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giovedì 16 giugno 2022

Il passaggio al teatro di persona non rappresenta una battuta d’arresto nella vita della compagnia Rame


Nel presentare il suo libro-intervista a Franca Rame "Non è tempo di nostalgia", Joseph Farrell parte dalle peculiarità - già evidenziate nel precedente capitolo della tradizione del teatro italiano, affermando che esso "ha dato relativamente pochi scrittori al canone convenzionale del teatro europeo. Penso che questo sia dovuto al fatto che il teatro italiano nel contesto di quello europeo sia anomalo, nel senso che è essenzialmente un teatro attoriale e non autoriale. Secondo il mio parere nella tradizione del teatro italiano il personaggio dominante è sempre stato l’attore, l’attore di un tipo molto particolare". <278
Entrando, però, nello specifico del caso di Franca Rame, aggiunge: "Franca è figlia d’arte, come Eleonora Duse, come Adelaide Ristori e molte altre. È importante sottolineare che l’attrice era nata in una famiglia di attori girovaghi, la Compagnia Rame si ritiene che affondi le sue radici nel Settecento. Fino alla fondazione dei teatri stabili erano famiglie di quel tipo che erano il cuore del teatro italiano, attori che improvvisavano. La Rame è nata praticamente sulla scena, ha fatto la sua prima comparsa quando aveva solamente otto giorni. Nel corso dell’intervista Franca ha spiegato come la Compagnia Rame producesse i propri testi, suo padre era il capocomico, radunava la famiglia e distribuiva i vari ruoli. Questa è la tradizione del teatro italiano, è una tradizione essenzialmente ed esclusivamente italiana e Franca Rame è stata l’ultima grande rappresentante di quella tradizione, perché adesso non esiste più". <279
Ora, che tipo di compagnia era, quella dei Rame? <280 Franca la definisce, prima di tutto come “una famiglia di attori, con una tradizione che possiamo far risalire alla Commedia dell’Arte del Seicento.” <281 Il concetto di “famiglia”, però, è da precisare. Altrove, infatti, Franca spiega che, almeno nel periodo in cui lei vi ha lavorato: “Per «famiglia», in verità, si intendeva l’insieme di due diversi nuclei familiari, più attori e attrici scritturati, nonché un numero cospicuo di dilettanti.” <282 I due nuclei familiari, per quanto diversi, erano comunque imparentati, “due famiglie associate dei Rame, quella di mio zio Tommaso e l’altra, di mio padre Domenico” <283 e, ai membri della famiglia, si aggiungevano, inoltre, altri attori e altre attrici, sia di professione, sia dilettanti, che facevano nella compagnia il loro apprendistato, in cerca di una formazione diversa da quella tradizionale. <284
Sull’origine storica della compagnia, le notizie divergono: come abbiamo visto, Farrell la colloca “nel Settecento”; Franca, nel 2009, dichiara: “I capostipiti della mia famiglia risalgono a una cosa come cinque secoli fa” <285, ma, nel 2013, sostiene che la sua tradizione possa “risalire alla Commedia dell’Arte del Seicento”. Quest’ultima ipotesi è riportata anche da altre fonti: Silvia Varale, infatti, afferma che Franca “proviene da una famiglia di attori girovaghi, le cui antiche tradizioni risalgono al ’600” <286 e anche il critico letterario svedese (membro dell’Accademia di Svezia, dal 1997 al 2009) Horace Engdahl afferma: "The Rame family’s ties to the theatre are very old. Since the late 17th century, they have been actors, and puppet masters, as the occasion required". <287
Nella sua monografia su Enrico Maria Salerno, invece, Valentina Esposito <288 afferma che "La Compagnia della Famiglia Rame, compagnia di marionettisti ambulanti, era stata fondata da Domenico Rame, nonno di Tommaso, agli inizi dell’Ottocento. Nell’intestazione delle lettere a Salerno, sono indicati data e luogo del primo spettacolo: Torino 1821". <289
A corroborare quest’ultima ipotesi concorrono le parole dello stesso Tommaso Rame (lo zio di Franca), il quale, in una lettera a Enrico Maria Salerno, definisce la compagnia “antica perché il mio povero nonno Domenico in Torino diede vita al teatro nel 1821 (con spettacoli di marionette)”. <290 Certo, questo non impedisce di ipotizzare che il “povero nonno Domenico” Rame (bisnonno di Franca) potesse discendere anch’egli da teatranti ed essere, quindi a sua volta, “figlio d’arte”. Non lo si può escludere, poiché il mestiere s’imparava “a bottega” e molto spesso la bottega era la famiglia. Figli d’arte, infatti, erano coloro che vantavano un’antica e continua tradizione familiare: ad esserlo in senso assoluto, non bastava essere nato da attori. Per averne il sacro crisma, la prima condizione era l’anzianità della discendenza. Era una vera e propria nobiltà sui generis quella dei figli d’arte e tanto maggiore era la gloria di appartenervi e tanto più legittimi i diritti di appartenenza quanto a più remoti lombi risalisse la primogenitura. <291
Ad ogni modo, il solo dato certo sull’esatta collocazione storica dell’origine della compagnia è la sua fondazione ufficiale, nel 1821, il che significa comunque che essa -per dirla con le parole dello zio Tommaso- è “antica” (alla nascita di Franca, nel 1929, stando a quanto afferma Tommaso, il gruppo ha già più d’un secolo), il che ci conduce a supporre che la tradizione della Commedia dell’Arte non si sia mai del tutto interrotta, come invece riteneva Copeau e ritengono tuttora Claudia Contin e Ferruccio Merisi.
La direzione della compagnia -ponendo come sua data di nascita il 1821-, dopo Domenico (il fondatore, bisnonno di Franca), passa a suo figlio, il marionettista Pio (1849-1921), il quale, a sua volta, ha tre “figli d’arte”: Domenico (il padre di Franca) <292, Stella e Tommaso. La compagnia, però, non comincia già nella forma che ha quando Franca nasce. Per quasi cento anni, il carro dei Rame girovaga per i paesi e le cittadine del Piemonte e della Lombardia unicamente con spettacoli di marionette e burattini. I primi cambiamenti risalgono agli inizi del Novecento, quando Domenico Rame (futuro padre di Franca) “dal 1908 introdusse spettacoli in cui attori ‘veri’ affiancavano le marionette” <293. Dal 1921, poi, lo stesso repertorio destinato alle marionette viene adattato esclusivamente ad attori veri e tramandato di generazione in generazione.
Col passaggio al teatro di persona, la stessa compagnia cambia nome, per assumere quello di “Gruppo Artistico Famiglia Rame”. Dunque, abbandonato definitivamente il teatro di figura, “l’attività teatrale della compagnia drammatica ambulante continuerà fino al 1940” <294, proseguendo, così, col teatro di persona fino allo scioglimento. Così Franca spiega le ragioni del passaggio al teatro di persona: "Con l’avvento del cinema sonoro (1920), mio padre, mio zio e tutta la compagnia intuiscono che «il teatro delle marionette» sarà presto messo in crisi, schiacciato da questo nuovo straordinario e anche un po’ magico mezzo di spettacolo. Con grande dolore del nonno Pio, decidono un cambiamento radicale del loro programma e della loro condizione: «Reciteremo noi i nostri spettacoli, entreremo in scena noi, al posto delle marionette»". Così le due famiglie dei Rame si sostituiscono ai pupazzi di legno (vere e proprie sculture snodate, tre delle quali sono ancora oggi esposte al Museo della Scala di Milano). <295
Ma il passaggio al teatro di persona non rappresenta una battuta d’arresto nella vita della compagnia, anzi: mette il gruppo di fronte alla necessità di sondare nuove possibilità nella loro arte attoriale, non senza far comunque tesoro dell’esperienza passata, che si rivela fondamentale prima di tutto sul piano scenografico: "I miei hanno cominciato con il teatro delle marionette e con quello dei burattini. Padroneggiavano ambedue i mestieri. <296 Arrivato il cinema, questo tipo di teatro andò via via perdendosi. I miei capirono che dovevano cambiare genere e si misero a fare, appunto, teatro di persona, utilizzando tutti i trucchi del teatro delle marionette che conoscevano molto bene. In questo modo riuscivano a creare degli effetti da film americani di adesso, ovviamente con le dovute proporzioni. Per quei tempi era qualcosa di impensabile". <297
Quest’utilizzo di “tutti i trucchi del teatro delle marionette” e la loro applicazione al teatro di persona rappresenta il vantaggio della compagnia dei Rame, rispetto alle altre compagnie di giro dell’epoca: "montagne che si spaccano in quattro a vista, palazzi che crollano, un treno che appare piccolissimo lassù nella montagna e che, man mano che avanza nei turniché entrando o uscendo dalle gallerie, s’ingrandisce fino a entrare in proscenio con il muso della locomotiva a grandezza quasi naturale. E poi mari in tempesta, nubi che solcano minacciose il cielo tra lampi e tuoni, gente che vola, scene in tulle in primo piano, che illuminate a dovere ti facevano immaginare come fosse il paradiso". <298
I Rame sanno bene di dovere alla tradizione la conoscenza di questi mezzi, perché sono “tutti gli espedienti tecnici delle macchine di spettacolo del Seicento perfezionate dal Bibbiena dentro la scenotecnica delle marionette.” <299 Il fatto interessante non è solo il loro utilizzo nel teatro di figura, né tanto il loro successivo trasporto nel teatro di persona, quanto soprattutto la scelta consapevole di costituire, in questo modo, una forma di spettacolo realmente alternativa alla settima arte, creando sulla scena “effetti da film americani” (fatte, ovviamente, le debite proporzioni).
In qualche modo, i Rame riaffermano la peculiarità del teatro (e la sua dignità professionale: si pensi all’attività di Domenico come Presidente dell’A.I.E.S.V.) rispetto al cinema, proprio nel momento in cui, da un lato, i Futuristi decretano l’imminente morte del primo sotto i colpi del secondo e, dall’altro -di lì a poco-, il Fascismo tenterà di trasportare il modello di produzione industriale cinematografica nell’arte teatrale. Cioè, in mezzo a questi due poli, i Rame sono -di fatto- un notevole esempio di resistenza attuata dalla grande arte degli attoriautori. E in questo, ben consapevolmente, essi si riallacciano alla tradizione del teatro all’italiana, ovvero alla Commedia dell’Arte.
Pochi anni prima di questo momento di svolta, a Bobbio -dove, nel 1912, la compagnia è appena arrivata per presentare uno spettacolo di marionette-, la futura madre di Franca (Emilia Baldini) conosce Domenico. Non proviene dall’ambiente del teatro -è una maestra-, ma entra nella compagnia l’anno successivo, nel momento in cui i due si sposano. Inizialmente si occupa dei costumi delle marionette e dei burattini; col passaggio al teatro di persona diverrà la prim’attrice del gruppo. Con tenerezza Franca rievoca il loro incontro: "La loro è una storia bellissima. Lei passava la settimana a insegnare in un villaggio su in montagna, scendeva in paese solo il fine settimana. Un giorno di vacanza e di festa, arriva il teatro delle marionette per fare spettacolo. Mamma è fra il pubblico, ad applaudire incantata. Con le altre ragazze va a fare i complimenti ai teatranti e conosce mio padre. Poi arriva il carnevale. Le sette sorelle vanno al ballo con eleganti abiti cuciti da loro stesse. Nel grande salone c’è mio padre, che indossa un abito azzurro da re. I due si guardano e ballano fino a tarda notte, fulminati. [...] Si sono scritti per un anno, poi si sono sposati". <300
Lo scioglimento della compagnia risale -come già detto- al 1940, cioè corrisponde all’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Nel corso degli anni di guerra, il teatro viaggiante della famiglia, infatti, viene destinato dal regime ad altro uso. Questo non implica l’interruzione dell’attività teatrale di tutti i membri della famiglia: Domenico continuerà a occuparsi di teatro fino alla morte, nel 1948; Franca, rimasta al seguito del padre nella sua attività d’attrice (dopo una breve parentesi in cui tenta di diventare infermiera), lascerà la famiglia nel 1950, assieme alla sorella Pia, per prodursi nella rivista: nella stagione 1950-’51 verrà, infatti, scritturata nella compagnia primaria di prosa di Tino Scotti <301 per lo spettacolo "Ghe pensi mi" <302 di Marcello Marchesi <303, in scena al Teatro Olimpia di Milano.
Tornando al suo teatro viaggiante, la compagnia teatrale girovaga dei Rame "si esibiva in un suo teatro in legno, smontabile, che conteneva oltre 800 posti a sedere e girava per i paesi e le cittadine della Lombardia, Veneto e Piemonte, recitando drammoni e operette. (Durante la guerra venne requisito dal governo e fu usato come ospedale da campo)". <304
Franca racconta dettagliatamente come fosse fatto questo teatro, a cominciare dai nomi dei macchinari, che le dovevano sembrare strani, dal momento che lo zio Tommaso, alla domanda, postale da lei, sulla loro origine "rispose: «Ce li siamo presi dalla marineria, a partire dalle corde, che noi chiamiamo appunto ‘cime’ come i marinai, e poi la fune lunga e la media; le vele, la randa di quinta, le fiancate e gli stangoni; dai marinai abbiamo appreso anche lo stesso modo di far nodi, di issare le scene e i fondali». «Ma che vuol dire questo? Che i primi attori erano marinai?» «No, non propriamente, ma di certo conoscevano bene come si costruisce una nave.»" <305
Perché questi primi attori conoscessero “bene come si costruisce una nave” non ci viene chiarito, ma è abbastanza per comprendere la ragione per cui Domenico chiamasse questo teatro viaggiante “Arca di Noè” <306. In realtà, dietro questo appellativo si rivela anche un riferimento religioso, rivisitato in chiave architettonica. Prosegue, infatti, Franca, sempre in merito: "Di qui, per analogia, mi appare l’immagine del nostro teatro smontabile. Mio fratello, che aveva qualche nozione d’architettura, diceva che era stato progettato secondo i canoni tipici di una primordiale chiesa metodista. [...] «Che significa?» gli chiesi. Enrico mi rispose: «Quando i Quaccheri arrivarono in America cercarono di mettere in piedi strutture che permettessero di raccogliere qualche centinaio di persone e tenerle al coperto. Usavano il legno, e la pianta di quelle piccole chiese era a croce.» [...] A nostra volta abbiamo scelto quell’impianto. Ogni asse o tavola era stata preparata «a terra» e issata solo dopo che tutti i pezzi erano approntati. Si sceglieva un prato o un terreno solido su cui si disegnava la pianta, e via!" <307
La stessa costruzione del teatro doveva affascinare Franca, che ne ha ricordi risalenti all’infanzia, ma riporta anche particolari interessanti sulla sua struttura: "Mi ricordo la prima volta che montarono il teatro, avevo poco più di sei anni: vidi gli operai issare quei pali tenendoli ritti per mezzo di funi. Lassù, in cima a lunghe scale, stavano i carpentieri, che incastravano i traversoni delle trabeazioni e poi li bloccavano coi bulloni. Era il vanto di mio padre, quando, ammirandolo, esclamava pieno d’orgoglio: «È come l’Arca di Noè, questo nostro vascello, tutto a incastro senza manco un chiodo. Si può montare o smontare in una giornata sola!» Dopo un paio d’ore ecco la gabbia dell’intero edificio già leggibile e pronta perché vi venissero sistemate le pareti. <308 [...] «Fate attenzione» disse a ‘sto punto mio padre, «vi voglio far notare un particolare straordinario di questa nostra struttura mobile: in primavera, d’estate e in autunno noi potremo dar spettacolo al fresco, senza pareti!» Così dicendo diede l’ordine e gli operai spinsero le pareti che si spostavano sulle loro guide. Mio padre contava ad alta voce: «Uno, due, tre...» Arrivò al dieci e tutte le pareti erano sparite, nascoste dietro il fondale. Un «ooh!» di meraviglia esplose sotto le trabeazioni del nostro tempio magico". <309
Franca racconta anche la ragione che spinge la famiglia a dotarsi di un teatro di questo tipo: essa risiede, sostanzialmente, nell’esigenza di disporre di uno spazio in qualche modo libero, non soggetto a condizionamenti esterni e a censure. A questo proposito, narra un aneddoto che sarà opportuno riportare per intero: "Pia, la seconda delle mie sorelle, [...] si lamentava a tormentone di questo andare in giro per piazze, costretti a subire le angherie, spesso ricattatorie, dei gestori delle sale private, parrocchiali o comunali, senza nessun rispetto della parola data o di un contratto stipulato e depositato. L’insulto che fece esplodere la rabbia nella nostra compagnia fu determinato dal parroco di un orrendo borgo del Lecchese che, dopo la rappresentazione del 'Giordano Bruno', dal fondo della platea arrivò come un giudice dell’Inquisizione in palcoscenico e ci ordinò brutalmente di far fagotto. Il prete gestore del locale salì in palcoscenico e urlò: «Tirate su i vostri stracci e, fra un’ora, voi e la vostra gente: sloggiate!» Mio padre diventò pallido, quasi più bianco dei suoi capelli bianchi, poi chiese: «Cosa vi ha tanto indignato, dello spettacolo?». «Il fatto del supplizio prima del rogo», rispose don Giussani (così si chiamava il prete), «quel far ingoiare uno straccio al condannato e poi tappargli la bocca con quella museruola perché non potesse proferir parola: questa è proprio una insopportabile menzogna gratuita da socialisti». Sempre per inciso devo ricordarvi che il fatto avveniva nel 1935, cioè in pieno fascismo, e fra Mussolini e il Vaticano si era appena firmato il famoso Concordato. «Macché gratuita!» risponde mio padre. «È nel testo accettato dal Ministero e già rappresentato centinaia di volte in Italia!». «Non me ne importa un fico dei timbri e dei permessi. Qui nel mio teatro non accetto i rossi, e basta così.»
Facemmo fagotto, come si dice, tutti zitti, nessuno proferì parola, ma era un silenzio più rumoroso di un uragano. Mi ricordo che quella notte io dormivo nella stessa camera di mio padre e mia madre. Loro continuavano, seppur sottovoce, a parlare. Ogni tanto sbottavano in grida. A un certo punto mi alzai avvolta nella coperta e protestai: «Io domani devo andare a scuola e voi non mi fate dormire. Non voglio addormentarmi come al solito con la testa sul banco!». «No, non preoccuparti, non dovrai andarci a scuola. Domani si parte per Novara.». «Recitiamo lì? In che teatro si va?». «Nel nostro. Lì c’è una cooperativa di carpentieri che ce lo costruirà.»" <310
L’episodio è molto esplicativo sia della formazione politica di Franca, sia delle scelte che, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, lei farà con Dario. Da questo aneddoto, infatti, s’intuisce quanto la percezione del mondo come luogo che non permette una reale libertà espressiva sia radicata, nell’interiorità di Franca, fin dall’infanzia, tanto che potremmo dire che essa costituisca il proprio DNA politico, la propria eredità genetico-ideologica. È l’esperienza della propria famiglia a far crescere in Franca la consapevolezza che gli spazi di libertà vanno conquistati e che nessuno li concede (o, quanto meno, non senza secondi fini). Ma quell’esperienza infonde in lei, fin dalla giovinezza, anche il senso della definizione di “spazio libero”: si tratta di costruire luoghi di fronte ai quali lo Stato (o tutto ciò che, in qualche modo, rappresenta i poteri forti del mondo - sia pure un banale parroco di paese) faccia un passo indietro, per permettere ai singoli spiriti liberi di poter fare un passo avanti. È quello spazio che -facendo un calembour col suo nome di battesimo- chiamiamo qui “Zona Franca” [...]
[NOTE]
278 STOPPINI, Alessandra, “Intervista allo scrittore Joseph Farrell e all’editrice Silvia Della Porta”, 10 luglio 2013, in: http://www.sololibri.net/Intervista-allo-scrittore-Joseph.html, consultata il 9 luglio 2016.
279 Ibidem.
280 In ricordo della compagnia (che meriterebbe uno studio a sé stante), Franca ha scritto e recitato un incontro-spettacolo intitolato Ricordi di famiglia, andato in scena per la prima volta a Bobbio il 29 aprile 2000, nel quale propone una carrellata di inedite situazioni vissute in famiglia tra il comico e il grottesco. Cfr. [AUTORE NON INDICATO], “A Bobbio con Franca Rame mostra e ricordi di famiglia”, in: «Libertà», 23 aprile 2000.
281 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., p. 20.
282 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., p. 11.
283 Ivi, p. 12.
284 È il caso, per esempio di Enrico Maria Salerno. Nato a Milano nel 1926, entra nell’autunno del 1945 (a diciannove anni) nella Compagnia Rame - sotto la direzione di Tommaso -, come contrasto (così, nel gergo dei girovaghi, vengono chiamati gli estranei alla famiglia), cercando, allo stesso tempo, di conciliare la nascente vocazione d’attore con la frequenza regolare dei corsi all’Università. Franca racconta che, per spiegare la sua scelta, egli “disse: «Io sono venuto qui per imparare. Sono già stato allievo di un’Accademia d’Arte, ma dopo un mese mi sono reso conto che stavo perdendo il mio tempo. Qui invece sento che mi posso arricchire di qualcosa. Per favore, insegnatemi a recitare alla vostra maniera.»” (Ivi, p. 18) Rimarrà nella compagnia fino all’aprile del 1946.
285 Ivi, p. 21.
286 VARALE, Silvia, “Nel laboratorio di Dario Fo e Franca Rame. 1 - A colloquio con Franca, un’operosa ape regina”, in: D’ANGELI, Concetta e SORIANI, Simone (a cura di), Op. cit., p. 11.
287 ENGDAHL, Horace (a cura di), Nobel Lectures. Literature 1996-2000, New Jersey, London, Singapore, Hong Kong, World Scientific, 2002, p. 21.
288 Regista e drammaturga, Valentina Esposito (Roma, 1975), dal 1995 lavora presso il Centro Studi “Enrico Maria Salerno”, svolgendo attività di promozione culturale e produzione teatrale a livello nazionale ed europeo, con particolare attenzione ai problemi sociali. Dal 2003, collabora con Fabio Cavalli nella direzione del Laboratorio Teatrale del Carcere di Rebibbia, a Roma (testimoniato dal film "Cesare deve morire" dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, di cui, tra il 2011 e il 2012, è stata responsabile organizzativa della parte teatrale). Nel 2013 ha fondato, con Fabio Cavalli, l’Accademia di Teatro Sociale con i detenuti in misura alternativa e gli ex detenuti del Carcere di Rebibbia - laboratorio di formazione teatrale permanente esterno al carcere. Attualmente Insegna Teatro nel Sociale presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha esordito nel cinema con la regìa di "Ombre della sera", docu-film interpretato dai membri dell’Accademia di Teatro Sociale e Pippo Delbono (Italia, colore 2016).
289 ESPOSITO, Valentina, Il teatro di Enrico Maria Salerno: 1945-1994 (Tesi di Laurea in Scienze Umanistiche - Corso di Laurea in Lettere - Università “La Sapienza” di Roma), 2004, p. 8, scaricabile alla pagina web: http://enricomariasalerno.it/biografia_artistica.htm, consultata il 10 luglio 2016.
290 RAME, Tommaso, “Lettera a Enrico Maria Salerno”, Varese, 30 maggio 1959, in «Archivio E.M.S. - Epistolario». L’«Archivio Enrico Maria Salerno» si trova a Castelnuovo di Porto (Roma), all’interno dell’abitazione dell’attore.
291 TOFANO, Sergio, Il teatro all’antica italiana, Roma, Bulzoni Editore, 1985, pp. 71-72.
292 Domenico Rame (1885-1948) ha ideali socialisti. Nel 1913 sposa Emilia Baldini ed è sotto la sua direzione che la compagnia passa dal teatro di figura a quello di persona. Il fratello Tommaso (1888-1968) è suo stretto collaboratore. Nominato Cavaliere nel 1936, Domenico, dal 1940, sarà Direttore del Teatro Odeon di Milano (dove proprio Dario Fo muove i suoi primi passi) e, di lì a poco, Presidente dell’Associazione Italiana Esercenti Spettacoli Viaggianti (A.I.E.S.V.).
293 [AUTORE NON INDICATO], “Lo Scheletro di Pio Rame”, in: Catalogo del Museo dei Burattini di Budrio. Collezione Zanella-Pasqualini, Comune di Budrio (Bologna), 2000, p. 46.
294 Ibidem.
295 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 39 e 41.
296 Sarà bene, qui, precisare che la marionetta è un pupazzo di legno, stoffa o altro materiale, che compare in scena a corpo intero ed è mosso a distanza o con accorgimenti non visibili (i fili, il più delle volte, che la muovono dall’alto); mentre il burattino è un pupazzo con il corpo di pezza e la testa di legno o di altro materiale, che compare in scena a mezzo busto ed è mosso dal basso, dalla mano del burattinaio, che lo infila come un guanto. Nell’Ottocento, tuttavia, quest’ultimo termine diviene talmente popolare da indicare entrambi i tipi di pupazzo (il che spiega perché Pinocchio -che tecnicamente è una marionetta- sia definito dal Collodi “burattino senza fili”).
297 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., p. 20.
298 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 41-42.
299 Ivi, p. 42.
300 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., pp. 25-26.
301 Dopo essere stato calciatore professionista tra il 1924 e il 1933, Tino Scotti (1905-1984) inizia la carriera come attore di teatro, calcando le assi di palcoscenici sui quali vengono prodotti spettacoli di varietà e di teatro di rivista. Dotato di una memoria eccezionale e di una straordinaria capacità oratoria, si contraddistingue per la velocità e la precisione delle sue parlate, sempre convulse e frenetiche, ma mai incomprensibili. Per questo motivo, viene benevolmente soprannominato Tino “Scatti”. Da buon caratterista, inventa due personaggi destinati a segnarne il successo: il cavaliere con il famoso motto “Ghe pensi mi” e il bauscia, emblemi di una milanesità agli antipodi.
302 Interpretato, insieme a Tino Scotti, da Franca e Pia Rame, Sandra Mondaini e Annì Celli.
303 Intellettuale poliedrico, Marcello Marchesi (1912-1978) è giornalista, scrittore di varietà radiofonici e televisivi, sceneggiatore, regista cinematografico e teatrale, paroliere, attore e talent scout. Ha scritto e diretto una conquantina di testi per il teatro di rivista, interpretati dai più importanti attori e dalle più importanti attrici in Italia.
304 [AUTORE NON INDICATO], “Biografia - Franca Rame”, consultabile alla pagina web: http://www.archivio.francarame.it/bioFranca.aspx, consultata l’11 luglio 2016.
305 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 22-23.
306 Ivi, p. 20.
307 Ivi, pp. 23-24.
308 Ivi, p. 24.
309 Ivi, p. 26.
310 Ivi, pp. 24-25.
Fabio Contu, Zona Franca (Rame), Tesi di dottorato, Università di Siviglia, Anno accademico 2016-2017

Enrico Maria Salerno inizia il suo apprendistato d’attore sul palcoscenico ambulante della famiglia Rame. E’ l’autunno del 1945, la compagnia percorre le province del Piemonte e della Lombardia ridotte in macerie dai lunghi anni di guerra.
A bordo del carro “La balorda”, Tommaso Rame allestisce nelle piazze dei paesi l’antico repertorio un tempo destinato al teatro di marionette. Nel suo “registro delle recite”, annota le partecipazioni dei giovani allievi-attori. Il nome di Enrico Salerno compare accanto a tre ruoli: Giuliano Dè Medici nel Cardinale di Louis Napoléon Parker, il Tenente Ruggero ne Le due orfanelle di Adolphe Dennery e Paride nel Romeo e Giulietta di Shakespeare.
La tradizione che la famiglia porta con sé è quella della commedia dell’arte, una tradizione antica che si tramanda di padre in figlio direttamente sul palcoscenico. Accanto ai “figli d’arte”, Salerno impara le regole del “recitare all’improvviso”, gli schemi fissi dei canovacci, le convenzioni che reggono il teatro delle parti e dei ruoli.
Ha un grande amore per la scrittura. A Milano riesce a lavorare come cronista e reporter per la Cineteatro-Lancio, frequentando contemporaneamente i corsi di regia: ha appena vent’anni quando intervista Vittorio De Sica.
Valentina Esposito, Il teatro di Enrico Maria Salerno: 1945-1994, Tesi di laurea, Università “La Sapienza” di Roma, 2004

domenica 28 aprile 2013

Divagando circa Torino

Ho aspettato alquanto per ringraziare mr.Hyde che, parlando di Torino, mi ha onorato, sostenendo nel suo post di aver preso da me l'idea di procedere a dei confronti tra  luoghi come appaiono in vecchie cartoline e il loro stato attuale.
Non ho trovato di meglio, infine, che pubblicare una cartolina di Superga, pervenuta in famiglia circa trent'anni fa', ma apparentemente di stampa più datata, sì da riportarmi idealmente più o meno allo stesso periodo indicato da mr.Hyde

E compiere qualche divagazione sul tema.

Potrei, invero, aggiungere qualche cenno sulla città subalpina, non, poi, così lontana da questa Riviera Ligure di Ponente, dove ho sempre abitato, ma non riesco ancora a filtrare al meglio tra i ricordi personali: posso al limite annotare, per mettere in evidenza un aspetto forse significativo su un piano più generale, che ho visto, senza, fresco undicenne, poter salire - con mio rammarico - sul trenino, perché non c'era tempo in quell'occasione, l'ormai scomparsa monorotaia, appena costruita per il Centenario dell'Unità d'Italia, ma anche per quell'Esposizione Internazionale del Lavoro, che rammentavo solo vagamente.
E le immagini, riferite a Torino, da me più facilmente reperibili, sono di carattere molto privato o banali, mentre, anche per pigrizia, non ho ancora rinvenuto - combinazione! - quelle - al pari di altre, con soggetti diversi, che pur mi interessano - di una vecchia, per certi versi memorabile, partita di calcio, giocata sempre a Torino, in quella domenica, appunto, di Italia '61. 


Dovrei pervenire a qualcosa come questa fotografia del 20 gennaio 1965 - ma in questo caso io non ero presente! -, che offre uno scorcio dello stadio di S. Siro di Milano com'era prima della profonda ristrutturazione del 1990.








La ricerca in casa di vecchie fotografie e di vecchie cartoline mi porta, invece, talora a delle curiose scoperte. Non ricordavo, ad esempio, né di esserci stato in quell'anno, né una cartolina spedita da me nel settembre 1970 da Vallauris, la cittadina amata da Picasso al punto da dedicarle una Cappella della Pace e da donare ai suoi ceramisti spunti notevoli di design. Tra questi artigiani, molti di origine italiana, che ho conosciuto qualche anno dopo.


Il fatto singolare é che ho sempre cercato di conservare - immaginando già che col tempo mi avrebbero raccontato delle storie - le cartoline ricevute, comprese quelle, recuperate, senza tuttavia con quello spirito affannarmi più di tanto, da persone intime, come facevo con mia nonna materna, alla quale, nelle mie pregresse escursioni, ne spedivo tante, non solo per affetto, ma anche per alimentare la mia particolare collezione.
Solo che oggi, come ho già insinuato, non tutto ritrovo, sia perché, lasciando mettere in ordine, a volte si nascondono le cose, sia perché in qualche eccesso di generosità devo avere provveduto anni fa' a qualche sostanzioso donativo...