anni. Soltanto l'affinamento dell'informazione televisiva, che era in grado di proporre uno stile giornalistico con il quale la vecchia formula del cinegiornale non poteva competere, decretò il tramonto della società Incom: <73 «La cultura della transizione al capitalismo dei consumi non poteva accontentarsi della formula dello stereotipo. La televisione fu la grande innovazione tecnologica in grado di coniugare valori morali, innovazione formale e modernità, lasciando al giornalismo rosa dei rotocalchi popolari la
parte più effimera e “luccicosa” che era stata propria dell'offerta dei cinegiornali, e appropriandosi, con ben altra consapevolezza, nel bene e nel male, di quel segmento dell'informazione sociale e politica sul quale si sarebbero giocati i destini del paese.» <74
[NOTE]
45 «L'aggettivo “nuovo” è la foglia di fico che consente di conciliare capra e cavoli, tradizione e cambiamento. Guardiamo i giornali. Solo in rarissimi casi si cambia la testata radicalmente […] Ma ancor più minuscolo e irriconoscibile è il travestimento quando la testata rimane proprio la stessa e si aggiunge sopra o sotto l'aggettivo “nuovo”. È quel che accade all'Istituto Nazionale Luce ritinteggiato appena nell'insegna che ora è Istituto Nazionale Luce Nuova.», E.G. Laura, op. cit., p. 235. La Incom, dal canto suo, non cambiò neanche la propria sigla.
46 Dopo la liberazione di Roma si era costituito il Film Board, una sorta di commissione tra alleati occupanti e italiani, che si riunì per decidere il destino del cinema in Italia. Il Board si componeva di 5 membri rappresentanti i vari interessi in gioco: l'ammiraglio americano Stone, a presiedere la commissione, Pilade Levi, in rappresentanza dell'esercito americano, Stephen Pallos, di quello britannico, Alfredo Guarini, come rappresentante dei lavoratori dello spettacolo, Alfredo Proia, a tutelare gli interessi degli industriali del cinema. All'interno del Board i tentativi statunitensi di ridurre ai minimi termini il cinema italiano, considerato troppo compromesso con il fascismo, trovarono un argine nelle posizioni del rappresentante britannico, che aveva interesse a contenere l'influenza statunitense, spalleggiato da Guarini. Nel 1945, in sede di Commissione paritetica sulla cinematografia, istituita dal governo provvisorio, fu messo insieme un progetto di legge che garantiva l'obbligatorietà per 84 giorni all'anno del film italiano nei cinematografi italiani, ma, in sede di Consiglio dei ministri, al posto della legge preparata dalla Commissione paritetica, venne fuori il decreto n. 678, che escludeva il contingentamento. Il Board, nella persona dell'ammiraglio Stone, aveva fatto pressione sul governo affinché venisse approvata una legge che, accanto al sostegno ai produttori cinematografici, garantisse l'apertura alle pellicole straniere delle sale italiane. Cfr., Lorenzo Quaglietti, Storia economico-politica del cinema italiano. 1945-1980, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 37 e sgg.
47 Paolella afferma: «Quello che […] a me interessava presso la Incom, era che si facesse un cinegiornale, una mia idea fissa, anche perché ero veramente stato scandalizzato dall'Istituto Luce, dalla sua struttura rigidamente piramidale. Un cinegiornale giornalistico. L'incontro con il buon Pallavicini, che era ancora militare, fu abbastanza positivo. […] Comunque si convinse subito che bisognava fare un cinegiornale “giornalistico”, con tutte le regole: direttore, caporedattore, gli inviati; e che ci fosse la libertà di girare delle cose vere.», F. Faldini e G. Fofi, op. cit., p. 132.
48 Il matrimonio con Margaret Roosevelt stava probabilmente naufragando: la donna tornò in America nel 1945 e nel 1949 Pallavicini sposò, a Roma, un'altra donna, Gaea. Come abbiamo ricavato dall'articolo del «New York Times», il matrimonio con Margaret era stato celebrato con rito protestante; inoltre alla cerimonia religiosa non era seguita, per espressa volontà del padre della sposa, la cerimonia civile. Probabilmente questi fatti consentirono a Pallavicini di convolare a nuove nozze con rito cattolico. La Settimana Incom dedica al matrimonio del direttore un servizio nel numero 258 del 3 marzo 1949, dal titolo “Auguri al nostro direttore”, in cui nessun riferimento viene fatto alle precedenti nozze.
49 E.G. Laura, op. cit., p. 240.
50 Uno di questi concorsi fu “Aurora della rinascita”. Cfr. p. 55 di questa tesi.
51 Cfr. Franco Cocchi, C'erano una volta i cinegiornali italiani, in «Cinema nuovo», luglio-ottobre 1992, p. 29.
52 Cfr. Franco Cocchi, Il tempo dei cinegiornali annullato dalla televisione, in «Problemi dell'informazione», anno XVIII, n. 3, settembre 1993, p. 342.
53 Ibid., p 341.
54 Il destino dell'Istituto Luce venne discusso in una delle prime sedute del Consiglio dei ministri del governo Parri. Si decise di rifondare l'Istituto e di affidarne la gestione, in qualità di commissario straordinario, al socialista Vernocchi. Questi rimise in funzione l'attività cinegiornalistica del Luce, ribattezzato “Istituto Nazionale Luce Nuova”, con il Notiziario Nuova Luce, il cui primo numero uscì il 26 luglio 1945. La produzione fu però molto limitata: uscirono appena 22 numeri, dal luglio 1945 all'ottobre 1946. Il Notiziario aveva uno stile asciutto, antiretorico e puntava sui contenuti. Quando il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani rifondò, nel 1946, i “Nastri d'argento”, Il documentario prodotto dal Luce Nuova, La Valle di Cassino di Giovanni Paolucci, ottenne il premio per il miglior documentario. Alla Manifestazione del Cinema di Venezia dello stesso anno, il Notiziario Nuova Luce ottenne, dalla commissione internazionale dei giornalisti, la segnalazione per il miglior cinegiornale d'attualità dell'anno. Nonostante questi importanti riconoscimenti, l'Istituto venne messo in liquidazione, con il decreto legislativo n. 305 del 10 maggio 1947. Dietro le insinuazioni di continuità con il Luce fascista, si celava la volontà di agevolare la Incom, che si rivelava in maniera sempre più esplicita un utile strumento di propaganda democristiana e filoamericana. Del nastro d'argento al Notiziario Nuova Luce, la Settimana Incom dà sbrigativamente notizia nella chiusura del servizio “Nel mondo del cinema. Il nastro d'argento”, Settimana Incom n. 19, 14 agosto 1946. Un breve cenno al documentario premiato a Venezia è nel servizio “Il mondo del cinema. La Mostra di Venezia”, Settimana Incom n. 22, 6 settembre 1946.
55 «La società era piccola ma solida, finanziata da un gruppo di signori svizzero-milanesi di grande intelligenza affaristica, soprattutto i Cedraschi. E facemmo in quegli anni un cinegiornale che era l'unico mezzo audiovisivo che avessero gli italiani per vedere le cose, se si pensa che la televisione è cominciata nel '53. Io mi sono occupato della Incom dal '46 al '51, e in quei cinque anni ho fatto, credo, seicento numeri come redattore capo.», D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 132-133.
56 Nel n. 38 del 23 dicembre 1946, Pallavicini presenta i suoi collaboratori: “[…] Paolella, per chi non lo sapesse, è il redattore capo. Per lui l'avvenimento è un nastro di celluloide: dal suo ufficio, come da un posto di blocco ferroviario, egli manovra cataclismi, eruzioni, incendi, e altre piccolezze del genere, nel preciso instante in cui stanno trasformandosi in celluloide. […]”, “Parliamo un po' di noi”, La Settimana Incom n. 38, 23 dicembre 1946. Paolella fu anche sceneggiatore e regista. Negli anni '50 si dedicò soprattutto a pellicole musicali e mitologiche. Tra i suoi film più celebri, Destinazione Pievarolo, con Totò.
57 Nel sopracitato n. 38 della Settimana Incom, Guido Notari è presentato attraverso un brevissimo spezzone di film in cui figura come attore, nella parte di un uomo che suona il pianoforte, in stato di ebbrezza. Questo spezzone è lo stesso che la Incom aveva inserito nel documentario Cinque minuti con… Cinecittà del 1939, preceduto da brevi immagini del film - di propaganda coloniale - Abuna Messias. Nel servizio della Settimana Incom compaiono infatti anche le immagini del film fascista, senza, ovviamente, che ne sia citata l'origine. La voce fuori campo, che è quella dello stesso Notari, dice: “Beh! Ma cosa mi stanno combinando? Io, Guido Notari, che in questo momento vi sto parlando, non vesto affatto lo smoking, ma una giacca marrone! Io non bevo, non faccio il gagà! E Guido, Guido, non me li fare questi scherzi! Ma ecco che Gervasio [colui che metteva in musica le immagini] inverte la marcia della moviola [anche
quest'“inversione di marcia”, sulle scene di Abuna Messias, proviene dal documentario del 1939]. Quante signore e signori di nostra conoscenza vorrebbero possedere questa macchina per tornare indietro! Stop, bloccato! Beato Gervasio, che può bloccare il corso degli avvenimenti![…]”. È forse azzardato affermare che ci sia un messaggio di sapore nostalgico in questa parte del servizio, ma, considerando che la provenienza di quelle immagini poteva essere colta solo dagli autori stessi (o dai grandi estimatori del film Abuna Messias), la scena potrebbe rappresentare un “gioco” tutto interno, tra le righe di un servizio brioso e innocente. Un'altra ipotesi è che, in modo meno celato e in linea con la nuova professione di antifascismo della Incom, si facesse riferimento alla nostalgia altrui (“Quante signore e signori di nostra conoscenza […]”).
58 Per una ricostruzione dettagliata della figura di Debenedetti cfr. P. Frandini, Il teatro della memoria. Giacomo Debenedetti dalle opere e i documenti, Manni, Lecce, 2001. A questo lavoro si deve il recupero delle frammentarie notizie sulla collaborazione di Debenedetti alla Incom e il riconoscimento dell'importante ruolo che egli ebbe come unico autore dei commenti parlati.
59 Nei nn. 38 e 107, rispettivamente del 23 dicembre 1946 e del 27 dicembre 1947, che concludono gli anni 1946 e 1947, viene presentata la redazione del cinegiornale, ma Debenedetti non è citato.
60 La Frandini, in Giacomo Debenedetti e la «Settimana Incom» (in «Strumenti critici», a. XXII, n. 2, maggio 2007), tende ad evidenziare i riferimenti “colti” presenti nei testi dei servizi Incom, non solo come palese firma dell'intellettuale, ma anche come espressione degli spazi di autonomia che egli era in grado di ritagliarsi. Se consideriamo poi la politica del Pci di Togliatti nei primi due anni del dopoguerra, tesa a mantenere in piedi l'alleanza con la Dc, obiettivo al quale i comunisti sacrificarono più di una battaglia, il ruolo di Debenedetti all'interno della Incom risulta meno incomprensibile.
61 D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 132.
62 I testi dattiloscritti, che abbiamo inserito in appendice, evidenziano il controllo operato, presumibilmente, da Pallavicini e le correzioni apposte a mano. In alcune note rivolte a Debenedetti compare il suo nome: nel testo dattiloscritto relativo al n. 173 del 22 luglio 1948, sulla campagna elettorale americana, troviamo un appunto in cui l'autore dei testi viene caldamente invitato a correggere il tiro (“Niente spirito Giacomo, per favore… Spiegare il duello fra i due e essere chiaro. Solo una spiritosaggine finale.”). Nel n. 339 troviamo un riferimento ancora più esplicito: “Il signor Debenedetti, nel redigere il commento parlato, è pregato di mettere in evidenza […]”.
63 P. Frandini, Il teatro della memoria, op. cit., p. 233.
64 Ogni numero è costituito da 6-7 servizi, la cui durata è compresa tra i 40 secondi e i due minuti (salvo notizie di particolare rilievo, che occupano un tempo maggiore). Alcuni eventi “cruciali”, come le elezioni, impegnano l'intero numero.
65 “[…] Primatista tra i divoratori di scatolame [scatole di pellicole sugli avvenimenti ripresi] Borracetti: ogni giorno riceve a chilometri il mondo in scatola, e lo passa al capo cronista Cancellieri, martire delle forbici e del telefono [possibile riferimento alla censura] L'ignaro passante domanda atterrito: «Cos'è, una caserma dei pompieri? [i cronisti escono dalla sede Incom e si infilano veloci nelle auto]», «No!», riponde Giovanni, l'olimpico usciere, «Ma sta succedendo un avvenimento, signore». D'improvviso, un colpo di silenzio [uomo alla moviola]. Eppure è proprio qui che nasce il suono: Gervasio è il maestro che mette in musica le notizie […]”, “Parliamo un po' di noi”, La Settimana Incom n. 38, 23 dicembre 1946.
66 In ogni regione era presente una troupe, formata da regista, operatore, aiuto operatore e organizzatore. Nella capitale le troupe a disposizione erano addirittura cinque.
67 La Presidenza del Consiglio, che aveva la necessità di fornire anche all'estero un immagine positiva dell'Italia nel pieno fermento della ricostruzione, commissionò alla Incom alcuni numeri destinati all'esportazione.
68 D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 133.
69 Fin dal 1948, la Settimana Incom godette di una distribuzione capillare, che, grazie a un accordo che riduceva il prezzo del noleggio, portava il cinegiornale anche nei cinema di bassa categoria. Le attualità di Pallavicini erano maggiormente diffuse al nord e in particolare in Emilia Romagna e Piemonte.
70 Alla morte di Guglielmone la Incom dedicò un lungo servizio celebrativo: “L'ultimo viaggio terreno del senatore Guglielmone”, La Settimana Incom n. 1732, 28 gennaio 1959. La Incom cita Guglielmone in 87 servizi dal 1946, quando egli era Presidente della Commissione economica del Cln, al 1960 in occasione del primo anniversario della morte.
71 D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 133. I legami politici e finanziari della Incom erano noti: quando, nel 1950, si discusse al senato della possibilità o meno di consentire all'Istituto Luce di produrre nuovamente cinegiornali (dopo la sua messa in liquidazione nel 1947), arrivò puntuale la denuncia del parlamentare Menotti, nella seduta del 21 novembre: «La Incom è nelle mani di un gruppo finanziario e bisogna dire che questa Incom presenta gli spettatori una produzione deteriore e, quel che è peggio ancora, una produzione volutamente tendenziosa, di propaganda politica di parte».
72 G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano 1945-1980, Editori Riuniti, Roma, 1982, pp. 47-48.
73 «La Incom finì perché, in Italia, tutto diventa presto senile; perché le persone che l'hanno fatta a un certo punto l'hanno abbandonata.», D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 133. L'ultimo numero della Settimana Incom è il 2554 del 1° marzo 1965.
74 F. Monteleone, Dalla pellicola alla telecamera: l'informazione per immagini tra stereotipo sociale e controllo politico, in A. Sainati (a cura di), op. cit., p. 126.
Giulia Mazzarelli, L'Italia del secondo dopoguerra attraverso i cinegiornali della "Settimana Incom" (1946-1948), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2011

mercoledì 26 gennaio 2022

Gli studi storici sull’antisemitismo e sulla Shoah in Francia, più precoci rispetto all’Italia

Fonte: Wikipedia

Tuttavia le precoci testimonianze sui campi francesi, come Drancy e Compiègne, suscitarono uno scarso interesse nella Francia del dopoguerra, più volta alla ricostruzione che al ricordo dei terribili anni dell’occupazione tedesca. L’attenzione del pubblico era per lo più rivolta ai resoconti dei campi di concentramento in Germania e di sterminio in Polonia, rispetto ai quali i campi francesi rivestivano per il momento un ruolo marginale nel racconto della storia della deportazione. <28 I campi di transito richiamavano infatti alla memoria una sensazione di precarietà ben diversa da quella dei Konzentrationslager dell’Est Europa: si avvertiva cioè un sentimento di futilità nel descrivere delle esperienze che apparivano a posteriori come sopportabili rispetto ai “lieux de cauchemar” conosciuti in seguito <29.
In Italia, diversamente dalla Francia, dove la narrativa resistenziale riusciva a coniugare vittoria e martirio, ricomprendendo vincitori e vinti, fu difficile includere i deportati, anche se partigiani, nelle file dei vincitori, poiché non erano stati tra i fautori attivi della ritrovata libertà <30. Non del tutto invisibile, ma neanche dirompente, fu poi la memoria della specifica sorte toccata agli ebrei, perseguitati e deportati in virtù di ciò che erano e non in funzione della loro appartenenza ad un partito <31, il cui percorso venne dunque compreso attraverso il filtro dell'esperienza dei deportati politici <32. Come ricorda Aline Sierp, oltre all’istituzionalizzazione di alcune ricorrenze che divennero nel dopoguerra commemorazioni pubbliche in memoria della caduta del Fascismo (tra cui il 25 aprile 1945), un’attenzione speciale era rivolta agli anniversari delle stragi compiute dai nazisti in Italia, come le Fosse Ardeatine, Cefalonia, Sant’Anna di Stazzema o Marzabotto, al fine di sottolineare “il tributo di sangue” pagato dall’Italia <33.
L’interesse degli alti vertici statali e dell’opinione pubblica nei confronti dei campi di concentramento e transito sorti in territorio italiano era invece di tutt’altro tenore. Nel 1955, momento cruciale per le celebrazioni del decennale della Liberazione, Primo Levi si rammaricava dell'indifferenza generale che avvolgeva i deportati razziali, concludendo che fosse ancora “indelicato parlare” dell'esperienza concentrazionaria e dei campi di sterminio <34.
Come ricorda Manuela Consonni, tra il 1944 e il 1950 furono in tutto 38 i titoli dedicati al racconto della persecuzione e della deportazione, tra cui solo 8 di essi provenienti dalla penna di scrittori ebrei <35. Dopo una lunga pausa degli scritti di memorialistica sulla deportazione, si avvertì una ripresa dalla metà degli anni Cinquanta, con l’uscita di "Si fa presto a dire fame" di Piero Caleffi nel 1954, la seconda edizione di "Se questo è un uomo" pubblicata da Einaudi nel 1958, la traduzione italiana del "Diario di Anna Frank" e de "La specie umana" di Robert Antelme.
Anche in Francia, come in Italia, l’associazionismo che raccoglieva le esperienze degli ex deportati era per lo più di sinistra: per questo alcuni sopravvissuti ai campi, come Simone Veil, Robert Waitz o Georges Wellers preferirono restare ai margini delle associazioni marcatamente “partigiane” <36. Come ricordava poi Olivier Lalieu: "L’affirmation d’un destin singulier des Juifs en déportation est donc entravée au nom de l’antifascisme triomphant porté par les communistes ou confiné à des sphères guère visibles au sein de la société française. Mais elle est également contrariée dès 1945 par une tradition républicaine qui répugne à distinguer une partie de la population en fonction de critères
religieux" <37. A questo proposito, lo storico francese ricorda come il Ministère des prisonniers, déportés, rapatriés promosse la diffusione nel 1945 di un poster in cui un lavoratore forzato e un prigioniero di guerra in tenuta a righe si abbracciavano, sotto lo slogan “Il sont unis. Ne le divisez pas” <38.
Per Annette Wieviorka, neppure la comunità ebraica organizzata mise l’accento sulla specificità del genocidio: "Elle vit dans l’ombre portée des années noires, et aspire, comme tout un chacun d’ailleurs au lendemain d’une guerre, au retour à la normale, que l’on se présente à l’image de ce que fut l’avant-guerre. Les commémorations marquent alors le désir de réintégrer la communauté nationale, dont les Juifs de France avaient été exclus par l’occupant nazi et la contre-révolution vichyssoise" <39.
La fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60 segnarono una prima svolta nelle politiche della memoria dei due Paesi: al termine della guerra d'Algeria, che aveva contribuito a richiamare gli inquietanti fantasmi del passato recente <40, la V Repubblica veicolava una visione pacificata del secondo conflitto mondiale plasmando la rappresentazione collettiva attraverso l'edificazione di numerose opere, come il Musée du Débarquement de Provence al Mont Faron, il Musée de l'Ordre de la Libération, il Mémorial du Struthof e il Mémorial de la Déportation sur l'Île de la Cité <41. Inoltre, il 18 dicembre 1964, le ceneri di Jean Moulin vennero trasferite al Panthéon: la grande cerimonia organizzata per l'occasione favorì l'identificazione del generale Charles de Gaulle e della nazione intera con l'eroe simbolo della Resistenza <42. Una "Journée nationale de la déportation" venne poi istituita nel 1954, segnando l'ingresso ufficiale della deportazione nell'agenda delle commemorazioni nazionali <43.
È proprio in questo periodo che opere di letteratura, cinema e teatro misero al centro il tema della deportazione: i romanzi di John Hersey "La muraille" pubblicato nel 1952 e "La mort est mon métier" di Robert Merle, sulla figura del comandante di Auschwitz Rudolf Hoess, furono seguiti da "Le Dernier des Justes" di André Schwarz-Bart nel 1959 e la pièce teatrale "Le vicaire di Rolf Hochhuth" nel 1961. Al cinema nel 1957, "Nuit et Brouillard" di Alain Resnais propose le immagini dei campi con il commento e le parole del poeta Jean Cayrol. Inoltre, tra il 1951 e il 1964, in Francia furono pubblicati 62 titoli dedicati alla deportazione: tra le testimonianze più significative è opportuno ricordare il "Journal" di Anne Frank nell’edizione francese del 1950, "La nuit di" Elie Wiesel uscito nel 1957, "Si c’est un homme" di Primo Levi nel 1961, "Aucun de nous ne reviendra" di Charlotte Delbo nel 1965.
Il processo Eichmann del 1961 e quello di Francoforte tra 1963 e il 1965, che vide alla sbarra alcuni dei membri del commando tedesco impiegati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, condussero infine il parlamento francese ad adottare l'imprescrittibilità dei crimini contro l'umanità nel 1964. Più tardi, soprattutto a partire dagli anni '80, grazie anche all'intervento dell'avvocato Serge Klarsfeld e di sua moglie Beate <44, si assistette ad una serie di procedure giudiziarie nei confronti di criminali di guerra e alti funzionari di Vichy che avevano collaborato alla “Soluzione Finale” <45.
In Italia invece ad essere perseguiti attraverso la legge erano stati soltanto alcuni gerarchi militari nazisti, come i responsabili dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, tra cui Herbert Kappler e Albert Kesselring, i cui processi vennero celebrati nell'immediato dopoguerra, e - molto più tardi - quello di Erich Priebke, condotto alla sbarra nel 1995, condannato all'ergastolo e protagonista di molte polemiche anche dopo la sua morte, sopraggiunta l'11 ottobre 2013 <46. Tuttavia, diversamente dal caso francese, l'intervento della giustizia italiana, anche per effetto dell’amnistia Togliatti, riguardò raramente coloro che avevano collaborato con l'occupante nazista: come ricorda Galliano Fogar in merito al processo di Trieste del 1976, il ruolo di tale azione giudiziaria è da ritenersi insufficiente <47. Nel caso ad esempio della Risiera di San Sabba, la musealizzazione del luogo precedette addirittura le indagini giudiziarie.
Gli studi storici sull’antisemitismo e sulla Shoah in Francia, più precoci rispetto all’Italia, vennero invece inaugurati da Léon Poliakov con i volumi "Le bréviaire de la haine" del 1951 e "Le IIIe Reich et le Juifs" del 1959, che assieme a pochi altri studi internazionali, come quello dell’inglese Gerard Reitlinger, e più tardi dell’americano Raul Hilberg, entrarono a far parte di una prima corrente di riflessioni sul tema che all’inizio non tracciava un vero distinguo tra la storia della distruzione degli ebrei europei e la storia del nazionalsocialismo <48.
Soltanto negli anni Settanta si verificò un significativo cambiamento di prospettiva, con il contributo fondamentale di Olga Wormser-Migot sul sistema concentrazionario nazista (1968), ma soprattutto con un rinnovato interesse storiografico sul regime di Vichy e sul collaborazionismo, grazie ai lavori di Henry Rousso con il suo "Vichy, un passé qui ne passe pas" e degli storici americani Stanley Hoffmann, Robert Paxton e Michaël Marrus <49. Il primo tema ad essere posto in evidenza da questa nuova corrente storiografica è “la co-responsabilità del regime di Vichy, e del collaborazionismo dei francesi, e dunque delle istituzioni francesi nella deportazione degli ebrei presenti in Francia e nella Soluzione finale proposta e attuata dal Terzo Reich”, oltre al tema spigoloso dell’antisemitismo francese <50. Nel 1978 uscì inoltre, a cura di Serge Klarsfeld, "Le mémorial de la déportation des Juifs de France", una meticolosa ricostruzione dei convogli partiti dalla Francia, fondata sulle liste conservate presso il CDJC dal 1945 <51.
Per quanto riguarda la storiografia italiana invece, soltanto alla fine degli anni Ottanta - con il cinquantesimo anniversario delle leggi razziali del 1938 - gli storici hanno cominciato ad approfondire le questioni legate alla deportazione razziale e politica, all’antisemitismo in Italia e alle sue implicazioni ideologico-politiche e materiali <52.
Prima di allora vigeva il paradigma universalmente riconosciuto per il quale la legislazione antiebraica in Italia non fosse altro che un’imposizione da parte della Germania hitleriana; un regime, quest’ultimo, ritenuto di gran lunga più sanguinario e “nocivo” rispetto alla dittatura dai tratti “carnevaleschi” di Mussolini <53. Secondo la vulgata, mentre il fascismo aveva rappresentato una “parentesi” nella millenaria storia d’Italia contraddistinta dalla tradizione universalistica latina e cattolica, dall’umanesimo rinascimentale e dal culto della libertà, il nazismo aveva invece rappresentato il “portato” dell’intera storia tedesca, la quale risultava da sempre segnata da esclusivismo etnico-razziale, dall’ostinata volontà di imporre ad ogni costo il proprio primato e da una radicata vocazione illiberale <54.
Un primo segnale di distacco da questa tendenza fu rappresentato dai lavori dell’ex colonnello Massimo Adolfo Vitale e, in seguito, dal giornalista e storico della rivista “Il Ponte” Antonio Spinosa <55. Entrambi dimostrarono un atteggiamento più critico nei confronti della chiesa e della presunta totale solidarietà nei confronti degli aiuti dimostrati agli ebrei.
Non mutava però nel complesso l’assunto che l’antisemitismo fosse un male esterno instillato interamente dalla Germania nazista.
Fu Renzo De Felice, incaricato dall’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, a dedicarsi alla stesura di un’opera destinata a rimanere per lungo tempo il testo di riferimento sulle persecuzioni antiebraiche in Italia. Il volume "Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo", pubblicato nel 1961, trovò la sua genesi in un periodo storico mutato e più sensibile a certe tematiche: tra le vicende che dettero un impulso alla ripresa di questi studi vi fu il processo Eichmann, l’ascesa dell’estrema destra, con l’appoggio dell’MSI al governo di Fernando Tambroni e gli echi preoccupanti di un risorgere dell’antisemitismo nel paese <56.
Il lavoro di De Felice, che più di recente è stato largamente criticato <57, soprattutto per non aver saputo riconoscere la specificità dell’iniziativa fascista nella persecuzione degli ebrei dopo le leggi del 1938, resta comunque un testo cardine per la storiografia sulla Shoah, che dimostra come con l’apertura dell’era del testimone abbia creato di fatto anche una nuova fase per la ricerca storica.
La fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta segnarono un'ulteriore svolta nell'elaborazione della memoria della Shoah: nel 1979 andò in onda lo sceneggiato "Holocaust" del regista americano Marvin J. Chomsky, trasmesso in Francia da Antenne 2 e in Italia da Rai 1. Fu a partire da quell'anno che scoppiarono alcuni casi mediatici legati al negazionismo, come quello di Robert Faurisson, che costrinsero ad un'urgente riflessione sull'uso e l'abuso della storia a livello pubblico <58.
Il cinema costituì, in tutto questo periodo, un altro potente catalizzatore per rimettere in circolo memorie rimaste in sordina: se in Francia "Le Chagrin et la pitié" (1971) e "Lacombe Lucien" (1974) scandirono le tappe di un confronto più approfondito con les années sombres e il ruolo di Vichy, in Italia invece la deportazione degli ebrei venne affrontata dalla trasposizione cinematografica de "Il giardino dei Finzi Contini" (1970) di Vittorio de Sica e dal controverso "Il portiere di notte" (1973) di Liliana Cavani.
Vi fu anche una significativa ripresa nella pubblicazione di opere di memorialistica: fioriva così un genere, quello che talvolta è stato definito “letteratura concentrazionaria” <59.
“Si scrive di più” - commentano Anna Bravo e Daniele Jalla - “man mano che la distanza dai fatti propone un’urgenza inedita: per opporsi al passare del tempo, fronteggiare in anticipo il momento in cui non ci saranno più testimoni diretti, far conoscere esperienze personali che non possono mai essere interamente rappresentate nel racconto altrui” <60.
Non è quindi cambiato soltanto il rapporto dei sopravvissuti con il ricordo dell’esperienza della deportazione, dalla quale hanno assunto maggiore distacco, ma è mutata anche la disposizione del pubblico all’ascolto dell’eco di quel terribile passato. Tra gli scritti più celebri che ottengono maggior successo in questo periodo figurano in Italia il "Diario di Gusen" di Aldo Carpi, "Le donne di Ravensbrück" di Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Buzzone, gli scritti di Giovanni Melodia e le poesie di Lodovico Belgiojoso. Inoltre, nel corso degli anni Ottanta, vengono tradotte in italiano anche le memorie di Jean Améry e di Elie Wiesel, preludio ad una intensissima produzione di testimonianze e letteraria che dura ancora oggi.
[NOTE]
28 R. Poznanski, D. Peschanski, B. Pouvreau, Drancy, un camp en France, Fayard et Ministère de la Défense, Paris, 2015., pp. 242.
29 A. Wieviorka, Déportation et génocide, cit., p. 167.
30 A. Bravo, D. Jalla, La vita offesa: Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, 1988, pp. 23-24.
31 La partecipazione ebraica alla resistenza non ebbe una valenza collettiva, ma fu piuttosto il frutto di scelte individuali. Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino, 2000, pp. 133-134. Si veda anche L. Picciotto Fargion, Sul contributo di ebrei alla Resistenza italiana, “Rivista mensile di Israel”, 3-4, 1980, pp. 132-146; S. Peli, Resistenza e Shoah, “Passato e Presente”, vol. 70, 2007, pp. 88 sg.
32 Cfr. P. Bertilotti, Contrasti e trasformazioni della memoria dello sterminio in Italia, in M. Flores et al. (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni. vol. II, UTET, Torino, 2010, pp. 72-73.
33 A. Sierp, A. Sierp, History, Memory and Trans-European Identity, Routledge, New York, London, 2014, p. 44. La memoria delle stragi era funzionale alla visione condivisa da molti politici italiani per i quali l’Italia non era stata che una vittima della Germania nazista, e in questo senso avrebbe dovuto partecipare a pieni diritti al tavolo degli alleati alla Conferenza di Pace di Parigi. La memoria dei campi di concentramento italiani era ben più complessa: assieme alla ricerca dei gerarchi SS che li avevano gestiti e delle amministrazioni naziste che li avevano diretti, essa avrebbe riportato a galla anche le responsabilità italiane. Come sottolinea Sierp, le commemorazioni degli eccidi, perpetuati dai nazisti, nel corso degli anni Novanta ebbero uno sviluppo notevole, per una semplice ragione: “it perpetuated the self-absolving image that Italians had of themselves, the idea of an innocent Fascism which, compared to the brutality of Nazism, had been less evil and almost good-natured and thus did not require any form of Vergangenheitsbewältigung (coming to terms with the past)”. Cfr. ivi, p. 82. Su questo si veda soprattutto il capitolo IV di G. Schwarz, Tu mi devi seppellir: riti funebri e culto nazionale alle origini della Repubblica, UTET, Torino, 2010, pp. 155-219.
34 Cfr. P. Levi, Deportati. Anniversario, 25 aprile 1955, in A. Cavaglion (a cura di), Primo Levi per l’ANED, l’ANED per Primo Levi, Angeli, Milano, 1997, pp. 18-20.
35 M. Consonni, L'eclissi dell'antifascismo: resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989, GLF Editori Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 41.
36 O. Lalieu, Histoire de la mémoire de la Shoah, Edition Soteca, Paris, 2015.
37 Cfr. ivi, p. 56.
38 Ivi, p. 27.
39 Cfr. A. Wieviorka, La construction de la mémoire de la déportation et du génocide en France. 1943-1995, in P. Momigliano Levi (a cura di), Storia e memoria della deportazione. Modelli di ricerca e di comunicazione in Italia e in Francia, Giuntina, Firenze, 1996, p. 32.
40 O. Wieviorka, La mémoire désunie., cit., pp. 141 sg.
41 Ivi, p. 154.
42 M. Gilzmer, Mémoires de pierres, cit., p. 116.
43 Ivi, pp. 131-133.
44 B. Klarsfeld, Mémoires. Serge et Beate Klarsfeld, Fayard-Flammarion, Paris, 2015.
45 Klaus Barbie viene incolpato di crimini contro l'umanità nel 1983 e condannato all'ergastolo nel 1987, Paul Touvier viene arrestato nel 1989 e condannato all'ergastolo nel 1994, Maurice Papon processato nel 1997 e condannato a dieci anni di reclusione nel 1998, Réné Bousquet, incolpato di crimini contro l'umanità nel 1991, fu ucciso nel suo appartamento nel 1993, mentre il processo a suo carico era ancora in corso (si veda S. Chalandon, P. Nivelle, Crimes contre l'humanité. Barbie, Touvier, Bousquet, Papon, Plon, Paris, 1998).
46 Sul divieto a tenere un funerale religioso e concedere alla salma di Priebke la sepoltura in un cimitero romano, si veda E. Mauro, La tomba segreta di Priebke, “La Repubblica”, 7 novembre 2013, consultato online il 22 settembre 2015.
47 G. Fogar, L'occupazione nazista del Litorale Adriatico e lo sterminio della Risiera, in A. Scalpelli (a cura di), San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, 2 voll., ANED, Mondadori, Trieste, 1988, pp. 58-65
48 M. Cattaruzza, La storiografia della Shoah, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, Storia della Shoah, vol. III, Torino, Utet, 2006, p. 117. Vedi anche P. Dogliani, Rappresentazioni e memoria della guerra in Italia e in Francia, in G. Corni (a cura di), Storia e memoria. La seconda guerra mondiale nella costruzione della memoria europea, Museo storico di Trento, Trento, 2006, pp. 119-220.
49 H. Rousso, E. Conan, Vichy, un passé qui ne passe pas, Fayard, Paris, 1994.
50 P. Dogliani, Rappresentazioni e memoria, cit., p. 211.
51 Un simile studio sulla deportazione politica è stato condotto dal Dipartimento di storia dell’Università di Torino diretta da Brunello Mantelli e Nicola Trafaglia e promosso dall’Aned, che ha dato origine ai quattro volumi dell’opera Il libro dei deportati, editi da Mursia tra il 2009 e il 2015.
52 I. Pavan, Gli storici e la Shoah in Italia, in Storia della Shoah in Italia, vol. II, cit., p. 135.
53 L’espressione è di Benedetto Croce, si trova nel volume Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, Laterza, Bari, 1944, p. 21. Su queste tematiche si veda F. Focardi, L’immagine del cattivo tedesco e il mito del bravo italiano, cit.; Id. Il cattivo tedesco e il bravo italiano, cit.; D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il Saggiatore, Milano, 1994. I lavori di Cecil Roth (The History of the Jews in Italy, Jewish Publication Society of America, Philadelphia, 1946, pp. 105-553), Léon Poliakov (La condition des Juifs en France sous l’occupation italienne, Centre de Documentation Juive Contemporaine, Paris, 1946), Gerald Reitlinger (The Final Solution: the attempt to exterminate the Jews of Europe, 1939-1945, Vallentine, Mitchell, London, 1953), Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira (Storia d’Italia nel periodo fascista, Einaudi, Torino, 1956) sebbene avessero cominciato a far luce sulle vicende degli ebrei italiani sotto il regime fascista, ripetevano tuttavia lo stereotipo della bontà naturale e dell’ “innata gentilezza” del popolo e dei soldati italiani.
54 Cfr. F. Focardi, L’immagine del cattivo tedesco, cit., p. 105.
55 A. Vitale, Les persécutions contre les juifs en Italie, in Les Juifs en Europe (1943-1945). Rapports présentés à la Première Conférence Européenne des Commissions Historiques et des Centres de Documentation Juifs, Edition du Centre CDJC, Paris, 1949; A. Spinosa, Mussolini razzista riluttante, Bonacci, Roma, 1994.
56 I. Pavan, Gli storici, cit., p. 144.
57 Come ad esempio nella nota critica riservatagli da Corrado Vivanti in «Studi Storici», 1962, n. 4, pp. 889-906, oppure più recentemente da M. Sarfatti, La Storia della persecuzione antiebraica di Renzo De Felice: contesto, dimensione cronologica e fonti, “Qualestoria”, 2, 2004, pp. 11-27; Si vedano poi le interviste rilasciate da Renzo De Felice a Giuliano Ferrara per il “Corriere della Sera” nel dicembre 1987 e gennaio 1988, in cui lo storico ammise che “il fascismo italiano è al riparo dall'accusa di genocidio, è fuori dal cono d'ombra dell'Olocausto. Per molti aspetti, il fascismo italiano è stato «migliore» di quello francese o di quello olandese. Inoltre, da noi la revisione è più utile, per le ragioni che le ho appena esposto e che riguardano la necessità di costruire una nuova Repubblica, e meno rischiosa. Noi non abbiamo una tragedia sociale come quella dell'immigrazione nordafricana in Francia, che ha portato il fascismo petainista fin dentro le fabbriche. Dunque possiamo ragionare, informare, parlare del fascismo con maggiore serenità” (Cfr. Ferrara, G., Le norme contro il fascismo? Sono grottesche, aboliamole. A colloquio con Renzo De Felice, lo storico del ventennio nero, in “Corriere della Sera”, 27 dicembre 1987; Ferrara, G., De Felice: “la Costituzione non è certo il Colosseo…”, “Corriere della Sera”, 8 gennaio 1988).
58 La “loi Gayssot”, concepita per perseguire penalmente la negazione dei crimini l'umanità e adottata dal parlamento francese nel 1990, sarà la prima delle cosiddette “loi mémorielles”, che segnano un forte intervento nell'ambito delle politiche della memoria attraverso lo strumento legislativo. Sul negazionismo si veda invece per la Francia P. Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire. “Un Eichmann de papier” et autres essais sur le révisionnisme, La Découverte, Paris, 2005 e V. Igounet, Histoire du négationnisme, Le Seuil, Paris, 2000, mentre per l’Italia V. Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas: logica del negazionismo, Bompiani, Milano, 2014 e C. Vercelli, Il negazionismo: storia di una menzogna, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2013.
59 C. Coquio, Finzione, poesia, testimonianza: dibattiti teorici e approcci critici, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, Storia della Shoah, vol. IV, UTET, Torino, 2006, pp. 158 sg.
60 Cfr. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta: Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, FrancoAngeli, Milano, 1994, p. 75.

Chiara Becattini, Storia della memoria di quattro ex campi di transito e concentramento in Italia e in Francia. 1945-2012, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, Université Paris 8 Vincennes-Saint Denis, 2017

giovedì 6 gennaio 2022

L'illusione viaggia in tranvai


Luis Buñuel, partito da feroci esperienze d’avanguardia, vale a dire i film sceneggiati con l’allora suo amico Salvador Dalì, sembrò presto abbandonare i precetti surrealisti: e cominciò, in Spagna, in Francia, in Messico, persino a Hollywood, a dirigere film narrativi, con trame talvolta avventurose o passionali, finanziati dai produttori del cinema e immessi nei circuiti commerciali. Ma in realtà l’intiera sua opera cinematografica ha un’interna coerenza e potremmo dire che in nessun film, anche in quelli apparentemente più innocui, don Luis viene meno ai suoi valori e alla sua poetica: se non sempre la zampata del leone, perlomeno qualche graffio ben assestato riusciamo sempre a percepirlo e a godercelo.
Alcuni suoi film della maturità, degli anni ’60 e ’70, poi, sono assai notevoli: apparentemente leggeri, svagati, divertentissimi. E usando quest’ultimo aggettivo non vogliamo cadere in equivoco: perché certe deliziose operette morali dell’ultimo periodo, se non sono divertenti nel senso etimologico del termine (non divergono, anzi, tengono ben salda la mira sugli obiettivi da colpire) sono però spumeggianti, trascinanti, umoristiche, e hanno dei momenti francamente comici. E di questo Buñuel ne era ben consapevole, anzi, teorizzava tutto ciò, e se non arrivò mai a girare, come pure ipotizzava insieme all’amico e collaboratore Jean-Claude Carrière, un film basato su gag da film muto, con le torte in faccia, alla Mack Sennett, però fu sempre - per così dire - sul punto di farlo, e in un certo senso lo fece, con altre forme e modi. Ma lasciamogli subito la parola. Una dichiarazione del 1965 ribadisce il suo credo anarchico: "È possibile che, oggi, il pronunciarsi come prima contro la Famiglia, la Patria, il Lavoro, sia un po’ demodè, poiché noi sappiamo per esperienza che la distruzione fisica della famiglia non è più necessaria per costruire una società nuova. Ma il mio atteggiamento nei confronti di questi principi non è cambiato: bisogna distruggerli in quanto categorie supreme, in quanto principi intoccabili".
E un’altra, del 1974, verte proprio sulla questione dell’umorismo: "Lo humour è sempre humour nero. È molto importante saper non prendere sempre tutto seriosamente. Detesto le freddure, non mi fanno ridere. Ma io non chiedo alle persone soltanto di ridere, chiedo anche di comprendere lo humour. Faccio sempre dello humour mio malgrado. Quando scrivo una sceneggiatura, se una storia mi fa ancora ridere il giorno dopo, la tengo, altrimenti la scarto. Ma mi è indifferente che il pubblico rida o non rida vedendo i miei film. C’è di tutto nel pubblico, è un’immagine della società. La sola cosa importante per me è che ai miei amici il film sia piaciuto".
Naturalmente, quando pensiamo a un Buñuel “che fa ridere”, ci viene subito da citare Simon del desierto (1965), Belle de jour (1966), La voie lactée (1969), Le charme discret de la bourgeoisie (1972).
Ironico, raffinato, dissacrante. Riesce a spiazzare, a capovolgere i luoghi comuni: è un autore satirico di prim’ordine. Con Le charme, per dire, attraverso i modi di una commediola borghese distrugge divertito tutta l’impalcatura ideologica su cui si regge la borghesia.
Quello che ci piace annotare, ora, è che il divertimento di Buñuel investe anche il linguaggio dei suoi film. Già. Perché girare le sequenze dello Charme con i toni appunto di una pochade, con tutti i modi e i convenevoli e le battutine salottiere, è già una bella trovata (e il finale di El, 1952, così ostentatamente edulcorato? E Belle de jour? Con una Catherine Deneuve nel parco, incerta sul da farsi, e il tutto sembra proprio un film commerciale, coi suoi colori morbidi e la diva e tutto il resto - e invece…).
Ma Buñuel va oltre, usa tutti i generi cinematografici: in qualche modo li deride, li sottolinea, li parodizza: e in Belle de jour si va dall’erotico al poliziesco sino a una sequenza western, e lo stesso discorso vale per lo Charme (c’è persino una strepitosa sequenza da cinema horror, con l’episodio della “notte del brigadiere insanguinato”).
Un’altra tecnica comica è quella dell’interruzione, dell’inciampo, del blocco. Personaggi che non riescono a portare a termine una certa operazione. Non riescono a uscire da un edificio, e non ne capiscono il perché (El angel exterminador, 1962) o semplicemente non riescono a finire un pranzo - e poi continuano a camminare su una strada, come senza una meta (il solito Charme, film impalpabile e profondissimo).
Sono cose già note, queste che stiamo dicendo, a chi ama i film del gran cineasta spagnolo. Ma ci piace rilevarle ancora una volta, in qualche modo ridelinearle, e concludere con un riferimento, un parallelismo, che non ci pare sia stato colto da molti.
Perché c’è una sorta di antecedente a Le charme discret de la bourgeoisie. È un film di cui Buñuel parlava malissimo. Egli spesso denigrava certe sue pellicole, negli ultimi anni ogni film che faceva era sempre accompagnato dalla dichiarazione che sarebbe stato l’ultimo, e l’autore si rammaricò persino di aver fatto il regista, quando gli sembrava sarebbe stata una scelta migliore fare lo scrittore. Ma di questo film parlava veramente male, come l’opera d’uno stolto.
Saremo stolti anche noi, che lo riteniamo un piccolo capolavoro. Si tratta de La ilusion viaja en tranvia, del 1953. Anche qui la compresenza di vari generi, le trovate stralunate, le sciabolate sarcastiche (il borghese che protesta: perché non si paga il biglietto? perché si viaggia gratis? cosa c’è sotto?), e un’ossessiva interruzione, che consiste in questo caso nel non riuscire a riportare un tram alla base (quel tram appunto su cui si è viaggiato in totale libertà), senza farsene accorgere, poiché prelevato abusivamente, durante una notte brava: e anche qui i più bizzarri e inaspettati casi intervengono a non rendere possibile l’operazione.
Marco Innocenti, Luis Buñuel si diverte in IL REGESTO, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM), Anno X n° 3 (39), luglio-settembre 2019

[ tra i lavori di Marco Innocenti: articoli in Mellophonium; Scritti danteschi, Lo Studiolo, 2021; Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; articoli in Sanremo e l'Europa. L'immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d'occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sandro Bajini, Andare alla ventura (con prefazione di Marco Innocenti e con una nota di Maurizio Meschia), Lo Studiolo, Sanremo, 2017; La lotta di classe nei comic books, i quaderni del pesce luna, 2017; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; articolo in I raccomandati/Los recomendados/Les récommendés/Highly recommended N. 10 - 11/2013; Sandro Bajini, Libera Uscita epigrammi e altro (postfazione di Fabio Barricalla, con supervisione editoriale di Marco Innocenti e progetto grafico di Freddy Colt), Lo Studiolo, Sanremo, marzo 2015; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull'arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; Pensierini, Lepomene, Sanremo, 2010; Sgié me suvièn, Lepomene, Sanremo, 2010; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; C’è un libro su Marcel Duchamp, lepómene editore, Sanremo 2008;  con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006 ]