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mercoledì 10 marzo 2021

Alessandro Natta e la vicenda degli internati militari italiani

Comizio di Alessandro Natta in Piazza Dante di Imperia Oneglia, 9 aprile 1985 - Fonte: Pagine Nuove del Ponente, cit. infra

Alessandro Natta è stato un protagonista della politica italiana nel secondo dopoguerra. La ricorrenza della sua scomparsa, sono cinque anni, ci ha stimolato a un percorso di recupero della sua esperienza.
La mostra fotografica, cui seguiranno altre iniziative già programmate, è il contributo che la nostra associazione, l'Associazione per il rinnovamento della sinistra di Imperia, gli ha voluto intitolare.
Senza il contributo importante della moglie Adele l'intrapresa sarebbe stata ancor più difficoltosa. Una menzione particolare va a Franca Natta e a Paolo Odello che si sono addossati l'impegno gravoso dell'impostazione e della realizzazione della Mostra.
Tra i criteri possibili si è optato per quello cronologico, pur con limitate varianti.
Si è voluto contestualizzare la vicenda umana di Alessandro Natta con il territorio natale: conseguentemente la parte iniziale del percorso vuol fornire in modo sintetico, e ci auguriamo esaustivo, la realtà onegliese dei primi anni del secolo XX.
Oneglia, città dove nasce Alessandro Natta il 7 gennaio 1918, è un comune sede di importanti industrie, di un porto molto trafficato e che viene amministrato dai socialisti.
Nel 1923 Oneglia insieme a Porto Maurizio e ad altri nove comuni daranno vita a Imperia l.
Movimento socialista e presenza dei lavoratori del porto e dell'industria sono l'habitat in cui cresce il giovane Alessandro.
Oneglia è anche la più importante Camera del lavoro del Ponente ligure, da Finalmarina al confine italo-francese.

Movimento socialista

Nella storia del socialismo del Ponente ligure primeggiano figure notevoli come Giacinto Menotti Serrati futuro direttore dell'Avanti, Mario Novaro figura di illuminato imprenditore, laureato in filosofia all'Università di Berlino che sul finire del secolo XIX rilancia la pubblicazione "La Riviera ligure" che raccoglie i disegni liberty di Novellini e quelli in stile art-nouveau di Kiernek, gli scritti, tra i tanti, di Boine, Pascoli, Pirandello, Deledda, De Pisis, Di Giacomo, Sbarbaro. Una rivista che nel 1899, nel quinto anno dalla sua nascita, ha una tiratura di centoventimila copia che accompagnano le confezioni dell'olio Sasso.
Vale ricordare che la pubblicità dell'Olio Sasso campeggerà anche sull'Ordine Nuovo di Gramsci.
Oneglia, edintorni, ha una tradizione progressista di alto livello. Vi operò Filippo Buonarroti delegato della Francia rivoluzionaria e leader del partito democratico, proto comunista, dell'inizio dell'800. Sempre ad Oneglia nasce l'Edmondo de Amicis da ricordare in questa occasione per il romanzo "Il primo maggio" assai moderno nella sua filosofia di sinistra.
A Oneglia comparve nel 1908 un giovane Benito Mussolini che diresse il giornale socialista "La lima".
Giovanni Piana (Nannollo) sindaco di Oneglia nel 1920 lo ritroveremo tra i protagonisti in Consiglio comunale nel 1946 quando la Giunta social-comunista guidata dal sindaco Goffredo Alterisio segnerà il ritorno del Paese alla democrazia, dopo i venti mesi di lotta resistenziale.
Ed ancora, nelle elezioni del primo dopoguerra, viene eletto primo deputato contadino il socialista Pietro Abbo, anch'egli protagonista nel Pci dopo il 1945.

Il mondo del lavoro

Oneglia tra la fine dell'800 e gli inizi del secolo XX è un centro industriale in piena espansione, con opifici nel settore alimentare (la pasta Agnesi e l'olio Sasso saranno i marchi più conosciuti), un porto che nel 1916 traffica 216 mila tonnellate di merci, un livello mai più raggiunto nella sua secolare storia, le ferriere che occupano circa 800 operai 2, sono l'ambito in cui nascono e si sviluppano movimento socialista e sindacale.
Antonio, il padre di Alessandro e la sorella Teresita partecipano alla vita e alla crescita del Psi. Una preziosa foto ci consegna quest'ultima intenta alla spedizione del settimanale socialista "La lima". Alessandro Natta in una lettera del dicembre 2000 a Libero Nante, figlio di un tesoriere de "La lima", ricorda con simpatia di essere stato intestatario, all'età di diciotto mesi, di una sottoscrizione di lire una a favore del settimanale 3.
Il periodo che intercorre tra la scuola e l'esperienza militare è quello più carente di documenti fotografici. Di quel periodo sicuramente si recupereranno testimonianze orali e scritte di conoscenti e compagni di lotta tutt'ora viventi.
Natta vince il concorso per accedere ai corsi universitari della Normale di Pisa (dal 1936 al 1941) ed entra in contatto con studenti e professori molti dei quali saranno tra i più prestigiosi intellettuali del nostro Paese.
Appena laureato, la guerra, il militare a Rodi, il ferimento, la prigionia in Germania a seguito delle vicende posteriori all'otto settembre.
L'esperienza tedesca gli fornirà materiali di riflessione contro il nazifascismo. Il suo contributo è importante e, quando le condizioni politiche glielo consentiranno, pubblica "L'altra Resistenza" 4. Un debito verso i tanti militari italiani che seppero opporsi ai nazisti e ai fascisti anche dentro il lager rifiutando allettamenti e blandizie.
In verità Natta aveva tentato, quarant'anni prima della pubblicazione de "L'altra Resistenza", di sviluppare un ragionamento su codeste problematiche e ne fornisce testimonianza in un suo intervento a Firenze nel maggio 1991: "Ho scritto nel 1954, in vista del decennale della liberazione, un saggio che ebbe la disavventura di essere bocciato per la pubblicazione dalla casa editrice, a cui mi ero rivolto, che era poi quella del mio partito. Non ritengo che quel rifiuto fosse motivato dalle ragioni di opportunità politica, che potevano essere accampate nell'immediato dopoguerra. Si trattava, penso, di una valutazione critica sul libro, che in verità era cosa modesta. Ma oggi sono convinto che l'editore sbagliò, e soprattutto sbagliai io a non insistere, non so se per difetto o per eccesso di presunzione, perché quel lavoro - al di là della tesi di fondo che proponeva: la vicenda degli IMI (internati militari italiani ndr) come episodio della lotta generale contro il nazifascismo - sollecitava una ricerca, uno studio sul processo che spinse i soldati e gli ufficiali prigionieri dell'esercito tedesco, in grandissima maggioranza a una sfida con il Reich tedesco e la Repubblica Sociale" 5.
Molte foto e i testi che le accompagnano sintetizzano l'esperienza politica, sociale, culturale e istituzionale che comunemente vengono definiti "la prima Repubblica" intrecciando l'esperienza politica nazionale di Natta con le vicende della nostra terra e dei militanti comunisti che ivi operarono.
Alcuni settori del percorso sono obiettivamente più ricchi di immagini ed esemplificano in modo più approfondito i diversi passaggi politici di Alessandro [...]
 
Fonte: Pagine Nuove del Ponente, cit. infra

1 Con Regio Decreto 21 ottobre 1923 n. 2360 i comuni di Porto Maurizio, Oneglia, Piani, Caramagna Ligure, Castelvecchio Santa Maria Maggiore, Borgo Sant'Agata, Costa d'Oneglia, Poggi, Torrazza, Moltedo Superiore e Montegrazie sono riuniti in un unico comune che prende la denominazione di IMPERIA.
2 Il censimento della Camera di Commercio del 1927 ne quantifica 742
3 Da "Lettera a Libero Nante" di Alessandro Natta, in Pagine Nuove del Ponente n.4/2001 pag.14
4 A. Natta L'altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania. Edizione Einaudi 1996
5 Da atti del convegno internazionale di studi storici su "Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945) fra sterminio e sfruttamento" (Firenze, 23-24 maggio 1991), promosso dalla federazione di Firenze dell'Associazione nazionale ex internati, con la collaborazione dell'Istituto storico della Resistenza in Toscana e con il patrocinio del Dipartimento di storia dell'Università degli studi di Firenze. Casa Editrice Le Lettere - Firenze


Giuseppe Mauro Torelli *, Natta: l'intellettuale, il politico in PAGINE NUOVE DEL PONENTE, n° 2, luglio-agosto 2006



* Presidente Associazione per il rinnovamento della sinistra "Alessandro Natta" Imperia

Giuseppe Torelli [Nato a Imperia il 13 marzo 1940]. Figlio di artigiani, ha conseguito la maturità scientifica nel liceo Vieusseux di Imperia. Eletto parlamentare nel 1983, ha partecipato ai lavori della Camera dei deputati nell'ambito del gruppo del Pci nella IX e X Legislatura. In Parlamento è stato componente della Commissione Interni e successivamente della Commissione Esteri. In tale contesto ha avuto l'incarico di responsabile dei problemi dell'ordine pubblico e delle forze di polizia e dei Vigili del fuoco, con particolare riferimento alla problematica della Protezione civile. In precedenza, a partire dal 1965, è stato per venti anni consigliere comunale di Imperia, svolgendovi lungamente la funzione di capogruppo. È stato Sindaco del capoluogo nel 1975. Eletto consigliere provinciale nel 1990, nell'ambito della legislatura ha svolto la funzione di Presidente della Commissione Affari istituzionali. Membro dell'Unione regionale province liguri, è stato eletto altresì nell'assemblea nazionale dell'Upi. Nella Federazione Giovanile Comunista Italiana (Fgci) ha ricoperto l'incarico di segretario provinciale e componente del Comitato Centrale. Nel Pci, dal 1972 al 1983 e quindi nel 1991, ha svolto le funzioni di Segretario provinciale e dirigente in organismi provinciali, regionali e nazionali, come altresì successivamente nel Partito Democratico della Sinistra e nei Democratici di Sinistra. Nel 1989 aderì alla mozione, voluta tra gli altri da Pietro Ingrao e Alessandro Natta, contraria alla svolta della Bolognina, operata dal segretario del Pci Occhetto. Tale mozione si affermò in provincia di Imperia nel congresso del 1990. È stato componente della Presidenza del Consiglio nazionale dei Garanti dei Ds a partire dal congresso di Pesaro del 2001. Al congresso Ds di Firenze del 2007 non aderiva alla proposta di dar vita al Partito Democratico. Dal 1998 era componente del Coordinamento nazionale dell'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra (Ars), di cui è stato tra i promotori e Presidente dell'Ars di Imperia intitolata ad Alessandro Natta. [Deceduto il 12 agosto 2019]. da Wikipedia  

 

venerdì 5 marzo 2021

Per Sanremo Landolfi girò come un evanescente lupo mannaro

Sanremo (IM): uno scorcio del vecchio porto

Tommaso Landolfi era un signore coi baffetti, elegante, dallo sguardo pungente. Aveva modi ironici, che erano forse quelli d’un raffinato uomo dell’Ottocento, o forse quelli d’un personaggio immaginario di qualche novella fantastica e tenebrosa.
Rifuggiva dai curiosi, dai critici, dagli intervistatori (ma esiste una sorta di sua intervista filmata, bellissima, una breve conversazione con Leone Traverso, in occasione del premio Montefeltro a Urbino, dicembre 1962: unica folgorante eccezione che egli fece al suo “non esserci mai”).
Nella sua vita frequentò ritrovi e locali, come le Giubbe Rosse a Firenze, viaggiò, scrisse lettere, si sposò. Ma era di un pessimismo cupo, angosciato dall’idea della morte. Detestava il pubblico, non voleva partecipare a incontri mondani, esibirsi, spiegarsi: non ne aveva proprio nessuna voglia.
Sapeva essere scortese quasi con arte. Fatto sta che taluni episodi diventarono presto leggenda. Le sue battute gelide e spietate, i comportamenti talvolta incomprensibili e comunque lontani dalle solite norme di buona convivenza, un alone di mistero che comunque lo circondava, l’anticonformismo e il non badare alle convenienze - che gli costeranno anche il carcere per antifascismo – lo portarono ad essere un personaggio fascinoso, scostante, brillante.

Leone Piccioni, in Maestri e amici, 1969, racconta uno dei tanti aneddoti: Natta, uno scrittore ligure morto pochi anni fa, di acutissimo spirito e di grande vivacità nella conversazione (e che certo aveva stretto amicizia con Landolfi nelle zone di San Remo che ospitavano quasi naturalmente Natta, e che vedevano molto assiduo Landolfi per la vicinanza della casa da gioco), raccontava che Landolfi usava passare qualche ora al Caffè Greco a Roma in sua compagnia.
Una bellissima e celebre donna, che si era invaghita di lui (…) cercava di salutarlo, urtando nella sua indifferenza. La cosa andava avanti di giorno in giorno - stando ai racconti di Natta - ; sin quando infine lei riesce a rivolgergli la parola. E Landolfi, severo, indicando Giacomo Natta: “Non parli a me. Si rivolga al mio segretario”
.

Landolfi comincia a risiedere a Sanremo verso la fine del novembre 1958 (ma già conosceva la città, che compare in alcune pagine narrative de La bière du pecheur, 1953, e vi era stato persino in viaggio di nozze nel 1955). Dal 1962 prende una casa ad Arma di Taggia. L’estate del ’64 la passa a Bajardo con la famiglia (c’è un reportage in merito, in Un paniere di chiocciole). Nel ’68 lascerà la casa di Arma ma lì, proprio in quell’anno, vi aveva iniziato Viola di morte. L’altra raccolta poetica, Il tradimento, sarà scritta prevalentemente a Sanremo nei primi mesi del ’75.
Nella casa di Arma di Taggia si recava la sera e lì nottetempo (ogni notte, si racconta, con al fianco una bottiglia di liquore, debitamente consumata nella sua intierezza) scriveva. Poi al giorno rientrava nella casa di Sanremo per dormire. La moglie - la Maior - e i due figli - Minor e Minimus - dovevano cercare di essere il più silenziosi possibile per non disturbarne il riposo.
Si racconta. Perché, per quanto riguarda molti particolari, ignoriamo come stessero davvero le cose: Landolfi, nel suo personale fastidio per la socialità e la condivisione, coltivò (se non il suo mistero, giacché questo vien da sé, per chiunque) un riserbo assoluto, e non si prestò a nessuna indagine di gazzettieri, cattedratici et similia. Lasciò che su di lui si raccontassero sempre gli stessi aneddoti, e nulla concesse. Però nei suoi libri, e non solo nei diari, appaiono rivelazioni, narrazioni autobiografiche, confessioni, seppur a volte interrotte o auto-commentate con procedimenti di falsificazione e di annientamento. Ma talvolta anche con squarci di grande, intima tenerezza. Così, ad esempio, in Des mois, 1967: “La voce del Minimus è in fiocchi come la neve; richiama anche certe nuvole in falde, nell’azzurro”. E proprio in questo diario, dove si parla di “vento freddo marino” e del “signor X conducente di filobus”, ci pare di intravedere qualcosa di sanremese. Magari ci inganniamo, ma sia quel che sia ad un certo punto appare la seguente annotazione: Tutte le sere passo davanti al «Pesce d’oro» (trattoria), e mi torna a mente quest’altro bel verso: «Alle parole di quel pesce d’oro». Che poi a rigore non è neppure un verso, così privo, nonché di senso compiuto, perfino di verbo. (Si parla di poeti d’un verso solo: che se ne dia anche di nessun verso?).

E senza alcun dubbio, perché qui la cosa è dichiarata sin dal titolo, descrive il ritorno nella città ligure in un’altra sua pagina, Un giorno a San Remo, pubblicata su “Il Mondo”, IV, n. 6, del 9 febbraio 1952 (col titolo La prova del nove), e poi inserita in Ombre, 1954, e replicata in Se non la realtà, 1960.
Sotto la banalità apparente di una piccola guida a uso del turista Landolfi dipana la sua scrittura: “Il vecchio albergo Europa è il preferito dei giocatori, situato com’è esattamente a pochi passi e a mezza strada tra il Casino e la stazione”. E riposatisi alquanto dall’interminabile viaggio, si può procedere a talune di quelle pratiche, o più semplicemente giratine, che son quasi dei riti. Si può, così, imboccare oziosamente il corso Matteotti e raggiungere l’ampia e luminosa piazza Colombo; di qui scendere all’incantevole porticciuolo, specchio sempre lustro su cui, quasi all’ombra delle grandi palme, stanno sempre allineate numerose barchette dai più vaghi colori; spingersi per la gittata fino al piccolo faro, costeggiando dapprima il vecchio forte dove ora son le carceri, oltrepassando poi una trattoria con sul davanti due acquari o vivai, due scatolone di vetro insomma, dove sempre qualche povera granseola, ritta per l’angustia della sua prigione sulle zampe di dietro, danza la sua «danza indiana».
Oppure si può attraversare la strada ferrata e... riuscire al corso Imperatrice, la bella e sempre fiorita passeggiata sul mare, che non ci si priverà di percorrere fino in cima, fin dove, cioè, una marmorea Flora, più simile per la verità a un cocomero di mare che a una donna, protende dal centro d’un’aiuola il ventre e lo stomaco rigonfi. Si può invece ascendere quella sorta di ravviata casba che è la città vecchia, fino alle apriche piazze soprane.

Per Sanremo Landolfi girò come un evanescente lupo mannaro. Negli ultimi tempi fu visto a passeggio con la figlia Idolina, magrissimo, con un bastone rigorosamente tenuto sollevato e mai posato a terra. Se un aneddoto può avere la funzione di piccola rivelazione critica, possiamo allora ricordare qualche minimo episodio che ci fu rivelato da chi ebbe la ventura di conoscere l’“invisibile” Landolfi.
Così Franco Monti, compagno di scuola della figlia (lei appariva ogni tanto con un vestito nuovo, quando il padre vinceva un premio letterario), ci evoca un Landolfi che, davanti ad una chiesa al termine della Messa, prorompe in un «Dovrebbero chiamarla smessa!». Giancarlo Manderioli lo ricorda con un lungo cappotto: osa confidargli sue ambizioni letterarie, e Landolfi gli intima: «Ma la smetta! Ma lasci perdere!». E Silvia Cassini, anch’essa coetanea della figlia e oggi regista di teatro musicale, ricevette un giorno una telefonata: «Idolina sta arrivando» (lo sfuggente scrittore, che si chiudeva nel suo studio se la figlia invitava degli amici in casa, amava poi fare queste improvvisate). «Oh, buongiorno, è lei», replica sorpresa la giovane.
Naturalmente, al nome Silvia, Landolfi non si lascia sfuggire un riferimento all’Aminta del Tasso.
Silvia Cassini rimane basita, si fa cogliere impreparata, e così deve subire tutta la scherzosa reprimenda: «Ma cosa vi insegnano mai a scuola?», ecc.
Letizia Lodi ci racconta che Landolfi era grande amico del padre Filiberto Lodi, ingegnere ferrarese trapiantato in Riviera e avverso alla speculazione edilizia (e amico, infatti, anche di Italo Calvino):
Landolfi veniva spesso a pranzo da noi, adorava davvero mio padre, lettore accanito, onnivoro e che sapeva un po’ di russo, e per me è stato oltre a Italo, una fonte continua di apprendimento di una cultura ben diversa… ricordo anche una straordinaria lezione di Landolfi su Michelangelo e la Sistina... […] mi veniva a prendere [al liceo Cassini] per andare a pranzo alle 4 stagioni […] io ero imbarazzatissima, con quell’uomo vestito in scuro elegantissimo, nobile, un pezzo di letteratura vivente, tanto che stavo sempre muta…

Anche con Letizia Lodi Landolfi ama le apparizioni sorprendenti. Alla festa per i suoi diciott’anni, non invitato, era apparso suonando alla porta, con imbarazzo di Idolina, che era tra gli ospiti scatenati e urlanti di quella sera… e aveva portato un mazzo di rose rosso scure […]
Era sì sfuggente, dai media e dalle relazioni, ma con alcuni era affettuoso addirittura e imprevedibile… come l’apparire la sera del compleanno e stare un po’ coi giovani…
In quel tempo collaborava al Corriere della Sera: avanzò la pretesa che qualcuno venisse a Sanremo a ritirare il suo scritto, si nascondeva di notte dietro il monumento a Garibaldi opera di Bistolfi, sbucava fuori all’improvviso, consegnava l’articolo, poi si celava nuovamente dietro la statua.
Questa sembra proprio una storia inventata, ma ci viene da fonte familiare, vicinissima allo scrittore.
Roberto Colombo gli donò (il tramite fu la moglie dello scrittore) una sua piccola opera pittorica: una superficie bianca su cui appariva un quadratino. Era un’idea del volo. Il pensiero di associarla a Landolfi era nato in Colombo dalla lettura di una poesia compresa in Viola di morte, 1972, che così inizia:

Sogno sovente di librarmi a volo:

Nei giorni primi della stirpe umana
Certo volavo quale uccello al brolo 

O quale scimmia d’una in altra rama -
O forse quale un angelo celeste ?

Il sogno di volare come desiderio fondamentale, “la sindrome di Icaro”, come dice lo stesso Colombo. E un giorno, mentre è nel suo negozio di abbigliamento in via Feraldi, a leggere indolente il giornale dietro il banco, entra un signore: «Sono Tommaso Landolfi. La volevo ringraziare per il quadro». Colombo alza gli occhi, fa forse in tempo a salutare, cerca di mettere a fuoco ciò che è successo, esce sulla soglia del negozio: nel giro di pochissimi secondi Landolfi è scomparso, cercandolo con lo sguardo lo si intravede lontano svoltare svelto l’angolo in fondo alla via.

Tommaso Landolfi, Opere, tomo I (1937-1959) e II (1960-1971), a cura di Idolina Landolfi, prefazione di Carlo Bo, Rizzoli, Milano 1991 e 1992

Marco Innocenti, Tommaso Landolfi a Sanremo, in IL REGESTO, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM), anno V, n° 1 (17), gennaio-marzo 2014 

[ tra gli altri scritti di Marco Innocenti: è autore di diversi lavori, tra i quali: articoli in Mellophonium; Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; articoli in Sanremo e l’Europa. L’immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d’occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sandro Bajini, Andare alla ventura (con prefazione di Marco Innocenti e con una nota di Maurizio Meschia), Lo Studiolo, Sanremo, 2017; La lotta di classe nei comic books, i quaderni del pesce luna, 2017; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Sandro Bajini, Libera Uscita epigrammi e altro (postfazione di Fabio Barricalla, con supervisione editoriale di Marco Innocenti e progetto grafico di Freddy Colt), Lo Studiolo, Sanremo, marzo 2015; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; C’è un libro su Marcel Duchamp, lepómene editore, Sanremo 2008; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006 ]

 

sabato 27 febbraio 2021

Alba tenera ragazza dalla capigliatura nera

Fonte: Laura Hess

Giorgio Loreti ricorda quanto gli raccontava Guido Seborga di Alba Galleano [che divenne sua moglie].
Guido diceva più o meno così: "Venivo a Bordighera a trovare mia madre che era allora ospite di un pensionato di suore. Io alloggiavo in un cameretta di un albergo. Stavo in una specie di mansarda, vicino al municipio, dove comincia il Paese Alto. Alla mattina mi facevo la barba ad uno specchio accanto alla finestra e spesso e volentieri sotto, in strada, passava Alba. Lei mi chiamava, ci salutavamo ridendo, dandoci un appuntamento giù al mare".  
Fonte: Laura Hess

Fonte: Laura Hess

Fonte: Laura Hess

[...] Nata a Torino nel 1915, Alba Galleano ha trascorso, a causa di problemi di salute, gran parte dell’infanzia e dell'adolescenza tra Torino, Meana e Bordighera.
 

Fonte: Laura Hess

Fu a Bordighera che a 16 anni conobbe Guido Hess (Seborga) di cui s’innamorò immediatamente e che sposò nel 1939.
 

Fonte: Laura Hess

Frequentò Bordighera per tutta la vita, ma fino alla guerra ci furono anche Forte dei Marmi vicino a casa De Chirico e villa Trossi a Portofino.
Con Guido frequentò gli ambienti culturali e i gruppi antifascisti a Torino con Agosti, Galante Garrone, Ada Gobetti, Ciaffi, Navarro, Silvia Pons, Anna Salvatorelli, Raf Vallone, Giorgio Diena e a Bordighera con Porcheddu, Brunati, Lina Meyffret

<<[ E pure morì sotto il martirio nazista l’animatore d'una delle prime bande a Baiardo: Brunati, il partigiano poeta. E la trista Germania inghiottì Lina Meiffret, prima partigiana.
Italo Calvino, articolo apparso sul numero 13 de La voce della democrazia, uscito a Sanremo martedì 1° maggio 1945

Lina Meiffret, ritornata dai campi di concentramento della Germania... rinvenimento di alcuni dattiloscritti di Italo Calvino relativi ai racconti partigiani, poi raccolti in Ultimo viene il corvo, conservati tra le carte di Lina Meiffret, partigiana sanremese amica e sodale del giovane Calvino... Fonte: Lumsa

Rivedo Lina Meyfrett che pare sempre miracolosamente scampata ad un campo di concentramento e insieme ricordiamo Renato Brunati e Beppe Porchedddu...
Guido Seborga, Occhio folle occhio lucido, Graphot/Spoon river, Torino 2012 ]>>
 

Entrò [Alba Galleano] poi nella Resistenza e fu Azionista.
È restata "famosa" la sua arringa su un tavolo a Trofarello ai soldati sbandati invitandoli alla Resistenza.
Erano i giorni successivi all’8 settembre e stava tornando a Torino da Bordighera insieme a  Guido con l’ultimo treno da Bordighera prima che i tedeschi facessero saltare i ponti.

Fonte: Laura Hess

<<[...] ancora Loreti: "Anche sua moglie Alba era nella Resistenza, lo ha seguito e lo ha aiutato, quando i fascisti, i tedeschi, lo cercavano, lo nascondeva in soffitta.">>
 

Prima e dopo la guerra, insieme al marito, frequentò  Umberto Mastroianni, arrivato nel '28 da Roma, Luigi Spazzapan, Mattia Moreni, Oscar Navarro, Raf Vallone, Vincenzo Ciaffi, Albino Galvano, Carlo Mussa, Giorgio e Rosetta Montalenti, Augusto e Luisotta Monti. Con Luisa Monti Sturani l’amicizia durò per moltissimi anni.

Fonte: Laura Hess

Nell’immediato dopoguerra scrisse su diversi giornali quali Il Ponte e Il Sempre Avanti dove, a differenza di Mario Gromo su La Stampa e Arturo Lanocita su Il Corriere della Sera fece una recensione molto favorevole a Paisà di Rossellini.


Fonte: Laura Hess

Avuti due figli, fu costretta a limitare la sua attività lavorativa, ma partecipò per tutta la vita alle esperienze del marito Guido Seborga sia come consigliera che curandone gli aspetti pratici e accettandone le lunghe assenze.
Fu suo il difficile compito di far quadrare i bilanci familiari e a tale scopo, utilizzando le sue competenze nel campo dell’antiquariato e dell’arte, aiutò molte signore torinesi nell’arredamento della propria casa.
 

Fonte: Laura Hess

Fino all’ultimo giorno della sua vita, che finì nel 1989, curò e diede sostegno a Guido, che la raggiunse nel 1990.

Laura Hess [figlia di Alba Galleano e di Guido Hess Seborga]

domenica 21 febbraio 2021

U Badin



È una medaglia simbolica quella che, scrivendo questo romanzo [Prima che le pagine ingialliscano, Alzani, 2018], ho voluto assegnare a "Vincé u Badin", raccontando alcuni episodi della sua straordinaria vita.
Una storia, spesso buia e travagliata, che, pur avendo come fondo la guerra del 1915-18, non può essere considerata soltanto una storia di guerra. La guerra, quella più atroce, infatti, è sullo sfondo, mentre il racconto è piuttosto lontano dalle trincee e più vicino alla gente comune.
Prima di tutto debbo dire che Badin, classe 1897, non era un eroe. Il primo a non essersi mai sentito tale è stato proprio lui. Molti fra coloro che mai avevano conosciuto la sua impresa, compiuta suo malgrado durante la Grande Guerra, lo hanno sempre considerato niente di più di un simpatico "ruba galline", cui era facile addebitare qualsiasi malefatta fosse successa in paese. Non avendo lui stesso quasi mai parlato con nessuno della sua impresa, pochi sono stati quelli che ne sono venuti a conoscenza. Peccato, perché lui, forse più di tanti altri, una medaglia al valore l’avrebbe comunque meritata.
Badin era uno di quei tanti immigrati veneti, che dopo la fine della seconda guerra mondiale era approdato a Coldirodi [Frazione di Sanremo (IM)], come migliaia di altri, in prevalenza abruzzesi, ma anche tanti calabresi, piemontesi, siciliani ed appunto veneti, attirati dal lavoro nell’edilizia o nella floricoltura, attività che erano andate sempre più sviluppandosi in quegli anni. Come molti era approdato in Liguria portandosi dietro, stipate nel cervello, nostalgie di amori vissuti, di amori sognati, di amori finiti.
Avvicinandosi l’anniversario della fine della prima guerra mondiale, mi sono tornati alla mente tanti suoi racconti e più volte mi sono domandato se questi fossero attendibili. Se, insomma, "U Badin" fosse stato davvero il  protagonista di una impresa per quei tempi assolutamente memorabile, oppure se fosse soltanto frutto della sua vivace fantasia.
Nessuno, forse, oggi si ricorda ancora di lui.
Recentemente, sfogliando una rivista stampata per ricordare gli abitanti di Coldirodi distintisi nel secolo scorso, mi sono imbattuto nel suo nome.
Ecco cosa ho trovato scritto: "… le Bigin, le Catì,… i Bacì e gli Antò,… persone semplici, simboli di un mondo che non c’è più ma che hanno vissuto la storia del nostro paese, attraverso miseria, guerra e fame, con dignità, generosità ed onestà. Da persone vere!".
"Vincè u Badin" era una di quelle: allampanato, solitario, taciturno, trascorreva i suoi giorni con frequenti trasferte in Francia, attraverso i boschi della frontiera, contrabbandando accendini, sigarette, cioccolata e talvolta anche tabacco. L’esiguità dei guadagni lo costringeva a dover arrotondare gli incassi "onesti", svuotando qualche volta qualche pollaio.
La consuetudine era tale, per cui ogni volta che un contadino avvertiva la mancanza anche di un solo bipede, la conclusione più comoda era sempre una sola: "È stato Badin!"
Una volta però i derubati dovettero ricredersi. Badin era incolpevole in quanto aveva un alibi di ferro. Proprio in quei giorni, infatti, U Badin era ospitato nella prigione Santa Tecla di Sanremo.
Nient’altro. Nessun accenno al suo passato militare. Neanche una parola.
Con il mio romanzo ho inteso raccontarne le vicissitudini, quasi a volerlo risarcire per tutte le amarezze, tutti i torti e tutte le ingiustizie subite, a mia volta affascinato dalla sua storia d’amore che altrimenti, come milioni di altre, sarebbe finita nell’oblio.
In cosa è consistita la sua impresa?
Badin, fra i quattro milioni di soldati italiani che si sono avvicendati al fronte durante la Grande Guerra, è stato quasi certamente uno dei primi cinque paracadutisti ad essere impiegato a livello pionieristico oltre le linee nemiche, senza peraltro che questo possa essere provato. Ma neppure smentito. Il suo nome, almeno nei documenti ufficiali, non compare mai. Come non fosse mai esistito: scomparso. Come mai, mi sono chiesto più volte? Le azioni militari in cui furono impiegati i primi incursori muniti di paracadute, risultano siano state cinque in tutto. Mentre i nomi dei protagonisti ufficialmente riconosciuti sono soltanto quattro. Qual è il nome del quinto? Per quale motivo il suo nome non compare mai?
Sono personalmente convinto che sia stato proprio Badin il soldato protagonista del mio libro. Coincidono troppe cose. Troppe verità non sono mai potute venire alla luce. Ma d’altronde come avrebbe Badin potuto conoscere certi particolari senza avervi partecipato?
Badin scanzonato e poco incline ad autocelebrarsi soleva dire: "… ma ci pensate ragazzi… Se invece di atterrare dolcemente ci avessi lasciato le palle, sarei diventato famoso come Francesco Baracca o Enrico Toti…".
Questo è il Vincenzo "U Badin" che ho voluto raccontare in questo libro.
La sua prima giovinezza, l’impresa militare, i suoi contrastati amori: il tutto senza alcuna retorica. La storia, insomma, di un piccolo soldato nella Grande Guerra.
Dantilio Bruno di Sanremo (IM)
[Altri libri di Dantilio Bruno: La donna che leggeva Grand Hotel, Antea Edizioni, 2014; Non sempre azzurro è il cielo. Dalla primavera d'Italia alla primavera di Praga, tipografia Bellugi, Vallecrosia  (IM), 2009]

 

martedì 16 febbraio 2021

Caporali tanti, uomini pochissimi

Una scena di "Destinazione Piovarolo" - Fonte: Wikipedia

Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno di Bisanzio De Curtis Gagliardi - in arte Totò - nacque nel cuore di Napoli (rione Sanità), dalla relazione clandestina tra Anna Clemente e il marchese Giuseppe De Curtis, il 15 Febbraio 1898.
Interprete magistrale di un'italianità dolente, ma capace di riscattarsi - anche moralmente - pur quando ogni diversa possibilità sembra preclusa, mi limiterò a ricordarne uno dei suoi film meno conosciuti, ma secondo me particolarmente indicativo della sua arte, ovvero "Destinazione Piovarolo" (1955, regia Domenico Paolella - in visione integrale su Youtube).
In esso, Totò esprime una maschera malinconica, che suscita anche un senso di autentica e umana compassione.
La storia lo attraversa per trent'anni, con ogni sorta di avvenimenti, in mezzo a faccendieri di ogni tipo, segretari arrivisti, onorevoli opportunisti, ministri incompetenti e distratti, ma lui è sempre lì, a Piovarolo, in un'attesa kafkiana di avere una promozione che non arriverà mai.
Semplice capostazione, arrivato ultimo al concorso in ferrovia, sarà costretto a rimanere tutta la vita in una stazioncina sperduta della provincia, dimenticato da tutti anche se - magari inconsapevolmente, o controvoglia - ogni volta farà la cosa giusta.
Totò ha saputo dare a questo personaggio tutte le sfumature dell'uomo sfortunato, senza però mai cadere nel patetico.
Qui sta la sua enorme forza, perchè esprime in chiave ironica il tratto di "anarchismo utilitaristico" che caratterizza l'italiano medio.
Non vi è nulla di fuori posto in una recitazione sempre piana, garbata e costruita su un realismo d'insieme gradevole e godibile.
Anche questo ritratto di Antonio La Quaglia (il protagonista del film) deve essere collocato tra tutti quelli già interpretati nei film precedenti e tra quelli dei film successivi, e che costituiscono uno dei punti forza sia della maschera di Totò che del volto di de Curtis: l'uomo che deve arrangiarsi in un mondo di "caporali" e di prepotenti.

A tal riguardo, ricordo la recente uscita del libro di Emilio Gentile: "Caporali tanti, uomini pochissimi. La storia secondo Totò", Editore Laterza.
Infine, nel film Achille Togliani canta la canzone "Abbracciato cu' te", che è di de Curtis, e di cui trascrivo il testo:

"Quanno te veco
for' 'o balcone
mme vene a mente
cchisà pecchè;
quanno 'e rimpetto
stevo 'o puntone
appuntunato pe te vedè .
E mmo ca si dda mia pe tutta a vita
nun cerco niente cchiù, mo tengo a te.
Quando int' 'e bbraccia forte t'astregno a mme
sento 'o profumo da vocca toia che dè
na primmavera ca 'mbriaca 'o core
na smania e te vasà , chest' è ll 'amore.
Capille 'e seta, uocchie 'e velluto, tu,
si 'a vita mia, tu si ll'amore,
tu solamente tu.
Te voglio bbene,
songo felice
quando abbracciata
tu staie cu mme.
'O core 'mpietto
me parla e dice
ca sbatte forte
sulo pe tte.
Sunnanete me sceto 'a dint' 'o suonno
e canto 'o sole mio sta 'nfronte a tte"


Eraldo Bigi

lunedì 15 febbraio 2021

Convegno dedicato a Francesco Biamonti ad ottobre 2021

Francesco Biamonti e Guido Seborga

Francesco Biamonti è considerato uno degli scrittori più significativi della letteratura italiana di fine Novecento. I suoi quattro romanzi pubblicati in vita tra il 1983 e il 1998 (L’angelo di Avrigue, Vento largo, Attesa sul mare e Le parole la notte, a cui vanno aggiunti le pagine postume del Silenzio e il recente recupero, a cura di Simona Morando, del cosiddetto Romanzo di Gregorio), sono testimoni di un lavoro intorno alla parola che ha pochi eguali nella letteratura coeva. Nato nel 1928 a San Biagio della Cima, piccolo paese nell’entroterra di Ventimiglia, Biamonti ebbe una formazione prevalentemente da autodidatta, sospesa tra lo studio della grande poesia, soprattutto italiana e francese, e quello della filosofia fenomenologica ed esistenzialista. Fondamentale fu per lui anche la riflessione sulla pittura, portata avanti attraverso alcune importanti frequentazioni, a partire da quella con Ennio Morlotti. Tutte queste esperienze si sedimentarono, nel corso di decenni, in una prosa dal chiaro respiro lirico, ma capace di raccontare con grande forza e concretezza il mondo contemporaneo allo scrittore.
Profondamente radicati nel territorio dell’estremo Ponente ligure, i romanzi di Biamonti attirarono fin da subito l’attenzione della critica per il trattamento particolare riservato al paesaggio, il quale pone lo scrittore in continuità con la tradizione ligure (da Boine a Montale, da Calvino a Caproni). Non a caso, grande spazio fu riservato al tema paesaggistico nel primo Convegno Francesco Biamonti: le parole, il silenzio, organizzato nel 2003 dall’Associazione degli “Amici di Francesco Biamonti”, nata dopo la morte dello scrittore, e dall’Università di Genova. Negli anni successivi la critica ha portato avanti la lettura dell’opera biamontiana anche sotto altri punti di vista, in un percorso interpretativo che ha trovato fondamentali riscontri nella pubblicazione, nel 2008, dell’antologia Scritti e parlati, a cura di Gian Luca Picconi e di Federica Cappelletti. Tuttavia, ancora oggi molti aspetti dell’opera di Biamonti, con particolare riferimento al peso avuto da alcuni incontri (reali e intellettuali) sulla sua scrittura e sulla sua visione del mondo, restano inesplorati o comunque meritevoli di approfondimento.
Per questa ragione e per ricordare l’autore a vent’anni dalla scomparsa, l’Associazione “Amici di Francesco Biamonti” ha deciso di organizzare, insieme ai suoi diversi partner universitari, un secondo convegno che si terrà il 15-16 ottobre 2021 al centro Polivalente “Le Rose” di San Biagio della Cima e alla Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia. Seguirà la pubblicazione degli atti.
Sono invitate comunicazioni che affrontino le peculiarità della scrittura e della poetica biamontiana, evidenziando i rapporti tra l’opera dello scrittore ligure e quella di altri autori a lui cari: poeti, romanzieri, filosofi, artisti, critici. In particolare, risulta urgente l’approfondimento dei legami tra biografia e opera, oltreché l’analisi dei plurimi nodi intertestuali presenti nei suoi scritti, al fine di tracciare un disegno complessivo delle voci e degli incontri che abitano le pagine di questo autore.
Saranno perciò graditi gli interventi di specialisti di autori e contesti (si veda l’elenco seguente) che, intrecciando le loro conoscenze con l’opera di Biamonti, possano portare un contributo originale, un nuovo sguardo allo studio dello scrittore.
Saranno altresì graditi gli interventi mirati alla ricostruzione storico-biografica dei rapporti personali di Biamonti con altri personaggi della cultura che svolsero un ruolo importante nella sua formazione o nel suo percorso di scrittore (come editori e traduttori).
Per un primo orientamento, si propone qui di seguito una lista indicativa di autori, che tiene presente il tema delle affinità intellettuali, dell’intertestualità, degli incontri:
1) Scrittori italiani: Dante, Petrarca, Leopardi, Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Tozzi, Novaro, Boine, Sbarbaro, Seborga, Vittorini, Montale, D’Arzo, Fenoglio, Pavese, Calvino, Zanzotto, Lalla Romano, Orengo, Rigoni Stern;
2) Scrittori stranieri: poesia provenzale delle origini, Mistral; Verlaine, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Céline, Éluard, Char, Michaux, Valéry, Perse, Malraux, Gracq, Camus, Giono, Duras, Blanchot; Machado, Lorca; Rulfo; Hemingway, Faulkner; Tolstoj;
3) Filosofi: Freud, Jung, Marx, Bergson, Husserl, Croce, Heidegger, Camus, Sartre, Jaspers, Benjamin, Merleau-Ponty, Bachelard, Foucault, Lyotard;
4) Artisti e critici d’arte: de La Tour, Cézanne, De Staël, Morlotti, Cazzaniga, Sutherland, Dondero; Longhi, Arcangeli;
5) Editori e traduttori: Maspero, Simeone, Bobilier, Einaudi.
Le proposte di partecipazione al convegno vanno inviate, in italiano o in francese, all’indirizzo convegno.biamonti2021@gmail.com entro il 15 marzo 2021, allegando un pdf che contenga, oltre ai dati del/la proponente, il titolo e un riassunto dell’intervento, di lunghezza non superiore alle 500 parole (bibliografia inclusa).
Entro il 15 maggio il Comitato Scientifico informerà per e-mail sull’accettazione delle proposte di comunicazione.
Il Comitato scientifico e organizzativo
Andrea Aveto (Università di Genova)
Matteo Grassano (Università di Bergamo)
Simona Morando (Università di Genova)
Claudio Panella (Università di Torino)
Gian Luca Picconi (Amici di Francesco Biamonti)
Corrado Ramella (Amici di Francesco Biamonti)
Paolo Zublena (Università di Genova)
Modlet, Francesco Biamonti: le carte, le voci, gli incontri - Call for papers - Convegno biamontiano, 15-16 ottobre 2021, San Biagio della Cima / Ventimiglia

 

lunedì 8 febbraio 2021

My God! Potevamo esplodere tutti!

Francesco Garini e Ampelio Bregliano, partigiani a Negi, Frazione di Perinaldo (IM) - Fonte: Fiorucci, Op. cit. infra

Nell'autunno del 1943 ricevetti la cartolina di arruolamento nell'esercito della RSI fascista. Proprio non mi andava di fare una guerra che si rivelava sempre più sbagliata.
Mi nascosi - io di Vallecrosia (IM) - in una casa di amici di famiglia a Rocchetta Nervina [in Val Nervia], dove incontrai il figlio del maestro Garibaldi, ufficiale dell'esercito con il quale andai a Carmo Langan ad arruolarmi nei partigiani.
Partecipai alla occupazione di Perinaldo [(IM)] dove sequestrai un... toro! La fame nel paese era tanta e di cavoli e rape ne avevo fin sopra ai capelli. Un fascista di Perinaldo possedeva un toro: glielo requisii. Fu macellato e diviso con la popolazione. Finalmente un po' di carne per tutti!
La fame è il ricordo indelebile di quel periodo.
Un giorno stavamo cuocendo qualcosa, quando si sentì urlare: "Allarme! Allarme! I tedeschi!".
Tutti scapparono e Girò [Pietro Girolamo Marcenaro] ordinò di salvare le armi: io salvai la pignatta che cuoceva sul fuoco!
 

Fonte: Fiorucci, Op. cit. infra

Un giorno mi fu ordinato di sorvegliare la strada per Pigna perché dovevano scendere dei partigiani, forse perché accompagnavano ufficiali alleati [primi di ottobre 1944]. Mi lasciarono sul ponte del Nervia al bivio per Rocchetta [Nervina (IM)] con due pecore e due  capre per fingermi pastore al pascolo. Tutto andò bene, solo che alla sera le bestie non volevano saperne di ritornare al paese.  Anche altre volte usai lo stesso stratagemma del pastore per visionare luoghi e sentieri e tracciare così percorsi alternativi per eludere i tanti posti di controllo fascisti.
Dopo quella avventura, Girò mi disse che occorreva mandare dei partigiani dagli alleati nella Francia liberata per stabilire rapporti e trasportare armi per i garibaldini. Come? Di notte, con un gozzo, remando da Vallecrosia a Monaco.
I Lilò [i Fratelli Biancheri di Bordighera (IM), Bertù Bartolomeo ed Ettore, martiri della Resistenza] avevano "agganciato" i bersaglieri che erano passati dalla nostra parte. Fregammo una barca dal deposito sottostrada vicino alla Casa Valdese [di Vallecrosia (IM)] e la portammo al mare. Con molta circospezione e furtivamente mettemmo in acqua la barca che ... affondò.
In attesa di poter fare qualcosa, la ancorammo sul fondo riempiendola di pietre per non farla portar via dalla corrente.
 

Il citato presidio dei bersaglieri e, al centro, il vecchio macello di Vallecrosia - Fonte: Fiorucci, Op. cit. infra

I due edifici prima citati, al giorno d'oggi

Intanto stava albeggiando e non potevo ritornare né in montagna né a casa, perché era in corso un vasto rastrellamento dei fascisti. Con Renzo [Gianni] Biancheri "u Longu" ci nascondemmo nel macello a fianco della ... caserma [invero, un semplice presidio] dei bersaglieri.
Passammo due giorni appollaiati e nascosti sulle travi del tetto tra le catene, le carrucole e i ganci.
Poi finalmente Girò e gli amici prepararono la barca e partimmo. Era dicembre [1944] e tra i compagni di viaggio ricordo sicuramente Luciano "Rosina" Mannini.

Ampelio "Elio" Bregliano, in Giuseppe Mac Fiorucci, Gruppo Sbarchi Vallecrosia <ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia - Comune di Vallecrosia (IM) - Provincia di Imperia - Associazione Culturale "Il Ponte" di Vallecrosia (IM)>, 2007  

Rosina (Luciano Mannini) racconta: “Il servizio di informazioni militari, esplicato dalla missione «Leo» in Italia con i comandi alleati, ebbe inizio alla fine del settembre 1944, con l’arrivo nella zona della V^ Brigata [d’Assalto Garibaldi “Luigi Nuvoloni” della II^ Divisione “Felice Cascione”] di ufficiali americani ed inglesi giunti attraverso i passi montani dal Piemonte, ove erano stati paracadutati. Il capitano Leo [Stefano Carabalona], attestato allora a Pigna, comandante del distaccamento che li ospitava e che provvide in seguito a farli condurre - parte attraverso i valichi alpini e parte via mare - in Francia, stabilì col capo della missione alleata [Missione Flap] i primi accordi che dovevano condurre alla formazione di un gruppo specializzato che collegasse, per mezzo di una rete segreta, la nostra zona a quella occupata dagli alleati e fungesse da centro di raccoglimento e di smistamento di notizie militari e politiche interessanti la lotta”. La missione Leo alla quale appartenevano Rosina, Lolli [Giuseppe Longo], Giulio [Corsaro/Caronte] Pedretti, ed alcuni altri giovani che si erano temprati nelle lotte di montagna, si portò a Nizza nel [il 10] dicembre 1944, dopo due mesi di utile lavoro preparatorio, per mezzo della leggendaria imbarcazione guidata dall’infaticabile «Caronte» Giulio Pedretti e da Pascalin [Pasquale Pirata Corradi, di Ventimiglia (IM), come Pedretti]. A Nizza, Leo si incontra con i responsabili dei servizi speciali alleati e prepara il piano definitivo di lavoro, che comportava, fra l’altro, l’uso di apparecchi radio trasmittenti, per i quali la missione aveva già predisposto gli operatori. Nel gennaio 1945 la missione rientra in Italia, dove il terreno era già stato preparato in anticipo. Si organizza e comincia a funzionare in pieno… 
Mario Mascia, L’Epopea dell’Esercito Scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia

In parallelo agli aviolanci alleati, ma con con maggiore assiduità, avevano luogo sbarchi di materiale bellico nella zona di Vallecrosia-Bordighera. I volontari che si occuparono di tali trasporti appartenevano al gruppo di “Leo“, che fungeva da tramite tra i garibaldini e la missione alleata in Francia. Giulio Pedretti fu il partigiano che più di ogni altro si impegnò in tali operazioni, al punto che alla fine della guerra aveva effettuato 27 traversate per recapitare armi e uomini attraverso il tratto di mare prospicente la zona di confine italo-francese.     Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945),  Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia,  Anno Accademico 1998-1999

Remammo a turno e sbarcammo a Monaco Principato bagnati fradici, perché durante il viaggio aveva cominciato a piovere. Tre o quattro volte alla settimana ci conducevano oltre Nizza, a Gattières, per addestrarci all'uso degli esplosivi al plastico e alla esecuzione di sabotaggi. In mezzo agli ulivi avevano anche costruito un breve tratto di ferrovia per insegnarci a far saltare i binari.
Alla fine del corso ci avvisarono che alla prossima lezione avremmo dovuto presentare una sintesi, un rapporto di quello che avevamo imparato.
Avevo imparato,  ma scrivere non è mai stato il mio forte. Con un panetto di plastico modellai un bel  portacenere che colorai di bianco con della farina. La mattina dell'esame lo posi sul tavolo in bella mostra con cenere e 4 o 5 mozziconi di sigarette.
Fumando una sigaretta dietro l'altra Lamb [ufficiale alleato] cominciò a esaminare i lavori dei miei compagni, poi mi chiese dove era il mio lavoro. "L'ho già consegnato!". Il maggiore [Lamb] sfogliò i fogli alla ricerca del mio scritto. Si inalberò e mi chiese duramente dove era. Indicando il portacenere ormai colmo delle sue  cicche, risposi che ce lo aveva proprio davanti.
"Ma questo è un portacenere!"
"Si! Però è fatto con esplosivo al plastico!"
Il self-control tipico degli inglesi non lo soccorse. Scattò dalla sedia balzando all'indietro: "My God! Potevamo esplodere tutti!"
"In questo caso, signor maggiore, sarebbe stata colpa sua, perché lei ci ha insegnato che il plastico esplode solo se innescato con un detonatore e non per contatto con la semplice fiamma."
Promosso a pieni voti!
 

Bregliano a Le Petit Rocher - Fonte: Fiorucci, Op. cit.

Vicino a Le Petit Rocher [a Villefranche-sur-Mer, Alpes-Maritimes] c'era un'altra villa disabitata, Villa Iberia. Dalle finestre vedevamo il salone spoglio di ogni mobilio con solo un grande pianoforte a coda al centro.
 


Quasi tutti i giorni veniva un signore. Secondo me era il Principe Ranieri di Monaco e se non era lui era il suo sosia! Suonava per ore il pianoforte.
Il giardino era pieno di alberi di mandarino colmi di frutti. Un giorno gli chiesi se potevo prenderne un po'. Faceva finta di non capire. Glielo ripetei in dialetto: "Te cunvegne dameli, senunca ti i fregu! ("Ti conviene darmeli, se no te li frego!")". Capì e acconsentì.
Chiamai Girò e gli proposi di raccogliere qualche borsa di mandarini e andare a venderli al mercato di Nizza con la jeep che lui aveva a disposizione. Subito rifiutò in nome degli ideali, poi si convinse.
Guadagnammo dei bei soldi, che spendemmo nei bistrot di Villafranca [Villefranche-sur-Mer].
Gli ufficiali inglesi erano divertiti della cosa, però non riuscivano a capire come gli alberi fossero spogli dei mandarini e le mine disseminate nella piantagione non fossero esplose.
Insieme agli altri miei compagni disinnescavamo le mine, lasciando i contenitori senza l'esplosivo, con il quale confezionavamo qualche piccola bomba che usavamo per... pescare.
Feci parecchi viaggi avanti ed indietro portando armi, radio, medicinali e altro materiale bellico.
Il motoscafo sul quale erano imbarcati due soldati inglesi si fermava a qualche centinaio di metri dalla riva, trasbordavamo il carico su canotti o piccole bettoline di legno (queste ultime erano collegate al motoscafo con una lunga fune), raggiungevamo pagaiando la riva e scaricavamo sulla costa di Vallecrosia. Dopodiché dalla barca recuperavano le bettoline con la fune.
Imbarcammo anche soldati alleati scappati dai campi di prigionia che ci venivano affidati dai partigiani piemontesi. Ricordo un francese di colore che patì il mare in maniera incredibile. Pensai: "questo qui non l'ha ammazzato la guerra e muore dal mal di mare".
Una volta che c'era da trasportare un carico di un cospicuo numero di casse, ci imbarcammo su un motoscafo più grosso, quasi un panfilo. Era più rumoroso dei soliti usati prima di allora; gli vennero adattati ai tubi di scarico due silenziatori grandi come angurie rendendolo abbastanza silenzioso. Era però più lento e non sarebbe riuscito a sfuggire se fosse stato intercettato dalla flottiglia che pattugliava la costa italiana, come invece riuscivano a fare gli altri motoscafi che solitamente erano pilotati da Giulio "Corsaro/Caronte" Pedretti.
Per fronteggiare l'eventualità di una intercettazione, fu sistemata a poppa una mitragliera pesante piazzata sul piedestallo sostenuto da due gambe di forza fissate al battello. Evidentemente il lavoro non fu collaudato, perché, appena preso il largo con i motori adeguatamente silenziati, la mitragliera cominciò a vibrare e sbattere sulla coperta del battello. Blan-Blen!Blen-Blan! I motori erano silenziosi, ma noi sembravamo un campanile che suonava le campane a festa accompagnato da un'orchestra di tamburi!
C'era una sola cosa da fare. Esaminai la mitragliera (l'addestramento a Gattières era servito a qualcosa!) e poi con fare concitato segnalai a Girò e ai due inglesi un punto della costa indicandolo con un dito.
"Laggiù! Guarda!"
Mentre loro scrutavano attentamente nel buio staccai la mitragliera dal piedistallo e la cacciai in mare.
Il concerto cessò. Uno dei soldati inglesi si arrabbiò non poco, minacciandomi di tutto.
Girò cercò di calmarlo. Di ritorno dalla missione, i soldati inglesi fecero rapporto e fui anche processato a Nizza davanti a una specie di corte marziale, composta da ufficiali inglesi e americani.
Quando descrissi loro l'accaduto scoppiarono quasi a ridere e mi assolsero.
 



Arrivammo salvi alla costa di Vallecrosia, dove sbarcammo tutte le casse che nelle notti successive, un po' alla volta, portammo a Negi. Anche a me toccò il compito di fare la staffetta con Negi a portare e prendere, avanti e indietro.
 

La Via Aurelia di levante, poco prima del "ponte" di Vallecrosia

Una delle ultime volte che fregammo una barca dal deposito vicino al ponte di Vallecrosia me la vidi proprio brutta. Con Achille ["Andrea" Lamberti] ed altri, che adesso non ricordo, caricammo su un carretto la barca per portarla al solito posto nella villa di via S. Vincenzo. La spingemmo su per la salitella che si innesta sulla via Aurelia e svoltammo a destra. Dopo pochi metri, scorgemmo al di là del ponte tre soldati tedeschi, all'altezza del "carruggio" di via Maonaira. Chi era con me fece in tempo a dileguarsi. Io rimasi con le stanghe del carretto in mano. Non potevo scappare e lasciare il carretto perché sarebbe scivolato all'indietro e avremmo combinato un disastro. Con il cuore in gola proseguii. Avvicinandomi mi accorsi che i tedeschi stavano mangiando, meglio: si stavano abbuffando di salame e formaggio. Erano anche un po' bevuti, un po' tanto. Intuii che avevano rubato tutto quel ben di Dio dal vicino magazzino del salumiere Giraudo. Quando mi intimarono l'alt! chiedendomi spiegazioni per la barca, un po' in dialetto, un po' in italiano e tanto con le mani, con fare severo, li accusai di aver rubato salame e formaggio, mentre per i civili non c'era niente, neanche la legna per accendere una stufa, tanto è vero che per scaldarci dovevamo usare il legname della barca. I crucchi accusarono il colpo, come bambini sorpresi con le dita nella marmellata. "Kamarade! Kamarade!" e mi lasciarono proseguire.
Belin! Avevo messo paura ai tedeschi!
Ampelio "Elio" Bregliano, in Giuseppe Mac Fiorucci, Op. cit.