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sabato 5 giugno 2021

Come al solito ritrovo Bruno Fonzi


Il romanzo di Fonzi si ambienta sulla riviera ligure, dove un gruppo di ricchi sfaccendati recita - fra partite di tennis, cene e mondanità - una commedia imprevedibile che si rovescia in dramma.
Redazione, Bruno Fonzi, Tennis, Einaudi, 1973, Antro di Ulisse   

[...] Ricordo che quando veniva a trovarmi a Bordighera dimostrava un attaccamento a quei luoghi e ad un comune amico in particolare, lo scrittore Guido Seborga, l’Hess della Resistenza e dell’impegno socialista all’Avanti che aveva poi abbandonato per dedicarsi  alla pittura e alla scrittura nell’immediato entroterra bordigotto. Attorno al mitico locale “Che Louis” in viale Italia si trovavano intellettuali come lui, Betocchi, Navarro (affezionatissimo di Bordighera e di Venezia  per le sue vacanze) e Bruno Fonzi che a Bordighera dedicò il romanzo Tennis. Ero un giovane universitario ed ho potuto partecipare di quel clima solo   attraverso i suoi epigoni, notandone le profonde inquietudini esistenziali che non bastavano più bevute a rasserenare. Hess, sicuramente il più affascinante e libero, era profondamente deluso e si poteva cogliere con immediatezza. Massimo Novelli ha scritto di lui in modo raffinato, cogliendone l’arte e il travaglio interiore profondo [...]
Pier Franco Quaglieni, Quelle vacanze nella Liguria torinese, Lo Spiffero, 3 agosto 2015 


Il mio primo rapporto con Bruno Fonzi risale al dicembre del 1974. Nell’aprile di quell’anno aveva pubblicato, nei “Nuovi Coralli” di Einaudi, I pianti della liberazione, quel racconto suo bellissimo che faceva parte della prima raccolta Un duello sotto il fascismo del ’61. Il due dicembre mi scrisse per ringraziare dell’articolo dedicatogli. S’avviò così un’amicizia durata poco meno di due anni, ma intensissima e profonda. “Come se ci conoscessimo da molto”, diceva. Ci vedemmo di lì a poco a Milano per un breve incontro tra due librerie, la casa Garzanti, un ristorante. Portava la sua eleganza come il colore degli occhi e l’andatura nobile che lo contrassegnava. Era nato a Macerata nel 1914. A Macerata era rimasto fino al ’26 quando la famiglia si era trasferita a Torino. Dopo la laurea in Scienze Economiche e Commerciali, negli anni Quaranta sarà a Roma dove intreccerà amicizie che si interromperanno con il suo spegnersi: Moravia, Elsa Morante, Giorgio Bassani, Giacomo Debenedetti, Ennio Flaiano, Niccolò Gallo, Mario Pannunzio che lo chiamerà a collaborare, per circa un decennio, a “Il Mondo”. Nel ’49 fissa la residenza definitiva a Torino, dove sposerà Ada Fosco, e sarà chiamato, da Cesare Pavese, ad occuparsi della collana di narrativa inglese e nordamericana. Poco prima della morte, nel giugno del ’76, lascerà l’Einaudi per Garzanti. Le insidie dell’intelligenza si era intitolato il seminario di studi presso l’Università di Urbino, Istituto di Filologia Romanza, tenutosi il 10 e 11 maggio 1988, a cura di Gualtiero De Santi e al quale parteciparono Gina Lagorio, Mario Santagostini, Donatella Marchi, Massimo Raffaeli, Fabrizio Adanti, Maria Lenti e il sottoscritto.
A oltre dieci anni dalla sua perdita, tornava l’identità di scrittore e di traduttore superbo che era passato attraverso le regioni più intense e impervie della letteratura che gli premeva: il Sartre de La nausea (1947) e l’Hemingway di Un addio alle armi (’45), il Teatro di Arthur Miller (’59) e quello di O’Neill (1962), La fortezza di Singer (’72) e le Memorie di una maitresse americana della Kimball (’75), Ragtime di Doctorow 8’76) e I libri della mia vita di Henry Miller (’76), per citarne alcuni.Scese ad Ancona, provenendo da Firenze, nel marzo del ’76, per presentare alla Biblioteca “Benincasa” la raccolta dei suoi racconti di una vita, Equivoci e malintesi, che Einaudi aveva pubblicato poco prima. Poggiata la valigia da certi suoi parenti di Via Villarey, risalimmo in auto per raggiungere Portonovo e rammentare le pagine di Musil ne “Il viaggio in paradiso”, appendice de L’uomo senza qualità, nel quale quella baia è toccata dalla grazia della scrittura e dei sensi. Ripercorremmo l’itinerario della sua infanzia per la città ferita ancora dal terremoto del ’72 e con le tracce aperte dell’ultima guerra europea: la via delle carceri, i palazzi del Guasco, di San Pietro, l’arcivescovado, il porto.
Camminava nell’impermeabile scuro tutto abbottonato e raccontava una storia di brevi capitoli lasciando che crescesse il ritratto del ragazzino che era stato, occhi vivi e veloci, in quei luoghi tra l’Anfiteatro e Piazza San Francesco. Salendo per la Cattedrale gli dicevo che lungo quel percorso – e più sotto – Visconti aveva girato, nel ’42, le scene anconetane di Ossessione, con Girotti, la Calamai, Juan De landa, Elio Marcuzzo. Anche le vie di quel film erano, in gran parte, scomparse con i disastri dei bombardamenti. Poi Villa Bosdari verso il Trave, dove cenammo, da soli, nel conforto di una conversazione che durava da ore e che avrebbe occupato gran parte della notte. Sulla spiaggia di Portonovo mi parlò di Pavese, degli anni einaudiani. Consegnava figure e fatti oltre il mito e la leggenda, nell’asciutta evidenza delle cose. Non condivideva la pubblicazione de Il mestiere di vivere, il diario d’esistenza che si chiuderà con il suicidio dello scrittore nell’agosto del 1950, a quarantadue anni.
Appoggiati a una barca rovesciata vicino alla Torre De Bosis affrontammo i suoi libri. Ironico, discreto, attento, sfogliava le sue pagine e le pagine dell’Italia con la stessa andatura esatta della scrittura. Le Marche, per lui, erano elegia e memoria. Un suo romanzo del ’64, Il maligno, era stato ambientato “in quella zona dell’Italia centrale imprecisa e ibrida quant’altre mai, dove confinano l’alto Lazio, l’Umbria e le Marche” (Giorgio Bassani). La presentazione del giorno dopo, affollatissima e che gli piacque proprio per il carattere di imprevedibile festa composta, si chiuse in un ristorante di Piazza del Plebiscito. Poi uscimmo a camminare fino al Porto che ancora consentiva la passeggiata sulle banchine libere, tra bitte e gomene e l’odore d’acqua morta. Il giorno dopo raggiungemmo Recanati e Macerata, senza malinconia. La coscienza vigile del reale l’avvisava ogni volta degli smottamenti e dei rischi dell’emozione. Seppi, la mattina del 5 giugno, da un piè di pagina de “Il Giorno”, della sua improvvisa morte a Milano. La civiltà laica e l’educato anarchismo tacquero all’improvviso come la civile gentilezza, la pazienza dignitosa, la raffinata intelligenza. Nel suo lavoro di autore e nelle scelte del traduttore non c’è mai stata la volontà di piegare il reale, ma l’esigenza di approssimarsi alla verità delle immagini sensibili, delle situazioni, per “restituire ciò che abbiamo preso dal granaio della vita” secondo l’Henry Miller da lui stesso “doppiato” in italiano. L’abitava il bisogno di dire quel che aveva in testa mediante la forma più vicina a “come” lo sentiva. L’universo delle idee e degli sguardi: così si compone il giuoco di macchine linguistiche e di posizioni stilistiche del più controverso romanzo suo del ’73, Tennis. Dopo trentuno anni la voce morbida suggerisce: “Che lo scrittore sia interprete della società mi pare indubbio. Altrettanto indubbia mi pare la sua nessuna influenza sull’andamento delle cose: […] quasi sempre la sua testimonianza – e magari, quando c’è, il suo messaggio – vengono recepiti a posteriori. Troppo tardi”
Francesco Scarabicchi, Love in Translation: Bruno Fonzi, Le parole e le cose 2 



Nel maggio del 1958, dalle pagine de “Il Mondo”, Bruno Fonzi, scrittore che vale la pena riscoprire - con Einaudi ha pubblicato Il maligno e Tennis, ha tradotto, tra i tanti, Faulkner, Singer e Hemingway - racconta che “Gli americani hanno infine riconosciuto che Pound non è matto e l’hanno liberato dal manicomio”. Il pezzo è ben scritto, un robusto sketch narrativo, e costituisce una specie di cliché: lo scrittore dettaglia, per sommi capi, la cornice della vicenda poundiana - fascino, fascinazione per il fascismo, arresto, manicomio criminale -, e il suo incontro con il poeta, a Rapallo. La chiusa del pezzo è saporita - “Lo rividi di sfuggita a Roma… Aveva il cappello a larghe tese, un bastone dalla punta ferrata e un lungo sigaro. Mi parve proprio ammattito” - e dimostra, come altri articoli (pressoché esemplari, cioè aurei esempi di giornalismo narrativo) raccolti in È inutile che io parli, la quasi assoluta, appagata, indifesa incomprensione di Pound da parte della cultura italiana. Questa è una delle scabre scoperte del libro, edito da De Piante e curato da Luca Gallesi, che raccoglie “Interviste e incontri italiani” di Ezra Pound dal 1925, l’anno in cui il poeta si trasferisce a Rapallo, al 1972, l’anno della morte, che lo coglie a Venezia, dove è sepolto.
[...] Credo che il caso sia retto da un remota armonia, allora, perché nei giorni in cui De Piante manda in libreria È inutile che io parli, Massimo Bacigalupo, insigne studioso e traduttore di Pound, ha fatto ristampare il libro di suo padre, Giuseppe Bacigalupo, Ieri a Rapallo, che custodisce un mirabile ritratto di “Ezra Pound”. Il ritratto è bello perché privo di civetterie intellettuali e di tremori politici. Si racconta l’arresto di Pound – “Stava traducendo il Libro di Mencio il 3 maggio 1945 quando due partigiani lo prelevarono nella casetta di S. Ambrogio. Se lo mise in tasca e li seguì” –, il carcere, l’incontro, nel 1962, in Liguria, dopo un ricovero nella Casa di Cura di Martinsbrunn, vicino a Merano, “dimagrito, invecchiatissimo… in un mutismo quasi assoluto”. Giuseppe Bacigalupo è medico di fama e conduce Pound nella sua clinica, Villa Chiara: il poeta è operato dopo aver rilevato “una grave intossicazione uremica”. I ricordi più estasianti, però, affondano nel 1926, quando Bacigalupo conosce Pound “sui campi del Tennis Club di Rapallo. Ero agli inizi di uno sport che mi avrebbe dato molte soddisfazioni anche in campo agonistico, mentre Pound vi veniva a sfogare le energie non esaurite della sua vulcanica attività intellettuale, saltando e sudando copiosamente tra esclamazioni assai poco ortodosse”. Insieme a Pound, il giovane Bacigalupo partecipa “a qualche piccolo torneo nelle cittadine rivierasche, dove giungevamo sulla Fiat 509 torpedo, carichi di entusiasti del tennis e guidata da mia madre”. Quando Pound vinceva, insieme al giovane, talentuoso amico, “era giulivo come un ragazzo”. Sapeva giocare: “con poco stile ma con inesauribile energia e combattività”. Il poeta sul campo da tennis. Non avrebbe desiderato altro ricordo: lì, nel gioco, dove tutto è vento, volontà, vigore e verbo scomposto. E l’azzurro - si sa, siamo in Liguria - è una traccia di vetro.
Redazione, Mi parve proprio proprio ammattito. Ezra Pound in Italy: l’idolo incompreso, Pangea, 15 aprile 2021   

Anni fa, chiacchierando con un caro amico a proposito di racconti mi disse che gli era stato nominato da non ricordo chi questo Bruno Fonzi come uno dei migliori scrittori italiani di racconti del Novecento. Era un autore che non conoscevo (d’altronde ho molte lacune), così qualche tempo dopo in biblioteca presi un suo piccolo libro, I pianti della Liberazione, pubblicato da Einaudi singolarmente negli anni ‘70 ma che faceva parte della raccolta di racconti d’esordio del 1961, Un duello sotto il fascismo, pubblicata anch’essa dall’editore torinese. Mi piacque e mi ripromisi di approfondire ma, come mi capita spesso, sono facile alla distrazione e le mie letture vagolano. Un paio d’anni fa ero in questa piccola libreria in città, Les Bouquinistes, che ha un bel catalogo di libri usati, e dando un occhio come al solito ritrovo Bruno Fonzi. Due libri: uno era quello già letto, e l’altro era questo romanzo, Il Maligno, del 1964. Presi e portai a casa e misi a posto, lì tra le letture da fare. Ogni tanto mi guardava ma non era il momento, credo, e così l’ho letto solo adesso.
Siamo negli anni ‘30, in un piccolo paese appenninico a un centinaio di chilometri da Roma. Il Fascismo è un’ombra lontana vista perlopiù solo come opportunità di possibile potere.
Il Maligno invece è lì, da qualche mese, in una casupola di una sola stanza, vicina al bosco, dove abitano la Bibiana e la piccola figlia Settimina. Di notte accade qualcosa, la voce gira e le persone vanno a vedere, a sentire. Le autorità cercano di vigilare, ma è chiaro come solo l’intervento del parroco possa liberare il luogo e riportare la pace; la Bibiana però si deciderà a chiamarlo?
[...] Chi è, cosa è questo Maligno sulla bocca di tutto il paese ma che non si dovrebbe/potrebbe nominare? Di sicuro c’è, di sicuro “parla”, di sicuro scombussola e travolge la vita delle persone che vi si agitano intorno. Perché il Maligno non si sposta, il Maligno sta; il Maligno non appare, il Maligno è. Il Maligno è “la valvola rivelatrice” dei peccati e i peccatucci, esplicita i dubbi e rende reale ciò che si finge di non vedere.
Il Maligno è, da un punto di vista narrativo, l’escamotage che permette all’autore di indagare la natura umana, di occuparsi delle persone e del paese. Fonzi, traduttore dal francese e dall’inglese, cita esplicitamente nel testo Sotto il sole di Satana, romanzo di Bernanos, e non si può non tenerne conto, ma ho ripensato anche ai racconti di Winesburg, Ohio, di Sherwood Anderson perché in ogni capitolo presenta personaggi diversi, e via via li fa interagire tra loro e alcuni come ovvio ricorrono più frequentemente e prendono rilevanza mentre altri rimangono sullo sfondo ma sono essenziali per fornire il quadro generale.
Così c’è il vecchio principe nella dimora decaduta che ospita la cugina-contessina, donna repressa che sogna leggendo libri francesi in lingua (tra cui quello di Bernanos, in cui si immedesima portando il nome di una delle protagoniste), c’è il parroco goloso che ha meno fede dei suoi parrocchiani, c’è la maestra cattolica integerrima, c’è il nuovo norcino che ha da vincere le diffidenze della clientela, c’è l’amministratore del feudo che ha qualche mira, c’è la governante, ci sono i carabinieri, c’è l’oste del Dopolavoro e certo ci sono la Bibiana e Settimina e c’è il Maligno.
La scrittura di Fonzi non indugia né indulge e il paese cui dà vita lo si sente reale, prende forma mentre si avanza nella lettura e non ci viene risparmiato nulla, eppure anche le scene più forti non appaiono eccessive o fini a loro stesse. C’è qualcosa che va oltre i fatti che vengono narrati, qualcosa che fa dei personaggi persone, qualcosa che precede e che rimane [...]
Andrea Brancolini, Bruno Fonzi, Il maligno, Lankenauta, 11 dicembre 2020   


Una Roma sguaiata e alla fame, da poco liberata dagli americani e ancora sfigurata da vent'anni di regime, fa da quinta all'irresistibile racconto di una giornata nella vita del commendator Mastroluongo, «capodivisione al ministero», marito-padre tormentato e sospettoso di ogni cambiamento. Un funerale rocambolesco, l'assedio di un usciere che fa affari con la borsa nera, l'inopinata risoluzione di varcare l'ingresso del banco dei pegni prefigurano un finale cupo e inesorabile, finché un incontro fortuito apre al protagonista le porte di una casa incantata e ricca di sorprese. "I pianti della liberazione" uscì per la prima volta nella raccolta "Un duello sotto il fascismo", pubblicata da Einaudi nel 1961. Postfazione di Christian Raimo.
Presentazione, Bruno Fonzi, I pianti della Liberazione, Abbot, 2021, Libraccio.it

Siamo a Roma, nel momento del trapasso dalla monarchia clerico-fascista a una mai nata repubblica fondata sui valori della Resistenza. Trent’anni sono trascorsi sull’alto burocrate commendator Mastroluongo senza segnare una ruga: nulla è mutato nella sua mentalità. Pavido, bigotto, anche se in fondo di buon cuore, ridotto in miseria dal carovita, per soccorrere un suo coetaneo il commendatore finisce in una casa d’appuntamenti, e vi conosce quelle delizie che il menage coniugale gli aveva sempre negato. Nella sua avventura, raccontata con una ironia tagliente che diventa giudizio morale, si riflette il quadro di una Roma «anno zero», scardinata e arruffona. Ha scritto Arnaldo Bocelli: «Particolarmente bella è la figura della “signora” Speranza, la matura ma ancora godereccia padrona di quella casa, di un impudore così naturale da sembrare quasi pudico… E di vigoroso risalto è l’ambiente familiare del commendatore, con quel figliolo anticonformista, terrore dei genitori, eppur unico barlume in quel tenebrore. Un racconto felice, che è già un punto d’arrivo». Se l’impianto linguistico e il felice disegno dei personaggi ne garantiscono l’intatta validità, l’aver individuato nel momento di massima esplosione della retorica populisteggiante la vera «ala marciante» del sistema, fa di questo libro un piccolo classico nel panorama della narrativa italiana degli anni cinquanta.
Presentazione, Bruno Fonzi, I pianti della Liberazione, Einaudi, Nuovi Coralli, 1974, Einaudi    

Tra la fine del 1953 e l’inizio del 1954 Claudi, incoraggiato forse da alcuni amici <141, spedisce presumibilmente il manoscritto de L’anatra mandarina all’Einaudi. L’eventualità di pubblicare il testo viene considerata dall’autore come «una possibilità di lavoro ancora libera e felice, un’espressione di personalità» <142. L’opera si caratterizza come la realizzazione di «un “libro” da un diario di pensiero» <143, in cui l’autore cerca di mostrare la sua riflessione teorica a partire dalla sua dimensione biografica, operazione che gli costa la fatica di passare «da un problema a un altro, da un piano intellettuale ad un altro» <144.
Il 5 ottobre del 1954 Bruno Fonzi <145 e Renato Solmi <146 rispondono a Claudi ricusando la pubblicazione del testo. Le motivazioni del rigetto vengono individuate in problematiche di natura principalmente teorica. Solmi considera il testo «anacronistico» <147 e non in linea con l’impostazione ideologica della casa editrice torinese, in quanto l’individuo si caratterizza come «un prodotto della storia, e tutt’altro che “eterna luce trascendente”» <148. Oltre alle critiche di Solmi, Fonzi precisa come «alcuni capitoli mancano di quell’assoluto rigore stilistico, o concettuale, che il genere richiede; o meglio, l’approssimazione stilistica riflette l’imperfetta chiarezza concettuale» <149. Gli effetti psicologici di queste critiche sono devastanti e amplificano una situazione già difficile e dolorosa, come descritto nel diario 1954: "Il rifiuto del mio libro da parte di Einaudi è stato un colpo netto che ho avvertito come una pugnalata allo stomaco. Qualunque siano le ragioni è stato tuttavia un rifiuto, il colpo di ritorno di boomerang lanciato in una direzione sbagliata" <150.
141 «Ho dato in lettura quella specie di piccolo o grosso zibaldone che mi accade talvolta di indicare col nome di diario» (Diario 1949-1955, p. 49). E più avanti troviamo: «Pare che certo mio diario filosofico piaccia. Oggi ho sognato una bella edizione presso uno degli editori più importanti d’Italia» (Ivi, p. 50).
142 Diario 1954 gen, p. 20.
143 Ivi.
144 Ivi.
145 Bruno Fonzi (Macerata, 27 gennaio 1914 - Milano, 5 giugno 1976) è stato uno scrittore e traduttore italiano, collaboratore di case editrici.
146 Renato Solmi (Aosta, 27 marzo 1927 - Torino, 25 marzo 2015) è stato un germanista, traduttore e insegnante italiano.
147 F.C., Lettera Einaudi, 5 ottobre 1954. La lettera non è stata archiviata ed è conservata nei documenti personali di Claudi.
148 Ivi.
149 Ivi.
150 Diario 1954 lug., p. 29.

Gabriele Codoni, Claudio Claudi: un episodio sconosciuto di umanesimo nel secolo breve. Biografia intellettuale, introduzione critica ed edizione filologica di Realtà e valore, Tesi di dottorato, Università degli Studi Urbino Carlo Bo, anno accademico 2017-2018

[...] E’ significativo lo scambio di lettere che intercorre tra Elsa Morante, Luciano Foà e il redattore della casa editrice Einaudi, Bruno Fonzi (che stava curando la pubblicazione dell’Isola di Arturo), a proposito degli spazi bianchi da lasciare nel testo. Il 15 novembre 1956, la scrittrice «riscrive» a Luciano Foà «i particolari» sui quali era già stato preso un accordo verbale: "Ciascuno degli otto lunghi Capitoli richiede un occhiello (mi sembra che si chiami
così la pagina bianca con l’indicazione del Cap. e il titolo nel centro). Essendo ognuno degli otto Capitoli principali suddiviso in numerosi Capitoli più brevi, fra la chiusa di ciascuno di questi e il titolo del successivo si richiede uno Spazio di circa un terzo di pagina. Le suddivisioni interne che talvolta si trovano nei Capitoli brevi (e che da me sul testo sono indicate con delle lineette) richiedono, fra l’una e l’altra, uno Spazio minore, possibilmente segnato da qualche asterisco o simili. Scusami se insisto su questi particolari, ma lo faccio perché, nel mio testo, queste indicazioni prendono un valore non solo tipografico, ma anche poetico. Riguardo ai caratteri, quelli su cui già ci trovammo d’accordo (usati per il romanzo supercorallo di Natalia), mi sembrano i migliori per questo romanzo".
Il 19 novembre, Bruno Fonzi risponde alla Morante che sarebbe stato meglio fare incominciare «sempre a pagina nuova» i capitoli «più brevi entro i capitoli principali», piuttosto di «lasciare uno spazio di un terzo di pagina, che è molto brutto», tenendo conto del fatto che «all’interno di questi capitoli brevi ci sono già altre divisioni con spazio bianco».
La reazione della scrittrice è molto netta: "Non è possibile […] la modifica da Lei proposta riguardo agli spazi fra i Capitoli brevi. Il fatto è che questi spazi, così come io li ho indicati sul testo dattiloscritto, rispondono, nel mio racconto, a un determinato ritmo narrativo: per il quale ognuno dei capitoli principali - divisi da occhiello -, serba, attraverso le pause fra i capitoli brevi, una sua continuità di azione. E’ necessario, perciò, mantenere fra i successivi capitoli brevi, questi spazi sulla stessa pagina; li si potrà, magari, ridurre a un poco meno di quel terzo di pagina che si era deciso, se Leo lo giudica necessario per l’estetica tipografica".
Alberto Cadioli, Le diverse carte. Osservazioni sull’intermediazione editoriale e la trasmissione del testo in età contemporanea, Bollettino di italianistica, 1/2006, gennaio-giugno

I primi romanzi di Roberto Roversi e di Fulvio Tomizza, apparsi nella «Medusa degli italiani» diretta da Gallo (e a lui attribuiti nella tabella 1) transitarono per esempio in Mondadori a seguito della chiusura dei «Gettoni» di Vittorini, che aveva già selezionato quei libri per la sua collana. Fu invece Vittorini a pubblicare nel 1951, come primo numero dei «Gettoni», l’opera prima di Franco Lucentini, I compagni sconosciuti, ma avvalendosi, come era sua abitudine, della consulenza di numerosi colleghi, tra i quali ebbe un ruolo decisivo lo scrittore e traduttore Bruno Fonzi. Lucentini stesso, in una lettera al fratello, restituisce il sapore del lavoro di squadra, plurale e litigioso: «Mi hanno detto Fonzi e Pavese che i racconti sono molto piaciuti: Pare che al meeting editoriale con Einaudi, tutti, Ginzburg, Fonzi e Pavese, ne abbiano fatte lodi così alte che Einaudi, pur non avendolo letto, si è ribellato e ha detto che loro tre capiranno l’estetica ma non l’editoria, e che una breve raccolta di racconti, in quanto breve e soprattutto di racconti, non ha ragione di essere pubblicata. Ma non è finita lì perché adesso Einaudi leggerà i racconti lui stesso e loro scommettono che cambierà idea. Perché insomma, dice la Ginzburg, “gli dovranno piacere”».
Mariarosa Bricchi, L’età del benessere in I romanzi degli altri: scrittori-editori, editori-scrittori, Atlante della letteratura italiana 3, Einaudi, 2012

martedì 1 giugno 2021

Circa la Mostra di Genova dedicata ad Enzo Maiolino

Fonte: Università degli Studi di Genova

L'insegnamento come condivisione non solo di saperi, ma anche di esperienze e di progetti: è nata così la mostra "Enzo Maiolino, Astrazione e Geometria", visitabile presso Prisma Studio
[...] È stato infatti un ex allievo, Andrea Daffra, laureato in Storia dell'Arte e specializzato in Beni storico artistici all'Università di Genova, a rendermi partecipe del suo desiderio di ricordare con una piccola antologica Enzo Maiolino, all'approssimarsi del quinto anniversario della scomparsa, avvenuta a Bordighera l'11 novembre del 2016. A Maiolino ero legata da un profondo rapporto di amicizia e stima, durato oltre quindici anni; l'incontro del giovane studioso con l'artista è avvenuto, invece, solo sui libri, favorito da lezioni nelle quali alcune opere realizzate da Enzo nelle diverse fasi della sua lunga ricerca mi avevano fornito validi strumenti per spiegare i complessi passaggi dalla pittura "dal vero" a quella "concreta", ossia puramente geometrica, passando attraverso la delicata fase dell'"astrazione", processo in cui il dato naturale, che suggerisce a un pittore una determinata composizione, viene semplificato, ridotto alla sua essenza formale e cromatica. Di questo processo Maiolino è stato un poliedrico interprete: appassionato studioso della pittura di Modigliani e di Morandi, ha saputo declinare sulle architetture dei borghi arroccati dell'entroterra ligure la capacità di sintesi con cui il primo traduceva in pittura volti e corpi femminili, il secondo bottiglle, bicchieri e scodelle.
A Bordighera dove aveva vissuto dall'adolescenza Maiolino aveva frequentato lascuola d'arte del pittore Giuseppe Balbo - "l'incontro più importante" dei suoi vent'anni, per citare le sue parole - e aveva preso parte attiva alla vivace stagione culturale che aveva animato la cittadina rivierasca negli anni cinquanta, stringendo tuttavia legami più stretti e profondi con gli scrittori, i poeti, gli intellettuali (da Guido Seborga a Francesco Biamonti, da Vanni Scheiwiller a Saverio Napolitano) piuttosto che con i pittori, soprattutto quelli locali, per lopiù ancorati alla tradizione della pittura dal vero e scettici nei confronti di una ricerca che abbandonava la riproduzione fedele dell'esistente per creare immagini appartenenti solo al mondo delle idee. Fanno eccezione alcuni grandi artisti "di passaggio" in Riviera, come Ennio Morlotti e Antonio Calderara, altro grande protagonista dell'astrattismo italiano, nei quali Maiolino aveva trovato interessati interlocutori ed estimatori. Nonostante questi rapporti, il riconoscimento di Maiolino come artista tarda ad arrivare: di carattere schivo, fedele al proprio motto "non bussare e ti sarà aperto", egli conduce per anni la propria originale e rigorosa ricerca in uno studio colmo di libri e di articoli di giornale e, d'estate, nel suo"buen retiro" di Castelvittorio, paesino inerpicato della Val Nervia. La porta, per Maiolino, si apre nel 1993: ad attenderlo sulla soglia trova il critico tedesco Walter Vitt
[...] La seconda sala della galleria accoglie i dialoghi "fondamentali" nell'opera di Maiolino: quello tra pittura e incisione e quello tra astrazione e geometria, che dà anche il titolo alla mostra. Nell'ultima sala, una ricca selezione di opere pittoriche, concepita nel suo audace allestimento da Andrea Daffra, che con me ha curato l'intera mostra, dimostra la fervida fantasia con la quale Enzo Maiolino ha usato i suoi sistemi formali di riferimento (i pentamini, gli esamini, il tangram) come un'inesauribile fonte dalla quale attingere i motivi composivi e soluzioni cromatiche sempre diverse.
Paola Valenti, Se l'arte unisce saperi e progetti, la Repubblica, Genova, Domenica 30 maggio 2021
Il 25 settembre 1993 Enzo Maiolino ricevette, nella sua casa di Bordighera, la visita di un suo ex allievo, lo scultore Roberto Cordone, nato a Vallecrosia ma da tempo residente in Germania. Cordone era accompagnato da una coppia di amici tedeschi, il critico d'arte Walter Vitt e sua moglie Luiza. Bastarono pochi minuti perché quel giorno si trasformasse nell'inizio di un nuovo capitolo nella biografia di Maiolino, un capitolo costellato di successi espositivi e di meritati riconoscimenti critici destinato a protrarsi sicuramente almeno fino al 2003, quando la sua opera grafica sarà oggetto di una nuova mostra presso la Galleria Civica Villa Zanders di Bergisch Gladbach.
Vitt rimase immediatamente colpito dall'artista e dall'uomo Enzo Maiolino: tre anni più tardi nella presentazione di Trasparenza, una cartella comprendente otto stampe originali a colori, pubblicata in occasione del settantesimo compleanno dell'artista dall'editore Hoffmann di Friedberg, il critico ritornò a quel settembre 1993 in cui per la prima volta poté prendere visione del "Bildkosmus", del cosmo figurativo di Maiolino, e ricordò come subito il suo  pensiero fosse andato alla vita e all'opera di Giorgio Morandi, alla sua "Kunslerexistenz" nella dimensione appartata della provincia, lontano dai clamori e dalla mondanità, caparbiamente e quasi devotamente dedito al proprio lavoro. In quello stesso scritto Vitt evidenziò come entrambi gli artisti, in tempi e modi differenti, avessero contribuito al rinnovamento del linguaggio dell'arte senza partire dal presupposto della necessità di superamento del "quadro", ma anzi puntando sullo sviluppo e sul potenziamento delle possibilità insite nel "tradizionale" supporto bidimensionale offerto dal foglio o dalla tela. Vitt sottolineò come i due artisti fossero accomunati anche dalla predilezione per la  tecnica incisoria e per il piccolo formato: a partire dalla metà degli anni Settanta, quando i motivi architettonici che avevano popolato le opere di Maiolino prima in forme realistiche e poi, a partire dal 1955, in rigorosi incastri costruttivi, si dissolsero in pure geometrie l'artista trovò infatti in fogli e tele di formato ridotto il supporto più idoneo. Questa riflessione sul passaggio dalla figurazione architettonica alla pittura concreta indusse Vitt ad accostare il nome di Maiolino a quello di Walter Dexel, artista bauhausiano che cinquant'anni prima aveva compiuto un analogo percorso.
Affascinato dalla capacità di Maiolino di dare forma ai suoi lavori secondo il concetto di armonia definito da Vitt "sovrano", senza alcuna necessità di ricorrere alla simmetria, il critico tornò ad accostare il nome di Maiolino  a  quello di Dexel e di Mondrian, artisti che avevano potuto permettersi di bandire la simmetria dalla loro opera.
Maiolino esordì dunque in Germania introdotto da un'acuta ed entusiastica presentazione. La pubblicazione della cartella Trasparenza, che accoglie questo testo è frutto della collaborazione avviata già nel 1994, grazie all'impegno e alla mediazione di Vitt, tra Maiolino e "Slu" Slusallek delle edizioni Hoffmann. Il primo incontro fra i due avvenne all'inizio dell'ottobre di quello stesso anno in occasione della seconda visita di Vitt a Bordighera.
Vitt visitò l'artista nel giugno 1995 e poi ancora nell'aprile-maggio 1996. Era allora con lui Pater Volkwein del Museum fur Konkrete Kunst di lngolstadt: cinque mesi più tardi il museo avrebbe ospitato la prima tappa della grande mostra dedicata a Maiolino per il suo settantesimo compleanno che sarebbe poi stata ospitata presso la Galleria Hoffmann di Friedberg, la Gesellschaft fur Kunst und Gestaltung di Bonn e il Josef Albers Museum Quadrat di Bottrop. Nel saggio in catalogo Vitt ricostruì la vicenda artistica e biografica del pittore e incisore italiano e diede voce allo stesso artista che attraverso due brevi brani si racconta al lettore-spettatore con quella precisione e semplicità che contraddistinguono il modo in cui egli si rapporta con i suoi inter1ocutori.
La stampa tedesca si rivelò attenta e interessata all'opera di Maiolino: nell'inserto culturale del "Oonaukurier-lngolstadt" Uli Seidler dedicò un lungo articolo alla mostra.  Seidler individuò nella riduzione delle forme che veicola il passaggio da un'arte dagli evidenti rimandi figurativi ad una produzione concreta e nella capacità di graduare i toni dei colori - questi ultimi, al contrario delle forme, mai "ridotti" bensì infinitamente variati nella gamma e nei giochi di luce e di ombra a  ui l'artista li sottopone - i punti di forza dell'arte di Maiolino.
[...] Fu però la mostra di Bottrop, arricchita di 22 opere, ad avere una maggiore risonanza: già il giorno precedente l'inaugurazione la "Stadtzeitung Bottrop" definì "magica, suggestiva, affascinante, ricca di poesia e al tempo stesso rigorosa" l'arte della Trasparenza di Maiolino. Per la prima volta, in quello stesso articolo, venne accostata al nome di Maiolino quello di Josef Albers: in molte delle opere concrete dell'artista italiano, laddove protagonista era il quadrato o altri parallelogrammi da esso derivati, venne visto un omaggio al grande artista tedesco. Ad una settimana dalla mostra, sulle pagine culturali della "Ruhr Nachrichten", accanto ai nomi di Mondrian, Albers e Malevich, indicati come modelli di Maiolino nella sua "sperimentazione" costruttiva e concreta, Konrad Schmidt avanzò, per le opere con ancora evidenti rimandi figurativi, anche quelli di De Chirico e del Carrà metafisico.
Con Bottrop si concluse l'iter tedesco della prima mostra dedicata da Vitt a Maiolino. Nel 1997 l'Istituto Italiano di Cultura di Colonia ospitò una mostra di acqueforti e serigrafie dal 1975, sempre per la curatela di Vitt. L'anno successivo cinque dipinti ad olio di Maiolino, acquistati nel dicembre 1998 dalla sede di Colonia della WDR (Westdeutscher Rundfunk), la radio statale tedesca, per la sua ricca collezione d'arte, vennero esposti nella mostra organizzata in occasione del pensionamento di Vitt che vi aveva lavorato in qualità di capo redattore.
Nel frattempo Vitt si era già messo al lavoro per perseguire un altro ambizioso obiettivo: egli voleva presentare al pubblico tedesco anche l'opera grafica di Maiolino. Questo progetto si concretizzò nel catalogo generale dell'opera incisa e serigrafica destinato anche ad accompagnare un nuovo ciclo di mostre, la prima delle quali si tenne ancora una volta presso la Gesellschaft fur Kunst und Gestaltung di Bonn.
Nel saggio in catalogo Vitt sottolineò il pari valore nell'ambito della produzione artistica di Maiolino dell'opera incisa e di quella pittorica, sia per la continuità con cui l'artista si è dedicato alle diverse tecniche incisorie, sia per l'uso del tutto particolare che egli ha fatto del mezzo, impiegato senza scopi mercantili e solo in funzione del conseguimento di un particolare risultato in termini espressivi e formali.
Dopo Bonn il Westfalisches Landesmuseum fur Kunst und Kulturgeschichte di Munster ha ospitato la seconda tappa dedicata all'opera grafica di Maiolino, mettendola a confronto con quella di Josef Albers in una doppia mostra dal titolo Joseph Albers und Enzo Maiolino. Positionen konkreter Druckgraphik (Josef Albers e Enzo Maiolino. Posizioni della Grafica Concret).
Ancora una volta la stampa tedesca non ha fatto passare inosservati questi due eventi: se Heidrun Wirth dedicava il suo articolo alla "mano ferma del maestro", sulla pagina del "Kolner Stadt-Anzeiger" campeggiavano le "rigorose forme" di Maiolino e Johannes Loy definiva entusiasticamente "una vera e propria scoperta" l'opera grafica dell'artista italiano esposta a Munster accanto alle opere di Albers. Loy concludeva il suo articolo auspicando che dopo il successo ottenuto in Germania la mostra genovese di Villa Croce potesse portare a Maiolino il meritato riconoscimento anche nel suo paese. Un augurio che ci sentiamo senz'altro di condividere.
Paola Valenti, L'avventura tedesca di Enzo Maiolino, La Riviera Ligure - Quaderni quadrimestrali della Fondazione Mario Novaro Anno XII - numero 35, maggio-agosto 2001

martedì 25 maggio 2021

Laurano era un allievo un po’ disattento

Un'immagine d'epoca di Sanremo (IM) - Fonte: Sanremo.it cit. infra

Sulla lunga strada che Contini dovrà ancora attraversare il primo punto di svolta per la sua carriera letteraria era stato l’incontro con il poeta Renzo Laurano, al secolo Luigi Asquasciati [di Sanremo (IM)]. Laurano faceva parte di quella schiera di ufficiali richiamati che Contini doveva istruire sulle nuove armi a disposizione: «Laurano era un allievo un po’ disattento, ma io lo incalzai. Poi gli recitai una delle sue poesie più belle, Chiara ride» <52. L’amicizia con il poeta sanremese aveva permesso al giovane Contini di mettersi in contatto con alcune tra le più importanti personalità letterarie del tempo (Salvatore Quasimodo, Bonaventura Tecchi e Adriano Grande solo per citarne alcuni) e di pubblicare racconti e poesie su diverse riviste di fama nazionale (tra le altre «Meridiano di Roma», «Circoli» e «Cynthia»). Il lungo carteggio tra Contini e Laurano <53 - nato ‘con la divisa’ nel 1937 e durato fino alla morte dell’autore di Chiara ride nel 1986 - rimane a testimonianza di una profonda e duratura intesa umana e letteraria.
Nel settembre 1937 - trasferito da Imperia ad Altare come responsabile della gestione del Forte - l’ormai tenente Contini scriveva all’amico Laurano una lettera dai toni cupi e malinconici, allegando una poesia inedita sulla fine dell’adolescenza:
"Altare 21-IX-37
Caro Renzo, per me sono tante ghirlande pallide d’ore abbandonate a macerie. Vi è un acre odore di terra ovunque, anche sui miei panni, e a volte mi credo anch’io un fossile appiccicato a questo vecchio relitto di fortezza […].
E la stagione è finita
E la carne
vanita è aldilà
della mia verde stagione.
Effimera adolescenza
in gelide nebbie
m’alita sul volto
pallido silenzio
" <54.
Grazie a Laurano, che aveva una fitta rete di conoscenze, in breve tempo Contini aveva iniziato a scrivere su «Meridiano di Roma», era entrato in contatto con Bonaventura Tecchi e con il poeta di origini cubane Armand Godoy. La collaborazione di Contini con la rivista «Meridiano di Roma», allora diretta da Cornelio Di Marzio <55 si apriva infatti nel 1938 con un articolo – Attualità di Laurano <56 - dedicato proprio al poeta sanremese (e causa, come abbiamo visto, della rottura con Aldo Capasso) per proseguire poi con un articolo dedicato ad Armad Godoy <57, sempre nello stesso anno <58. Lusingato da questo scritto Godoy aveva risposto a Contini con una lettera che evidenziava come Laurano fosse l’artefice della loro intesa letteraria:
"Mon cher Confrère,
votre charmante carte et vos beaux poemes, qui nous publierons volontiers dans «La Phalange», m’arrivent à l’istant de Paris […]. J’avais lu votre généreux et bel article du «Meridiano di Roma» et je me préparais à vous exprimer ma reconaissance par l’intermédiarie du poète Renzo Laurano. Cet article m’a fait un grand plaisir. Merci encore
" <59.
Qualche anno dopo Godoy inviterà Contini <60 a scrivere una brevissima nota su Francis Jammes <61 per il numero dedicato all’autore simbolista della rivista «La Phalange» e Contini, accettando di buon grado, apriva così le porte ad una pubblicazione d’oltralpe:
"J’ai pris avec doleur la perte de votre grand Francis Jammes. Nous, frères latins d’outre-Alpes, nous tenons à partager votre deuil. C’est avec humiltè que je m’agenouille dans l’enceinte sacrèe d’hasparren sur la tombe de celui qui, fils insigne de Virgile, fut aussi par sa serenité et son amour le neveu de Saint François" <62.
Grazie a Laurano gli orizzonti del giovane poeta si erano allargati e il suo nome iniziava a circolare negli ambienti letterari. Al poeta sanremese Contini aveva confidato i segreti travagli d’amore («Mi sono innamorato. Che intenzioni ho? Sposare? Sono un tipo da sposarmi?» <63) e inviato le proprie riflessioni sul procedere della sua carriera letteraria («poi ci tengo a che la mia attività letteraria vada con passo guardingo seguendo quel vecchio adagio: “poco ma buono”» <64) allegando alle missive, talvolta, anche alcune poesie che poi confluiranno nella prima raccolta data alle stampe nel 1939. Nell’autunno 1938 - trasferito a Triora presso la Guardia di Frontiera <65 - Contini poteva in questo modo frequentare Laurano in maniera più assidua e con lui la fervente e briosa riviera sanremese. Negli anni Trenta Sanremo era tra le mete privilegiate di scrittori ed artisti che trovavano «una città pronta ad offrirsi in tutto il suo disarmante splendore» <66. Govoni, Comisso e Bontempelli, tra gli altri, avevano dedicato pagine memorabili a Sanremo ricordando il loro soggiorno rivierasco. Contini si era così inserito in quel vivace contesto letterario e culturale che gli aveva permesso di stringere amicizia con la scrittrice Giana Anguissola <67 e con suo marito Rinaldo Küfferle <68, disquisendo di letteratura mentre passeggiava per il maestoso Corso Imperatrice. A questo periodo risale la poesia pubblicata su «Meridiano di Roma» intitolata Ballata della guardia di frontiera <69, dagli evidenti toni patriottici:
Io sono un fante che guarda
la Patria ai confini. Che guarda
altre terre senza sospiri.
Buon soldato in pace e in guerra
se questa venisse, io combatto
Ho lasciato la mia casa, la
mia terra a mio padre, ho
lasciato la vanga, con i compagni
ci siamo dispersi come uno sciame
di rondini alla fine d’autunno.
Ma ho pianto? Anche questi
monti ch’io guardo sono mia casa
e gli altri fanti sono compagni.
Ho pianto? Non ho tempo
per i vani sospiri e quattro
fagioli mi bastano nella gavetta.
Come mio padre come tutti gli
altri farò il servizio, senza peso.
Si sa ch’è meglio la casa rossa
sul poggio e le viti davanti
e chiare e polverose bottiglie.»
E la morosa sospira, si sa. Ma pure
è bello quassù ed è un debito
di figlio alla madre. La pace
o la guerra, io sono lo stesso. La
casa la rivedrò, anche la morosa;
ma questi fratelli che Italia m’ha dato oggi – e domani
non ci rivedremo più… Non hai
più pane? Prendi. Dell’acqua?
un sorso. Siamo numerosi ragazzi…
Io sono un fante che guarda
la Patria ai confini. Che guarda
altre terre senza sospiri.
Buon soldato in pace e in guerra,
se questa venisse è la nostra
guerra e per giusti confini combattere
.
Sotto la spinta amorevole di Laurano Contini in questi anni era riuscito a pubblicare alcune sue liriche su diverse riviste: su «Olimpo» <70, tradotto in greco da Stelianos Xéfludas; su «Termini» <71 diretto da Giuseppe Gerini e tradotto in ungherese da Ollah Gabor; su «Poeti d’Oggi» <72 di Fidia Gambetti. Il nome di Ennio Contini iniziava a circolare nell’ambiente letterario e Nicola Moscardelli aveva scelto di inserire una sua poesia nell’antologia Le più belle liriche italiane dell’anno 1938 <73, dal titolo Fine d’estate (ripresa successivamente, con qualche modifica, in Magnolia).
Agli anni sanremesi risaliva anche l’amicizia di Contini con Bonaventura Tecchi, il famoso germanista di Bagnoregio, con il quale il poeta di Magnolia aveva instaurato uno dei suoi rapporti più duraturi <74; così in una pagina dei suoi quaderni inediti riferibili alla fine degli anni ’60: " La nostra amicizia è durata trentanni e in questo tempo ci siamo visti soltanto due volte, e di sfuggita. La prima a San Remo, nel 1938, e l’incontro fu più di due uomini piuttosto che di due letterati. Mi colpì quel suo fare dimesso, il sorriso pieno di bontà. Io ero un giovane inedito e lui lo scrittore pubblicato da Bompiani: mi trattò da pari a pari. La seconda ed ultima volta che ci vedemmo fu nel 1954, alla stazione Termini di Roma. Ero di passaggio da un treno all’altro e lui venne a salutarmi e a dirmi che mi avrebbe dedicato uno dei capitoli di Officina Segreta. In fondo ci completavamo: lui amava la mia vita, io il suo mezzo espressivo» <75.
Tecchi si era fatto lettore appassionato delle liriche continiane e negli anni a venire dimostrerà più volte la sua sincera ammirazione per i versi dell’amico <76. Scriveva a Contini nel 1939: "Caro Contini, come Le avrà detto Laurano le sue poesie mi sono piaciute molto. Non creda che questa sia una delle frasi solite. Ho trovato le Sue poesie migliori di quelle dei coetanei suoi, che in questi ultimi tempi ho conosciuto" <77.
Il giovane Contini aveva trovato la sua strada seguendo la sua vocazione. Le esperienze come giornalista musicale, i suoi viaggi in Inghilterra, Francia e Ungheria, la Scuola Allievi Ufficiali e l’apprendistato letterario con Manlio Sticco sembravano quasi un ricordo lontano, e a breve lo diventerà anche l’esperienza alla Guardia di Frontiera di Triora: "A Triora, dopo un alterco per questioni di regolamento col comandante del Sottosettore, diedi le dimissioni. L’alterco non era stata che una scusa, ma ero stufo di vette, di aquile e di signorsì. Volevo godermi in tutta tranquillità il tempo dell’agonia, assaporare il tempo trascorso con gli amici e aspirare a pieni polmoni il profumo degli eucalipti" <78.
Il periodo di formazione era finito. Ennio Contini si preparava a consegnare alle stampe il suo primo libro di versi, Magnolia. Ungarettiano, ricco di echi e rimandi poetici ma anche già, e profondamente, continiano.

52 AC, brano tratto dai quaderni inediti del poeta.
53 La numerosa corrispondenza di Ennio Contini a Renzo Laurano (conservata presso la Biblioteca civica ‘Francesco Corradi’ di Sanremo) va dal 1937 al 1986 ed è composta da 235 lettere, 43 cartoline e 6 biglietti. Le missive di Laurano a Contini, invece, sono soltanto 22 e tutte risalenti agli anni ’70. Questo fatto può essere imputato al fatto che una parte dell’archivio Contini è andata persa.
54 Lettera autografa, scritta solo sul recto, datata 21 settembre 1937 e inviata da Contini a Laurano da Altare (SV). Il documento è conservato nel Fondo Renzo Laurano della Biblioteca civica ‘Francesco Corradi’ di Sanremo, Epistolario b. 9, fascicolo 124.
55 Cornelio Di Marzio era diventato il direttore del «Meridiano di Roma» a partire dal gennaio 1938. Nell’archivio Contini sono presenti tre lettere inviate da Di Marzio al poeta savonese e datate rispettivamente 28 aprile 1939, 16 gennaio 1939 e 26 novembre 1939. Di quest’ultima, su carta intestata «Meridiano di Roma», riportiamo l’intero testo: «Egregio Contini, il vostro scritto su Schaub è stato pubblicato da tempo nel numero 12 di «Meridiano». Attendo qualche altra cosa, di cui vi sarò gratissimo. Cordiali saluti e auguri di buon lavoro. Cornelio Di Marzio».
56 Ennio Contini, Attualità di Laurano, in «Meridiano di Roma», III, 7 agosto 1938, p. IV.
57 Armand Godoy (La Havana,1880-Parigi,1964) è stato un poeta di forte impronta simbolista. Trasferitosi a Parigi nel 1919 diventa il finanziatore della rivista «La Phalange», fondata da Jean Royère. Tra le sue opere possiamo ricordare Triste et tendre, Parigi, Emile-Paul Frères, 1927, Le Drame de la Passion, Parigi, Grasset, 1929 e La poème de l’Atlantique, Parigi, Grasset, 1938.
58 Ennio Contini, Armand Godoy, in «Meridiano di Roma», III, 25 settembre 1938, p. IX.
59 AC, lettera dattiloscritta, autografa con firma apposta in calce, su un foglio, impiegato solo sul recto, datata «7 ottobre 1938».
60 Ennio Contini dedicherà ad Armand Godoy anche una poesia, È notturna foresta il tuo divenire, publicata su «Olimpo», anno IV, n. 21, gennaio 1939, p. 43: « È notturna foresta il tuo divenire. / Ebbro delle tue stesse passioni tu cerchi / vanamente l’orlo dell’abisso, l’estasi / tacita ove s’appaci il tuo delirarre. / Ed il tremore dei bianchi ruscelli, le voci / le mille voci sonore – o vita o vita – / ti peseranno, gelide, quasi / fiera predata dall’onda dei tuoi stessi rimorsi. / Invano riposerai, vagabondo dei tuoi ruvidi sangui. / Invano cercherai nell’oblio delle cose passate / un sollievo alla presente amarezza, invano / – effimera argilla – ti cullerai alla brezza / stupefacente delle rosee, delle dolci illusioni // E scenderà la sera. La tua squallida sera. / Mio Dio hai sofferto ed io t’ho fatto soffrire. / Mio Dio, è la sera, anch’io ho sofferto».
61 Francis Jammes (Tournay, 1868 - Hasparren, 1938) è stato un poeta d’ispirazione simbolista, amico di Paul Claudel. Dopo la sua morte la rivista «La Phalange» gli aveva dedicato un numero monografico.
62 Ennio Contini, Hommage, in «La Phalange», Anno 12, n.36-38, numero speciale dedicato a Francis Jammes, 15 novembre 1938-15 gennaio 1939, p. 59.
63 Lettera autografa, su un foglio impiegato solo sul recto, datata 19 ottobre 1937 e inviata da Contini a Laurano da Altare (SV). Il documento è conservato nel Fondo Renzo Laurano della Biblioteca civica ‘Francesco Corradi’ di Sanremo, Epistolario b. 9, fascicolo 124.
64 Lettera autografa, su un foglio impiegato solo sul recto, datata 24 febbraio 1937 e inviata da Contini a Laurano da Triora. Il documento è conservato nel Fondo Renzo Laurano della Biblioteca civica ‘Francesco Corradi’ di Sanremo, Epistolario b. 9, fascicolo 125.
65 Così nel romanzo No haya cuartel! alla pagina 116: «Tutto un altro paesaggio fiorì dinanzi agli occhi del sottotenente, ampio e puro, aereo ed eleusino: su in alto, nella sonante Valle Argentina, ai confini con la Francia. Aveva fissato la sua dimora nella gloriosa Guardia alla Frontiera, comandante al 13o Caposaldo: duecentosessantaquattro uomini, cinque sottufficiali, altrettanti del Genio Radiotelegrafisti, più una gabbia di piccioni viaggiatori».
66 Domenico Astengo, Sanremo anni Trenta tra scrittori e giornalisti, in: Marinaresca la mia favola – Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al club Tenco, a cura di Marco Innocenti-Loretta Marchi-Stefano Verdino, Genova, De Ferrari, 2006, p. 45.
67 Giana Anguissola (Piacenza,1906-Milano, 1966) ha collaborato con diverse testate italiane tra cui «Il Corriere della Sera» e «Il Corriere dei Piccoli». Dopo aver ottenuto un discreto successo con Il romanzo di molta gente (Milano, Mondadori, 1931) si era dedicata alla letteratura per ragazzi, raggiungendo la notorietà con Violetta la timida (Milano, Mursia, 1963).
68 Rinaldo Küfferle (San Pietroburgo,1903-Milano, 1955) poeta e traduttore di origine russa sposò Giana Anguissola nel 1933. Aveva tradotto svariati libretti d’opera dal russo e anche dal tedesco ma scrisse in italiano le sue opere poetiche tra cui ricordiamo Le ospiti solari (Milano, La Prora, 1932), Disgelo: poesie (Milano, I.T.E., 1936) e Canti spirituali (Milano, Bocca, 1946). La sua opera di traduttore non riguardò solamente i libretti d’opera ma anche la grande letteratura: sua la traduzione de I demoni di Dostoevskij per i tipi di Mondadori nel 1931 e quella di Padri e figli di Turgenev, sempre per Mondadori nel 1936. Si interessò anche di antroposofia e fondò la rivista «Antroposofia-Rivista di scienza dello spirito» dedicata a studi steineriani.
69 Ennio Contini, Ballata della guardia di frontiera, in «Meridiano di Roma», 10 settembre 1939, p. VII.
70 Le poesie di Contini, tradotte in greco con testo a fronte, sono riportate su tre diversi numeri della rivista «Olimpo», Società Nazionale Dante Alighieri, Salonicco: Lago dell’Alpe (dedicata a Renzo Laurano) anno III, n. 1-2, gennaio-febbraio 1938, pp. 59-60; Malinconia della mia riviera (dedicata a Renzo Laurano), anno III, n. 11, novembre 1938, p. 91, È notturna foresta il tuo divenire (dedicata ad Armand Godoy), anno IV, n.1, gennaio 1939, pp.13-14; Io sono fiumana tra rive beate di genti, anno IV, n.3, marzo 1939, pp.167-168.
71 La poesia Calda estate è stata inserita nel fascicolo straordinario di «Termini» (Fiume, Istituto di Cultura fascista del Carnaro, 1938, p. 1183) tradotta in ungherese da Ollah Gabor.
72 Su «Poeti d’Oggi» (Asti, Tipografia Paglieri e Raspi, n. 8, febbraio 1938) Contini pubblica Fine d’estate.
73 Nicola Moscardelli, Le più belle liriche dell’anno 1938, Roma, Edizioni Modernissima, 1938. La lirica di Contini, Fine d’estate, è a pagina 120, ripresa dalla precedente pubblicazione su «Poeti d’Oggi».
74 Le lettere di Bonaventura Tecchi ritrovate nell’archivio Contini sono 55 e vanno dal 1939 al 1965. Le lettere di Contini a Tecchi, rinvenute nell’archivio di Bagnoregio, sono invece 21 relative agli anni dal 1949 al 1954. La lacuna evidente è dovuta all’incompleta catalogazione delle lettere di Contini a Tecchi, ancora in fase di realizzazione.
75 AC, brano tratto da un foglio scritto solo sul recto, manoscritto non autografo, ma di sicura mano di Contini. Il breve testo è stato redatto con molta probabilità dopo la morte dello scrittore di Bagnoregio, avvenuta nel 1968: «Sapevo che da tempo Tecchi non stava bene, ma mai avrei creduto ch’egli potesse lasciarci, così, su due piedi, come di fatto avvenne».

Francesca Bergadano, «Il gioco irresistibile della vita». Ricerche su Ennio Contini (1914-2006): poeta, scrittore, pittore, Tesi di laurea, Università degli Studi Genova, Anno Accademico 2017-2018 

[...] Il giovane Luigi Asquasciati cresce senza problemi, studia interessato alle materie più consoni alla sua sensibilità e si diverte, tantissimo, in una città internazionale piena di occasioni, un vero paradiso del divertimento. Anche l’affermazione del Fascismo è da lui vissuta in rapporto alla dimensione vitalistica dell’affermazione di sé piuttosto che nel contesto politico. Si laurea in Giurisprudenza nel 1928 e poi, seguendo l’istinto letterario, in Lettere nel 1934, sempre a Genova. La poesia riflette ormai il suo mondo interiore attraverso le molteplici ispirazioni dettate dalla vita e dagli incontri amichevoli ed affettivi. Proprio nel 1934 il testo Chiara ride viene premiato alla Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Premio ambito, in una città di mare, quel mare tanto amato e vissuto. Il richiamo ai contemporanei “Premi Sanremo”, in cui cultura e mondanità si collegavano facilmente, è immediato. E intanto il gioco del travestimento aveva coinvolto la stessa identità, che cambia dal difficile “Luigi Asquasciati” al musicale e poetico “Renzo Laurano”, lo pseudonimo di una vita. In quegli anni diventa fittissima la corrispondenza con tanti esponenti del mondo letterario italiano. È rimasto celebre lo scambio di lettere con Eugenio Montale. Alcuni rapporti epistolari resteranno vivi per tantissimi anni, come quelli con Giorgio Caproni o Ennio Contini.
Partecipa quindi alla Seconda Guerra Mondiale in Fanteria.
La divisa è per lui motivo di orgoglio patriottico e di ricerca d’avventura. Partirà per la Russia, non volontario. Lo si crederà disperso e caduto. La città piange per lui, ma riesce a ritornare, con un vero e proprio colpo di scena in piena relazione con tutto il suo modo di intendere la vita. Sarà poi insegnante, a lungo, nel dopoguerra. E continuerà a scrivere: poche raccolte di poesia, molto meditate, molti articoli, recensioni, traduzioni degli amati trovatori provenzali, lettere. E amore, amore per le tante ispiratrici della ua poesia, del suo sentimento, per la sua città e gli amici con cui ha condiviso una vita piena di trasformazioni, colpi di scena ed avventure anche letterarie.
[...] Gli studi e l’esposizione sulla figura di Renzo Laurano si identificano in una sua frase riassuntiva di una vita: “marinaresca la mia favola”. Vita vissuta come una fiaba, simile a quelle in cui era attore in giovane età nelle ville più belle di Sanremo. Vita a contatto con il mare, mai dimenticato, sempre tenuto vicino anche se lontano per le vicende, anche drammatiche, dell’esistenza e dell’esperienza. Mare poi come luogo in cui fin da ragazzo ha esasperato l’allora imperante culto del corpo in modo giocoso. Iniziano così, in un’occhiata, in un travestimento, dalla spiaggia alla festa, i tanti rapporti con amiche e poi ispiratrici.
Sanremo anni Trenta: città di cultura e città spensierata, ricca e internazionale. La “corte” del giovane Laurano è fatto di giovani nobildonne di ogni provenienza o da splendide ospiti nordeuropee che imitano le pose dei grandi atleti di fronte alla macchina fotografica. Da qui sarà facile poi passare ai rapporti più intensi e complessi, con regine della cultura e dello spettacolo molto note al pubblico e invitate da Laurano a Sanremo.
Città che fa da palcoscenico solare e piacevole per figure come la coreografa Wally Ficini, come Isa Miranda o Assia Noris… Laurano non finirà mai di sorprenderci.
[...] Nel secondo Novecento Renzo Laurano rimane apparentemente defilato dalla dimensione culturale della Provincia di Imperia. In realtà partecipa attivamente ad un clima molto vivace, basato sulla realtà internazionale della Riviera.
Il poeta coltiva la dimensione letteraria ai margini dell’insegnamento e porta sulla Riviera il messaggio dei tanti amici, tra i quali Salvatore Quasimodo. La Liguria occidentale si impegna nell’indire premi letterari con evidenti finalità anche turistiche, come il Premio De Amicis a Imperia o quello che lo stesso Laurano battezza, dedicato al grande illustratore Antonio Rubino (prima edizione 1965). Qui si incontrano in giuria personaggi del calibro di Ignazio Silone, Bonaventura Tecchi, Sergio Tofano e Carlo Triberti, quest’ultimo direttore del “Corriere dei Piccoli”, in un momento di assoluto valore qualitativo. Fra i premiati e i segnalati si notano Gianni Rodari ed Emanuele Luzzati. Inoltre, al di là di Sanremo, si definisce un fervido clima di attività con il concorso artistico-letterario come il “Cinque Bettole”. Qui si ritrovano in giuria notevoli personaggio dell’orizzonte letterario del momento, accanto a Renzo, il quale scambia molte lettere con l’organizzatore, il pittore Giuseppe Balbo, che è stato protagonista della pittura italiana già prima della seconda guerra mondiale. Ed è così che in Riviera ci si ritrova a fianco di figure artistiche internazionali come Jean Cocteau, mentre al Cinque Bettole compare il giovane Francesco Biamonti. Un uomo di cultura che ha trovato tutte le parole per descrivere la Liguria occidentale.
Alessandro Giacobbe, “Renzo Laurano, pseudonimo di Luigi (Gigetto) Asquasciati (1905-1986)” (Testo originale: “Progetto Laurano.” ©Sanremo Promotion), Sanremo.it

sabato 22 maggio 2021

La lampada del diavolo



Si chiama 'La lampada del diavolo' e sarà in libreria il 20 maggio, in contemporanea mondiale, il nuovo romanzo del maestro del thriller psicologico Patrick McGrath in cui un'oscura presenza, con le fattezze del generale Francisco Franco, comincia a far visita a un vecchio poeta, schiacciato da una colpa che non ha mai voluto confessare.
In Italia, il libro che che ci racconta le diaboliche ossessioni scatenate dai segreti quando decidono di parlare, sarà pubblicato da La nave di Teseo nella traduzione di Carlo Prosperi.
"Il sospetto di essere perseguitato, non dal generalissimo, ma dal mio stesso riflesso, ossia che quell'essere non sia là fuori ma qui dentro. Lo so. Follia" racconta McGrath che vive tra New York e Londra.
Siamo a Londra nel 1975, l'anziano poeta Francis McNulty sente avvicinarsi la fine ma il suo animo non trova pace. Nella sua casa di Cleaver Square si allungano le ombre del passato, di un tradimento sotto le armi, durante la Guerra Civile spagnola. In alta uniforme, il contegno di un militare decaduto, l'apparizione di Franco perseguita il poeta con i ricordi dei giorni drammatici di quarant'anni prima. Ossessionato dalle visioni e spronato dalle domande di un giovane reporter che sta scrivendo un pezzo su di lui, Francis McNulty accetta l'invito della figlia ad accompagnarla in viaggio di nozze a Madrid.
Un'occasione per affrontare i fantasmi. Mentre nel palazzo reale si consuma l'agonia del Generalissimo, vittima e carnefice di un'epoca che si sta consumando, Francis torna nei luoghi della sua vergogna, in un viaggio liberatorio nel tempo, nei ricordi di famiglia, nei recessi della sua mente.
Redazione, 'La lampada del diavolo', nuovo romanzo di Patrick McGrath, ANSA, 11 maggio 2021

La lámpara del diablo, tela di Goya esposta alla National Gallery di Londra, raffigura un povero sacerdote credulone, vittima di un maleficio, che di notte impazzisce per tenere accesa la sua lanterna perché se si spegnesse la sua anima verrebbe ceduta al diavolo. Il londinese Francis, anziano protagonista del nuovo romanzo di Patrick McGrath, autore dell’ormai evergreen Follia (1998), condivide lo stesso stato di quell’uomo: “Lasci spegnere la fiammella e addio alla tua anima”. Goya ha parlato a Francis negli anni, restituendogli attraverso la pittura la verità su vita e morte, rimorso e tradimento senza però fornirgli una chiave per la redenzione che è ciò di cui ha bisogno.
Poeta amante di Whitman, Poe, Swinburne  e Melville, Francis ha un passato che lo tormenta e lo tiene sveglio la notte.
Arruolatosi volontario nelle Brigate Internazionali negli anni '30 per appoggiare l’esercito della seconda repubblica spagnola e combattere le forze nazionaliste comandate dal generale Franco, attraversò la Manica in traghetto con altri giovani come lui, salì su un treno alla volta di Parigi e giunse a Madrid in convoglio nel mezzo di un raid aereo. Lì fu conducente di ambulanza, battagliò sul crinale del Jarama, vide compagni e civili morire e rischiò di essere giustiziato nel monastero di Santa Eulalia. Solo che non accadde perché al posto suo perì qualcun altro, uno a lui caro.
Da quel momento il peso del tradimento lo opprime al punto da scatenargli visioni a cui la figlia e la sorella non credono, pensandolo affetto da demenza senile o pazzo, mentre la domestica Dolores (che Francis salvò quando aveva 8 anni, unica superstite della famiglia falciata dagli orrori del franchismo, e condusse con sé a Londra) e un giornalista in erba che ne raccoglie le testimonianze per scrivere un reportage sulla guerra civile spagnola gli danno credito [...]
Carlotta Vissani, McGrath con Goya si rituffa nella “Follia”, il Fatto Quotidiano, 22 maggio 2021

[...]  Perseguitato dalle visioni e spronato dalle domande di un giovane reporter che sta scrivendo un pezzo su di lui, il vecchio poeta accetta l’invito della figlia ad accompagnarla in viaggio di nozze a Madrid, in cui vede finalmente l’occasione per affrontare i fantasmi del suo passato. Mentre nel palazzo reale si consuma l’agonia del Generalissimo, vittima e carnefice di un’epoca che si sta consumando, Francis torna nei luoghi della sua vergogna, in un viaggio liberatorio nel tempo, nei ricordi di famiglia, nei recessi della sua mente [...]
Redazione, Patrick McGrath, La lampada del diavolo, La nave di Teseo, 2021

mercoledì 19 maggio 2021

Insiemi galoppanti di gag


Pubblicato da Rizzoli Lizard (casa editrice fondata come Lizard da Hugo Pratt nel 1993, e poi assorbita nel 2008 dal gruppo RCS) è uscito qualche tempo fa un volume che raccoglie tutte le strisce di Topolino apparse dal gennaio 1930 ai primi del 1932. È una pubblicazione integrale del materiale dell’epoca, comprese quindi le strisce di raccordo, che non costituiscono una vera e propria storia ma intessono una serie di gag fra una vicenda e l’altra. Ogni striscia infatti è costituita da una serie di vignette - di norma quattro - destinata alla pubblicazione sulla pagina di un quotidiano. Costituisce lo snodo di una storia, l’elemento di una sequenza, ma tende ad essere autoconclusiva, a risolversi in un finale divertente - o, talvolta, di sospensione e di tensione. Nell’insieme formano un’avventura, che ha un suo esordio, un suo sviluppo e una sua fine ma che talvolta è portata a sfilacciarsi in una sorta di coda fatta appunto da un accumulo di trovate, come tante varianti inerenti un certo soggetto o un certo personaggio (come, per citare un paio di esempi presenti in questo volume, le strisce dal 5 gennaio al 10 gennaio 1931 su Topolino autista o quelle dal 30 aprile al 30 maggio, sempre del 1931, sui tentativi dell’ex criminale Sgozza di diventare un membro dell’alta società). Non si tratta, in questi casi, insomma, di storie ma di insiemi galoppanti di gag, come d’altronde capita con molti film muti (pensiamo ad Harold Lloyd, a Laurel & Hardy) e con molte storielle degli albi a fumetti.
Leggendo queste prime avventure di Mickey Mouse ci troviamo immersi in un’America rurale, appena subito dopo il grande crollo del 1929. E del New Deal, della voglia di reagire e di vivere con ottimismo, Topolino, insieme ai Tre Porcellini, sarà un simbolo e un protagonista.
È un’America semplice, povera, proletaria e contadina.
Topolino è simpatico e onesto ma anche monellesco, con singolari (ma non casuali) analogie con il Chaplin di quegli stessi anni, con cui condivide persino certe scelte tematiche, dalla vita nel circo all’incontro di boxe.
Il dover procedere striscia per striscia porta naturalmente all’invenzione di nuovi ritmi e di particolari tecniche narrative (bellissimi i sunti delle vicende precedenti, naturalmente immessi nella vignetta per facilitare la comprensione al lettore del giornale, e che ora, leggendo la storia nel suo insieme, mantengono un loro valore di commento fuori campo, quasi un effetto eco).
L’autore principe di queste storie a fumetti è Floyd Gottfredson, nato nello Utah nel 1905: feritosi gravemente ad un braccio in un incidente di caccia all’età di undici anni, è costretto ad una lunga convalescenza.
Racconta: “Ero iscritto ai Lone Scouts. Avevano una rivista a tiratura nazionale, e mio zio scrisse loro raccontando del mio incidente, e chiedendo agli altri membri di scrivermi. Bambini di tutto lo stato presero a spedirmi lettere e regali, tra cui 42 libri di Horatio Alger. Da allora gravitai tra libri d’avventura e storie poliziesche”.
Gottfredson sarà coadiuvato da vari collaboratori, fra cui Al Taliaferro. Ma è lui il grande artefice di questa saga topolinesca. Non subito, però. Per i primi mesi l’autore delle sceneggiature è Walt Disney: e qui, come in una sorta di appendice, verso la fine del volume, viene ripubblicato quello che è il primo fumetto disneyano in assoluto, noto come Topolino nell’isola misteriosa, scritto appunto da Disney e con i disegni di Ub Iwerks prima, di Win Smith poi. Disney sarà ancora l’autore (sino al 17 maggio del 1930) delle prime strisce di Topolino nella valle infernale, l’avventura in cui, ad un certo punto, fa il suo esordio Gottfredson. Una storia, questa, dove si fondono i toni del melodramma e dell’epica, dove si miscelano i generi del western e dell’horror, con felici commistioni a cui il fumetto e il cinema ci avrebbero poi abituati.
Ma in tutte queste prime pagine, ed è una delle emozioni che si possono provare leggendole, assistiamo alla genesi del mondo disneyano, con il suo realismo ironico, la fusione fra comico e drammatico, le invenzioni fantastiche. E certi personaggi veri, palpabili: dal boxeur Ruffo Ratto a Felice detto il bel gagà.
Il tutto è corredato da schede introduttive per ogni storia, divagazioni critiche, documenti d’epoca (copertine, disegni promozionali, strisce apocrife, articoli di giornale). Alcuni di questi reperti sono curiosi e di grande importanza: basti citare una striscia scritta e disegnata da Disney nel 1920 circa, Mr. George’s Wife, oppure la riproduzione di alcuni disegni originali di Gottfredson per la Valle infernale, dove si nota quanto gli schizzi a matita fossero più dinamici ed eleganti rispetto alla successiva e un po’ goffa inchiostrazione.
Detto tutto il bene che abbiamo detto su questa pubblicazione, facciamo un piccolo appunto. Nuoce il politically correct affiorante qui e là come un’ossessione: “Tenete conto, a ogni modo, che le stelle Disney non approvano più certe abitudini malsane - ad esempio, il fumo - come facevano occasionalmente in questi pezzi d’annata”, “Non è possibile giustificare del tutto dei clichè prodotti in un’epoca meno illuminata dell’attuale”, “Infine, notate come nei primi anni Trenta anche un personaggio celebre come Topolino potesse essere di cattivo esempio”… Ma pazienza. Tanto sappiamo tutti che Disney era molto più cattivo di come poi lo avrebbero voluto - e lui stesso si sarebbe voluto - dipingere.
Walt Disney presenta Topolino nella valle infernale di Floyd Gottfredson (titolo originale: Walt Disney’s Mickey Mouse: “Race to Death Valley”), a cura di David Gerstein, Gary Groth, Fabio Gadducci, Rizzoli Lizard (RCS Libri su licenza Disney), Milano 2012
Marco Innocenti, Topolino in una raccolta, IL REGESTO (Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo), Sanremo (IM), anno VI, n° 4 (24), ottobre-dicembre 2015

[ tra gli altri lavori di Marco Innocenti: Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; articoli in Sanremo e l'Europa. L'immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d'occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull'arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; articolo in I raccomandati/Los recomendados/Les récommendés/Highly recommended N. 10 - 11/2013; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006]

giovedì 13 maggio 2021

Giovani intellettuali nella Bologna di metà anni '30 del secolo scorso

Bologna: Via Santo Stefano - Fonte: Mapio.net

[...] Per Arcangeli, Bertolucci e Rinaldi era divenuto consueto anche fermarsi, spesso insieme agli altri sodali, alla bottega di stufe di Giuseppe Raimondi in via Santo Stefano [a Bologna] <118. Sebbene Raimondi avesse deciso dall’inizio degli anni Trenta di dedicarsi completamente alle “ingenue faccende” <119 della vita d’officina “regolata dagli orari, e dal gusto delle preoccupazioni materiali” <120 che bucavano “la giornata come tarli” <121, appartandosi intenzionalmente dalla vita letteraria cittadina <122, la sua figura continuava ad esercitare un estremo fascino sui giovani universitari. Dalla fumisteria erano passati infatti intellettuali come Bacchelli, conosciuto fin dall’adolescenza nonché collega del progetto di «Raccolta» <123 e poi della «Ronda», Cardarelli, nonché lo stesso amico pittore <124 Giorgio Morandi <125. "Quell'eredità letteraria" <126 che Raimondi "era rimasto in loco ad amministrare" <127, continuava a difendere “l’autonomia e l’efficacia" <128 di un'esperienza squisitamente culturale come era stata la «Ronda». Ma se in momenti complessi come quelli tra il '19 e il '22, era stato possibile tenere “nei confronti della politica, un atteggiamento distaccato e alquanto ironico” <129 nel '36-'37 la nuova generazione di intellettuali, consapevole di vivere in “anni minacciatissimi eppure liberi, per chi voleva esserlo” <130, cominciava a rileggere il ritorno all'ordine rondista come la mancanza di una “una schiettezza totalmente equilibrata” <131.
3. L'esperienza del «Corriere Padano»
Nonostante il ruolo appartato di provincia Ferrara, “assonnata e conformista” <132, pur avendo vissuto la non lontana avventura metafisica di Carrà, De Chirico e dell'instancabile <133 De Pisis <134, che aveva aperto, sebbene per breve tempo, la città al panorama europeo, si apprestava a svolgere un ruolo importante nella formazione degli intellettuali emiliani dimostrandosi insospettati luoghi di incontro e di dibattito. La città però era “intensamente devota al regime: al punto che le poche persone che fasciste non erano, vivevano ai margini, non avevano alcun rapporto con gli altri, coi più” <135.
Bassani e Caretti avevano frequentato il Liceo Ariosto <136 in via Borgo Leoni, nel quale insegnavano Francesco Viviani <137, docente di greco e di latino, un "uomo scarsamente amabile, quasi sempre corrucciato" <138 ma "intransigente antifascista" <139, e Francesco Carli <140, "cattolico comacchiese" <141, ricordato per le intelligenti letture critiche, con tagli un po’ distanti da quelli ufficiali <142. A partire dal 1937 i due giovani studenti avevano conosciuto Giuseppe Ravegnani il quale, oltre a esortarli a seguire le pubblicazioni della casa editrice Taddei <143, aveva aperto ai giovani la sua "ricchissima e modernissima biblioteca” <144, come ricorda lo stesso Caretti, che insieme a Bassani aveva preso a frequentarla con una certa assiduità:
"Là io ho trovato il Proust francese di Gallimard, là per la prima volta ho letto l'Ulisse di Joyce nella traduzione di Valèry Larbaud, oltre agli italiani moderni, agli americani. Personalmente poi mi tenevo aggiornato acquistando oculatamente tutto ciò che non bisognava lasciarsi sfuggire. È il tempo dell'incontro con i nostri prosatori, a cominciare da Moravia (ma anche Bacchelli, per intenderci e i prosatori d'arte, Cecchi in primo piano) e dei poeti: da Saba a Montale, da Ungaretti a Quasimodo, e i più giovani via via sino a Sandro Penna su cui scrissi anche una noticina premonitrice, se non mi inganno. E feci tesoro degli stranieri della Medusa di Mondadori e dei Corvi della editrice Corbaccio: memorabile l'incontro con l'Alain Fournier del Grande amico e con il Faulkner di Oggi si Montale e altri vola, e anche con Dos Passos e con lo stesso Steinbeck, poi vituperato ma allora raccomandato dalla traduzione di Montale e rivelatore in Furore dei primi grandi scioperi americani sino a quel momento a me ignoti" <145.
"Il più illustre, allora, dei letterati ferraresi" <146, era diventato poi direttore della terza pagina del «Corriere Padano» <147, una rivista a cui i due intellettuali si erano avvicinati fin dal 1935. Caretti era comparso per la prima volta con un articolo, In tema di celebrazioni <148, dedicato al centenario carducciano, seguito, appena un mese dopo, dalla pubblicazione del racconto di Bassani Terza classe <149, che lo stesso autore ricordava profondamente influenzato dalle letture trovate in casa Ravegnani:
"Credo sia stato proprio lui a darmi da leggere, fra gli altri, parecchi libri usciti in quegli anni a Firenze: i libri, voglio dire, di Alessandro Bonsanti, di Arturo Loria, di Tommaso Landolfi eccetera, nonché l'Antologia della letteratura italiana del Novecento di Papini e Pancrazi" <150.
La possibilità di collaborare al «Corriere padano» in una pagina che permettesse, in campo letterario, un margine di libertà tale da consentire loro di discorrere degli scrittori a cui credevano, era apparsa ai "giovani tra i venti e i ventidue anni un'occasione favorevole per uscire dall'isolamento" <151. Si trattava di una libertà limitata e "strumentalizzata nell'ambito dello scontro politico tra fascismo ferrarese e fascismo nazionale" <152. Il fascismo locale, sostenuto da un capitalismo agrario che si stava giocando “le sorti della sua stessa sopravvivenza” <153, aveva assunto fin dal 1920 caratteristiche proprie grazie a Italo Balbo, giovane segretario del fascio di Ferrara nonché efficace organizzatore dello squadrismo fascista. La forte personalità di Balbo aveva dato alla redazione un'autonomia indiscussa, tanto che fu possibile per Quilici e Ravegnani "alimentare una terza pagina non del tutto ortodossa sul piano letterario e aperta ai contributi dei giovani di qualche merito e di non troppo convenzionale zelo" <154, al quale si aggiungevano esponenti di avanguardie artistiche e letterarie non graditi al potere <155. A Bologna, invece, mancavano dei “centri di elaborazione culturale non istituzionali” <156 e un’editoria militante, se si eccettua “l’attività benemerita quanto sconosciuta del Testa, primo editore di Gaetano Arcangeli e di Meluschi” <157.
Ancora per tutto il 1936 Caretti <158 e Bassani <159 avevano continuato a pubblicare sulla rivista ferrarese, con il coinvolgimento, a metà anno, di altri due compagni di studi, Giovanelli <160 e Vegliani <161, mentre nel 1937, divenuto Bassani, appena ventenne, un giovanissimo redattore della terza pagina, il «Corriere» si era aperto a tutti gli esponenti del gruppo bolognese: Arcangeli <162, Frassineti <163, Giovanelli <164 e Rinaldi <165, con i quali la collaborazione sarebbe proseguita per il biennio '38-'39 sebbene con minor intensità fino a scomparire, se si eccettua il caso di Caretti, nel 1940 <166. Anche Bertolucci, sebbene attratto dal fervore intellettuale dei "caffè letterari più famosi d'Italia" che si erano andati formando nella sua città d'origine, divenuta un fecondo luogo di incontro di scrittori e artisti, aveva inviato alcuni testi al «Corriere» <167 segno di fedeltà a quel "sodalizio letterario di profonda e durevole natura" che aveva stretto coi suoi compagni di studi. Si era aggiunto inoltre al gruppo Giuseppe Dessí <168, appena giunto in città, che avrebbe continuato a pubblicare sulle pagine della rivista per circa due anni <169. Il fondamentale collante che univa giovani provenienti da esperienze culturali estremamente eterogenee era "la comune inclinazione a stringere amicizia con chi, in qualche modo, si collocava culturalmente fuori dalle istituzioni pubbliche" <170 da loro "egualmente rifiutate" <171.
I giovani camarades pisani erano stati infatti attratti da questa, seppur limitata, "libertà operativa" <172, che era garantita, nonostante il regime, soprattutto da alcune testate giornalistiche come il «Corriere padano» <173 e, successivamente, «Primato»:
"Dietro i racconti e le prose che scrissi nel '35 fino a tutto il '37, buona parte dei quali avrei poi messi insieme nel volume Una città di pianura, stampato a mie spese nel '40, c'è dunque Bologna. Ma non basta. Non si potrebbe intendere un racconto come Un concerto, che avevo pubblicato su «Letteratura» di Alessandro Bonsanti nel '37, ed è compreso in Una città di pianura, senza tener conto della presenza a Ferrara, a cominciare dal tardo '35, di Claudio Varese e di Giuseppe Dessí, due giovani letterati, sardi entrambi, ed entrambi usciti dalla scuola normale di Pisa. Si è parlato spesso, da parte della critica, di una mia derivazione da Proust. Non sono completamente d'accordo. Più che da Proust, nella cui opera mi sarei immerso di lì a poco, Un concerto deriva da San Silvano, un libro per lui fondamentale che Dessí veniva scrivendo in quegli anni e che lui stesso soleva leggermi si può dire ogni giorno, pagina dopo pagina" <174 [...]
118 In Lettera ad un amico poeta apparsa sul «Mondo» il 26 luglio del 1955 (p. 8) Raimondi allude a un’amicizia ventennale con Rinaldi (“Libro dove ritrovo, non il ricordo ma il sentimento vivo di un’esperienza di affetti e di pensieri che ci è stata, mi perdoni, un poco comune in questi ultimi vent’anni”) confermata anche da Bassani in Di là dal cuore ("L'incontro a Bologna con Carlo Ludovico Ragghianti avvenne nel '37, se non ricordo male, per me significò moltissimo. Dal giovane letterato che ero mi trasformò in breve tempo in un attivista politico clandestino, sottraendomi sia alle amicizie letterarie ferraresi sia a quelle bolognesi. L'unico sodale a seguirmi in questa nuova vicenda della mia vita fu Antonio Rinaldi. Entrambi da allora, per qualche tempo almeno, cominciammo a disertare sia le lezioni universitarie di Roberto Longhi, sia la bottega di stufe di Giuseppe Raimondi" (In risposta (V), in G. Bassani, Di là dal cuore cit., p. 379, poi in G. Bassani, Opere cit., p. 1320).
119 G. Raimondi, Giuseppe in Italia, Milano, Il Saggiatore, 1973, p. 128.
120 Ibidem.
121 Ibidem.
122 “Qualche profonda ragione di dubbio mi sorprendeva, quando, la sera, riaprivo libri e carte letterarie. Non vedevo la pratica destinazione di un simile lavoro. Per chi fare arte e poesia, in Italia, nell’anno 1930? Si manifestava, da parte della classe dirigente, un interesse verso gli scrittori abbastanza offensivo e provocatorio. Il gusto per la prosa scientifica del Seicento; la propensione ad affondarmi in esplorazioni pascaliane; lo studio in un certo modo seguito e circostanziato della poesia di Baudelaire; tutti elementi sufficienti ad escludermi, ad esimermi dalla vita letteraria. Sinceramente desideravo di essere dimenticato. […] Certi giorni mi scoprivo ad osservare, sopra pensiero, la scritta, composta di grosse lettere di legno, a vernice nera, disposta in lieve curva, o arco, sopra quella che un tempo fu la cucina (la stanza di soggiorno) della mia famiglia. Dice la scritta: «Fumisteria»; e suona con sottinteso involontario di burla e di tristezza. Ma in quell’arco di forti, serie, decise lettere, è anche un ricordo di difesa; di difesa civile e morale. Oltre quella porta non è facile darla a bere. Principi, ideologie vi passano certe prove. Chi sperimenta paga di persona. Anche la gloria; i sogni lungamente portati, e fermati in qualcosa di esteticamente definito, sono soggetti a trattamenti attentissimi; ad attese estenuanti” (ivi, pp. 127-128).
123 “Al rientro a casa, nel ’18, mi ritrovai con Bacchelli nelle sere al caffè. Riprendemmo le nostre conversazioni letterarie e con questo animo si ventilò di stampare una nostra rivista e fu quella che si chiamò «La Raccolta». Invitammo per collaborarvi gli scrittori lasciati da poco in guerra e altri già legati a Bacchelli, come Emilio Cecchi, Carlo Linati, Lorenzo Montano, Antonio Baldini e Ardengo Soffici, in aggiunta ai più giovani miei amici, che erano Raffaello Franchi e Filippo De Pisis. Dei pittori pubblicammo cose di Morandi e gli scritti metafisici di Carlo Carrà. Da Cardarelli ci giunse un bel gruppo di prose inedite. In tal modo si era consolidato una sorta di ponte culturale tra il territorio bolognese e l’atmosfera dell’ambiente romano uscito dagli impacci bellici. A Roma poi mi trasferii fra il ’19 e il ‘20 dove mi occupai come segretario della redazione della «Ronda» la rivista che nel frattempo fecero uscire Cardarelli e Bacchelli, venuta in luce sulle indicazioni e sull’indirizzo affermatisi con la bolognese «Raccolta»” (G. Raimondi, Introduzione, in Giuseppe Raimondi fra poeti e pittori: Mostra di carteggi, Bologna, Museo Civico, 28 maggio-30 giugno 1977, Bologna, Edizioni Alfa, 1977, p. 14).
124 Ivi, p. 85. Su «Raccolta» avviene la prima pubblicazione di un lavoro di Morandi un’acquaforte del 1915 che rappresenta un natura morta («Raccolta», 2, 15 aprile 1918).
125 “E Bologna, quando noi ci siamo affacciati al mondo delle lettere, godeva di una decisa autorità e simpatia nazionale. Qui, ai primi passi mi sono incontrato con Riccardo Bacchelli e con Giorgio Morandi. I due bolognesi, già legati fra di loro non solo per la nascita geografica dovettero lasciare un segno nella mia formazione giovanile. Questo incontro avvenne verso la fine del 1916” (G. Raimondi, Introduzione, in Giuseppe Raimondi fra poeti e pittori cit., p. 13).“Si passavano serate al caffè in discorso per me come nuovi e fino da allora si affacciò l’idea di una sorta di triangolo di rapporti artistici: Cardarelli, Bacchelli, Morandi, dove avrei aspirato di entrare. Furono sentimenti, idee e modo di vivere continuati nel tempo” (ivi, p. 14).
126 In risposta (V), in G. Bassani, Di là dal cuore cit., p. 377 (poi in G. Bassani, Opere cit., p. 1318).
127 Ibidem.
128 Ibidem.
129 L. Caretti, Politica rondiana, in Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, V, Marzorati, Milano, 1979, p. 3899.
130 A. Bertolucci, Testimonianza, in Alberto Graziani, Lettere cit., p. 7.
131 “Sono andato due volte a trovare Morandi. Il quadro dei bottiglioni dipinti di biacca è quasi finito. Splendido. Ma ne ha altri che non conoscevo, spettacolosi. Mi sono divertito molto ad assistere ai suoi colloqui col cane; gli dà del lei:«Su fermo, stia, stia qui». Ho conosciuto anche Raimondi che sembra uno di quei bolognesi che dovevano fare festa a Leopardi. È molto simpatico e gli farò vedere i disegni. Ho letto qualcosa di suo e mi sembra molto in gamba. Soltanto io non riesco a superare l’impressione che quelli della «Ronda» non siano riusciti a trovare una schiettezza totalmente equilibrata: ogni tanto sembrano persone serie serie, rispettabili con un collettino di pizzo” (Lettera di Alberto Graziani a Roberto Longhi, 13 luglio 1937, in Alberto Graziani, Lettere cit., p. 156).
132 L. Caretti, Memorie ferraresi cit., p. 178.
133 "Lavora di solito nello studio: anche in ciò differenziandosi dal grande De Pisis, sempre in giro, lui, instancabilmente, come una farfalla avida di succhi, di colori e di odori" (G. Bassani, Mimì Quilici Buzzacchi, in Di là dal cuore cit., p. 292, poi in G. Bassani, Opere cit., p. 1235).
134 "A proposito di Ravegnani l'amico Moretti potrà farne studiare utilmente, pur nei suoi limiti, la funzione mediatrice tra Ferrara e la cultura più avanzata del nostro paese sia al tempo della casa Taddei e poco appresso, e quindi anche al tempo del soggiorno ferrarese di Carrà, dei fratelli De Chirico e De Pisis e della pittura metafisica, sia al tempo del «Corriere padano» nella sua fase più liberale" (ivi p. 171).
135 “La Ferrara di cui mi sono occupato scrivendo è soltanto la Ferrara dell’epoca del fascismo. Per quel che ricordo io, si trattava di una città intensamente devota al regime: al punto che le poche persone che fasciste non erano, vivevano ai margini, non avendo alcun rapporto con gli altri, coi più” (In risposta (VI), in Giorgio Bassani, Di là dal cuore cit., p. 386, poi in G. Bassani, Opere cit., p. 1327).
136 Per l'esattezza Bassani e Caretti avevano frequentato insieme per tre anni anche le elementari in una scuola di campagna tra Ferrara e Copparo come segnala la Cronologia a cura di Roberto Cotroneo pubblicata in Giorgio Bassani, Opere cit., pp. L-XCVIII.
137 "Viviani insegnava latino e greco. Era un uomo scarsamente amabile, quasi sempre corrucciato, duramente ironico. Era anche laureato in legge e intendente di musica e collaborava al «Corriere padano» con articoli dedicati ai classici greci e latini, con amichevole tolleranza di Giulio Colamarino e Nello Quilici, ma era un intransigente antifascista. Allontanato nel 1936 dall'insegnamento finì alla fine in mano dei tedeschi e trovò la tragica morte in un campo di concentramento. Non intendo assolutamente dire che appresi da Viviani l'antifascismo: voglio piuttosto e più semplicemente dire che lasciarono certo in me una traccia, destinata in seguito a farsi più chiara e parlante, certi suoi scatti d'umore anticonformista, certo trattenuto sarcasmo su uomini ed eventi, la sua orgogliosa solitudine. E così mi piacquero persino la sua scarsa amabilità, proprio perchè rivelava il rifiuto del paternalismo bonario, e quel suo trattarci con un lei molto distaccato perchè mi parve di intuirvi, più che sentimenti ostili, la dolorosa consapevolezza di non potere liberamente e compiutamente comunicare con i giovani" (Memorie ferraresi, in L. Caretti, cit., pp. 166-167). Per un approfondimento su Francesco Viviani si rimanda a La figura postuma di Cazzola: Francesco Viviani e il «Corriere padano», a cura di Stefano Cariani e Claudio Cazzola, con una nota introduttiva di Giuseppe Inzerillo, Ferrara, Tipografia artigiana, “Quaderni del Liceo Classico L. Ariosto di Ferrara”, 1999.
138 Ibidem.
139 Ibidem.
140 "Carli, amabilissima persona, non era nè un formalista nè un ideologo: era un intelligente cattolico comacchiese, con tutta la vivacità e l'arguzia di un comacchiese. Ci faceva lezione di italiano in maniera tutta personale: stando sempre in piedi, saltando da un angolo all'altro dell'aula, recitando e pressochè mimando versi, quelli di Dante soprattutto. Era una didattica bilicata tra la recitazione verbale e la gestualità. Voi direte: un istrione insomma! Niente affatto! Carli era l'antiretorica fatta persona: con quella sua vocetta acuta di testa, e con quella sua sorridente follia nello sguardo, faceva sommaria giustizia di ogni atteggiamento enfatico e prosopopeico. Era un personaggio un pò surreale, librato a mezz'aria nei suoi velocissimi balletti: a me ancor oggi sembra scaturito da una novella palazzeschiana. Ebbene, va detto che Dante e Pascoli ci giunsero, prima che attraverso il difficile e contraddittorio passaggio crociano attraverso le sagaci lezioni di Carli, il quale, già scolaro di Pascoli, ci fece intendere, da un lato, l'unità del poema dantesco anche quando leggeva il Paradiso senza nulla concedere alle distinzioni di «poesia non poesia»; dall'altro lato ci indusse ad apprezzare la modernità della poesia pascoliana lasciando nell'ombra il Pascoli «alto» e celebrativo e mettendo invece in luce il Pascoli «basso» e intimista di Gelsomino notturno, cioè quello che più conta, proprio oggi, per i lettori avveduti" (ivi, p. 169).
141 Ibidem.
142 Ibidem.
143 La casa editrice Taddei fu fondata a Ferrara nel 1840. Nel 1897 fu rilevata da Antonio Soati e nel 1914 da Giulio e Alberto Neppi.
144 “Torniamo a Ferrara, e qui devo ricordare, proprio a questo punto, un luogo deputato delle mie più interessanti e rivelatrici esperienze libresche. Si tratta della ricchissima e modernissima biblioteca di Giuseppe Ravegnani che io e Bassani abbiamo doviziosamente saccheggiato non avendo altro luogo della nostra città dove raggiungere i testi preziosi del Novecento italiano e europeo. [...] A Ferrara Ravegnani ebbe un posto come bibliotecario all'Ariostea e, quel che più conta, gli fu offerto da Quilici la redazione della terza pagina del «Corriere padano». Tornando a Ferrara Ravegnani riportò nella nostra città la sua nutrita biblioteca, e generosamente l'aperse ai giovani, come me e Bassani, che avevano dimostrato di accedere con qualche profitto a quella preziosa miniera" (ivi, pp. 171-172).
145 Ibidem.
146 In risposta (V), in G. Bassani, Di là dal cuore cit., p. 376 (poi in G. Bassani, Opere cit., p. 1317).
147 Il «Corriere Padano» nacque il 5 aprile 1925 e fu fondato da Italo Balbo. Uscì con grande regolarità fino al 20 aprile 1945 con la sola interruzione del periodo che andò dal 26 agosto al 3 novembre 1943. Dal 9 maggio 1927 fu arricchito dal «Corriere del lunedì». Dopo pochi mesi dalla fondazione Balbo divenne sottosegretario dell’economia nazionale e la direzione fino al 28 giugno 1940 passò a Nello Quilici. A lui successe Giuseppe Ravegnani che era stato direttore della terza pagina dal 1929 al 1943. Anna Folli nel suo libro Vent'anni di cultura ferrarese. Antologia del «Corriere padano» (Bologna, Patron, 1978) parla di una "stagione padana" che si apre con la pubblicazione della poesia Parco di Lanfranco Caretti nel 1935 (Lanfranco Caretti, Parco, in «Corriere padano», 3, p. 3). Ad inaugurarla saranno appunto tre ferraresi, Bassani, Caretti e Antonioni, ma ben presto si uniranno a loro anche Rinaldi, Giovanelli, Bertolucci e i fratelli Arcangeli. "Affiorò in quegli anni un singolare reticolato geografico letterario che congiungeva Parma, Modena, Ferrara e Bologna (non ignorando le esperienze contemporanee di Firenze e quelle, molto lontane ormai, della Cesena di Marino Moretti) nel quale varie generazioni si incontrarono su due piani. Uno padano con tutte le caratteristiche orizzontali del comune denominatore, che rimandava ad una mitica, materna terra d’Emilia come presupposto archetipico; l’altro universale e centrifugo rispetto ad esso che presupponeva il diverso e ascoltava le voci del mondo. Una specie di continuum padano che aveva la sua matrice nella mediazione che di Pascoli avevano fatto Marino Moretti e Govoni, si prolungava nel tempo: direttamente, attraverso Bertolucci, Bassani, Giovanelli; indirettamente e con dosaggio anche consistente di diversità attraverso i più conosciuti Delfini e i meno conosciuti Cavani e D’Arzo tra Modena e Reggio Emilia, attraverso Rinaldi, Gaetano e Francesco Arcangeli a Bologna. Su questa persistente linea padana, di lontana matrice pascoliana si innestarono in funzione esorcizzante le più varie esperienze. Bertolucci si liberò delle radici attraverso la letteratura inglese e americana; Bassani attraverso la storia, come s’è detto; Delfini attraverso un salto all’indietro nella storia e uno scambio di vita con letteratura; mentre i bolognesi si diversificarono tramite l’esperienza di un tardo ermetismo" (Anna Folli, Vent'anni di cultura ferrarese. Antologia del «Corriere padano», Bologna, Patron, 1978, pp. XL-XLI).
148 L. Caretti, In tema di celebrazioni (centenario carducciano), in «Corriere padano» (30 marzo 1935, p. 3). In quello stesso anno Caretti pubblicò anche la lirica il Parco (in «Corriere padano», 27 dicembre 1935, p. 3).
149 G. Bassani, III° classe, in «Corriere padano», 1° maggio 1935, p. 3. Nei successivi numeri del 1935 Bassani pubblicò anche il testo Primavera (9 dicembre 1935, in «Corriere del lunedì», p. 3).
150 In risposta (V), in G. Bassani, Di là dal cuore cit., p. 376 (poi in G. Bassani, Opere cit., p. 1317).
151 Memorie ferraresi, in L. Caretti, Montale e altri cit., p. 174.
152 Ibidem.
153 Alessandro Roveri, Le origini del fascismo a Ferrara 1918-1921, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 133.
154 Ibidem.
155 "Nel «Labriola» si incrociarono all’inizio le singolari esperienze ferraresi del «Corriere padano» diretto da Nello Quilici dal 1925 al 1940 con altre che nel bolognese avevano lasciato nel foglio universitario «Architrave» specie nel periodo 1940-‘42 della gestione di Roberto Mazzetti e persino ne «L’Assalto», foglio del fascio locale. Nella terza pagina del «Padano», diretto da Giuseppe Ravegnani avevano infatti trovato ampi spazi, già intorno agli anni Trenta, avanguardie letterarie che giungevano ai confini del realismo e persino lo anticipavano, voci di ispirazione liberale, suggestioni critiche non gradite al potere, innovazioni del linguaggio nella letteratura come nell’arte con presenze di prestigio come quelle dei fratelli De Chirico, De Pisis, arricchite da aperture particolari verso giovani all’esordio che peraltro recavano i nomi di Antonioni, Dessí, Bassani, Caretti, Giovanelli, Meluschi, la Viganò, Colamarino, lo stesso Fortunati, e altri ancora, locali o presenti per soggiorni in città, chiamati a collaborare senza alcun intento discriminatorio" (Luciano Bergonzini, La svastica a Bologna: settembre 1943-aprile 1945, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 128).
156 “Per una città come Bologna, in cui, negli anni fra le due guerre, mancano centri di elaborazione culturale non istituzionali, aspetto peculiare è l’assenza di un’editoria militante, sul modello ad esempio della Einaudi o, con un raggio di azione più limitato, della Guanda di Parma, se si esclude la limitata iniziativa della Biblioteca di studi sociali, collana dell’editore Cappelli, diretta da Rodolfo Mondolfo, cessata alla fine del ’25 oppure l’attività benemerita quanto sconosciuta del Testa, primo editore di Gaetano Arcangeli e di Meluschi” (Anna Maria Andreoli, Luisa Avellini, Andrea Battistini, Cristina Bragaglia, Marilena Ermilli, Ezio Raimondi, Crisi della cultura e dialettica delle idee cit., p. 19).
157 Ibidem.
158 Caretti pubblicò i seguenti testi sulla Terza pagina del «Corriere padano» durante il 1936: Il legionario (15 febbraio); La crisi spirituale del Leopardi (7 marzo); Poesie (15 aprile); Poesie (12 maggio); Gozzano e altre cose di cattivo gusto (13 giugno); Epistolario leopardiano 1823 (25 agosto); Liriche (5 novembre); L’ultimo Commisso (24 novembre).
159 Bassani pubblicò i seguenti testi sul «Corriere padano» nel 1936: Nuvole e mare (21 gennaio); I mendicanti (22 marzo); Incontro con Bertolucci (15 aprile); Poesie (13 giugno); I pazzi (16 giugno), La fuga al mare (in «Il Corriere del lunedì», 10 febbraio).
160 F. Giovanelli, Il furto, in «Corriere padano», 13 luglio 1936.
161 F. Vegliani, Vigilia, in «Il corriere del lunedì», 1° giugno 1936.
162 F. Arcangeli, Scoperta di Rimini, in «Corriere padano», 14 marzo 1937.
163 “Tu non hai parole gravi / tu non hai pensieri profondi / tu hai capelli biondi / ed occhi chiari // Tu sai che tutto deve / essere come è // Al mio ramo arido greve / darai leggerezza di foglia / ed ora non ho più voglia / che di tremar con te” (A. Frassineti, Canzonetta (a Luisa R.), in «Corriere padano», 9 febbraio 1937, p. 3).
164 F. Giovanelli, Primavera, in «Corriere padano», 23 febbraio 1937, p. 3 e A proposito di un bardo, in «Corriere padano», 21 aprile 1937, p. 3.
165 “[…] / s’appoggia / al muro della casa, / cresce leggero / sotto le stelle // Abbiamo parlato / con voci quete / (la voce certo del cuore / sepolta) // ora ascoltiamo / dal campo alzarsi altre voci // Influsso d’astri / mite chiarore // Lungo la scala / poggiati al muro di casa / aspettiamo (A. Rinaldi, Il grano verde, in «Corriere padano», 9 febbraio 1937, p. 3) e Suoni del vento / ai limiti di un campo / rimangono sospesi / al fondo di un abisso, // tagliano come falci / il grano che stride, // mi ritrovano solo / con quel rombo di fiume / che non vedo. // Silenzio di rupi / cade sotto il sole / trova il verde freddo / dei fondi” (A. Rinaldi, Suoni del vento, in «Corriere padano», 9 febbraio 1937, p. 3. La poesia è stata pubblicata con varianti in A. Rinaldi, La valletta cit. Rinaldi sostituì al v. 4 «sul ciglio» ad «al fondo»; al v. 8 «con quel tuono» a «con quel rombo»; al v. 11 «vuoto» a «sotto»; viene eliminato «dei fondi» al v. 13 e sostituito con trasparenti muschi / limpidi al fondo, con l’aggiunta quindi di un verso).
166 A. Bertolucci, Il cuculo, in «Corriere padano», 21 gennaio 1938; A. Rinaldi, Di notte, in «Corriere padano», 21 gennaio 1938; Caretti pubblicò sul «Corriere padano» Jean de Valdes (1° febbraio 1938), L'ultimo Angioletti (29 giugno 1938), Un romanzo sbagliato (9 luglio 1938), Achille innamorato (2 settembre 1938), Gente qualunque (6 ottobre 1938), Lettura (3 gennaio 1939), Tre poeti (7 gennaio 1939), Meravigliosa (8 gennaio 1939), Poesia (24 gennaio 1939) e Memorie e inediti (14 marzo 1939).
167 A. Bertolucci pubblica sulla terza pagina del «Corriere padano» nel 1937 i seguenti testi: Passero (27 gennaio); Crepuscolo; Infanzia (9 febbraio) e Inverno (23 febbraio).
168 Giuseppe Dessí pubblicò sulla terza pagina del «Corriere padano» nel 1937 i seguenti testi: Inverno (9 febbraio); La passeggiata (14 marzo); Finire un quadro (21 aprile). Per un approfondimento sui rapporti tra Dessí e Bassani ai tempi del «Corriere padano» si rimanda al testo di Anna Dolfi, Due scrittori, la forma breve e l’azzurro, in Narrativa breve, cinema e TV. Giuseppe Dessí e altri protagonisti del Novecento, a cura di Valeria Pala e Antonello Zanda, Roma, Bulzoni, 2011.
169 Di Giuseppe Dessí uscirono sulle pagine del «Corriere padano» nel 1939 La sposa in città (30 marzo), Poesia (21 maggio), Romanzo e teatro (2 giugno), Poesia e critica (15 giugno), Sandro Penna (18 novembre).
170 Ibidem.
171 Ibidem.
172 "Ferrara, d’altronde, era la città emiliana dove più che altrove pareva imporsi il ruolo prioritario degli intellettuali, non solo per quel fascino di sinistra, di fronda, incoraggiato da Italo Balbo, ma anche per quel margine, sia pure molto cauto, di libertà operativa che le iniziative concrete, giornalistiche, sembravano consentire e autorizzare. Il «Corriere padano», fondato da Balbo nel 1925, fu forse, sia pure in tonalità minore, un’anticipazione della più importante iniziativa di «Primato», maturatasi intorno agli anni ’40. La terza pagina del «Corriere» diretta da Giuseppe Ravegnani, raccolse negli ultimi anni del fascismo (dal 1938 al 1943, gli anni tra l’altro della comune permanenza ferrarese di Dessí, Bassani, Varese) accanto alle firme ricorrenti di Ravegnani, Titta Rosa e Camerino, quelle più prestigiose di Silvio Benco, Sergio Solmi, Neri Pozza, Antonio Delfini, Filippo De Pisis, Beniamino Dal Fabbro, Mario Soldati, Giorgio De Chirico… e quelle dei più giovani Lanfranco Caretti, Geno Pampaloni, Michelangelo Antonioni, Mario Pinna, Guido Aristarco, Luciano Anceschi, Paolo Grassi, Giorgio Bassani. Talvolta la pagina letteraria era dedicata interamente alla poesia (all’antologizzazione di scabri dettati novecenteschi), altre volte si riaccendevano le polemiche sul romanzo, iniziate negli anni Trenta poi riesplose violentemente nel periodo post-bellico dei programmi, della ricostruzione" (A. Dolfi, Dessí e Bassani. Due esperienze ferraresi, in Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia, Roma, Bulzoni, 2003, p. 188).
173 È conservata nel Fondo Dessí la prima lettera spedita da Bassani allo scrittore sardo: è senza data ma l'allusione alla pubblicazione delle poesie Passeggiata e Congedo e del racconto Inverno rimandano proprio al quel '37. Bassani dichiara di aver sentito parlare molto di lui dal "comune amico Varese" (Lettera di Giorgio Bassani a Giuseppe Dessí, tra il 26 settembre 1936 e il 23 maggio 1937. La lettera è conservata nel Fondo Dessí dell'Archivio Bonsanti, Gabinetto Vieusseux, [GD.15.1.33.1]) e di aver tanto apprezzato il suo S. Silvano. "Ho sempre pensato a Proust in Italia e mi è dolce ritrovarlo ai piedi dell'Arcuentu" (ibidem), scriverà alla fine, esortando Dessí ad inviargli ancora materiale per la rivista. Per informazioni più approfondite sul carteggio tra Giorgio Bassani e Giuseppe Dessì si rimanda a Francesca Nencioni Tempi, spazi e caratteri di un’amicizia letteraria: l’incontro Bassani-Dessí, in Ritorno al giardino. Una giornata di studi per Giorgio Bassani. Firenze, 26 marzo 2003, a cura di Anna Dolfi e Gianni Venturi, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 225-232 e al già citato A. Dolfi, Dessí e Bassani. Due esperienze ferraresi, in Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia, Roma, Bulzoni, 2003.
174 G. Bassani, Di là dal cuore, in G. Bassani, Opere cit., pp. 1318-1319.

Francesca Bartolini, Antonio Rinaldi. Un intellettuale nella cultura del Novecento, Tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze, 2013

giovedì 6 maggio 2021

Li scrivevo per necessità economiche


[...] A detta dell’autore le prose da raccogliere sarebbero talmente tante da poter costituire un intero volume, ma il lavoro di revisione, riscrittura e riordino richiederebbe un grande impegno sul quale Caproni stesso, che ha lasciato dispersa sui giornali la maggior parte della sua opera narrativa, mostra molti dubbi:
"Ecco, siccome io li scrivevo, appunto, e li intitolerei “Racconti scritti per forza”, li scrivevo per necessità economiche, non mi curavo se un’immagine, un periodo, che già era nel precedente, entrava nel suo seguente… dico: “intanto il lettore figuriamoci se se lo ricorda”. Non c’è mai stata l’intenzione di raccoglierli. Quindi adesso io dovrei fare questa revisione e proprio non me la sento. A parte, poi, il genere di scrittura: io, essendo appassionato di latino… e si sente in questi racconti… proprio l’uomo abituato ad andare a cavallo che quando cammina a piedi caracolla… almeno, io così sento; e molti invece vedono proprio in questo l’originalità". <27
Il poeta torna più volte a ricordare la necessità economica che lo spinse a scrivere in prosa, quasi giustificando la precarietà di alcuni racconti che, soprattutto stilisticamente, non lo soddisfano per certi errori compiuti con leggerezza, contando sulla disattenzione del suo lettore e sulla libertà di un genere sottoposto a regole meno rigide di quelle che governano il verso. Egli ribadisce anche l’influenza degli autori latini sulla sua scrittura, originale e particolare e dotata di un’individualità che la rende difficile da confrontare con altre. A questo proposito, Adele Dei evidenzia come la prosa dell’autore sembri essersi svolta «soprattutto in solitudine e dall’interno» <28, senza l’aiuto di esempi cui attingere o di suggestioni altrui cui fare riferimento. Riprendendo un’espressione attraverso la quale Pier Vincenzo Mengaldo descrive l’esordio del poeta, si può quindi affermare che anche il Caproni narratore «non somigliava a nessuno» <29 ed era uno scrittore «subacqueo». <30
L’interesse che l’autore rivolge ai propri scritti è piuttosto tardo e solamente a partire dagli anni Settanta egli esprime la volontà di scegliere parte delle sue prose da raccogliere in volume, così il memoriale di guerra Giorni aperti, il racconto lungo Il labirinto e Il gelo della mattina, ultimo capitolo di quel romanzo rimasto incompiuto, entrano a far parte di una piccola raccolta intitolata Il labirinto e pubblicata per Rizzoli nel 1984. Le tre storie, scritte in anni diversi, hanno tutte vicende editoriali differenti, ma sono caratterizzate da un autobiografismo che le accomuna tra loro e dal tema della guerra che, seppur non con la stessa intensità, fa da sfondo a ciascuna trama. Per la loro apparizione in volume, Caproni corregge e rende più moderni i tre racconti scelti, i quali passano attraverso una ferrea revisione che tuttavia non toglie loro «il sapore dei tempi in cui furono scritti». <31
Le altre prose invece, rimaste disperse su riviste e giornali, catturano l’attenzione del loro autore soprattutto grazie al consolidato successo poetico, unito all’incoraggiamento di critici quali Luigi Surdich e Pier Vincenzo Mengaldo che insistono per un’edizione degli scritti narrativi e che spingono Caproni a riconsiderare i propri racconti e a progettarne una raccolta alla quale si dedicherà in maniera intermittente fino agli ultimi anni.
Nell’archivio delle carte del poeta sono conservati due elenchi di racconti, uno intitolato Racconti da me scritti e l’altro Racconti scritti per forza: il primo è a sua volta bipartito in Racconti brevi, circa trentasei prose, e Racconti lunghi tra i quali sono inclusi Il gelo della mattina, Il labirinto e La maliarda; un posto indipendente è riservato invece alle Cronache per il lotto. [...]
27 G. Caproni, “Era così bello parlare”. Conversazioni radiofoniche con Giorgio Caproni. cit. p.179.
28 A. Dei, Introduzione a G. Caproni, Racconti scritti per forza, cit. p.9.
29 P.V. Mengaldo, Per la poesia di Giorgio Caproni, in L’Opera in versi, cit. p.XI.
30 Ivi, p. XI: «Oggi non c’è dubbio per qualunque persona sensata che Caproni sia tra i massimi e piùoriginali poeti del dopo-Montale. Ma a lungo la sua è stata invece una storia subacquea, tanto da non consentirgli neppure l’ingresso nei Lirici nuovi di Anceschi (1943), bibbia poetica dell’epoca, quando già aveva fatto conoscere alcune raccolte più che notevoli».
31 A. Dei, Introduzione a G. Caproni, Racconti scritti per forza, cit. p. 10.
Lucia Pasqualotto, «Del racconto però mi è sempre rimasta la nostalgia»: Giorgio Caproni narratore, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari, Venezia, anno accademico 2014-2015
 
Patrizia Traverso e Luigi Surdich
Genova ch’è tutto dire. Immagini per Litania di Giorgio Caproni
Prefazione di Giuseppe Conte
Genova
Il canneto
2012
ISBN: 978-88-9643-031-6

In occasione del centesimo anniversario della nascita di Giorgio Caproni si moltiplicano le iniziative per celebrare degnamente la ricorrenza; tra queste rientra la pubblicazione di un libro davvero originale che, unendo le raffinate qualità fotografiche di Patrizia Traverso e la competenza critica di Luigi Surdich, illustra come meglio non si potrebbe una delle più meritatamente famose poesie di Caproni dedicate a Genova, dove egli, livornese, non era nato ma che di fatto considerava la «mia città intera», interamente sua, quella nella quale si era formato come uomo e come scrittore e della cui nostalgia molto soffrirà quando le scelte della vita lo porteranno a vivere a Roma. Il libro raccoglie un centinaio d’immagini fotografiche, l’una più suggestiva dell’altra, a colori e in bianco e nero, direttamente collegate ai luoghi che di volta in volta sono citati nei novanta distici di Litania; certo, la poesia risale ai primi anni Cinquanta (probabilmente al 1952) e le fotografie sono dei giorni nostri, però è anche vero che non par di riscontrare, tra queste e i versi che le hanno ispirate, oltre mezzo secolo di distanza, nel dubbio che sia stato premonitore il poeta o che la città sia rimasta alquanto immobile.
La struttura del libro (arricchito nelle ultime pagine da un’utile nota bibliografica aggiornata: e non sfugge la ricchezza degli interventi che si sono succeduti negli ultimi anni) è dunque binaria: i distici di Litania di volta in volta riportati sono puntualmente accompagnati da una fotografia del luogo citato e da un commento critico sui versi medesimi. Quella che altrimenti sarebbe una sequenza funzionale per illustrare un testo - già di per sé formato da immagini in forma di versi -, una sequenza essenziale e didatticamente utile, viene dilatata da una parte dalla creatività artistica della fotografa - che in più occasioni va legittimamente oltre i suggerimenti ambientali dell’autore - e dall’altra dagli interventi di Luigi Surdich, certo uno degli studiosi di più lungo corso dell’opera del poeta livornese e autore di quella monografia Giorgio Caproni. Un ritratto (Genova, Costa & Nolan, 1990) che rimane tuttora un punto di riferimento indispensabile per chi vuol conoscere l’opera del Poeta. Surdich, prendendo spunto di volta in volta dalle immagini suggerite da Litania, affronta con chiarezza e competenza non solo il tema del rapporto di Caproni con Genova, che è presenza centrale nella sua vita, tra gli anni livornesi dell’infanzia e quelli romani della maturità, e nella sua opera - la città e la Liguria di fatto sono presenti in quasi tutte le sue raccolte e in particolare nel Passaggio di Enea (1956) -, ma anche estende la sua attenzione all’essenza della sua opera, con opportuni richiami ad altri poeti (inevitabilmente Montale e Sbarbaro su tutti) e con una ricca serie di osservazioni e d’informazioni anche sugli aspetti meno noti della sua attività letteraria, a cominciare da quella di autore di racconti e di prose varie. Insomma Litania e Genova finiscono per essere il punto di partenza per una rilettura di Caproni e il saggio finale di Surdich Genova Genova Genova. L’“infinita litania” di Giorgio Caproni è un nuovo accattivante ritratto di questo poeta che, a ragione, lo studioso definisce in apertura e ribadisce in chiusura come «uno dei maggiori poeti del Novecento» e le sue pagine, ben documentate e anche emotivamente partecipi e partecipabili, che scorrono tra l’inizio e la fine, dimostrano l’assoluta legittimità di questa sua perentoria affermazione.
Maria Teresa Caprile, Patrizia Traverso, Luigi Surdich, Genova ch’è tutto dire. Immagini per Litania di Giorgio Caproni, Prefazione di Giuseppe Conte, Oblio, Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca, Anno II, numero 6-7, Settembre 2012