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martedì 3 agosto 2021

Boine, Campana, Sbarbaro...


Nell’agosto 1915, Giovanni Boine pubblica una prosa intitolata Delirii: non ha nemmeno trent’anni e, nonostante le precarie condizioni fisiche, è riuscito ad affermarsi come critico letterario e studioso di mistica scrivendo per «Il Rinnovamento», organo ufficiale dei modernisti lombardi, per «La Voce» di Papini e Prezzolini e per «La Riviera Ligure» di Mario Novaro. Da qualche anno combatte coraggiosamente con la tubercolosi, malattia che non gli dà tregua e che lo costringe a frequenti e costosi soggiorni terapeutici in montagna che può permettersi solo grazie alla generosità dell’amico Alessandro Casati <1. Boine risiede in un paesino della Liguria, Porto Maurizio, un borgo di pescatori baciato dal sole che non è sufficiente a lenire il suo profondo disagio, un turbamento interiore e fisico che non smette di attanagliarlo anche nei pressi della profumata e ridente costa ligure. Tra gli ulivi, la malattia, lo stato d’animo angosciato che lo accompagna quotidianamente, finiscono per riflettersi sul paesaggio circostante e penetrano come spettri nelle pieghe più intime delle sue prose espressionistiche, condizionando in profondità lo sguardo stesso del narratore. Nei Delirii non vi è traccia degli scogli bianchissimi, del rassicurante vociare della gente, delle onde che si infrangono sulla battigia, ma il paese è descritto come un borgo semideserto, un ambiente urbano dai tratti lugubri e inquietanti animato da spettri che «escono quatti [...] dal cimitero» <2, mentre «lenti fiottando con molli dita ungon di febbre ogni via» <3. Perfino i fanali delle poche automobili in circolazione gli appaiono come penetranti «occhi di mostro» di una bestia feroce dalle «zanne» aguzze, che si muove furtiva nell’oscurità spinta da «chimeriche coscie» metalliche pronte a balzare sulla malcapitata preda <4. Attorno al narratore ogni cosa si deforma, in una terrificante convulsione da incubo che ha i tratti di un’«allucinazione» <5 che sembra evocare Les Campagnes Hallucinées di Verhaeren e quella Ville, già «tenteculaire» <6, che appare avvolta da «une lumière ouatée, / Trouble et lourde» <7: «ogni cosa si sfa di paura», mentre «gli alberi e le quadre facciate» delle case «si contorcono in visi d’angoscia» <8. Lo stato d’animo del narratore finisce per proiettarsi su un paesaggio urbano che ormai non ha più nulla della solare atmosfera della Riviera. Lungo le viottole del borgo, altre viscide figure indistinte strisciano come ombre nell’oscurità, errando «per gli spiazzi delciati» <9 del paese: sono figure senza volto, fantasmi senza pace che evocano gli «spectres baroques» de Les sept Vieillards di Baudelaire, con quella loro «décrépitude» <10 che sembra renderli eterni, nell’orrore. Ad avvolgere l’intero ambiente è «una corrente viscida come di fiati e di larve», un vento ostile e deformante che rende le finestre delle case simili a «nere bocche arrestate nell’urlo» <11. Sembra di essere di fronte alle medesime finestre scure, simili a occhi vuoti <12, che accolgono il protagonista di House of Usher di un Edgar Allan Poe che, nei dintorni della costruzione, respirava «an atmosphere which had no affinity with the air of heaven, but which had reeked up from the decayed trees, and the grey wall and in the silent tarn, a pestilent and mystic vapor - dull, sluggish, faintly discernible, and leaden-hued» <13. Le atmosfere gotiche di Poe, quella nebbia nociva e misteriosa, quella foschia «color del piombo» del racconto dell’autore americano, sembrano trasferirsi, come per un macabro sortilegio, nel paesino della costa ligure dove «ombre nel buio fuggono per amorfi addensamenti di nuvolaglia bassa» <14.
Boine avverte attorno a sé lo spandersi disorientante del «ronzio vasto dell’allucinazione», uno stato d’animo che assomiglia molto a quell’«hallucination» che nel Rimbaud della Saison en enfer sa evocare, all’improvviso, «monstres» e «mystères» <15. È una trasfigurazione, quella di Boine, permeata di riferimenti culturali, di una città che - agli albori del Novecento - inizia ad essere tema centrale della letteratura del tempo e che si configura sempre più nitidamente come «la forma generale che assume il processo di razionalizzazione dei rapporti sociali» <16, lo schermo sul quale gli autori proiettano il proprio punto di vista sulla società borghese e sulle contraddizioni insite nella modernità. Nel testo boiniano non è difficile rinvenire tracce degli amati poeti francesi, ma anche rimandi letterari alle opere degli amici e colleghi scrittori che proprio in quegli anni collaboravano con le riviste letterarie più autorevoli come il «Leonardo», «Il Regno» o la stessa «Voce» sulla quale Boine pubblica numerosi interventi. 


Tra gli amici del ligure c’è Camillo Sbarbaro che nel 1914 pubblica Pianissimo, raccolta poetica descritta da Boine con entusiasmo - sulla stessa «Riviera Ligure» che accoglierà i suoi Delirii - come una silloge che «appare il meno possibile canto di gioia e di vita» e che «non intoppa mai ricercando la bellezza, nel falso, nell’abbondevole della rettorica», ma che è arte «della plumbea disperazione, succinto velo, scarna espressione di un irrimediabile sconforto» <17. Altra atmosfera rispetto alle allucinazioni dei Delirii, ma anche nella raccolta sbarbariana ci si imbatte in una passeggiata notturna:
Quando traverso la città la notte
io vivo la mia vita più profonda. [...]
Mi trasformo nel cieco del crocicchio
che suona ritto gli occhi vaghi al cielo.
Voluttà d’esser solo ad ascoltarmi! […]
E voluttà di scendere più basso!
Rasentando le case cautamente
io sento dietro le pareti sorde
le generazioni respirare.
E so l’ostilità di certe vie
tozze,
la paura di certe piazze vuote... <18
Ci si immerge in un borgo che pulsa, respira e che a tratti è disorientante e ostile: Sbarbaro, tra quelle vie, sembra vivere drammaticamente sulla propria pelle «la condizione dell’individuo nella società contemporanea, o meglio, della sua figura storica decisiva, l’abitante della grande città creata dal rapido processo di industrializzazione e dallo sviluppo dell’economia di mercato» <19. Il poeta, come già accaduto al Boine de La città <20, finisce per estraniarsi da un ambiente urbano ormai incomprensibile, animato da «Fronti calve di vecchi, inconsapevoli / occhi di bimbi, facce consuete / di nati a faticare e a riprodurre, / facce volpine stupide beate, / facce ambigue di preti, pitturate / facce di meretrici» <21 che assomigliano molto a «le grand désert d’hommes» de La Modernité di Baudelaire <22, una massa di «maschere inerti» <23 che manifesta in modo sconcertante «il carattere fondamentale della grande città moderna, il vuoto sociale ed umano in cui proietta chi vi abita» <24. L’io lirico individua così «nello sguardo l’ultima forma di contatto con il mondo» <25, uno sguardo gelido che è l’ultimo appiglio per tentare di scorgere, tra la folla, un bagliore di quella solidarietà umana ormai irrimediabilmente smarrita tra le vie della città: cammina «fra gli uomini guardando / attentamente […] ognuno, / curioso di lor ma come estraneo» <26, una massa indifferente di «esseri / sigillati in sé stessi come tombe» <27 che lo sfiorano e che ispireranno analoghe atmosfere boiniane <28.
Tra i corrispondenti di Boine in quel periodo c’è anche Dino Campana che, nella Giornata di un nevrastenico, trasfigura un ambiente urbano. La Bologna di Campana non appare nella sua nobile veste «dotta e sacerdotale», ma si palesa, «agli occhi “nevrastenici” del poeta triste, monotona, cimiteriale, fangosa, sporca, percorsa da donne artificiosamente impellicciate e irrise» <29: è una città immersa nel «malvagio vapore della nebbia», in una foschia che «intristisce tra i palazzi velando la cima delle torri, le lunghe vie silenziose deserte come dopo il saccheggio» <30. Il poeta intravede alcune ragazze nella nebbia, giovani donne che gli appaiono come «tanti piccoli animali, tutte uguali, saltellanti, tutte nere», come bestiole ostili e sconosciute, pronte «a covare in un lungo letargo un loro malefico sogno» nell’oscurità della notte <31, incubi come quelli che popolavano le notti di un giovanissimo Rebora, amico e confidente di Boine, mentre «con la man sugli occhi» sudava, da bambino, «eterne notti di paura / Nell’ascoltare il passo d’un fantasma» <32: un breve e intimo ricordo, incastonato nel cinquantesimo componimento dei Frammenti lirici, silloge poetica uscita nel 1913 e recensita da Boine nella stessa «Riviera Ligure» che accoglierà, nell’agosto del 1915, i suoi Delirii <33. Ma Campana è anche attento lettore: tra i suoi libri prediletti non solo autori italiani ma anche numerosi stranieri e, grazie alla conoscenza di ben cinque lingue, confidava già nell’estate 1910 di offrirsi «volentieri per far passare un po’ di giovine sangue nelle vene di questa vecchia Italia» <34, aprendo la cultura nazionale alle influenze estere. Traduce dal francese, dal tedesco, lingua che dimostra di conoscere «abbastanza bene» <35, ma soprattutto dall’inglese: nel 1914 Papini gli offre la possibilità di pubblicare una versione italiana di The Problems of Philosophy di Bertrand Russell, impresa editoriale che non avrà seguito. Tra le letture del poeta di Marradi c’è l’amato Poe, autore che confiderà a Carlo Pariani di aver «letto molto» <36, ma soprattutto Walt Withman, a tal punto che, salendo sul bastimento che lo avrebbe condotto in Argentina nel 1907, sembra avesse portato con sé proprio una copia di «Leaves of Grass in tasca e nella cintura, una pistola belga calibro 38» <37. La prostituta morta abbandonata nell’«immortal house» di The City Dead-House <38 ricorda sì le cupe atmosfere «dalla impronta bodleriana» <39 dell’House of Usher di Poe <40, ma si proietta al contempo, come per un macabro sortilegio, nella triste e desolata Bologna campaniana, animata solo da sataniche «troie notturne […] in fondo ai quadrivii» <41. Il Campana che si imbarca per l’America, in fondo, ha già bene in mente le rapide sequenze di immagini di città e paesaggi, pullulanti di vita e di immagini improvvise, che scandiscono il ritmo di City of Orges, della seconda strofa di Song of the Broad-Axe o di City of Ships <42. Sono questi motivi inscindibili dall’ispirazione dell’intera silloge dei Canti Orfici che si arricchiscono dei rimandi alle passeggiate di Boine e Sbarbaro tra le vie - colme di gente - dei rispettivi contesti urbani <43, con un atteggiamento di osservazione attenta - quasi registrazione visiva - che ricorda l’incipit di Once I Pass’d Through a Populous City: «Once I pass’d through a populous city imprinting my brain for future use with its shows, architecture, customs, traditions» <44. D’altronde è proprio «attraverso il tema del viaggio […] che la poesia campaniana allaccia le proprie radici […] a quelle del naturalismo panico di Withman» <45 e non è certo un caso che il poeta di Marradi inserisca alcuni versi di Song of Myself di Withman a conclusione dei suoi Canti Orfici, offrendo «una possibile chiave di lettura» <46 della propria poesia e rivelando al contempo quel rapporto profondo che lo legava all’opera dell’autore americano che, già nel marzo 1916, confidava così a Cecchi: «Se vivo o morto lei si occuperà ancora di me la prego di non dimenticare le ultime parole They were all torn and covered with the boy’s blood che sono le uniche importanti del libro. La citazione è di Walt Withman che adoro nel Song of myself quando parla della cattura del flour of the race of rangers» <47.
Nelle esperienze artistiche di questi giovani autori, legati da fili sottili ma inestricabili, si scorge una complessa matassa di allucinazioni, incubi e citazioni letterarie, un flusso di immagini permeate di un dolore e di una solitudine che, attraverso le sperimentazioni della nuova generazione di intellettuali, trovano una direzione verso la quale essere convogliati e sfociare.
1 Casati è forse l’amico più costantemente vicino a Boine, tanto che, «con somma discrezione ed altrettanta generosità, dal 1906 al 1917 e sino al giorno della morte, è sempre intervenuto in tutto, ha provveduto a tutto, a lui, alla madre, anche al fratello. Studi, libri, viaggi, soggiorni di cura a Zurigo e poi a Davos, visite mediche e medicine, vacanze e traslochi, sempre ed in tutto» (G. VIGORELLI, Prefazione, in G. BOINE, Carteggio. III. Giovanni Boine – Amici del «Rinnovamento», a cura di M. Marchione e S. E. Scalia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977, XVII).
2 G. BOINE, Frantumi, a cura di V. Pesce, Genova, Edizioni San Marco dei Guistiniani, 2007, 62.
3 Ibidem.
4 Ibidem. Si noti la profonda distanza da ciò che scriverà Marinetti, meno di un anno dopo, ne «L’Italia Futurista» a proposito dei veicoli a motore: «I motori a scoppio e i pneumatici d’un’automobile sono divini. Le biciclette e le motociclette sono divine. La benzina è divina. Estasi religiosa che ispirano le centocavalli» (F. T. MARINETTI, La nuova religione-morale della velocità, in ID., Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Mondadori - I Meridiani, 1998, 130-138: 133).
5 BOINE, Frantumi, 62.
6 E. VERHAEREN, La Ville, in ID., Les Campagnes hallucinées. Les Villes tentaculaires, prefazione di M. Piron, Parigi, Gallimard, 1982, Bruxelles, Edmond Deman, 1895, 21-24: 21.
7 Ivi, 23
8 BOINE, Frantumi, 62.
9 Ibidem.
10 CH. BAUDELAIRE, I fiori del male, traduzione e cura di L. de Nardis, Milano, Feltrinelli, 1999, 166.
11 BOINE, Frantumi, 63.
12 «I […] gazed down […] upon the remodelled and inverted images of the gray sedge, and the ghastly tree-stems, and the vacant and eye-like windows» (E. A. POE, The Fall of the House of Usher and other tales, a cura di S. Basso, Torino, Einaudi, 1997, 82).
13 Ivi, 86. «La mia immaginazione s’era eccitata al punto da persuadermi che attorno a quella dimora si raccoglieva una atmosfera specifica a quel luogo, che non aveva affinità con l’aria del cielo, ma che esalava dagli alberi corrotti, il grigio muro, la pozza taciturna, vapore arcano e torbido, greve, neghittoso, a mala pena avvertibile, color del piombo» (ivi, 87).
14 BOINE, Frantumi, 62.
15 «Je m’habituai à l’hallucination simple: je voyais très franchement une mosquée à la place d’une usine, une école de tambours faite par des anges, des calèches sur les routes du ciel, un salon au fond d’un lac; les montres, les mystères; un titre de vaudeville dressait des épouvantes devant moi» (A. RIMBAUD, Opere, Milano, Mondadori – I Meridiani, 2006, 244).
16 M. CACCIARI, Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Roma, Officina Edizioni, 1973, 9. Cacciari, riprendendo Simmel, chiarisce come la grande città sia «la fase, o il problema, della razionalizzazione dei rapporti sociali complessivi, che segue a quello della razionalizzazione dei rapporti produttivi» (ibidem).
17 G. BOINE, Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano, Garzanti, 1983, 132. Sbarbaro gli ricorda il Leopardi de Le Ricordanze e il critico è colpito a tal punto «dalla secchezza, dalla immediata personalità, dalla scarna semplicità del suo dire» che sente di essere di fronte a «una di quelle poesie [...] di cui si ricordano gli uomini nella vita loro per i millenni» (ivi, 134).
18 C. SBARBARO, Pianissimo, a cura di L. Polato, Venezia, Marsilio, 2001, 77.
19 A. ROMANELLO, Il poeta nella grande città: introduzione a Pianissimo, «Lettere italiane», XLVIII (1996), 2, 230-251: 230.
20 «La gente era queta [...]: visi noti, andature note, voci note di tutti i giorni. […] E lo pigliò uno stupore inquieto, uno sbigottimento pauroso. Voglia di fuggire come di chi fiuta un pericolo al buio. […] Perché gli uomini e le cose gli parevano improvvisamente fatti sordi, come chi non s’accorga di una valanga o della fiumana che urlando arriva e s’indugi lieto. Ora, egli, dentro la sentiva la valanga e la fiumana angosciosamente urlare» (G. BOINE, La città, in L’esperienza religiosa e altri scritti di filosofia e di letteratura, a cura di G. Benvenuti e F. Curi, Bologna, Pendragon, 1997, 185-198: 186-187).
21 SBARBARO, Pianissimo, 52.
22 «E così egli va, corre, cerca. Ma che cosa cerca poi? Si può essere certi, così come io l’ho ritratto, quest’uomo, questo solitario di un’immaginazione così attiva, sempre in viaggio attraverso il gran deserto d’uomini, persegue un fine più alto di quello di un semplice perdigiorno […]. Egli cerca quell’indefinito che ci deve essere permesso di chiamare modernità, giacché manca una parola più conveniente per esprimere l’idea a cui rimanda» (CH. BAUDELAIRE, Il pittore della vita moderna, in ID., Scritti sull’arte, Torino, Einaudi, 2004, 287-288).
23 ROMANELLO, Il poeta..., 235.
24 Ivi, 239.
25 Ivi, 237.
26 SBARBARO, Pianissimo, 43.
27 Ivi, 73.
28 Si ricordi a tal proposito l’immagine della «tomba del nome» che imprigiona l’io lirico nel terzo brano di Frammenti: «Mi fermi per via chiamandomi a nome, col mio nome di ieri. Ora cos’è questo spettro che torna (l’ieri nell’oggi) e questa immobile tomba del nome?» (BOINE, Frantumi, 47).
29 D. CAMPANA, Canti Orfici e altre poesie, a cura di R. Martinoni, Torino, Einaudi, 2003, 172.
30 Ivi, 83
31 Ibidem. Martinoni sottolinea come la notte offra a Campana l’«occasione di visioni rapide e improvvise», una fase del giorno in grado di rivelare al poeta «una atemporalità decantata, trasumanata, l’astoricità dell’inconscio, la sospensione del mito […], la ricerca dell’eterno» (ivi, XLVI).
32 C. REBORA, Le poesie (1913-1957), a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Milano, Garzanti, 1999, 95.
33 Boine scrive che quasi ogni verso della raccolta reboriana «è non sai se l’elegia o il peana della vita breve e dolorosa d’ogni giorno, la quale ti lascia in cuore lo sconforto e l’amaro ma è pregna dell’infinito, ma di cui il pensiero ti assicura ch’è il ritmo stesso dell’universo, ma in cui nella rinunzia del singolo, del gramo atto trovi l’esaltazione della divina pienezza» (BOINE, Il peccato..., 117).
34 D. CAMPANA, Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931 con documenti inediti e rari, a cura di G. Cacho Millet, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1985, 46. La lettera era indirizzata alla redazione della rivista fiorentina «La Difesa dell’Arte», diretta da Virgilio Scattolini.
35 G. PAPINI, Il poeta pazzo, in C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana. Con un’appendice di lettere e testimonianze, a cura di C. Ortesta, Milano, SE, 2002, 97-100: 98.
36 C. PARIANI, Vita non..., 39.
37 G. CACHO MILLET, Dino Campana sperso per il mondo. Autografi sparsi 1906-1918, Firenze, Leo S. Olschki, 2000, 34. Nel paragrafo Quando Dino Campana vide “l’altro sud”? (ivi, 32-35), si offre un’analisi puntuale e documentata delle diverse ipotesi in merito alla controversa vicenda del viaggio americano del poeta.
38 W. WITHMAN, Foglie d’erba, a cura di M. Corona, Milano, Mondadori - I Meridiani, 2017, 840.
39 PARIANI, Vita non..., 48. 40 Vedi nota 13.
41 CAMPANA, Canti Orfici..., 86.
42 WITHMAN, Foglie d’erba, 290-293, 426-429, 676-679. 43 Si vedano a tal proposito le note 20 e 21.
44 WITHMAN, Foglie d’erba, 258.
45 M. DEL SERRA, Dino Campana, Firenze, La Nuova Italia, 1974, 22. Si precisa qui che il «viaggio campaniano […] è […] centrato sulla restituzione oggettiva di polivalenza dinamica alle immagini umane o paesistiche che lo sostanziano, fissandole attraverso la memoria in un senso verticale, di ascesa e di approfondimento, tanto del loro valore iconico quanto della loro “apertura” simbolica» (ivi, 23).
46 PARIANI, Vita non..., 139.
47 CAMPANA, Souvenir..., 141-142. La confidenza che il poeta dimostra di avere con Cecchi è data dal fatto che il critico fiorentino, «fra la primavera del 1915 e l’autunno del ‘17» (CAMPANA, Canti Orfici..., XI), era - con Mario Novaro e Boine - uno degli ultimi amici rimasti al poeta. Cecchi, inoltre, era stato tra i primi a scorgere la centralità dei Canti Orfici nel panorama culturale del tempo, pubblicandone una recensione ne «La Tribuna» (E. CECCHI, C. Linati, D. Campana, «La Tribuna», 21 maggio 1916, 3).

Enrico Riccardo Orlando, «Allora ogni cosa si sfa di paura». Trasfigurazioni paesaggistiche nel primo ’900, in Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI - Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018), a cura di A. Campana e F. Giunta, Roma, Adi editore, 2020


Dino Campana (1885-1932) rappresenta uno dei casi più controversi nel canone della prima metà del XX secolo. La sua opera principale, i Canti Orfici, si compone di poesie e prose. In questi testi nulla viene presentato ricorrendo a un piano di realtà e di esistenza ordinaria. Le poesie sono costruite soprattutto attraverso l’uso intensivo della ripetizione e dell’analogia, nonché grazie all’accostamento straniante di immagini esterne e sensazioni interiori. La poesia è una via per esporre una sensibilità disturbata, alienata, che insegue un mondo primitivo e sensuale, parla di una realtà turbata da un trauma. Consideriamo come esempio una prosa, La notte: "Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell’adolescenza. Saliva al silenzio delle straducole antichissime lungo le mura di chiese e di conventi: non si udiva il rumore dei suoi passi. Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenìo enorme la torre, otticuspide rossa impenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgeva una strada acciottolata e deserta verso la città".
[...] Le prime recensioni esaltano la componente visionaria di Campana (a partire da Boine nel 1915), e suggeriscono facili accostamenti a Rimbaud; questa lettura è amplificata dagli ermetici a partire da Carlo Bo.
Successivamente si contrappongono in modo netto due interpretazioni critiche. Per Sanguineti, Bo, Luzi, Anceschi e Luperini i Canti Orfici è una delle poche opere con cui la poesia italiana del primo Novecento si pone al livello dell’espressionismo europeo. Secondo Mengaldo, Fortini e Contini si tratta di un libro in cui è ancora presente un’eredità tardottocentesca, pesantemente simbolista e decadente, nonché carducciana. Mengaldo definisce Campana «un tramonto che poté sembrare un’alba» (Mengaldo, 1978, p. 279). Questa sottovalutazione costituisce uno dei punti più contestati dell’antologia; probabilmente è dovuta anche a una reazione alla lettura critica di Sanguineti, che fa di Campana il principale esponente di un espressionismo italiano.
[...]
La vicenda critica di Camillo Sbarbaro (1888-1967) è legata alla “Voce” fin dall’inizio: su questa rivista Sbarbaro pubblica i primi versi, e su quelle stesse pagine Giovanni Boine scrive una delle prime recensioni a Pianissimo, libro fondamentale per molti autori successivi, a partire da Montale. Nel 1920 lo stesso Montale commenta in modo molto positivo Trucioli (Vallecchi, 1920), una raccolta di prose liriche; e in quella recensione definisce alcune caratteristiche della poesia di Sbarbaro, che viene identificato come uno dei più grandi poeti del suo tempo. Tuttavia nei decenni successivi Sbarbaro diventa uno dei «maestri in ombra» del Novecento (Pasolini, 1960), e spesso viene considerato soltanto uno dei molti poeti vociani. La vicinanza con gli altri scrittori della “Voce”, spesso invocata sulla base di presunte tendenze etico-psicologiche comuni, è, in realtà, debole sia da un punto di vista stilistico, sia per le caratteristiche della voce poetica, sia per le stesse dichiarazioni dell’autore. I versi di Sbarbaro sono quasi prosastici, scarni, e si rifanno piuttosto all’endecasillabo di Leopardi, come notato per la prima volta da Cecchi già nel 1914. Ma la vera differenza è che i suoi testi fanno qualcosa in più rispetto a quelli di Soffici, Jahier, Slataper: introducono nella poesia del Novecento l’autobiografismo come rivelazione di uno straniamento dal mondo e di una lacerazione interiore. A questo proposito, si considerino le parole di Montale, risalenti al 1920: «C’è in questo poeta una gran voglia di piangere senza perché; egli non accetta la vita benché si aggrappi disperatamente alle apparenze e di queste soltanto sia ricco [...]. Spaesato e stupefatto Sbarbaro passa tra gli uomini che non trova» (Montale, 1997, p. 190).
Questo contenuto di sofferenza personale è presentato come una parte dell’esistenza fondamentale. Lo era già nei Canti (Starita, 1835) di Leopardi, che è senz’altro un autore di riferimento fondamentale per Sbarbaro, e lo sarà ancora di più nell’opera di Montale.
Claudia Crocco, La poesia italiana del Novecento. Il canone e le interpretazioni, Carocci, 2015