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mercoledì 11 agosto 2021

Pastonchi trova posto in antologie straniere di poesia italiana moderna

Francesco Pastonchi - Fonte: Wikipedia

Il 24 giugno 1933 Alessandro Pellegrini <1 scrive a Vjačeslav Ivanov che il poeta ligure Francesco Pastonchi scriverebbe “forse” per il numero speciale del “Convegno” a lui dedicato “alcune pagine, quasi un ritratto, impressioni personali” tratte dalle loro conversazioni. Le pagine di Pastonchi su Ivanov non sono mai state pubblicate e, probabilmente, neanche mai scritte; tutto ciò che rimane dell’incontro di queste due figure sono quattro lettere di Pastonchi conservate all’Archivio Romano di Ivanov (RAI) insieme ad una bozza di risposta di quest’ultimo, che coprono un arco temporale dal 1932 al 1935.
Se non possiamo avvalerci delle “impressioni” di Pastonchi su Ivanov per capire quanto i due condividessero in ambito artistico, è senz’altro utile tracciare il ritratto di Pastonchi per scoprire quali ruoli abbia rappresentato nel panorama letterario italiano della prima metà del XX secolo.
Giuseppe Francesco Flaminio Pastonchi nasce nel 1874 a Riva Ligure, <2 ma - pur restando sempre affettivamente e culturalmente legato alla terra natia - deve la sua formazione all’ambiente intellettuale della Torino dell’ultimo decennio dell’Ottocento. Qui frequenta la facoltà di Lettere sotto la guida di Arturo Graf (1848-1913) e diventa presto noto per l’abitudine di declamare in pubblico versi propri e altrui; conosce altri protagonisti della scena letteraria italiana come Giovanni Cena, Ferdinando Neri, Giulio Bertoni, Massimo Bontempelli <3 e nasce in lui “l’amore per la forma definita” in poesia, <4 ovvero per quella ricercatezza metrica che sarà sempre il suo vero tratto distintivo: <5 'gli interessava esclusivamente un ideale carducciano (e dannunziano) di far della poesia una pratica, né estetica né filosofica, ma metrica e linguistica: una pratica che quasi si risolve tutta nella parola, scelta e collocata là dove il “numero” la dispone'. <6
Appena diciottenne pubblica una prima raccolta di poesie intitolata Saffiche (1892); questo lavoro, le tre canzoni A mia madre (1900) e la poesia civica delle odi Italiche (1903) sono considerati “esercizi di buona scuola carducciana”, mentre La Giostra d’Amore e le Canzoni (1893-1895), <7 definite anni dopo da Pastonchi stesso “saggi metrici”, <8 risentono dell’influenza dei dannunziani Isotteo, Intermezzo e Chimera, sebbene vi sia poco di veramente “preraffaellita” e “stilnovista”. <9
Una delle migliori prove di quella che viene definita la ‘prima stagione lirica’ di Pastonchi sono sicuramente i sonetti di Belfonte (1903), salutati dal critico e scrittore Ugo Ojetti (1871-1946) come uno splendido esempio di “italianità”, perché scritti in quella che è la forma “più precisa, più singolare, più perfetta” e “più eterna” della poesia italiana, appunto il sonetto, rispetto alle “novità vandaliche” dei poeti dell’inizio Novecento. <10
Pensieri intimi, quelli di Belfonte, fusi a paesaggi italici, in particolare di montagna, una lotta tra io “randagio” e “fraternità universale”, cui seguono due anni dopo le limpide liriche di Sul limite dell’ombra (1905). Qui “come pochi suoi contemporanei” Pastonchi si lascia “incantare dall’abbagliante e transitorio fascino dell’impressionismo”, <11 per poi tacere qualche anno e riapparire con la meno riuscita raccolta Il pilota dorme (1913), influenzata stavolta dal più giovane Guido Gozzano (1883-1916). <12
Con queste raccolte Pastonchi trova posto in antologie straniere di poesia italiana moderna insieme ai grandi poeti cui si ispirava (Carducci, Pascoli, d’Annunzio) e ad Antonio Fogazzaro (1842-1911), Arturo Graf e Corrado Govoni (1884-1965); <13 rappresenta l’Italia con Pascoli, d’Annunzio e pochi altri in manuali di poesia contemporanea accanto a Poe, Swinburne, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud e Claudel. <14
Oltre che poeta, Pastonchi è attivo critico letterario e saggista fin dagli anni Novanta del XIX secolo sulle pagine di giornali e riviste. Collaboratore costante, dal 1901 fino alla morte, del “Corriere della Sera”, è anche fondatore di periodici di arte e letteratura quali “Il Piemonte” (1903) e “Il Campo” (1904-1905). Per il suo impegno di giornalista e scrittore trascorre quasi tutta l’esistenza negli ambienti intellettuali di Torino e Milano, ama talora allontanarsi dalla città per riposare in località meno mondane o nei piccoli paesi della nativa Riviera.
È proprio nell’amata Liguria che il poeta ha contatti con la folta colonia russa, avendo modo di frequentare la famiglia del cugino, il deputato sanremese Paolo Manuel-Gismondi, che sposa nel 1927 la pittrice Anna Svedomskaja. <15
Nei dintorni di Antibes incontra il granduca Dmitrij Pavlovič Romanov (1891-1942), complice nell’omicidio di Rasputin del principe Feliks Jusupov (1887-1967), <16 e Sergej Djagilev (1872-1929) durante le tournées dei Ballets Russes a Monte Carlo, nella villa del noto medico Sergej Voronov. <17
Gli amici russi insistono spesso perché il poeta parli loro di Gabriele d’Annunzio, avendo avuto la fortuna di conoscerlo di persona. <18
Pastonchi diventa così famoso per le sue frequentazioni mondane e per essere riuscito, fin dai primi anni del Novecento, a crearsi un nutrito seguito, 'dovuto all’abile costruzione del personaggio, che oltre alla nota eleganza e alla posizione di prestigio di critico del “Corriere”, aveva per sale e salotti d’Italia grande successo come dicitore di poesia, da Dante a se stesso. L’attenzione al “nuovo” aveva precocemente reso il giovane Francesco esperto di comunicazione (…) rispetto al protagonismo tribunizio del maestro avverso Gabriele'. <19 [...]
1 Alessandro Pellegrini (1897-1985), germanista, francesista, scrittore, saggista e traduttore. Estimatore del pensiero di Ivanov, di cui legge alcune opere in tedesco già negli anni Venti, decide di pubblicare un numero monografico su di lui sulla rivista “Il Convegno”, della quale è creatore e redattore.
2 Notizie sulla vita di Pastonchi sono pubblicate in Francesco Pastonchi, un ligure accademico d'Italia. Biografia, ricordi del poeta, brani scelti di prosa e poesia, a cura di B. M. Gandolfo, Sanremo, Tipolito La Commerciale, 1998; M. Pardini, Francesco Pastonchi: un percorso biografico, “La riviera ligure. Quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro”, 2005, n. 48, pp. 43-60; P. Rachetto, Francesco Pastonchi (il poeta), Torino, Petrini, 1952.
3 Giovanni Cena (1870-1917), poeta, prosatore e critico, redattore di “Nuova Antologia”, rivista fiorentina di letteratura, arti e scienze dal 1902 fino alla morte; Ferdinando Neri (1880-1954), francesista, critico letterario, presidente dell’Accademia delle Scienze di Torino, direttore di importanti periodici di letteratura come il torinese “Giornale storico della letteratura italiana” e il romano “La Cultura” (1928-1936); Giulio Bertoni (1878-1942), filologo, critico e linguista, direttore della sezione di Linguistica della Enciclopedia italiana dal 1925 al 1937, presidente dell’Accademia d’Italia; Massimo Bontempelli (1878-1960), scrittore, critico e drammaturgo, ideatore del “realismo magico” italiano.
4 U. Ojetti, Cose viste, Firenze, Sansoni, 1951, p. 784.
5 M. Guglielminetti, Francesco Pastonchi poeta, in La Musa subalpina. Amalia e Guido, Pastonchi e Pitigrilli, a cura di M. Masoero, Firenze, Olschki, 2007, p. 43.
6 Ivi, p. 38.
7 La Giostra d’amore è divisa in sette cicli “in onore” di altrettanti personaggi femminili, mentre le Canzoni sono divise in Canzoni libere, Sestine e Ballate. L’impianto è di ispirazione medievale e il richiamo a Dante si esplicita in un componimento intitolato La vita nuova.
8 Cf. U. Ojetti, Cose viste, cit., p. 784.
9 M. Guglielminetti, Francesco Pastonchi poeta, cit., pp. 41-42.
10 U. Ojetti, I sonetti di Francesco Pastonchi, “Fanfulla della Domenica”, XXV, 27, 5 luglio 1903.
11 F. Olivero, Studies in Modern Poetry, London, Milford, 1921, p. 251.
12 M. Guglielminetti, Francesco Pastonchi poeta, cit., p. 43. Cf. anche M. Guglielminetti, Pastonchi e Gozzano, in La Musa subalpina. Amalia e Guido, Pastonchi e Pitigrilli, cit., pp. 349-363. Pastonchi dedica a Gozzano il saggio Il terzo Guido, in F. Pastonchi, Ponti sul tempo, Milano, Mondadori, 1947, pp. 141-171.
13 Cf. Cambridge Readings in Italian Literature, edited by E. Bullough, Cambridge, Cambridge University Press, 1920.
14 Cf. F. Olivero, Studies in Modern Poetry,  cit.                                                                                          15 Anna Aleksandrovna Svedomskaja (1898-1973), figlia del pittore Aleksandr Svedomskij (1848-1911), frequenta l’Italia fin da bambina. Studia disegno e scultura a Mosca, trasferendosi in Italia dopo la rivoluzione. Vive dal 1925 a Sanremo, dove espone le sue opere tra gli anni Venti e Trenta. Cf. la nota biografica in www.russinitalia.it.
16 F. Pastonchi, Danzò e piacque, in Ponti sul tempo, cit., pp. 253-260.
17 Sergej Abramovič Voronov (1866-1951), chirurgo e scienziato russo emigrato in Francia. Acquista nel 1925 una spaziosa villa a Grimaldi, frazione di Ventimiglia.
18 F. Pastonchi, Colazione con Voronoff, in Ponti sul tempo, cit., pp. 69-79.
19 S. Verdino, Ascolto di Pastonchi, in Pastonchi, ricordo di un poeta ligure (Atti del Convegno di Riva Ligure e Sanremo, 5-6 dicembre 1997), a cura di G. Bertone, Novara, Interlinea, 1999, pp. 66-67.
Giuseppina Giuliano, Il Sole, “signore del limite”. Lettere di Francesco Pastonchi a Vjačeslav Ivanov in Archivio Russo-Italiano VIII - Russko-ital’janskij Archiv VIII, Pag.105-139, Salerno, Europa Orientalis, 2011 

Già Pastonchi, all’indomani della pubblicazione della Via del rifugio, aveva esortato il giovane Gozzano a ricercare la propria voce e a liberarsi dalle fonti francesi, quelle che più spiccavano all’orecchio dei contemporanei, più ancora di d’Annunzio che aveva emanato tanto della propria personalità da essere difficilmente riconoscibile. Ma il critico <2 non sapeva che ancor prima di lui, a separare l’originalità dell’oro dall’argento del plagio, ci aveva  pensato Mario Vugliano <3, che eliminò dal fascio di poesie pronte per l’Editore Streglio, quelle in cui il magistero dannunziano era troppo invadente, per lasciare spazio a quel mazzetto di poesie intitolato La via del rifugio.
2 F. Pastonchi, in Primavera di poesia, in <<Corriere della sera>>, 10 giugno 1907, parla soprattutto di Jammes e conclude che Gozzano dovrebbe: <<liberarsi da certe coloriture [...] da influenze che ne alterano l’organismo e lo dispongono a imitazioni>>
3  Carlo Calcaterra, in Con Guido Gozzano e altri poeti, Bologna, Zanichelli, 1944, narra l’episodio della “censura” di Mario Vugliano: <<Così nel 1907 apparve smilza smilza la prima sua raccolta di rime. La via del rifugio, senza Il frutteto, senza il sonetto L’antenata, senza i versi al Bontempelli, senza L’altana, senza i sonetti Domani e altri componimenti>>, pp. 27 e 28

Sara Calì, Gozzano tra D'Annunzio e Pascoli. Legami intertestuali, Tesi di Laurea, Università degli Studi "Roma Tre", Ciclo XXII

Pastonchi Francesco: 26 L, 30 C. Carteggio 1920-1951.
Pastonchi legge di UB soprattutto gli scritti d’arte e i Precetti ai pittori. I due condividono l’amicizia con Papini, Soffici, Linati. Alla morte dell’amico, UB pubblica sulla «Provincia» di Como una Lettera in morte di Francesco Pastonchi [029].
L'Archivio Ugo Bernasconi, Carteggi, Manoscritti, Documenti a stampa (1874-1960). Inventario, Carteggi: elenco dei corrispondenti, a cura di Margherita d’Ayala Valva, Edizioni Scuola Normale Superiore Pisa, 2005

 

sabato 5 giugno 2021

Come al solito ritrovo Bruno Fonzi


Il romanzo di Fonzi si ambienta sulla riviera ligure, dove un gruppo di ricchi sfaccendati recita - fra partite di tennis, cene e mondanità - una commedia imprevedibile che si rovescia in dramma.
Redazione, Bruno Fonzi, Tennis, Einaudi, 1973, Antro di Ulisse   

[...] Ricordo che quando veniva a trovarmi a Bordighera dimostrava un attaccamento a quei luoghi e ad un comune amico in particolare, lo scrittore Guido Seborga, l’Hess della Resistenza e dell’impegno socialista all’Avanti che aveva poi abbandonato per dedicarsi  alla pittura e alla scrittura nell’immediato entroterra bordigotto. Attorno al mitico locale “Che Louis” in viale Italia si trovavano intellettuali come lui, Betocchi, Navarro (affezionatissimo di Bordighera e di Venezia  per le sue vacanze) e Bruno Fonzi che a Bordighera dedicò il romanzo Tennis. Ero un giovane universitario ed ho potuto partecipare di quel clima solo   attraverso i suoi epigoni, notandone le profonde inquietudini esistenziali che non bastavano più bevute a rasserenare. Hess, sicuramente il più affascinante e libero, era profondamente deluso e si poteva cogliere con immediatezza. Massimo Novelli ha scritto di lui in modo raffinato, cogliendone l’arte e il travaglio interiore profondo [...]
Pier Franco Quaglieni, Quelle vacanze nella Liguria torinese, Lo Spiffero, 3 agosto 2015 


Il mio primo rapporto con Bruno Fonzi risale al dicembre del 1974. Nell’aprile di quell’anno aveva pubblicato, nei “Nuovi Coralli” di Einaudi, I pianti della liberazione, quel racconto suo bellissimo che faceva parte della prima raccolta Un duello sotto il fascismo del ’61. Il due dicembre mi scrisse per ringraziare dell’articolo dedicatogli. S’avviò così un’amicizia durata poco meno di due anni, ma intensissima e profonda. “Come se ci conoscessimo da molto”, diceva. Ci vedemmo di lì a poco a Milano per un breve incontro tra due librerie, la casa Garzanti, un ristorante. Portava la sua eleganza come il colore degli occhi e l’andatura nobile che lo contrassegnava. Era nato a Macerata nel 1914. A Macerata era rimasto fino al ’26 quando la famiglia si era trasferita a Torino. Dopo la laurea in Scienze Economiche e Commerciali, negli anni Quaranta sarà a Roma dove intreccerà amicizie che si interromperanno con il suo spegnersi: Moravia, Elsa Morante, Giorgio Bassani, Giacomo Debenedetti, Ennio Flaiano, Niccolò Gallo, Mario Pannunzio che lo chiamerà a collaborare, per circa un decennio, a “Il Mondo”. Nel ’49 fissa la residenza definitiva a Torino, dove sposerà Ada Fosco, e sarà chiamato, da Cesare Pavese, ad occuparsi della collana di narrativa inglese e nordamericana. Poco prima della morte, nel giugno del ’76, lascerà l’Einaudi per Garzanti. Le insidie dell’intelligenza si era intitolato il seminario di studi presso l’Università di Urbino, Istituto di Filologia Romanza, tenutosi il 10 e 11 maggio 1988, a cura di Gualtiero De Santi e al quale parteciparono Gina Lagorio, Mario Santagostini, Donatella Marchi, Massimo Raffaeli, Fabrizio Adanti, Maria Lenti e il sottoscritto.
A oltre dieci anni dalla sua perdita, tornava l’identità di scrittore e di traduttore superbo che era passato attraverso le regioni più intense e impervie della letteratura che gli premeva: il Sartre de La nausea (1947) e l’Hemingway di Un addio alle armi (’45), il Teatro di Arthur Miller (’59) e quello di O’Neill (1962), La fortezza di Singer (’72) e le Memorie di una maitresse americana della Kimball (’75), Ragtime di Doctorow 8’76) e I libri della mia vita di Henry Miller (’76), per citarne alcuni.Scese ad Ancona, provenendo da Firenze, nel marzo del ’76, per presentare alla Biblioteca “Benincasa” la raccolta dei suoi racconti di una vita, Equivoci e malintesi, che Einaudi aveva pubblicato poco prima. Poggiata la valigia da certi suoi parenti di Via Villarey, risalimmo in auto per raggiungere Portonovo e rammentare le pagine di Musil ne “Il viaggio in paradiso”, appendice de L’uomo senza qualità, nel quale quella baia è toccata dalla grazia della scrittura e dei sensi. Ripercorremmo l’itinerario della sua infanzia per la città ferita ancora dal terremoto del ’72 e con le tracce aperte dell’ultima guerra europea: la via delle carceri, i palazzi del Guasco, di San Pietro, l’arcivescovado, il porto.
Camminava nell’impermeabile scuro tutto abbottonato e raccontava una storia di brevi capitoli lasciando che crescesse il ritratto del ragazzino che era stato, occhi vivi e veloci, in quei luoghi tra l’Anfiteatro e Piazza San Francesco. Salendo per la Cattedrale gli dicevo che lungo quel percorso – e più sotto – Visconti aveva girato, nel ’42, le scene anconetane di Ossessione, con Girotti, la Calamai, Juan De landa, Elio Marcuzzo. Anche le vie di quel film erano, in gran parte, scomparse con i disastri dei bombardamenti. Poi Villa Bosdari verso il Trave, dove cenammo, da soli, nel conforto di una conversazione che durava da ore e che avrebbe occupato gran parte della notte. Sulla spiaggia di Portonovo mi parlò di Pavese, degli anni einaudiani. Consegnava figure e fatti oltre il mito e la leggenda, nell’asciutta evidenza delle cose. Non condivideva la pubblicazione de Il mestiere di vivere, il diario d’esistenza che si chiuderà con il suicidio dello scrittore nell’agosto del 1950, a quarantadue anni.
Appoggiati a una barca rovesciata vicino alla Torre De Bosis affrontammo i suoi libri. Ironico, discreto, attento, sfogliava le sue pagine e le pagine dell’Italia con la stessa andatura esatta della scrittura. Le Marche, per lui, erano elegia e memoria. Un suo romanzo del ’64, Il maligno, era stato ambientato “in quella zona dell’Italia centrale imprecisa e ibrida quant’altre mai, dove confinano l’alto Lazio, l’Umbria e le Marche” (Giorgio Bassani). La presentazione del giorno dopo, affollatissima e che gli piacque proprio per il carattere di imprevedibile festa composta, si chiuse in un ristorante di Piazza del Plebiscito. Poi uscimmo a camminare fino al Porto che ancora consentiva la passeggiata sulle banchine libere, tra bitte e gomene e l’odore d’acqua morta. Il giorno dopo raggiungemmo Recanati e Macerata, senza malinconia. La coscienza vigile del reale l’avvisava ogni volta degli smottamenti e dei rischi dell’emozione. Seppi, la mattina del 5 giugno, da un piè di pagina de “Il Giorno”, della sua improvvisa morte a Milano. La civiltà laica e l’educato anarchismo tacquero all’improvviso come la civile gentilezza, la pazienza dignitosa, la raffinata intelligenza. Nel suo lavoro di autore e nelle scelte del traduttore non c’è mai stata la volontà di piegare il reale, ma l’esigenza di approssimarsi alla verità delle immagini sensibili, delle situazioni, per “restituire ciò che abbiamo preso dal granaio della vita” secondo l’Henry Miller da lui stesso “doppiato” in italiano. L’abitava il bisogno di dire quel che aveva in testa mediante la forma più vicina a “come” lo sentiva. L’universo delle idee e degli sguardi: così si compone il giuoco di macchine linguistiche e di posizioni stilistiche del più controverso romanzo suo del ’73, Tennis. Dopo trentuno anni la voce morbida suggerisce: “Che lo scrittore sia interprete della società mi pare indubbio. Altrettanto indubbia mi pare la sua nessuna influenza sull’andamento delle cose: […] quasi sempre la sua testimonianza – e magari, quando c’è, il suo messaggio – vengono recepiti a posteriori. Troppo tardi”
Francesco Scarabicchi, Love in Translation: Bruno Fonzi, Le parole e le cose 2 



Nel maggio del 1958, dalle pagine de “Il Mondo”, Bruno Fonzi, scrittore che vale la pena riscoprire - con Einaudi ha pubblicato Il maligno e Tennis, ha tradotto, tra i tanti, Faulkner, Singer e Hemingway - racconta che “Gli americani hanno infine riconosciuto che Pound non è matto e l’hanno liberato dal manicomio”. Il pezzo è ben scritto, un robusto sketch narrativo, e costituisce una specie di cliché: lo scrittore dettaglia, per sommi capi, la cornice della vicenda poundiana - fascino, fascinazione per il fascismo, arresto, manicomio criminale -, e il suo incontro con il poeta, a Rapallo. La chiusa del pezzo è saporita - “Lo rividi di sfuggita a Roma… Aveva il cappello a larghe tese, un bastone dalla punta ferrata e un lungo sigaro. Mi parve proprio ammattito” - e dimostra, come altri articoli (pressoché esemplari, cioè aurei esempi di giornalismo narrativo) raccolti in È inutile che io parli, la quasi assoluta, appagata, indifesa incomprensione di Pound da parte della cultura italiana. Questa è una delle scabre scoperte del libro, edito da De Piante e curato da Luca Gallesi, che raccoglie “Interviste e incontri italiani” di Ezra Pound dal 1925, l’anno in cui il poeta si trasferisce a Rapallo, al 1972, l’anno della morte, che lo coglie a Venezia, dove è sepolto.
[...] Credo che il caso sia retto da un remota armonia, allora, perché nei giorni in cui De Piante manda in libreria È inutile che io parli, Massimo Bacigalupo, insigne studioso e traduttore di Pound, ha fatto ristampare il libro di suo padre, Giuseppe Bacigalupo, Ieri a Rapallo, che custodisce un mirabile ritratto di “Ezra Pound”. Il ritratto è bello perché privo di civetterie intellettuali e di tremori politici. Si racconta l’arresto di Pound – “Stava traducendo il Libro di Mencio il 3 maggio 1945 quando due partigiani lo prelevarono nella casetta di S. Ambrogio. Se lo mise in tasca e li seguì” –, il carcere, l’incontro, nel 1962, in Liguria, dopo un ricovero nella Casa di Cura di Martinsbrunn, vicino a Merano, “dimagrito, invecchiatissimo… in un mutismo quasi assoluto”. Giuseppe Bacigalupo è medico di fama e conduce Pound nella sua clinica, Villa Chiara: il poeta è operato dopo aver rilevato “una grave intossicazione uremica”. I ricordi più estasianti, però, affondano nel 1926, quando Bacigalupo conosce Pound “sui campi del Tennis Club di Rapallo. Ero agli inizi di uno sport che mi avrebbe dato molte soddisfazioni anche in campo agonistico, mentre Pound vi veniva a sfogare le energie non esaurite della sua vulcanica attività intellettuale, saltando e sudando copiosamente tra esclamazioni assai poco ortodosse”. Insieme a Pound, il giovane Bacigalupo partecipa “a qualche piccolo torneo nelle cittadine rivierasche, dove giungevamo sulla Fiat 509 torpedo, carichi di entusiasti del tennis e guidata da mia madre”. Quando Pound vinceva, insieme al giovane, talentuoso amico, “era giulivo come un ragazzo”. Sapeva giocare: “con poco stile ma con inesauribile energia e combattività”. Il poeta sul campo da tennis. Non avrebbe desiderato altro ricordo: lì, nel gioco, dove tutto è vento, volontà, vigore e verbo scomposto. E l’azzurro - si sa, siamo in Liguria - è una traccia di vetro.
Redazione, Mi parve proprio proprio ammattito. Ezra Pound in Italy: l’idolo incompreso, Pangea, 15 aprile 2021   

Anni fa, chiacchierando con un caro amico a proposito di racconti mi disse che gli era stato nominato da non ricordo chi questo Bruno Fonzi come uno dei migliori scrittori italiani di racconti del Novecento. Era un autore che non conoscevo (d’altronde ho molte lacune), così qualche tempo dopo in biblioteca presi un suo piccolo libro, I pianti della Liberazione, pubblicato da Einaudi singolarmente negli anni ‘70 ma che faceva parte della raccolta di racconti d’esordio del 1961, Un duello sotto il fascismo, pubblicata anch’essa dall’editore torinese. Mi piacque e mi ripromisi di approfondire ma, come mi capita spesso, sono facile alla distrazione e le mie letture vagolano. Un paio d’anni fa ero in questa piccola libreria in città, Les Bouquinistes, che ha un bel catalogo di libri usati, e dando un occhio come al solito ritrovo Bruno Fonzi. Due libri: uno era quello già letto, e l’altro era questo romanzo, Il Maligno, del 1964. Presi e portai a casa e misi a posto, lì tra le letture da fare. Ogni tanto mi guardava ma non era il momento, credo, e così l’ho letto solo adesso.
Siamo negli anni ‘30, in un piccolo paese appenninico a un centinaio di chilometri da Roma. Il Fascismo è un’ombra lontana vista perlopiù solo come opportunità di possibile potere.
Il Maligno invece è lì, da qualche mese, in una casupola di una sola stanza, vicina al bosco, dove abitano la Bibiana e la piccola figlia Settimina. Di notte accade qualcosa, la voce gira e le persone vanno a vedere, a sentire. Le autorità cercano di vigilare, ma è chiaro come solo l’intervento del parroco possa liberare il luogo e riportare la pace; la Bibiana però si deciderà a chiamarlo?
[...] Chi è, cosa è questo Maligno sulla bocca di tutto il paese ma che non si dovrebbe/potrebbe nominare? Di sicuro c’è, di sicuro “parla”, di sicuro scombussola e travolge la vita delle persone che vi si agitano intorno. Perché il Maligno non si sposta, il Maligno sta; il Maligno non appare, il Maligno è. Il Maligno è “la valvola rivelatrice” dei peccati e i peccatucci, esplicita i dubbi e rende reale ciò che si finge di non vedere.
Il Maligno è, da un punto di vista narrativo, l’escamotage che permette all’autore di indagare la natura umana, di occuparsi delle persone e del paese. Fonzi, traduttore dal francese e dall’inglese, cita esplicitamente nel testo Sotto il sole di Satana, romanzo di Bernanos, e non si può non tenerne conto, ma ho ripensato anche ai racconti di Winesburg, Ohio, di Sherwood Anderson perché in ogni capitolo presenta personaggi diversi, e via via li fa interagire tra loro e alcuni come ovvio ricorrono più frequentemente e prendono rilevanza mentre altri rimangono sullo sfondo ma sono essenziali per fornire il quadro generale.
Così c’è il vecchio principe nella dimora decaduta che ospita la cugina-contessina, donna repressa che sogna leggendo libri francesi in lingua (tra cui quello di Bernanos, in cui si immedesima portando il nome di una delle protagoniste), c’è il parroco goloso che ha meno fede dei suoi parrocchiani, c’è la maestra cattolica integerrima, c’è il nuovo norcino che ha da vincere le diffidenze della clientela, c’è l’amministratore del feudo che ha qualche mira, c’è la governante, ci sono i carabinieri, c’è l’oste del Dopolavoro e certo ci sono la Bibiana e Settimina e c’è il Maligno.
La scrittura di Fonzi non indugia né indulge e il paese cui dà vita lo si sente reale, prende forma mentre si avanza nella lettura e non ci viene risparmiato nulla, eppure anche le scene più forti non appaiono eccessive o fini a loro stesse. C’è qualcosa che va oltre i fatti che vengono narrati, qualcosa che fa dei personaggi persone, qualcosa che precede e che rimane [...]
Andrea Brancolini, Bruno Fonzi, Il maligno, Lankenauta, 11 dicembre 2020   


Una Roma sguaiata e alla fame, da poco liberata dagli americani e ancora sfigurata da vent'anni di regime, fa da quinta all'irresistibile racconto di una giornata nella vita del commendator Mastroluongo, «capodivisione al ministero», marito-padre tormentato e sospettoso di ogni cambiamento. Un funerale rocambolesco, l'assedio di un usciere che fa affari con la borsa nera, l'inopinata risoluzione di varcare l'ingresso del banco dei pegni prefigurano un finale cupo e inesorabile, finché un incontro fortuito apre al protagonista le porte di una casa incantata e ricca di sorprese. "I pianti della liberazione" uscì per la prima volta nella raccolta "Un duello sotto il fascismo", pubblicata da Einaudi nel 1961. Postfazione di Christian Raimo.
Presentazione, Bruno Fonzi, I pianti della Liberazione, Abbot, 2021, Libraccio.it

Siamo a Roma, nel momento del trapasso dalla monarchia clerico-fascista a una mai nata repubblica fondata sui valori della Resistenza. Trent’anni sono trascorsi sull’alto burocrate commendator Mastroluongo senza segnare una ruga: nulla è mutato nella sua mentalità. Pavido, bigotto, anche se in fondo di buon cuore, ridotto in miseria dal carovita, per soccorrere un suo coetaneo il commendatore finisce in una casa d’appuntamenti, e vi conosce quelle delizie che il menage coniugale gli aveva sempre negato. Nella sua avventura, raccontata con una ironia tagliente che diventa giudizio morale, si riflette il quadro di una Roma «anno zero», scardinata e arruffona. Ha scritto Arnaldo Bocelli: «Particolarmente bella è la figura della “signora” Speranza, la matura ma ancora godereccia padrona di quella casa, di un impudore così naturale da sembrare quasi pudico… E di vigoroso risalto è l’ambiente familiare del commendatore, con quel figliolo anticonformista, terrore dei genitori, eppur unico barlume in quel tenebrore. Un racconto felice, che è già un punto d’arrivo». Se l’impianto linguistico e il felice disegno dei personaggi ne garantiscono l’intatta validità, l’aver individuato nel momento di massima esplosione della retorica populisteggiante la vera «ala marciante» del sistema, fa di questo libro un piccolo classico nel panorama della narrativa italiana degli anni cinquanta.
Presentazione, Bruno Fonzi, I pianti della Liberazione, Einaudi, Nuovi Coralli, 1974, Einaudi    

Tra la fine del 1953 e l’inizio del 1954 Claudi, incoraggiato forse da alcuni amici <141, spedisce presumibilmente il manoscritto de L’anatra mandarina all’Einaudi. L’eventualità di pubblicare il testo viene considerata dall’autore come «una possibilità di lavoro ancora libera e felice, un’espressione di personalità» <142. L’opera si caratterizza come la realizzazione di «un “libro” da un diario di pensiero» <143, in cui l’autore cerca di mostrare la sua riflessione teorica a partire dalla sua dimensione biografica, operazione che gli costa la fatica di passare «da un problema a un altro, da un piano intellettuale ad un altro» <144.
Il 5 ottobre del 1954 Bruno Fonzi <145 e Renato Solmi <146 rispondono a Claudi ricusando la pubblicazione del testo. Le motivazioni del rigetto vengono individuate in problematiche di natura principalmente teorica. Solmi considera il testo «anacronistico» <147 e non in linea con l’impostazione ideologica della casa editrice torinese, in quanto l’individuo si caratterizza come «un prodotto della storia, e tutt’altro che “eterna luce trascendente”» <148. Oltre alle critiche di Solmi, Fonzi precisa come «alcuni capitoli mancano di quell’assoluto rigore stilistico, o concettuale, che il genere richiede; o meglio, l’approssimazione stilistica riflette l’imperfetta chiarezza concettuale» <149. Gli effetti psicologici di queste critiche sono devastanti e amplificano una situazione già difficile e dolorosa, come descritto nel diario 1954: "Il rifiuto del mio libro da parte di Einaudi è stato un colpo netto che ho avvertito come una pugnalata allo stomaco. Qualunque siano le ragioni è stato tuttavia un rifiuto, il colpo di ritorno di boomerang lanciato in una direzione sbagliata" <150.
141 «Ho dato in lettura quella specie di piccolo o grosso zibaldone che mi accade talvolta di indicare col nome di diario» (Diario 1949-1955, p. 49). E più avanti troviamo: «Pare che certo mio diario filosofico piaccia. Oggi ho sognato una bella edizione presso uno degli editori più importanti d’Italia» (Ivi, p. 50).
142 Diario 1954 gen, p. 20.
143 Ivi.
144 Ivi.
145 Bruno Fonzi (Macerata, 27 gennaio 1914 - Milano, 5 giugno 1976) è stato uno scrittore e traduttore italiano, collaboratore di case editrici.
146 Renato Solmi (Aosta, 27 marzo 1927 - Torino, 25 marzo 2015) è stato un germanista, traduttore e insegnante italiano.
147 F.C., Lettera Einaudi, 5 ottobre 1954. La lettera non è stata archiviata ed è conservata nei documenti personali di Claudi.
148 Ivi.
149 Ivi.
150 Diario 1954 lug., p. 29.

Gabriele Codoni, Claudio Claudi: un episodio sconosciuto di umanesimo nel secolo breve. Biografia intellettuale, introduzione critica ed edizione filologica di Realtà e valore, Tesi di dottorato, Università degli Studi Urbino Carlo Bo, anno accademico 2017-2018

[...] E’ significativo lo scambio di lettere che intercorre tra Elsa Morante, Luciano Foà e il redattore della casa editrice Einaudi, Bruno Fonzi (che stava curando la pubblicazione dell’Isola di Arturo), a proposito degli spazi bianchi da lasciare nel testo. Il 15 novembre 1956, la scrittrice «riscrive» a Luciano Foà «i particolari» sui quali era già stato preso un accordo verbale: "Ciascuno degli otto lunghi Capitoli richiede un occhiello (mi sembra che si chiami
così la pagina bianca con l’indicazione del Cap. e il titolo nel centro). Essendo ognuno degli otto Capitoli principali suddiviso in numerosi Capitoli più brevi, fra la chiusa di ciascuno di questi e il titolo del successivo si richiede uno Spazio di circa un terzo di pagina. Le suddivisioni interne che talvolta si trovano nei Capitoli brevi (e che da me sul testo sono indicate con delle lineette) richiedono, fra l’una e l’altra, uno Spazio minore, possibilmente segnato da qualche asterisco o simili. Scusami se insisto su questi particolari, ma lo faccio perché, nel mio testo, queste indicazioni prendono un valore non solo tipografico, ma anche poetico. Riguardo ai caratteri, quelli su cui già ci trovammo d’accordo (usati per il romanzo supercorallo di Natalia), mi sembrano i migliori per questo romanzo".
Il 19 novembre, Bruno Fonzi risponde alla Morante che sarebbe stato meglio fare incominciare «sempre a pagina nuova» i capitoli «più brevi entro i capitoli principali», piuttosto di «lasciare uno spazio di un terzo di pagina, che è molto brutto», tenendo conto del fatto che «all’interno di questi capitoli brevi ci sono già altre divisioni con spazio bianco».
La reazione della scrittrice è molto netta: "Non è possibile […] la modifica da Lei proposta riguardo agli spazi fra i Capitoli brevi. Il fatto è che questi spazi, così come io li ho indicati sul testo dattiloscritto, rispondono, nel mio racconto, a un determinato ritmo narrativo: per il quale ognuno dei capitoli principali - divisi da occhiello -, serba, attraverso le pause fra i capitoli brevi, una sua continuità di azione. E’ necessario, perciò, mantenere fra i successivi capitoli brevi, questi spazi sulla stessa pagina; li si potrà, magari, ridurre a un poco meno di quel terzo di pagina che si era deciso, se Leo lo giudica necessario per l’estetica tipografica".
Alberto Cadioli, Le diverse carte. Osservazioni sull’intermediazione editoriale e la trasmissione del testo in età contemporanea, Bollettino di italianistica, 1/2006, gennaio-giugno

I primi romanzi di Roberto Roversi e di Fulvio Tomizza, apparsi nella «Medusa degli italiani» diretta da Gallo (e a lui attribuiti nella tabella 1) transitarono per esempio in Mondadori a seguito della chiusura dei «Gettoni» di Vittorini, che aveva già selezionato quei libri per la sua collana. Fu invece Vittorini a pubblicare nel 1951, come primo numero dei «Gettoni», l’opera prima di Franco Lucentini, I compagni sconosciuti, ma avvalendosi, come era sua abitudine, della consulenza di numerosi colleghi, tra i quali ebbe un ruolo decisivo lo scrittore e traduttore Bruno Fonzi. Lucentini stesso, in una lettera al fratello, restituisce il sapore del lavoro di squadra, plurale e litigioso: «Mi hanno detto Fonzi e Pavese che i racconti sono molto piaciuti: Pare che al meeting editoriale con Einaudi, tutti, Ginzburg, Fonzi e Pavese, ne abbiano fatte lodi così alte che Einaudi, pur non avendolo letto, si è ribellato e ha detto che loro tre capiranno l’estetica ma non l’editoria, e che una breve raccolta di racconti, in quanto breve e soprattutto di racconti, non ha ragione di essere pubblicata. Ma non è finita lì perché adesso Einaudi leggerà i racconti lui stesso e loro scommettono che cambierà idea. Perché insomma, dice la Ginzburg, “gli dovranno piacere”».
Mariarosa Bricchi, L’età del benessere in I romanzi degli altri: scrittori-editori, editori-scrittori, Atlante della letteratura italiana 3, Einaudi, 2012

lunedì 7 dicembre 2020

Non me la sentivo più di far la parte del poeta del posto

Enzo Maiolino, Ritratto di Luciano De Giovanni (particolare di un disegno del 1957) - Fonte: La Riviera..., Op. cit. infra

Volevo tanto bene a Natta da essermi prefisso di assistere ad ogni costo ai suoi prestigiosi “Lunedì Letterari”, malgrado che si svolgessero nel Teatro dell’Opera del Casinò Municipale [di Sanremo (IM)].
E non soltanto, si capisce, perché sapevo di dargli un piacere - quelle conferenze, alle quali intervenivano valenti scrittori e autorevoli critici non potevano non interessarmi - ma bisogna anche sapere che a quei tempi - si era nel 1958 - io facevo l’idraulico e poteva succedere che proprio durante uno di quegli attesi pomeriggi culturali mi toccasse, per esempio, di dover andare a pulire le stufe di qualche albergo, per cui, scappando poi a casa per lavarmi alla meglio e cambiarmi d’abito, pur giungendo col fiato in gola a occupare una poltroncina in fondo alla sala, non mi trovassi nello stato d’animo ideale per conformarmi di punto in bianco alla sontuosità dell’ambiente, ancora impregnato come mi pareva d’essere di fuliggine e di sudore.
Ma ero giovane e testardo e in quella breve parentesi di brusii e andirivieni che prevedevano l’inizio della conferenza riusciva quasi sempre a rinfrancarmi.
All’apparire sul palco di Natta al fianco del suo illustre ospite, io mi sentivo, ormai, a mio agio; tiravo un sospiro di sollievo e partecipavo allegro ai battimani del pubblico.
Ma Natta, decisamente, insisteva nel chiedermi troppo.
Pretendeva addirittura che, conclusosi il discorso, io lo raggiungessi dietro le quinte e mi facessi coraggiosamente avanti per stringere la mano al celebre personaggio di turno, mentre intanto, Natta, mi presentava.
L’ospite, messo alle strette, doveva pur rivolgermi qualche imbarazzato complimento…
Queste non volute intrusioni in un mondo che non mi toccava finivano con l’opprimermi e me ne tornavo a casa scontento e umiliato, tanto più se m’ero visto costretto a partecipare al rinfresco che concludeva la cerimonia.
[…] Quando ci ritrovammo soli implorai Natta di aver compassione dei miei limiti. Non me la sentivo più di far la parte del poeta del posto, e rinunciavo volentieri ai privilegi che ne derivavano.
[…] Da allora mi godetti il piacere dell’incognito nella mia poltroncina d’angolo, vicina all’uscita, e Natta, quando riusciva ad avvistarmi, mi salutava dal palco con un impercettibile gesto. 

Un lungo ricordo dei “lunedì letterari” apre Il vino schietto dello scrittore Giacomo Natta, omaggio firmato da Luciano De Giovanni per la rivista «Provincia d’Imperia» (14, 1991, pp. 14-15)

Alessandro Ferraro, Aprii, cauto, la porta. L’incontro di Luciano De Giovanni con Camillo Sbarbaro, in La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro,  XXVIII, n° 84, settembre/dicembre 2017

Enzo Maiolino, Ritratto di Luciano [Luciano De Giovanni], 1956 - Fonte: Comune di Diano Marina (IM) cit. infra

Di Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1921 e morto a Montichiari (Brescia) nel 2001, amici e biografi ci hanno consegnato l’immagine “esterna” di uomo schivo e riservato, costretto a intraprendere diversi mestieri e a seguire infine il mestiere del padre idraulico per provvedere ai bisogni della famiglia.
Autodidatta di moltissime letture, negli anni ’50 ebbe presto accoglienza in un cenacolo di poeti e pittori che fiorì a Bordighera, tra i quali Enzo Maiolino e Carlo Betocchi. Fu quest’ultimo a cogliere l’originalità delle sue prime prove e ad avviarlo alla collaborazione con importanti riviste letterarie nazionali. Avvenimento assai importante degli anni successivi è la corrispondenza intensa con due grandi personalità della poesia ligure, Angelo Barile e Camillo Sbarbaro, ch’egli considerò sempre amici e maestri. Con Barile, soprattutto, il rapporto si rivelerà particolarmente affettuoso e continuo data l’affinità -non l’identità- del sentimento religioso che legava entrambi.
L’attività poetica di De Giovanni si estende, con alcune interruzioni, per tutta la seconda metà del secolo scorso. Ma l’interesse esclusivo dell’autore per l’atto creativo in sé, come partecipazione al progetto di vita piuttosto che al successo della sua produzione, ha fatto mancare la cura per il ricupero e l’organica collocazione dei testi in raccolte. Ciò spiega perché ai riconoscimenti sempre lusinghieri della critica non sia seguita la conoscenza e l’apprezzamento del grande pubblico.
Pertanto la pubblicazione delle poesie di De Giovanni, promossa da amici ed estimatori, non colma tutte le lacune e riesce oggi, in parte quasi introvabile. Spetterà ai figli del poeta, Giorgio e Anna Maria trovare mezzi ed energie per dare avvio al recupero e di riordinamento dei materiali esistenti. Solo allora potrà essere avviata un’attività critica da cui attendersi la soluzione dei problemi ancora aperti. Anzitutto quello delle fonti, non ancora esaurientemente esplorate [...]
Mario Carletto, La condizione di precarietà della vicenda umana nell’opera poetica del sanremese Luciano De Giovanni, Incontri in Biblioteca, "L’infanzia, il passato, il presente. Tre stagioni, tre autori del Ponente ligure", Comune di Diano Marina, Biblioteca "A. S. Novaro", 2007

"Ehi, sorellina!". Quasi stupito, appena addolorato, la sgrida come a dirle "Cosa stai facendo? Svegliati! È inverno, fa freddo, ma c'è il sole e il cielo è limpido. Perché sei morta, allora?"
Un minimo e preziosissimo Cantico delle creature, di francescana umiltà e letizia: come tutte le poesie che ci ha lasciato Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari nel 2001.
De Giovanni per tutta la vita ha svolto lavori umili, portalettere dapprima, poi idraulico; abitava con la moglie e due figli in un piccolo appartamento sulle colline della Pigna, nella Sanremo vecchia, vicino al Santuario dell'Assunta. Amando in modo ingenuo e appassionato la poesia, appena poteva si ritagliava uno scampolo di tempo per studiare Lao Tzu, Bashô, Emily Dickinson, Rilke, Eliot, i Vangeli, i grandi del nostro '900. Tra di loro, anche Carlo Betocchi (altro maestro dimenticato… ), che fu il primo ad accorgersi di lui, presentando alcuni suoi versi sulla rivista Letteratura nel 1956.
Alida Airaghi in La poesia e lo spirito

Nella foto d'epoca, da sinistra, Enzo Maiolino e Luciano  De Giovanni

L’esistenza, oggi, di un Fondo De Giovanni lo si deve alla determinazione ma anche al caso. Era il febbraio del 2011, al Museo civico Borea d’Olmo di Sanremo Giuseppe Conte presentava il suo Viaggio sentimentale in Liguria (Philobiblon, 2010) ed eravamo giunti io da Ventimiglia, Enzo Maiolino da Bordighera e Stefano Verdino da Genova. Cogliendo l’occasione e utilizzando come pretesto la recente pubblicazione di un mio contributo - frondoso, barocco e, ahimè, pure acerbo - su Le case vicino al torrente di De Giovanni (Philobiblon, 2009) Verdino mi presentò Maiolino e poi Giorgio, avvicinatosi dall’angolo dove aveva assistito all’evento: ho conosciuto, così, il figlio e l’amico più fedele del poeta grazie al suo più assiduo studioso [...] Le riviste e il raccoglitore hanno costituito una base molto solida su cui ricostruire la bibliografia degli scritti di e su De Giovanni che si trova in chiusura del quaderno [...] l’autore rimane da decenni introvabile, come gli scrisse il 21 settembre 1984 un lettore d’eccezione, Fredi Chiappelli (da Los Angeles di passaggio a Genova): Gentile signore,leggo su «Resine» le sue Nove Poesie (2). Il profondo interesse di cui mi hanno colpito (e per ragioni che vanno dalla raffinatezza pressoché incredibile nella forma alla percezione degli scandagli nelle più austere aree dell’esperienza) mi spingono all’indiscrezione di scriverle direttamente.Non che non abbia, prima, tentato di rintracciare in varie librerie genovesi qualche Sua pubblicazione; e persino scomodato amici che si occupano di letteratura ligure per essere avviato su una pista bibliografica. Ma sono stati tentativi sfortunati, e anche da [Domenico] Astengo ho avuto il consiglio di scriverle.Non ho mai fatto niente di simile; ed ho tutto l’imbarazzo che potevo avere avvicinandomi alla letteratura quasi cinquanta anni fa. Persino la domanda mi pare cruda e impertinente.Ma vorrei leggere altre sue cose. Dunque: Come devo fare? Come posso procurarmi i suoi scritti?Ora dovrebbe venire un paragrafo di scusa. Me ne voglia esentare: e credermi invece con ammirazione il suo Fredi Chiappelli Sullo scaffale centrale [...]  una geografia in gran parte ligure (con edizioni e dedicatari di Bordighera, Sanremo, Imperia, Albenga, Savona, Genova, Recco e Sarzana) ma qualche libro gli giunse da Milano, Firenze e d’oltreoceano, tramite lo stesso Verdicchio. Oltre al Fuochi fatui con dedica di Camillo Sbarbaro nell’edizione All’Insegna del Pesce d’Oro (Milano 1958) di Scheiwiller [...] spiccano, anche per ricorrenza, i nomi di Elio Andriuoli, Fredi Chiappelli, Franco D’Imporzano, Sergio Ferrero (che attende giudizi e s’augura di non deludere De Giovanni), Roberto Rebora, Lalla Romano (che definisce De Giovanni «poeta del mare», 4 gennaio 1995), Bruno Rombi, Giovanni Testori («a Luciano De Giovanni di cui ho amato le bellissime poesie con affetto», 25 marzo 1971), Renato Turci e Guido Zavanone [...]  È la fedeltà di De Giovanni alla sua terra (nativa o d’adozione che sia), e che ben lo apparenta ai maggiori poeti della «Riviera Ligure», vero com’è ancora una volta che in Liguria non si nasce o non si vive (e soprattutto non si scrive) senza avere almeno un debito verso quel paesaggio, e il suo singolare alfabeto (6).

1 Alessandro Ferraro, Memoria di Enzo Maiolino, «La Riviera Ligure», XXVIII, 83, maggio-settembre 2017, pp. 73-77. 
2 Luciano De Giovanni, Nove poesie, «Resine», seconda serie, VI, 19, gennaio-marzo 1984, pp. 45-47 (con nota di Domenico Astengo, p. 48).
6 Giorgio Caproni, Luciano De Giovanni per i tipi di Rebellato: Viaggio che non finisce, «La Fiera Letteraria», 9 marzo 1958, p. 3. Ora in Giorgio Caproni, Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, prefazione di Gian Luigi Beccaria, Aragno, Torino 2012, vol. 2, pp. 1003-1007 (1005-1007).
 
Alessandro Ferraro, Partendo dal Fondo in La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, n° 87-88, settembre 2018 - aprile 2019, Anno XXX  

venerdì 20 luglio 2012

Riviera nature notes



La Mortola di Ventimiglia (IM), più precisamente in primo piano un sentiero nei pressi dei Giardini Hanbury, in una fotografia la cui data ultima si può presumere dal fatto che, insieme ad altre che qui pubblico con selezione molto soggettiva (e tecnica di riprodizione molto approssimativa...), correda Riviera nature notes / a popular account of the more striking plants and animals of the Riviera and the Maritime Alps di George Edward Comerford Casey.


Edito nel 1903 da Bernard Quaritch a Londra.


L'autore conobbe Hanbury, creatore di quei Giardini, così come viene riferito nel suo libro.

A questa sorta di manuale di botanica (e non solo) ho già fatto, invero, riferimento, in altra occasione.
 



È significativo che l'autore affermi di avere soggiornato in quella che noi oggi chiamiamo Costa Azzurra già prima dell'annessione di Nizza alla Francia, perché, in rapporto al momento di pubblicazione del suo lavoro, si conferma la sua constatazione in loco della trasformazione del paesaggio.


Nel suo libro compare ancora il nome italiano di Lantosca, anziché l'attuale Lantosque (sulla Vésubie): un'altra piccola curiosità.

Non sono in grado di esprimere pareri sulla parte scientifica - la maggiore - del suo trattato. Di sicuro ci sono diverse, singolari digressioni di ordine storico: ad esempio sulla definizione di portogallo che riscontra sul posto per l'arancia, termine che Casey riteneva tipicamente britannico.
 
 
A me interessava darne sommariamente conto, ma ancor più pubblicare inconsuete - ritengo - immagini d'epoca di siti a me vicini nello spazio e da me quasi tutti ben frequentati, quasi a fissarmi nella memoria come erano un tempo.


Come nel caso di La Roquette-sur-Siagne, paesino che mi riporta con il pensiero a generose e modeste persone conosciute anni addietro. Ma questo é un altro discorso.



domenica 29 maggio 2011

Botanica nostrana costiera


Devo sempre in qualche modo onorare le indicazioni di ordine storico che l'amico Alfredo Moreschi mi ha fornito su aspetti di botanica locale, ma continuo a rinviare. E cerco di rimediare con il pensare magari ai Giardini Hanbury di Mortola di Ventimiglia (IM), questo importante stabilimento di acclimatazione di piante esotiche, edificato più di cento anni fa, di cui qui sopra si può notare l'ingresso. Dopo tanto tempo, forse qualcosa di nostrano si può ormai ritenere ci sia anche lì, forse.


Sempre in questa zona quasi al confine con la Francia, ho scattato l'immagine di cui sopra, che non so ancora bene perché mi sia stata accettata in un blog specializzato.


Ci sono altri fiori nella frazione in questione, certo.



Ma, nostrano o non nostrano, un albero che da anni mi incanta é la jacaranda, che merita una storia a parte. Arriva da non so più dove, ma ormai é diffusa, a certi climi, in tutto il mondo. Mi ha dato gli spunti per i temi iniziali del mio blog, associando la sua bellezza ad un'idea positiva di natura e paesaggio. Le jacarande non sono ancora in fiore quest'anno. Ed allora sono veramente splendide. Quella della fotografia, poi, ha una storia tutta particolare, perché é praticamente abbandonata: compiuta infine una saggia potatura, ha ripreso il suo lieto ciclo. E pensare che subito non mi ero accorto, così come tanti ancora adesso, della presenza discreta dalle nostre parti di queste piante, che tante volte vengono citate in romanzi ambientati in California, a fare inizio dal mitico Chandler. Da ultimo, anche nelle cronache dei mondiali di calcio in Sudafrica.


Lì vicino, c'è anche un classico vivaio.



Ma anche tanto incolto, come forse si é potuto scorgere dietro quella jacaranda. E c'é un tipo di incolto che a me piace molto, perché sembra proprio che la natura faccia da sola, e bene, la sua parte.


Metto ancora due fotografie. Non di più. Ne potrei mettere delle altre. Anche di alcuni bei giardini della nostra zona. Ma non voglio farmi prendere da una certa enfasi.


Per scrupolo di coscienza metto qui il link ad una delle pubblicazioni di cui mi ha parlato il mio amico fotografo. E' in inglese, ma si parla di Riviera.



venerdì 18 febbraio 2011

Passeggiando lungo il mare

Passeggiando lungo il mare, mi guardo ben bene intorno, ma incontro anche diverse persone con cui scambiare le tradizionali quattro parole. Il panorama verso la parte di confine di Ventimiglia e la Costa Azzurra é notevole ed invero anche in tutt'altra direzione le colline e le montagne, così come dal basso - non certo a dimensione intera - possono essere scorte,  conservano un certo loro fascino. Il tutto rappresenta un po' i miei luoghi, che cerco di vivere scevro da enfasi particolare, pur sapendo che molti artisti, grandi o minori non importa, li hanno a più riprese immortalati. Del resto, una volta di più mi viene da ripetere che ogni posto, se osservato attentamente, può suscitare trasporto verso la storia e la cultura.

Con buona visibilità, non però quella degli ultimi giorni, forieri di una pioggia poi infine arrivata, si possono infatti intravvedere alte cime delle Alpi Marittime che scorrono in lontananza. Il nuovo raccordo di pista pedonale tra Bordighera e, ad ovest, Vallecrosia, offre la possibilità di nuovi, ancorché striminziti scorci, a chi, come il sottoscritto, in oggi preferisce non staccarsi troppo da dove battono le onde.
La nuova passeggiata a mare Bordighera-Vallecrosia

La nuova strada (non ancora ben nota e, per una curiosa coincidenza, proprio l'altra sera ho salutato per telefono un vecchio "commilitone" di Ventimiglia dei tempi della vendemmia in Francia, in quel momento in visita ad un comune amico di Parma, dandogli nell'occasione ragguagli in merito) induce invero nuovi visitatori da tutta la zona, compresi gli abitanti di Bordighera, che hanno da tempo ed in genere ampiamente trascurato la loro vecchia bella passeggiata, quasi riservandola a quel certo congruo numero di turisti, i "foresti", per lo più pensionati, normalmente registrabile tutto l'anno. Di qui la possibilità, specie di domenica, di tanti scambi, non solo di saluti, ma anche di racconti che, inevitabilmente, traggono spunto e dal mare e dal panorama.

Mi risulta, poi, più congeniale seguire questo nuovo tragitto per sbrigare, se così si può dire, faccende di vario tipo. Ad esempio passare a salutare nel vicino comune amici nel circolo dove giocano a carte, prestazione cui da tempo mi sottraggo, perché pur amando lo scopone, la mia inveterata distrazione mi dissuade dal portare a sconfitta certa persone a me care o simpatiche. Ma può capitare che, di affabulazione in affabulazione, faccia perdere a qualcuno il turno al tavolo o ad altri di ritardarne il preventivato ritorno a casa.

Mentre me ne guadagno, io indigeno con abitudini pervicacemente da cittadino, tra le altre, nuove informazioni su quel paesaggio collinare e montuoso che mi sono riguardato colà pervenendo, ivi comprese nuove tacite indicazioni su limitrofi, ma impervi punti panoramici, che so già difficilmente andrò a salire.

O ne riporto altre notizie, che mi confermano quanto già sentito putacaso da altro conoscente proprio deambulando su quel pezzo di litoranea, circa i danni che la proliferazione dei cinghiali provoca nel nostro immediato entroterra, anche con la devastazione di vigne del pregiato vino Rossese e con il crollo di tanti secolari muri a secco, che forse nessuno é più in grado di ricostruire.

Ed ora, passeggiando comodamente lungo il mare, in poco più di mezz'ora mi ritrovo da casa alla  foce del torrente Nervia, confine orientale di Ventimiglia, ma soprattutto in quel punto oasi naturale che merita ben altra penna della mia per una degna descrizione. Nella zona circostante il sottoscritto, ed ancor più la famiglia, ha abitato a lungo, ma, fattore ancora più importante, si sono svolte vicende di rilievo storico, di cui la più nota, ma non l'unica, é attestata dagli scavi archeologici e dal teatro della Ventimiglia (IM) di epoca romana.

Foce del torrente Nervia


lunedì 7 febbraio 2011

Parlando con un amico


Qualche giorno fa, assistendo ad un'interessante conferenza pubblica in cui era relatore, ho incontrato dopo qualche mese un caro amico, ben più anziano (spero non me ne vorrà!) di me, con il quale ho avuto modo di conversare prima e dopo quell'appuntamento. Già avevo minacciato scherzosamente di fare riferimento a lui in qualche mio post, dato che nell'attesa dell'inizio dell'evento mi aveva tirato in ballo di fronte ad altri amici e conoscenti per via delle coloriture umoristiche con cui andavamo non molti anni fa a dipingere, ormai stanchi, nei viaggi di ritorno certi personaggi e certe situazioni visti per motivi professionali in Costa Azzurra. Ma forse subito non aveva afferrato il senso della mia battuta, tanto da rimanere dopo stupito a fronte di qualche accenno alle mie attuali incursioni su Internet, probabilmente perché si ricordava di un mio uso del Web solo per lavoro, che tra l'altro l'aveva trascinato ad una collaborazione attiva per molte operazioni.

Senonché mi è arrivata abbastanza presto via email da parte sua una discreta mole di documentazione, di cui, la parte più significativa consiste senza dubbio nelle fotografie di pescatori in Arziglia di Bordighera, ritratti nel 1880 dal grande fotografo Alfred Noack, il cui archivio era andato distrutto in un incendio poco tempo dopo la medesima ripresa: in questa occasione, avendone l'autorizzazione, ne pubblico due.

Con l'abbinamento oggettivo di considerazioni, che già gli conoscevo, da lui esposte in pubblico quel giorno sul valore della conservazione di testimonianze locali, con il tacito invito a far conoscere altro materiale da lui indicato ed anche fornito, quale la traduzione di rare pubblicazioni inglesi di fine '800 riguardanti la botanica delle due Riviere, le stimolazioni  a scrivere qualcosa su questa nostra zona di frontiera non mi possono certo venire meno, a fronte altresì del fatto che non passa giorno, potrei dire, in cui  non venga ad apprendere qualcosa di vicende, di curiosità, anche di aspetti geografici, tutti a mio parere significativi. Come se da queste parti liguri ci fosse una miniera non ancora completamente scavata dai tanti pur autorevoli autori, non ultimi alcuni egregi blogger. Ed io, incauto, mi ci avvio sempre più dentro.

Il mio amico, che pur cura ancora diversi siti a forte impronta culturale, ha colto oggi l'occasione di una email, dovuta a motivi tecnici, per sottolineare l'importanza della discussione viva con le persone come fattore prioritario, trovando oggettivamente in me una porta aperta. E' un aspetto, quest'ultimo, che merita altre considerazioni. Che cercherò altre volte di svolgere. Di sicuro, forse in conseguenza di pregresse esperienze sul campo, non amo molto parlare di politica, anche in senso largo, se non in un rapporto diretto con gli interlocutori, pensando oltrettutto che dovrebbero esserne protagonisti donne e uomini più giovani di me.
Ventimiglia, zona di Grimaldi

Panorama da Colle Melosa, Pigna (IM)