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lunedì 7 dicembre 2020

Non me la sentivo più di far la parte del poeta del posto

Enzo Maiolino, Ritratto di Luciano De Giovanni (particolare di un disegno del 1957) - Fonte: La Riviera..., Op. cit. infra

Volevo tanto bene a Natta da essermi prefisso di assistere ad ogni costo ai suoi prestigiosi “Lunedì Letterari”, malgrado che si svolgessero nel Teatro dell’Opera del Casinò Municipale [di Sanremo (IM)].
E non soltanto, si capisce, perché sapevo di dargli un piacere - quelle conferenze, alle quali intervenivano valenti scrittori e autorevoli critici non potevano non interessarmi - ma bisogna anche sapere che a quei tempi - si era nel 1958 - io facevo l’idraulico e poteva succedere che proprio durante uno di quegli attesi pomeriggi culturali mi toccasse, per esempio, di dover andare a pulire le stufe di qualche albergo, per cui, scappando poi a casa per lavarmi alla meglio e cambiarmi d’abito, pur giungendo col fiato in gola a occupare una poltroncina in fondo alla sala, non mi trovassi nello stato d’animo ideale per conformarmi di punto in bianco alla sontuosità dell’ambiente, ancora impregnato come mi pareva d’essere di fuliggine e di sudore.
Ma ero giovane e testardo e in quella breve parentesi di brusii e andirivieni che prevedevano l’inizio della conferenza riusciva quasi sempre a rinfrancarmi.
All’apparire sul palco di Natta al fianco del suo illustre ospite, io mi sentivo, ormai, a mio agio; tiravo un sospiro di sollievo e partecipavo allegro ai battimani del pubblico.
Ma Natta, decisamente, insisteva nel chiedermi troppo.
Pretendeva addirittura che, conclusosi il discorso, io lo raggiungessi dietro le quinte e mi facessi coraggiosamente avanti per stringere la mano al celebre personaggio di turno, mentre intanto, Natta, mi presentava.
L’ospite, messo alle strette, doveva pur rivolgermi qualche imbarazzato complimento…
Queste non volute intrusioni in un mondo che non mi toccava finivano con l’opprimermi e me ne tornavo a casa scontento e umiliato, tanto più se m’ero visto costretto a partecipare al rinfresco che concludeva la cerimonia.
[…] Quando ci ritrovammo soli implorai Natta di aver compassione dei miei limiti. Non me la sentivo più di far la parte del poeta del posto, e rinunciavo volentieri ai privilegi che ne derivavano.
[…] Da allora mi godetti il piacere dell’incognito nella mia poltroncina d’angolo, vicina all’uscita, e Natta, quando riusciva ad avvistarmi, mi salutava dal palco con un impercettibile gesto. 

Un lungo ricordo dei “lunedì letterari” apre Il vino schietto dello scrittore Giacomo Natta, omaggio firmato da Luciano De Giovanni per la rivista «Provincia d’Imperia» (14, 1991, pp. 14-15)

Alessandro Ferraro, Aprii, cauto, la porta. L’incontro di Luciano De Giovanni con Camillo Sbarbaro, in La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro,  XXVIII, n° 84, settembre/dicembre 2017

Enzo Maiolino, Ritratto di Luciano [Luciano De Giovanni], 1956 - Fonte: Comune di Diano Marina (IM) cit. infra

Di Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1921 e morto a Montichiari (Brescia) nel 2001, amici e biografi ci hanno consegnato l’immagine “esterna” di uomo schivo e riservato, costretto a intraprendere diversi mestieri e a seguire infine il mestiere del padre idraulico per provvedere ai bisogni della famiglia.
Autodidatta di moltissime letture, negli anni ’50 ebbe presto accoglienza in un cenacolo di poeti e pittori che fiorì a Bordighera, tra i quali Enzo Maiolino e Carlo Betocchi. Fu quest’ultimo a cogliere l’originalità delle sue prime prove e ad avviarlo alla collaborazione con importanti riviste letterarie nazionali. Avvenimento assai importante degli anni successivi è la corrispondenza intensa con due grandi personalità della poesia ligure, Angelo Barile e Camillo Sbarbaro, ch’egli considerò sempre amici e maestri. Con Barile, soprattutto, il rapporto si rivelerà particolarmente affettuoso e continuo data l’affinità -non l’identità- del sentimento religioso che legava entrambi.
L’attività poetica di De Giovanni si estende, con alcune interruzioni, per tutta la seconda metà del secolo scorso. Ma l’interesse esclusivo dell’autore per l’atto creativo in sé, come partecipazione al progetto di vita piuttosto che al successo della sua produzione, ha fatto mancare la cura per il ricupero e l’organica collocazione dei testi in raccolte. Ciò spiega perché ai riconoscimenti sempre lusinghieri della critica non sia seguita la conoscenza e l’apprezzamento del grande pubblico.
Pertanto la pubblicazione delle poesie di De Giovanni, promossa da amici ed estimatori, non colma tutte le lacune e riesce oggi, in parte quasi introvabile. Spetterà ai figli del poeta, Giorgio e Anna Maria trovare mezzi ed energie per dare avvio al recupero e di riordinamento dei materiali esistenti. Solo allora potrà essere avviata un’attività critica da cui attendersi la soluzione dei problemi ancora aperti. Anzitutto quello delle fonti, non ancora esaurientemente esplorate [...]
Mario Carletto, La condizione di precarietà della vicenda umana nell’opera poetica del sanremese Luciano De Giovanni, Incontri in Biblioteca, "L’infanzia, il passato, il presente. Tre stagioni, tre autori del Ponente ligure", Comune di Diano Marina, Biblioteca "A. S. Novaro", 2007

"Ehi, sorellina!". Quasi stupito, appena addolorato, la sgrida come a dirle "Cosa stai facendo? Svegliati! È inverno, fa freddo, ma c'è il sole e il cielo è limpido. Perché sei morta, allora?"
Un minimo e preziosissimo Cantico delle creature, di francescana umiltà e letizia: come tutte le poesie che ci ha lasciato Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari nel 2001.
De Giovanni per tutta la vita ha svolto lavori umili, portalettere dapprima, poi idraulico; abitava con la moglie e due figli in un piccolo appartamento sulle colline della Pigna, nella Sanremo vecchia, vicino al Santuario dell'Assunta. Amando in modo ingenuo e appassionato la poesia, appena poteva si ritagliava uno scampolo di tempo per studiare Lao Tzu, Bashô, Emily Dickinson, Rilke, Eliot, i Vangeli, i grandi del nostro '900. Tra di loro, anche Carlo Betocchi (altro maestro dimenticato… ), che fu il primo ad accorgersi di lui, presentando alcuni suoi versi sulla rivista Letteratura nel 1956.
Alida Airaghi in La poesia e lo spirito

Nella foto d'epoca, da sinistra, Enzo Maiolino e Luciano  De Giovanni

L’esistenza, oggi, di un Fondo De Giovanni lo si deve alla determinazione ma anche al caso. Era il febbraio del 2011, al Museo civico Borea d’Olmo di Sanremo Giuseppe Conte presentava il suo Viaggio sentimentale in Liguria (Philobiblon, 2010) ed eravamo giunti io da Ventimiglia, Enzo Maiolino da Bordighera e Stefano Verdino da Genova. Cogliendo l’occasione e utilizzando come pretesto la recente pubblicazione di un mio contributo - frondoso, barocco e, ahimè, pure acerbo - su Le case vicino al torrente di De Giovanni (Philobiblon, 2009) Verdino mi presentò Maiolino e poi Giorgio, avvicinatosi dall’angolo dove aveva assistito all’evento: ho conosciuto, così, il figlio e l’amico più fedele del poeta grazie al suo più assiduo studioso [...] Le riviste e il raccoglitore hanno costituito una base molto solida su cui ricostruire la bibliografia degli scritti di e su De Giovanni che si trova in chiusura del quaderno [...] l’autore rimane da decenni introvabile, come gli scrisse il 21 settembre 1984 un lettore d’eccezione, Fredi Chiappelli (da Los Angeles di passaggio a Genova): Gentile signore,leggo su «Resine» le sue Nove Poesie (2). Il profondo interesse di cui mi hanno colpito (e per ragioni che vanno dalla raffinatezza pressoché incredibile nella forma alla percezione degli scandagli nelle più austere aree dell’esperienza) mi spingono all’indiscrezione di scriverle direttamente.Non che non abbia, prima, tentato di rintracciare in varie librerie genovesi qualche Sua pubblicazione; e persino scomodato amici che si occupano di letteratura ligure per essere avviato su una pista bibliografica. Ma sono stati tentativi sfortunati, e anche da [Domenico] Astengo ho avuto il consiglio di scriverle.Non ho mai fatto niente di simile; ed ho tutto l’imbarazzo che potevo avere avvicinandomi alla letteratura quasi cinquanta anni fa. Persino la domanda mi pare cruda e impertinente.Ma vorrei leggere altre sue cose. Dunque: Come devo fare? Come posso procurarmi i suoi scritti?Ora dovrebbe venire un paragrafo di scusa. Me ne voglia esentare: e credermi invece con ammirazione il suo Fredi Chiappelli Sullo scaffale centrale [...]  una geografia in gran parte ligure (con edizioni e dedicatari di Bordighera, Sanremo, Imperia, Albenga, Savona, Genova, Recco e Sarzana) ma qualche libro gli giunse da Milano, Firenze e d’oltreoceano, tramite lo stesso Verdicchio. Oltre al Fuochi fatui con dedica di Camillo Sbarbaro nell’edizione All’Insegna del Pesce d’Oro (Milano 1958) di Scheiwiller [...] spiccano, anche per ricorrenza, i nomi di Elio Andriuoli, Fredi Chiappelli, Franco D’Imporzano, Sergio Ferrero (che attende giudizi e s’augura di non deludere De Giovanni), Roberto Rebora, Lalla Romano (che definisce De Giovanni «poeta del mare», 4 gennaio 1995), Bruno Rombi, Giovanni Testori («a Luciano De Giovanni di cui ho amato le bellissime poesie con affetto», 25 marzo 1971), Renato Turci e Guido Zavanone [...]  È la fedeltà di De Giovanni alla sua terra (nativa o d’adozione che sia), e che ben lo apparenta ai maggiori poeti della «Riviera Ligure», vero com’è ancora una volta che in Liguria non si nasce o non si vive (e soprattutto non si scrive) senza avere almeno un debito verso quel paesaggio, e il suo singolare alfabeto (6).

1 Alessandro Ferraro, Memoria di Enzo Maiolino, «La Riviera Ligure», XXVIII, 83, maggio-settembre 2017, pp. 73-77. 
2 Luciano De Giovanni, Nove poesie, «Resine», seconda serie, VI, 19, gennaio-marzo 1984, pp. 45-47 (con nota di Domenico Astengo, p. 48).
6 Giorgio Caproni, Luciano De Giovanni per i tipi di Rebellato: Viaggio che non finisce, «La Fiera Letteraria», 9 marzo 1958, p. 3. Ora in Giorgio Caproni, Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, prefazione di Gian Luigi Beccaria, Aragno, Torino 2012, vol. 2, pp. 1003-1007 (1005-1007).
 
Alessandro Ferraro, Partendo dal Fondo in La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, n° 87-88, settembre 2018 - aprile 2019, Anno XXX  

martedì 1 dicembre 2020

Due lettere da Zanzibar a Camporosso (IM) nell'estate del 1888

Archivio: Silvana Maccario di Camporosso (IM)

ZANZIBAR, 26 luglio 1888

Amatissimi Genitori,
Eccoci Carissimi Genitori ora che siamo noi giunti al luogo destinato;
noi giungemmo il 21 Luglio alle 2 pomeridiane tutti sani e salvi;
non posso dire di aver fatto un cattivo viaggio, ma nemmeno buono; ma
basta; finché ci campiamo la vitta va sempre bene; ora per tanto
Voglio narrarvi qualche cosa che ho vedutto durante il mio viaggio.
Già voi sapete Caris. Genit. Che partimmo da Spezia il 10 giugno
E giungemmo a Porto Saïd, Egitto il 16 dello stesso mese.
Questa città e piantata sulla sabbia e vi è tutta pianura; la gente nativa di questa, sono nere; perché il calore comincia ad alterarsi.
In questa città vi e qualche Italiano, e parechi francesi, in questa città
Per quanto abbia veduto non ha nessun prodotto perché vi e tutta
sabbia. Poi partimmo da Porto Saïd il 19 , ed entrammo subito nel canale di Suez, e vi abbiamo impiegato 22 ore, perché bisogna andare adaggio,
oltre di questo bisogna fermarsi alle stazioni
per lasciar passare altri bastimenti che anch’essi sono in canale,
perche fuori delle stazioni, più di un bastimento non può
passare atteso che il canale è stretto, e ogni distanza vi sono
le machine che lavoravano ad ingrandirlo.
Poi finito il canale giungemmo subito a Suez, e colá non
si siamo nemmeno affermati, perché il console ne ha fatto
preparare la carne, e quando passammo vi era già il battello pronto
che l’ abbiamo imbarcato senza fermarci. Di li abbiamo avutto
ancora 5 giorni di traversata, che giungemmo poi a Aden il 26 di giugno
e lá cosa posso dirvi che vi faceva un caldo che non si poteva resistere.
Di questa città non posso dirvi niente perché resta dietro a una montagna
alla riva del mare vi e un mucchio di case come Camporosso;
la gente son neri e portano uno straccio davanti, il rimanente
son nudi; qui a Aden facciamo carbone e partimmo il
1 luglio imbarcando il Signor ( ?) Console Generale di
Aden. Di la partiti che noi siamo, colpi di mare a più non
posso ; e dopo 2 giorni siamo andati appoggiare in un isola chiamata…….( Raz Filuch ? ) per riparare la macchina, e ci restammo 24 ore. Dopo siamo partiti e al vedere galleggiare la povera Archimede; in fini partiti che noi siamo da
Raz Filuch alla sera, all’ indomani a mezzogiorno abbiamo dovuto dare
fondo in un’altra isola chiamata Tamrida, non potendo andare
avanti dai colpi di mare che si prendeva da prora per temanza che
non sfasciassero il bastimento. Dunque dopo altre 24 ore siamo partiti
e di lí ; vi lascio che dire in coperta non si poteva abitare, dai colpi di mare
che s’imbarcava, giù sotto si è privi dell’aria si patisce; infine che alla
meglio giungemmo all’isola di ….?secce? Il giorno 12 luglio.
Giunti li che noi siamo, facciamo carbone e qualche provista e ci rinfrancammo
4 giorni; e a dirvi la verità questa città e piccolissima ma è bella, e la
sua bellezza dipende dalla grande e bella veggetazione che essa contiene,
le colline son tutte adornate d’alberi di frutta buona a mangiare,
e varie quantità di fiori, poi colà il calore comincia già a diminuire
perché in queste parti ora siamo di marzo, dunque partiti di lì
Il 16, e giungemmo a Zanzibar il 21.
Di questa città non posso dirvi altro che d’intorno ha essa pure una
bella veggettazione ma poi d’entro e brutta, per le contrade vi è un odore
che vi leva il respiro, la gente son Neri quello si sa e vanno vestiti ancora a uso Cristiano, non come a Aden che metteva schifo a guardarli e qui vi e rischio a prendere le febbri. Il Comandante il giorno 22 ha letto l’ordine del giorno e disse di prendere ogni mattina il chinino, di guardarsi di non mangiare frutta guasta o acerba, e di andare a terra prima o dopo il tramonto del sole, di non bere acqua
della città e di guardarsi dal mangiare a terra, perché sono vivande
che possono attribuire le malattie non essendoci noi
abituati.
Ora in qualità agli affari del Console per alzar la bandiera
di questo non si è ancora deciso niente, e nemmeno si sa qiuando si
décidera, e quando sarà il nostro ritorno.
La salutte al presente é ottima sia di me, che del mio padrone
A. B. come spero che ringraziando Iddio sarà lo stesso di voi
tutti; mi saluterette i fratelli del mio padrone specialmente il
S. Domenico, B. e tutta la sua famiglia, e i miei parenti ed
amici e i miei compagni, mio cognato sorella e un baccio alle
nipoti e un baccio a a tutta la famiglia passo a dichiararmi
il vostro
Amatissimo figlio Gio:Batta

È già la terza lettera che vi scrivo da che son partito da
Spezia e non ho ancora ricevutto nessuna risposta.
Dattemi nuova di tutto ciò che avviene in Camporosso.

La mia direzione eccola qui

Al Ministero della Reggia Marina
A Roma
Per il Signor Raimondo Gio:Batta
Imbarcato sull’Archimede
Adio Adio

 

Archivio: Silvana Maccario di Camporosso (IM)

ZANZIBAR, 28 agosto 1888

Amatissimi Genitori

Già stavo pensando che cosa ne sarà della mia famiglia;
ma finalmente ricevetti notizzie che mi sollevarono il cuore.
Non sapete miei cari genitori la gioia e contentezza ch’io nutro, quando
ricevo notizzie da voi, e del paese sebenché siano pocche ; pare che
si ripresentino d’avanti quell’anime ch’io lasciai alla casa
paterna; e anche lontano lontano io sia da voi; il mio cuore e il
pensiero è sempre da viccino, mi duole assai non poterci essere fra noi
un più continuo scambio di notizzie motivo di cui è la lontananza che ci divide
e perciò v’invio una presente credo che possa in certo modo darvi una
prossima idea del paese di Zanzibar e suoi contorni.
Zanzibar stato ancora indipendente è governato da un
Pasciá comunemente chiamato Sultano; è compreso nella
Zona Torrida ed in numero di latitudine Sud entrando in
porto di notte e specialmente esse quando sono direste
in un piccolo Parigi tanto che echeggia la luce in vari punti
del paese, e sopratutto nel palazzo del Sultano; ma questa
beltà vi rende ben tosto illusi allo spuntar dell’ Aurora
in cui l’occhio in lungo d’aspetarvi quello che figuravi, gli si
présenta din’anzi le tracce di un paese selvaggio ove la civiltà sta
ancora sepolta.
A pochi passi dal mare sorge nel mezzo di una piccola
Piazza il palazzo Reale a 3 piani sporgenti .........
e terrazze e sorrette da colonne sovraposte l’una
dall’altra. Dinanzi al medesimo si eleva un ‘altra torre
la quale compie gli uffici di orologgi publici e di semaforo.
Semaforo s’intende un punto in cui rende avviso anticipato
di provenienze di bastimenti.
A destra e a sinistra è circondato da case che man
mano che si allontanano dal palazzo del Sultano, si fanno
sempre più rozze, finché terminano di ampie Capanne
ricoperte di foglie di palme. Le strade strettissime
e piene d’ogni mondizia e salano un puzzo talmente
nauseante da subito rendervi nausea la discesa a terra.
Nessun negozio è alquanto Cristiano se nonché due o tre
piccole betole apartenenti ai Turchi sono i mezzi di passatem-
po di alcune ore. Alla sinistra del palazzo del Sultano
sono messe in comunicazione per mezzo di anditi altre case
più piccole di proprietà del medesimo in cui trovarsi rinchiuse
una gran quantità di giovanette a disposizione del Sultano
e queste case sono chiamate Serraglio. Nessun può avere
comunicazione colle donne del Serraglio, ad eccezione della
servitù ivi destinata; ritenuto che esso è considerato come
un tempio di schiave, o un vero monastero di Monache.
Davanti a queste case per un lungo spazzio di terreno
è costruito un giardino fiancheggiato dalla parte del mare
da un vapore materiale, e dalle cui parti laterali sorgono moltissime
fontane. Molte gabbie di ferro contenute da varie razze
D’animaliers ferroci fanno seguito al giardino, ed in vicinanza al
mare. Queste sono le uniche bellezze di Zanzibar, il resto
vastissime pianure e verdeggianti abitate d’infinità di
bestie ferroci. Di ogni speccie di frutta è abbondantissima fra
i quali è da notarsi, gli Ananas, Dateri, Banane,
Cacchi, Aranci ecc ed altri infiniti squisiti son il loro
sapore.  Zanzibar è atraversato in lontananza da un fiume
il nome non lo so; pieno di Cocodrilli e frequentato da Leoni, Tigri,
Pantere Leopardi, Scimie ecc
Il Venerdì giorno riconoscente dai Turchi, più che la
Domenica dagli Europei, e si rapresenta d’inanzi una giornata
di Carnavale. Al colpo di un cannone alle ore 4
Antemeridiane, è il segnale dell’alzata della loro Bandiera;
a quell’ora in poi gran parte di gente nere, incomincia a
percorere i vicoli seguiti da rintocchi di tamburi e da pifferi,
finché cerca di riunirsi sulla piazza de Sultano.
Poi l’esercito del Sultano schierato sul d’avanti del palazzo
composti di circa un migliaio, senza l’aggiunta del popolo che
attende con impazienza l’arrivo del loro Sovrano.
É inutile descrivere le loro armi da fuoco, perché da voi
medesimi potrete bene immaginarvi, notando però essere la
grande abilità e divertimenti il maneggio di bastoni e delle
frecce. Allo spuntar del Sultano è subito
intonato da alcuni indigeni composti in una specie di
fanfara, Le marce che dai medesimi vengono suonate
sono molto lontane dalle nostre, ma che quantunque
diaboliche, si sente un’agradevole piacere nelle varie specie
di strumenti che noi altri non conosciamo.
Quindi il Sultano seguito da alcuni Individui suoi Sudditi,
Prende a passare in visita la trupa ; compiuta in pochi
minuti la visita tra le acclamazioni e gli aplausi
Rientrando in casa, pago della sua funzione per la
sua riconoscenza della festa si fa entrare nel
Serraglio. Scopo della visita al così detto monastero, è di
togliervi dal medesimo una fra le quali più simpatiche;
la quale viene condotta dalle madamigelle nelle sale
del palazzo e resta a disposizione di lui finché
giunga il venerdì seguente: viene ricondotta
la scambiata come una simile e così di seguito.
Le donne esistenti nel Serraglio ammontano
per quando ho potuto sapere ad una Cinquantina.
Durante il giorno continuano le feste con accompagnamenti
di musica e pifferi nella piazza del Sultano e vanno consecutivamente
perdendosi all’inoltrarsi della notte. Il clima
considerato la posizione Geografica e la stagione in cui
siamo, è da notarsi una gran parte depresione di
temperatura nel percorso della notte, però il Caldo
s’avvicina sensibilmente.
Continuando a descrivervi non voglio trala-
sciare di dirvi due parole intorno agli usi e
Costumi degli abitanti. I ricchi distinguon-
si dai poveri , perché questi ricoprono solo in parte
le loro Carni nere con lunghe Camice
e di tutti i colori. Mentre i ricchi alla grande
diferenza della finezza degli Abiti, aggiungono ;
non solo avere completamente la persona ricoperta,
ma anche calzano una qualità di stivallini
chiamati sandalie.
Nessuna bellezza distinguesi sia negli uomini che
nelle donne essi son tutti di colore nero, ed hanno i capeli
nerissimi e ricciuti. Non tutte ma in gran parte le donne
hanno il naso atraversato da un perno di metallo lucente
terminante ad una estremità di anello e dall’altro in una
piccola palla. Quantunque mi sia affaticato a
domandarne spiegazzione non rimasi contento; ma
però non ho ancora finito la mia descrizione, per ora
mi arresto e vi spiegherò meglio il rimanente al ritorno
Se iddio ........
Ricevetti il giorno 8 di agosto notizie di voi inviatemi
il 27 giugno , ma già io aveva una mia lettera in
cammino dandovi notizie del mio viaggio.
Non credette miei cari genitori che la lontananza che
passa tra le mie notizie sia per mia trascuratezza,
ma è soltanto perché la posta non parte che una volta
al mese, perché tutti i postali che partono da Zanzibar
spedisco le mie notizie benché si paghino 75 cent.mi
ogni lettera.
Ora per quanto posso dirvi che la salutte sia di me
del S. comandante non dico che sia perfettamente buona
ma c’è la passiamo ancora discretamente. Il nostro ritorno
non sappiamo quando sarà, può essere fin da domani ma
non si sa. Tanti salutti alla famiglia dell’amico Cavaré
a tutti i miei parenti ed Amici ed un bacio ed un
abbraccio a tutta la famiglia e passo a dichiararmi il
Vostro Amatissimo ed Obbed. mo Figlio GIO:BATTA
UN bacio al nonno 

Archivio di Silvana Maccario di Camporosso (IM)

[ Nella riproduzione delle due lettere, di cui qui sopra vengono pubblicate le prime pagine, non sono state apportate, a parte errori di comprensione, modifiche ai testi. L’estensore fu Sebastiano Raimondo, vulgo Gio.Batta (di Agostino e Celestina Piombo), nato a Camporosso (IM) … e morto a Genova il 25 luglio 1959. I suoi fratelli furono: Rosa (nata nel 1855), Teresa (nata nel 1857), Paolina (nata nel 1858), Giovanna (nata nel 1862), Costanza (nata nel 1871), Carlo (1867-1940)Per la nave Archimede si veda a questo link. Il Console Generale d’Italia a Zanzibar alla data richiamata era Antonio Cecchi, di cui a questo collegamento é tracciato un breve profilo ]


giovedì 26 novembre 2020

L’Imelde del km 12 della linea Savona Altare


L’Imelde abitava al casello al km 12 della linea Savona Altare. Vi abitava con suo fratello. Erano figli di un operaio venuto a costruire quella linea e poi assunto dalle FS negli anni '30.
Erano di Marzabotto. Mi diceva che i suoi parenti erano stati trucidati dai nazisti e che erano rimasti lì perché non avevano più parenti laggiù.
Era una donna silenziosa, timorosa; risaliva sulla sede ferroviaria i quasi due chilometri che separavano i nostri due caselli e veniva a fare la spesa a Cadibona.
La prima volta che la vidi mi colpì quel suo fare dignitoso, quasi schivo: mi passò accanto ed io la salutai, lei si fermò e mi chiese se ero nuovo di lì; allora le raccontai a mio modo chi ero e da dove venivo. Le chiesi se viveva sola. Lei, stringendo la sua borsa della spesa, mi disse che viveva lì al casello con suo fratello. Mi sorrise l’Imelde e volle che l’andassi a trovare: cosa che feci nei giorni a venire.
Non avevano acqua corrente né luce elettrica in casa; illuminava le stanze con il gas del carburo - allora se ne trovava in grande quantità -; fuori nel cortile avevano una pompa manuale per l’acqua con sottostante interrato serbatoio, con la quale riempivano i secchi. La casa era una grande cucina con un grande caminetto: si vedeva che la loro vita si svolgeva tutta lì in quella grande cucina.
Mi venne in mente che quello era sicuramente un retaggio di una cultura del mondo della mezz’aria e bracciantato, grandi cucine condivise e piccole stanze anguste per dormire.
Suo fratello mi guardò con attenzione - avevo 21 anni - volle sapere da dove venivo ed io fui prolifico di racconti ed aneddoti sulla mia terra. Lui la domenica scendeva alla Società di Mutuo Soccorso a Montemoro.
Credo che la loro vita si svolgesse tutta lì.
E questo mi mise tristezza.
Seppi poi dopo della loro storia da un ferroviere, anche lui emiliano: erano persone buone e la barbara uccisione dei loro parenti li confinò per sempre al km 12 della linea Savona Altare.
L’Imelde morì prima del suo amato fratello e mi dispiacque non so se qualcuno si fosse ricordato di lei credo che in pochi le fecero visita.
Imelde e suo fratello erano figli di un altro tempo ancora di un tempo che non lasciava molto spazio ai sentimenti.
I loro volti erano quelli rassegnati di uomini e donne nati poveri nei primi anni del Novecento.

Roberto Trutalli, ottobre 2018

domenica 22 novembre 2020

Flugblätter...

Il Trofeo delle Alpi a La Turbie, Costa Azzurra

Si racconta che un gioco dei surrealisti fosse quello di saltare da una sala cinematografica all'altra, in modo che le trame dei vari film si combinassero ca­sualmente dando forma a un collage di sequenze. 

Ef­fettivamente, dissociando le scene, isolandole, tutto diventa enigmatico, onirico, nuovo. Se facciamo un montaggio di spezzoni di vecchi film anni '40 e '50 il risultato è qualcosa di spiazzante, surreale. Sequenze decontestualizzate e ritagliate ci lasciano in un'atmo­sfera di sospensione e di sogno, che si apparenta a quella della dechirichiana metafisica.

Con lo zapping la cosa risulta di primo acchito assai più povera ma probabilmente ci sono comunque delle buone possibilità. Ovviamente si può farlo con la letteratura o con qualsiasi altra arte.

Si può provare a costruire un testo, montando e magari commentando pezzi di libro presi davvero a caso.

Un altro gioco può consistere nel prendere due libri: provarsi a leggerne uno di matematica con lo stesso spirito con cui si legge un manuale di letteratura e viceversa.

Tutto si può fare a pezzi e ricostruire, un po' come in archeologia è successo, per dire un caso, con il Trophée des Alpes, chissà quanto scombinato rispetto all'originale: a noi ricorda un po' il Picasso che si diverte a ricollocare gli elementi anatomici di un viso. Ma honni soit qui mal y pense.

Una volta due bambine, Claudia e Ylenia, smontarono - nel senso letterale del termine - una copia de Il pubblico della poesia curato da Bernardinelli e Cor­delli. Con molte di quelle pagine composero un enorme cuore sul pavimento. Il padre non approvò e intervenne assai stizzito. Io pensai che, invece, uno o tutti o alcuni dei poeti ivi antologizzati, Beppe Conte ad esempio, avrebbero approvato e plaudito.

A proposito: le antologie. Viene da chiedersi se nei casi migliori non si tratti di mirabili opere di smon­taggio e rimontaggio. 

Marco Innocenti, Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019

[Marco Innocenti è autore di diversi lavori, tra i quali: articoli in IL REGESTO (Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo), Sanremo (IM);  Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; articoli in Sanremo e l’Europa. L’immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d’occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006] 

sabato 21 novembre 2020

Ricordi singolari in proposito del deputato contadino Abbo e del figlio Libero

Borgomaro (IM) - Fonte: Wikipedia

[...] "Petren" Abbo * il primo deputato contadino socialista del Ponente ligure che entrò in Parlamento nel 1919 e successivamente aveva aderito al Pci. Coloro che hanno conosciuto Petren lo ricordano anche per la sua voce decisa e robusta.
Posso testimoniarlo avendolo conosciuto negli ultimi anni di vita e vissuto con lui un episodio oratorio a Borgomaro. Correva la primavera del 1965 e il Pci aveva organizzato una serie di comizi per ricordare il ventennale della Liberazione.
Anche quel tardo pomeriggio festivo avevo approntato microfono e altoparlanti collegati a una batteria supplementare sulla Fiat 1100 di proprietà della Federazione del Pci. Il comizio era stato preparato sulla piazzetta oltre il ponte sul torrente. Avevamo convenuto che cominciasse Petren Abbo. Il pubblico era intervenuto in un numero rispettabile. Avevo sistemato il microfono di fronte all'anziano oratore, ma Petren, con un gesto studiato del braccio, lo aveva allontanato: non sia che il comizio venga "dopato" dal mezzo tecnico! La voce denunciava pur sempre le origini volitive, ma gli anni c'erano tutti e la fatica incominciava a pesare: Petren concluse il comizio con fatica, ma con le caratteristiche con cui l'aveva iniziato, senza strumentazione in appoggio. È stato l'ultimo comizio di Abbo, il deputato contadino che aveva segnato un'epoca.

[...]
Se a Tovo eri certo di trovare un pubblico numeroso e attento, al comizio in altre località dell'entroterra in diverse occasioni molti di noi avevano parlato di fronte a pochissime persone e non consolava sentirsi dire che molti non erano di fronte all'oratore ma, stessimo pur certi, avevano ascoltato l'orazione da dietro le persiane!
È anche accaduto di trovare una folla insperata che viene fatta "evaporare": è il caso di un comizio programmato a Lucinasco in occasione delle elezioni politiche del 1968.
L'appuntamento era per una domenica pomeriggio. Eravamo preparati a un risultato non esaltante perché il Pci nella località prendeva pochi voti, anche se era il borgo natale di Petren Abbo il quale per giustificare la nostra debolezza a Lucinasco soleva recitare il proverbio latino "nemo propheta in patria". Quando dalla statale, dopo Chiusavecchia avevamo deviato per la provinciale che conduceva a Lucinasco in cima alla collina, avevamo osservato che ci sopravanzava una colonna di almeno una dozzina di auto che "scortava" il candidato democristiano Emidio Revelli **, un avvocato di Taggia che si apprestava a conquistare un seggio in Parlamento.
Giunti a casa di Libero Abbo, il figlio di Petren, che fungeva da nostro referente, avevamo appreso che il comizio democristiano era stato programmato mezz'ora prima di quello del Pci. Eravamo giunti sotto il porticato, in piazza del comune e avevamo trovato una folla straripante per le dimensioni del paese, sicuramente superavano il centinaio. L'oratore Dc senza porre indugi aveva iniziato a parlare sapendo "di giocare in casa" per usare il gergo sportivo. La presenza del prete al comizio era eloquente e quella di molta gente era un fatto fuori della normalità, sicuramente lo era per Libero che non aveva saputo contenersi e aveva cominciato a subissare di improperi l'oratore dello scudo crociato in merito agli scandali del tempo. Nonostante la moglie cercasse di fermarlo, con il procedere del comizio Libero si esaltava e non ascoltava nessuno e le mie pressioni per farlo zittire non sortivano risultati e io paventavo che l'oratore, che si avviava a concludere il suo intervento, avrebbe saputo cogliere l'opportunità che gli era stata offerta per appiopparci l'appellativo di antidemocratici. E così era avvenuto: con gesto plateale, l'avvocato democristiano aveva invitato i presenti ad andar via. Per la verità non tutti avevano accolto l'invito, si erano fermati una trentina, una presenza su cui un comizio del Pci, senza l'iniziativa anticipatrice della Democrazia cristiana, non avrebbe potuto contare, ma è pur vero che l'effetto sgombero tra i più avvertiti aveva lasciato il segno.
[...]

* Pietro Abbo era nato a Lucinasco (Porto Maurizio) il 20 febbraio 1884 ed era deceduto in Lucinasco (Imperia) il 12 maggio 1974. l'Unità del 13 maggio 1974 lo ricordava come "un oratore poderoso". Quanto sopra è riportato da Danilo Bruno "Pietro Abbo il deputato contadino" ed.  Dominici Imperia - dicembre 1986.

** Emidio Revelli, avvocato nato a Taggia il 31 gennaio 1930, deceduto nel giugno del 2006. Era stato parlamentare dalla V all'VIII legislatura

Giuseppe Mauro Torelli (1), Viaggio tra generazioni e politica, 2017

(1) Giuseppe Torelli [Nato a Imperia il 13 marzo 1940]. Figlio di artigiani, ha conseguito la maturità scientifica nel liceo Vieusseux di Imperia. Eletto parlamentare nel 1983, ha partecipato ai lavori della Camera dei deputati nell'ambito del gruppo del Pci nella IX e X Legislatura. In Parlamento è stato componente della Commissione Interni e successivamente della Commissione Esteri. In tale contesto ha avuto l'incarico di responsabile dei problemi dell'ordine pubblico e delle forze di polizia e dei Vigili del fuoco, con particolare riferimento alla problematica della Protezione civile. In precedenza, a partire dal 1965, è stato per venti anni consigliere comunale di Imperia, svolgendovi lungamente la funzione di capogruppo. È stato Sindaco del capoluogo nel 1975. Eletto consigliere provinciale nel 1990, nell'ambito della legislatura ha svolto la funzione di Presidente della Commissione Affari istituzionali. Membro dell'Unione regionale province liguri, è stato eletto altresì nell'assemblea nazionale dell'Upi. Nella Federazione Giovanile Comunista Italiana (Fgci) ha ricoperto l'incarico di segretario provinciale e componente del Comitato Centrale. Nel Pci, dal 1972 al 1983 e quindi nel 1991, ha svolto le funzioni di Segretario provinciale e dirigente in organismi provinciali, regionali e nazionali, come altresì successivamente nel Partito Democratico della Sinistra e nei Democratici di Sinistra. Nel 1989 aderì alla mozione, voluta tra gli altri da Pietro Ingrao e Alessandro Natta, contraria alla svolta della Bolognina, operata dal segretario del Pci Occhetto. Tale mozione si affermò in provincia di Imperia nel congresso del 1990. È stato componente della Presidenza del Consiglio nazionale dei Garanti dei Ds a partire dal congresso di Pesaro del 2001. Al congresso Ds di Firenze del 2007 non aderiva alla proposta di dar vita al Partito Democratico. Dal 1998 era componente del Coordinamento nazionale dell'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra (Ars), di cui è stato tra i promotori e Presidente dell'Ars di Imperia intitolata ad Alessandro Natta. [Deceduto il 12 agosto 2019]. da Wikipedia 
 

giovedì 19 novembre 2020

Nelle pause della brezza il silenzio si posava sul silenzio

Ennio Morlotti, Francesco Biamonti e Joffre Truzzi nel 1960 davanti all'atelier di Cezanne - Fonte: Joffre Truzzi

“Il vento largo è un vento che non soffia mai nella stessa direzione e di conseguenza disorienta molto….E’ come il vento della vita che ti sospinge prima da una parte , poi da un’altra…” Francesco Biamonti

“Nelle pause della brezza il silenzio si posava sul silenzio”. Come fossero lì ad aspettare il loro lettore nella prima pagina di “Vento largo” appaiono queste parole, quasi volessero, da subito, introdurre e portare quel loro lettore dentro quel silenzio. E’ un istintivo pudore quello che si prova verso quelle parole, come se esse invitassero ad abbandonare la smania di dire e inducessero a ritirarsi in quel silenzio, rispettosi della sua intimità e ammirati dalla sua grandezza. Perché nell’intimità e nella grandezza di quel silenzio è la misura di “Vento largo”. Una misura in cui convivono quell’ intimità fatta di accenni sommessi e di intermittenze con se stessi e quella grandezza fatta di immersioni negli spazi e di sguardi che abbracciano vastità, le quali nel silenzio e del silenzio si nutrono.

Come ebbe a dire Calvino dell’ ”Angelo di Avrigue”, che fu il primo dei romanzi di Biamonti il quale, secondo Calvino, era “fatto soprattutto di cose non dette e di silenzi” anche di “Vento largo” che fu il secondo dei romanzi di Biamonti si può dire lo stesso. Perché l’arte di Biamonti sta proprio in quei silenzi eloquenti più delle parole con cui egli evoca l’interiorità delle cose e degli uomini e il mutevole succedersi che nei luoghi in cui quegli uomini vivono hanno l’aria, il cielo, la terra e il mare. Biamonti dialoga e fa dialogare i suoi personaggi come se egli, se essi, fossero in una continua e muta contemplazione e al tempo stesso interazione con ciò che vi è dentro e con ciò che vi è fuori di loro. “I personaggi scambiano frasi brevi, dialoghi enigmatici e sospesi – formule che evocano i ritmi antichi della vita e rispondono allusivamente alle interrogazioni che li tormentano” (Jacqueline Risset - “Biamonti una voce fuori dal tempo che leggeva il presente” - ne “Il Corriere della Sera” del 17.12.2004)

Perché quei personaggi se pur profondamente radicati in quei luoghi che sono i luoghi di Biamonti, i luoghi di quell’estremo Ponente Ligure in cui egli visse e che narrò, non sono per questo immuni dal “vento della vita” che come “il vento largo… disorienta molto”. Se pur di quei luoghi ne amino la selvaggia bellezza e ad essi si aggrappino, sebbene essi siano inesorabilmente destinati all’estinzione, tuttavia ciò non li affranca da un’ inquietudine a cui sono destinati a non sfuggire. In Biamonti non vi sono angosciose e laceranti disperazioni ma non vi sono neanche facili speranze. La sua è una poetica dell’instabilità e dello spaesamento che rimanda ad un universo esistenziale che non ha consolazioni o verità in cui rifugiarsi. Vi è caso mai una segreta saggezza incline al distacco dalle cose proprio per proteggersi e stemperare quell’amarezza che i personaggi di Biamonti sperimentano.

A un certo punto Vari, il protagonista di “Vento largo” dice: “C’è chi si rintana e c’è chi fugge”. Ed è in queste duplici condizioni della separatezza che sono infatti i personaggi di “Vento largo”, mossi, in quel loro rintanarsi e in quel loro fuggire, verso una ricerca che è ricerca in se stessi e di se stessi, ma mossi anche da una forza che è la forza che si prova verso le persone e le cose che si amano. Il rintanarsi è il rintanarsi di Vari che “ultimo testimone di una vita che se ne andava” vive da solo in quello sperduto borgo di Aurno ormai abbandonato. E nonostante che tutto intorno a lui stia morendo egli non lascerà quella terra e quel luogo e resterà a vivere lì, incapace di andarsene.

E’ un radicamento affettivo il suo che parla di legami forti con un passato che è già Memoria e di cui Vari è parte. Ma è anche un bisogno di stare con se stessi che ha in sé l’intimità propria delle nature solitarie ed è insieme l’attaccamento ad una bellezza che ha in sé quel senso di grandezza di cui si diceva: Aurno era “luminosa per via dell’altura, delle rocce e del sole”. Il fuggire è il fuggire di Sabel di cui Vari è innamorato, una figura femminile di una bellezza enigmatica e tormentata che, a un certo punto, scompare come avvolta nel mistero preda, come ella sarà, dei suoi segreti e delle sue ombre. E Vari ne sentirà tutta l’assenza e proverà il vuoto dato dalla mancanza di quel sorriso dolente di Sabel che dava senso e significato alla sua vita. Egli la cercherà e l’attenderà con paziente ostinazione ma invano.

E se pure a noi ci verrà detto dove Sabel è, a cosa è intenta e cosa la tormenta, per Vari Sabel si farà Sogno, fatto di premuroso desiderio: “Purchè torni! – si ripeteva…Mi dirà lei cosa devo fare” e di tenue ricordo: “Gli veniva in mente che Sabel si metteva qualcosa sulle labbra, un velo, un lembo di lenzuolo e dormiva. Misterioso mantello”. Ma “Vento largo” è anche un romanzo sul senso della libertà e Vari che è il primo ad averlo quel senso di libertà sa che la libertà di restare o andare, di esserci o non esserci è troppo privata e grande per cercare di mutarla e quindi si adatterà a convivere con quell’assenza: “<<Ha sempre amato chi vive e muore nascosto, – pensava, – su lei non devo più indagare. C’è una grandezza in quel silenzio>>”.

“Vento largo” è una storia di solitudini nonostante che tutti in quella piccola comunità che orbita intorno a quei luoghi siano parte di un tessuto di reciproche e mutue attenzioni. Perché tutti, anche i personaggi di contorno, hanno un loro tasso di enigmaticità che resta insondato, un non risolto che ne fa chi un rintanato, chi un fuggitivo, un senso di mistero che li fa soli con se stessi. Ed è proprio questo senso di enigma della vita che Biamonti esplora e racconta e quel suo tipico stile con cui egli dice senza dire, rende ed esalta la profondità di quell’enigma.

Perché il linguaggio, la lingua, i toni, le atmosfere in Biamonti sono forma che si fa sostanza, hanno un’espressività e un timbro che crea senso e dà senso più di quanto ne abbiano l’intreccio narrativo e le vicende narrate, tanto che “Vento largo” è un romanzo che in sé non ha una fine. Biamonti ebbe a dire: “ Sto cercando di affrontare la realtà del nostro tempo, senza più consolazioni, soltanto facendo la musica delle parole stesse…Voglio andare nel cuore dell’uomo, nel suo inferno, musicalmente” (J. Risset cit.) Ed è attraverso questo orchestrare e far uscire i suoni delle parole che egli evoca le cose, proteso verso il loro ascolto e la trascrizione di quell’ascolto.

Ma come è noto Biamonti è anche uno scrittore di immagini e per immagini, di “romanzi – paesaggio” lo definì Calvino e anche “Vento largo” in questo senso lo è. Ma anche qui attingere al paesaggio rimanda ad altro e si fa stile. Il paesaggio non è una cornice ma ad esso Biamonti attinge per nutrire la sua visione e per rendere i paesaggi interiori delle cose. Il paesaggio in Biamonti è fisico e metafisico, è poesia ma è anche realtà, rivela metamorfosi e cambiamenti. In questo senso Biamonti non è solo un cantore della Memoria e del Sogno, ma è anche un lettore della Realtà delle cose, dei cambiamenti sia fisici che epocali e quelle sue descrizioni dei paesaggi, dei luoghi, delle vite lo testimoniano, così come queste sue parole che ne rivelano, in questo senso, tutte le sue profonde consapevolezze: “Nei miei romanzi la natura è metamorfica, lo spazio è inficiato, il tempo è malato e il mondo è su un abisso” (J. Risset cit.).

Sergio Ciacio Biancheri, Francesco Biamonti

Ma in Biamonti resta comunque alta quella consapevolezza e capacità di sollevarsi sulle cose e coglierne la segreta grandezza al cui mistero abbandonarsi silenziosi, come nelle ultime righe di “Vento largo” che ci lasciano un’immagine forte e aerea di composta e calma pacatezza: “Veniva scuro, tornavano già i gabbiani dalle rumentiere; sorvolavano rocce. Intonacati d’aria andavano al mare ancora marmoreo come a un letto di pace.”

Il collezionista di letture

 

mercoledì 18 novembre 2020

I mulini silenziosi


Sono stata bene a Prelà, luogo che vedevo per la prima volta.
I mulini silenziosi nascosti dietro muri di pietra, gli archi dei ponti con le ombre e le sagome di asini carichi, che sono transitati per centinaia di anni; le pietre, tutte quelle pietre che entrano sempre in contatto con le mie emozioni più profonde.
La musica fragorosa dell’acqua che ti segue, ti affianca, ti sorpassa, ti racconta, con affanno, quasi per timore di non essere ascoltata, e allora cattura la luce e si fa catturare dagli sguardi.
Luoghi liguri eppure così diversi dai miei territori.
Non diversi, solo sconosciuti.
Lo sguardo non incontra altro che ulivi.
Roverelle, carpini, robinie sembrano stranieri, che faticano non poco per trovarsi uno spazio.
Pareti di ulivi a volte perpendicolari.
Chiese sperdute, una multitudine, come sentinelle sulle colline, quasi a controllare le valli sottostanti.
Gli abitanti come le case, come le chiese e gli ulivi, anelanti alla luce.
Una valle come un forziere che racchiude e protegge anziché pietre preziose, piccoli agglomerati attorno ad un campanile, come pecore attorno al pastore.
Ovunque guardi scopri manufatti di pietra nei luoghi più difficili da raggiungere.
Aggrappati come capre in salita, in precario equilibrio.
Sembra un desiderio infinito di raggiungere la cima per godere del sole che così difficilmente raggiunge quello che sta in basso.
Ero con Irene.
La gioia di essere immersa nel silenzio, nell’argento, nelle pietre affabulatrici, da leggere come libri, nelle sinfonie dell’acqua, ha ridato una forza che temevo perduta alle mie gambe.
Ho pensato che doveva essere difficile staccarsi da quei luoghi.
A casa invece sono stata investita, ripercorrendoli con il pensiero, da un grumo di malinconia, tristezza, un fastidio di ricordi amari, sconosciuti, ma tangibili. Da cui fuggire, altrove.
Avevo letto che la bellezza è un mondo tradito.
Che si può trovare solo dove gli uomini la hanno dimenticata.

E forse la bellezza sta nei miei occhi che sanno cercarla.

Gris de lin, febbraio 2019