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sabato 24 luglio 2021

Genova canta il tuo canto!


Tu mi portasti un po’ d’alga marina
Nei tuoi capelli, ed un odor di vento,
Che è corso di lontano e giunge grave
D’ardore, era nel tuo corpo bronzino:
- Oh la divina
semplicità delle tue forme snelle -
Non amore non spasimo, un fantasma,
Un’ombra della necessità che vaga
Serena e ineluttabile nell’anima
E la discioglie in gioia, in incanto serena
Perché per l’infinito lo scirocco
Se la possa portare.
Come è piccolo il mondo e leggero nelle tue mani!
Dino Campana, Donna genovese

Poi che la nube si fermò nei cieli
Lontano sulla tacita infinita
Marina chiusa nei lontani veli,
E ritornava l’anima partita
Che tutto a lei d’intorno era già arcanamente
illustrato del giardino il verde
Sogno nell’apparenza sovrumana
De le corrusche sue statue superbe:
E udìi canto udìi voce di poeti
Ne le fonti e le sfingi sui frontoni
Benigne un primo oblìo parvero ai proni
Umani ancor largire: dai segreti
Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare
Bianco nell’aria: innumeri dal mare
Parvero i bianchi sogni dei mattini
Lontano dileguando incatenare
Come un ignoto turbine di suono.
Tra le vele di spuma udivo il suono.
Pieno era il sole di Maggio.
Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi ne la lavagna cinerea
Dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto
Ride l’arcato palazzo rosso dal portico grande:
Come le cateratte del Niagara
Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al mare:
Genova canta il tuo canto!
Entro una grotta di porcellana
Sorbendo caffè
Guardavo dall’invetriata la folla salire veloce
Tra le venditrici uguali a statue, porgenti
Frutti di mare con rauche grida cadenti
Su la bilancia immota:
Così ti ricordo ancora e ti rivedo imperiale
Su per l’erta tumultuante
Verso la porta disserrata
Contro l’azzurro serale,
Fantastica di trofei
Mitici tra torri nude al sereno,
A te aggrappata d’intorno
La febbre de la vita
Pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto
Instornellato de le prostitute
E dal fondo il vento del mar senza posa.
[...]
Al porto il battello si posa
Nel crepuscolo che brilla
Negli alberi quieti di frutti di luce,
Nel paesaggio mitico
Di navi nel seno dell’infinito
Ne la sera
Calida di felicità, lucente
In un grande in un grande velario
Di diamanti disteso sul crepuscolo,
In mille e mille diamanti in un grande velario vivente
Il battello si scarica
Ininterrottamente cigolante,
Instancabilmente introna
E la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul molo
Corrono i fanciulli e gridano
Con gridi di felicità.
Già a frotte s’avventurano
I viaggiatori alla città tonante
Che stende le sue piazze e le sue vie:
La grande luce mediterranea
S’è fusa in pietra di cenere:
Pei vichi antichi e profondi
Fragore di vita, gioia intensa e fugace:
Velario d’oro di felicità
È il cielo ove il sole ricchissimo
Lasciò le sue spoglie preziose
E la Città comprende
E s’accende
E la fiamma titilla ed assorbe
I resti magnificenti del sole,
E intesse un sudario d’oblio
Divino per gli uomini stanchi.
Perdute nel crepuscolo tonante
Ombre di viaggiatori
Vanno per la Superba
Terribili e grotteschi come i ciechi.
[...]
Dino Campana, Genova

“Io, Dino”: grande poeta, artista, simbolo, “ma soprattutto uomo”. Riprende vita da Genova in modo inedito, in musica, la figura di Dino Campana: una delle voci (in versi) più profonde del nostro Novecento, autore di una sola, grandiosa opera (i “Canti Orfici") e poi dimenticato, riscoperto postumo solo a fine anni Trenta, dopo la morte in manicomio, grazie a Montale, Ungaretti e altri grandi intellettuali dell’epoca. A riportarlo in scena è il nuovo disco del cantautore genovese Paolo Gerbella, un concept album esclusivamente dedicato a vita e vicende umane - ancora prima del lato artistico - del poeta toscano, che sarà presentato al pubblico per la prima volta oggi pomeriggio, nell’emporio-museo Viadelcampo29rosso, il piccolo “tempio” della memoria dei cantautori della città.
[...] Un totale di 12 tracce - tra cui due poesie integrali di Campana musicate, e 10 canzoni costruite anche grazie a parole, lettere, versi, accenni dell’opera del poeta - in “Io, Dino” si scoprono le origini dei tormenti di Campana (la famiglia, la povertà), si va oltre la leggenda (inesatta, “superficiale”) del “poeta pazzo”, si ripercorrono quasi in ordine cronologico fino a un ultima canzone che pare un testamento gli ultimi, terribili anni di vita (dal 1917 al 1932) nel manicomio di Castelpulci. In mezzo c’è spazio per il rapporto con la madre, per le sedute di elettroshock, per il racconto del viaggio “che pareva senza ritorno” dal porto di Genova fino in Argentina, e pure per sfatare il mito del folle amore con Sibilla Aleramo, “che invece fu solo storia di sesso e altro tipo di emarginazione” [...]
Matteo Macor, "Io, Dino", così la poesia di Campana diventa musica, la Repubblica -Genova, 3 ottobre 2015

La raccolta poetica di Dino Campana nota con il titolo Quaderno è stata pubblicata nel 1942 da Vallecchi nel volume Inediti curato da Enrico Falqui. Il titolo redazionale non deve suggerire un legame d’identità tra il Quaderno, che è l’edizione della raccolta, e l’autografo. Il manoscritto che conteneva quarantadue testi in versi e uno in prosa era un quaderno scolastico, anepìgrafo, mutilo, «pieno zeppo», riferisce Falqui, della scrittura di Campana; è un’anomalia che nel manoscritto non figurasse il nome del poeta. Negli Inediti, peraltro, la censura è intervenuta a sottrarre «un’espressione molto violenta» (p. 313) dalla poesia che nel manoscritto conteneva la principale nota di possesso: «il mio libro» (p. 139).
Manlio Campana, fratello del poeta, nel 1938 intraprese su richiesta di Falqui <1 la ricerca di testi inediti che portò a ritrovare a Marradi il quaderno, e consegnò il manoscritto a Falqui entro l’estate 1941. La nostra conoscenza del «portentoso quaderno campaniano tutto pieno di poesie inedite» <2 dipende dall’edizione facsimilare di poche pagine e dalla descrizione e trascrizione di Falqui: «Il manoscritto passò, insieme a poche altre carte di sorte analoga, tra le mani di Falqui (che lo rese pubblico negli Inediti del 1942) e poi scomparve» <3. Dopo la stampa della princeps il manoscritto era custodito a Marradi: Bonalumi, recatosi nel 1946 a Marradi per studiare il manoscritto, apprese dalla moglie di Manlio che «durante la battaglia d’Appennino» il quaderno era stato «bruciato» e «con molte altre carte del poeta gettato nel fiume sottostante la casa» <4.
Questo lavoro <5 presenta alcuni risultati della collazione delle edizioni falquiane dei testi del Quaderno.
1. Prime edizioni
Il volume Inediti è l’editio princeps del Quaderno ma non è la prima edizione di tutte le poesie della raccolta. Diciannove poesie sono state pubblicate per la prima volta nel 1940 e nel 1941.
La prima edizione di una poesia di questa raccolta indica che il ritrovamento del quaderno risale almeno al 1940: una poesia contenuta in quel manoscritto è stata pubblicata in «Beltempo. Almanacco delle lettere e delle arti», a cura di E. FALQUI e LIBERO DE LIBERO, Roma, Edizioni della Cometa, 1940, e poi, con l’aggiunta di un commento, in E. FALQUI, Giunta ai «Canti orfici» di Dino Campana, «L’Italia che scrive», n. 3, XXIV, Marzo 1941 - XIX. Il titolo Genova è redazionale. Non si fa menzione del quaderno. Falqui spiega che «i ventitre versi inediti di Dino Campana» sono stati «rinvenuti tra le sue carte senz’alcuna indicazione». Il testo è riconoscibile: è la poesia «O l’anima vivente delle cose», testo XXVIII, anepìgrafo, del Quaderno.
[...] Una lettera del novembre 1941 attesta che Falqui temeva la mediazione delle trascrizioni realizzate dal proprietario degli autografi, Manlio: «temo sia tutto ricorretto» <6.
[...] Con la dicitura «Dal volume Inediti di prossima pubblicazione a cura di Enrico Falqui», quattro poesie sono state pubblicate in Il Tesoretto. Almanacco dello «Specchio», Mondadori, 1942, XX, finito di stampare il 25 novembre 1941: A una t... dagli occhi ferrigni, Donna genovese, Une femme qui passe e Furibondo. Il titolo abbreviato sarà invece riportato integralmente negli Inediti [...]
1 Cfr. la lettera di Manlio Campana ad Enrico Falqui del 5 maggio 1938 in Aldo Mastropasqua, Per una storia delle prime edizioni delle poesie di Campana, in Dino Campana nel Novecento. Il progetto e l’opera, a cura di Francesca
Bernardini Napoletano, Roma, Officina Edizioni, 1992, p. 69.
2 Enrico Falqui ad Alessandro Parronchi, lettera del 23 agosto [1941], ivi, p. 91. Falqui attinge al lessico campaniano: cfr. nel Quaderno l’uso di «portentoso» nelle poesie La creazione e La forza.
3 Giorgio Grillo, Introduzione, in Dino Campana, Canti Orfici, ed. critica a cura di Giorgio Grillo, Firenze, Vallecchi, 1990, p. LV.
4 Giovanni Bonalumi, Cultura e poesia di Campana, Firenze, Vallecchi, 1953, p. 15.
5 Questo breve saggio fa parte di una ricerca iniziata anni fa ma in pieno svolgimento. L’ultima mia pubblicazione sul Quaderno è «Il mercato librario in Italia è assolutamente nullo per il mio genere». L’editoria italiana e il caso
Campana, negli Atti del Congresso MOD, AA.VV., Autori, lettori e mercato nella modernità letteraria, a cura di Ilaria Crotti, Enza Del Tedesco, Ricciarda Ricorda, Alberto Zava, Pisa, ETS, 2011.
Frammento di una lettera di E. Falqui ad E. Vallecchi, 8 novembre 1941, pubblicato da Laura Piazza nel suo Contro le «industrie del cadavere». Dino Campana nel carteggio inedito Falqui-Vallecchi, in AA.VV., Autori, lettori e mercato nella modernità letteraria cit., p. 442. Credo che Falqui si riferisca alla trascrizione di «La dolce Lombardia coi suoi giardini» e «Sorga la larva d’antico sogno», come si desume dalla loro Nota al testo (ed. 1942, p. 328): Falqui precisa che non ha potuto vedere gli autografi, che la lezione gli è stata trasmessa dai familiari del poeta e riporta tra virgolette le stesse parole citate nella lettera a Vallecchi su «qualche breve frammento» e «qualche superato rifacimento» di cui non è stata trasmessa neppure la trascrizione. Dopo la stampa degli Inediti Manlio ha permesso la pubblicazione di numerosi altri autografi, ma non ha affidato la loro pubblicazione a Falqui.

Susanna Sitzia, Per una nuova edizione del «Quaderno» di Campana. Testimoni e varianti di tradizione, OBLIO, Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca Anno I, numero 2-3 Ottobre 2011

lunedì 19 luglio 2021

Quello che mi ha colpito è l’immagine del cascinale


Lo spirito con cui Romano rilegge i propri pezzi “occasionali” non è distante da quello con cui si riaccosta alle maggiori opere narrative, in occasione di ristampe e riedizioni. Se nel gennaio 1989 - ripresentando ai lettori "Le parole tra noi leggere" a distanza di vent’anni dalla prima edizione - si soffermava sul rapporto tra lavoro creativo e «veridicità» <20 e definiva quella sua fortunata indagine letteraria sul rapporto con il figlio un «libro di pensiero», qualche mese più avanti inseriva in "Un sogno del Nord" - autentico «libro di pensiero» <21 - ben due testi che insistono sul medesimo tema. Veridicità della scrittura, necessità della memoria <22: fuori da questo binomio, è impossibile comprendere il percorso di Lalla Romano e la sua impressionante coerenza.
[...] A questo proposito è interessante porre - agli stessi testi - una domanda che apparentemente esula dal discorso su Lalla Romano scrittrice ed entra nello specifico della lettrice: qual era il suo rapporto con il giornale fisicamente inteso? Come sfogliava, Lalla Romano, un quotidiano? In cerca di cosa?
La risposta è adombrata in uno degli articoli (La lüna 'd Muncalè) pubblicati in "Un sogno del Nord": un testo in cui Romano rievoca il suo rapporto con un prozio, il matematico Giuseppe Peano, per il quale lei - studentessa universitaria - andava a comprare talvolta i giornali, proprio negli anni in cui il fascismo abbatteva ogni residuale pluralismo di idee.
Dopo il ricordo di quegli anni, tornando a raccontare il presente, Romano si chiede: «Cosa leggo nei giornali?», ammettendo che le «notizie importanti» le devono esser segnalate, poiché a lei, «dei giornali, saltano agli occhi certi particolari […]. Esempio: caso Montelera. Quello che mi ha colpito è l’immagine del cascinale. Immagine così piemontese, familiare, riposante».
Non c'è bisogno di conoscere il caso Montelera per comprendere come tutto il discorso di Romano stia a testimoniare la sua perenne ricerca di letteratura (intesa come «immagine», come «atmosfera»), anche laddove apparentemente letteratura non c'è; anche dentro alla nuda cronaca. «Del resto - continua Romano nello stesso pezzo -, in tutti i campi dell'esperienza accade che un particolare mi si imponga e smuova qualcosa che è come un acuirsi della conoscenza, in senso soprattutto emotivo».
Questa sfida, che è sfida ingaggiata contro la deperibilità di tutte le cose, volontà di riscattare ciò che non è più, di restituirgli vita e restituirlo alla vita - ribadita nella già citata introduzione a "Un sogno del Nord" -, risulta tanto più evidente nella scrittura di viaggio, genere di per sé testimoniale e alimentato proprio dalla volontà di fermare «quello che il tempo porta via» <25.
[...] Evitava - scrive Laura Lilli - «le trappole della banalità o dell’esibizionismo, con una scrittura controllata in cui ogni lacrimosità si dissecca, ogni alone di sentimentalismo evapora» <27. È il risultato di quel confronto «ancora più serrato, potremmo dire senza scampo, con sé stessa», di cui parla ancora Affinati. C’è dunque una qualità critica, ferocemente critica e auto-critica, in questa scrittura: è - come si vede perfettamente in "Le parole tra noi leggere" - un costante mettersi a processo. Se è dura, perfino brutale, la definizione che si dà degli altri e delle vicende che li riguardano, altrettanto lo è quella che si dà di sé stessi e del proprio vissuto.
Non vi è compiacimento, mai. La sentenziosa assertività, la clausola fulminea, acida sono parte di un percorso, personale e stilistico, vòlto a evitare qualsiasi forma di indulgenza e di auto-indulgenza.
Non si può non tenere conto di tutto questo - se si vuole, perfino del dato caratteriale <28 - per rilevare la sostanziale uniformità delle diverse tipologie di scrittura di Lalla Romano. È come se all’origine vi fosse irriducibilmente la volontà di esporre a giudizio l’oggetto del proprio scrivere, qualunque esso sia. L’incipit de "Le parole tra noi leggere" - il cui oggetto è il figlio dell’autrice - si presta a essere inteso quasi come un’indicazione di metodo: "Io gli giro intorno: con circospezione, con impazienza, con rabbia. Adesso, gli giro intorno; un tempo invece lo assalivo". <29
Un paesaggio, una persona, una frase. Perfino i sogni, o le fotografie. I tratti essenziali di un volto <30. Tutto è da Lalla Romano indagato nella direzione di un possibile giudizio: "Quando entrammo nella nostra casa, c’era già Maria. Eravamo di ritorno dal viaggio, e camminavamo in punta di piedi, perché era mezzanotte. Io non conoscevo Maria, se non per averla vista, quando era venuta a presentarsi. Affrontare la conoscenza delle persone mi metteva in grande imbarazzo; così, da una stanza vicina, avevo spiato, attraverso l’uscio socchiuso. Stava seduta sull’orlo della sedia, con i piedi incrociati e le mani raccolte nel grembo; era magra e minuta, vestita di nero: con un colletto, rotondo, di pizzo. Teneva la testa reclinata su una spalla; i suoi occhi azzurri e fermi, dalle palpebre piegate all’ingiù, avevano un’aria rassegnata e un po’ triste. Non ne avevo concluso niente: più che altro avevo pensato che era una figura adatta a ritrarsi nei quadri". <31
«Non ne avevo concluso niente»: anche nell’incipit del romanzo "Maria" (1953) si avverte la presenza di uno sguardo severo e, appunto, critico in perenne ricerca di una sintesi. Si legge poco più avanti: «Anche la casa era nuova, per me»; «Di fuori, la casa era una grossa palazzina»; «Era una casa silenziosa». Nel capitolo VI, a proposito del medesimo oggetto: «La casa di Torino non mi dispiacque. Le trovai qualche somiglianza con l’altra; solo le proporzioni erano cambiate».
20 ROMANO, Le parole tra noi leggere, Einaudi, Torino 1998, p. 271 (Poscritti e conclusione).
21 Giovanni Tesio evidenzia, attraverso Un sogno del Nord - libro così caratterizzato da una forte «consapevolezza dell'arte», dalla costante riflessione dell'autrice sul proprio lavoro - lo «sviluppo di una vera e propria - filosofica - “visione del mondo” (se è vero che “tutte le opere di poesia sono opere filosofiche, non sistematiche s’intende” e che i romanzi che non sono filosofici “non sono nulla”» (TESIO, Il cuore («imperdonabile») di “Un sogno del Nord”, cit.).
22 ROMANO, Un sogno del Nord, cit., p. 197.
25 ROMANO, L'eterno presente. Conversazione con Antonio Ria, Einaudi, Torino 1998, p. 69. Si affronta questo tema specifico nel capitolo II del presente studio.
27 Laura Lilli, Una vita tutta scritta che si specchia nel Novecento, in «la Repubblica», 27 giugno 2001, pp. 38-39.
28 Affinati, Fedrigotti, Orengo
29 Le parole tra noi leggere
30 Un americano a Torino (Un sogno, p. 101): «A ripensarci poi, la sua faccia era davvero da americano, formula puritana (che io chiamo “protestante”): lunga e stretta un po’
ispessita in basso; ma io l’avevo già iscritto nella categoria - più larga - delle fisionomie che non sono illuminate da occhi e sguardo eccezionale».
31 Maria, p. 9
Paolo Di Paolo, La scrittura critica di Lalla Romano, Tesi di laurea, Università degli Studi Roma Tre, 2012

È stato come se una vita sola non ti bastasse. E infatti ne hai vissute due, Lalla. Ricche entrambe.
Eri occitana, venivi da Demonte. Tuo padre era un geometra comunale con l’animo d’artista. Fu pittore e fotografo provetto. Tuo zio materno era Giuseppe Peano, il grande logico matematico.
La vita, fin dall’infanzia, ti ha messo a disposizione tutte quelle persone che negli anni hanno sempre saputo indirizzare le tue passioni.
Ma incontrare le persone giuste, non basta. Il tuo talento stava nel saperle riconoscere.
Lionello Venturi ti fu maestro di gusto negli anni dell’Università, a Torino.
Fu lui ad indirizzarti da Felice Casorati, maestro d’arte. Diventasti una pittrice consapevole sotto il suo magistero.
[...] Montale annotò a matita i tuoi fogli, apprezzò tuoi versi. Fu forse il tuo primo lettore ufficiale. Ti rimase affezionato per tutta la vita. Fu così che iniziasti a scrivere per lui di mostre d’arte a Torino. Da pittrice, ma forse già da scrittrice. Poeta, per la precisione. Ché nel 1941 pubblicasti la tua prima silloge, “Fiore”, con Frassinelli. Ne regalasti una copia a Giulio Einaudi, con una dedica puntuta: “a chi non ha voluto stampare questo libro”. Nacque così la vostra amicizia, Lalla. Einaudi fu il tuo editore per tutta la vita.
[...] Fu Flaubert e fu la guerra. Bombardarono la vostra casa torinese. Riparaste a Cuneo. La tua prima vita venne rinchiusa in decine e decine di bauli. Li riapristi a Milano, nel 1947, quando con Piero raggiungesti Cenzo. L’anno appresso arriverà in città anche Montale che andrà a vivere in via Bigli. Non abbandonerete mai più Milano.
[...] Hai sempre avuto un rapporto fisico con la scrittura. Retaggio del tuo passato di pittrice. Hai sempre scritto a mano ogni prima stesura: la penna era il pennello, il foglio la tela. Il tavolo del soggiorno rimase ingombro di carte fino all’ultimo tuo giorno di vita.
[...] Lo Strega nel 1969 per Le parole tra noi leggere (verso rubato al tuo Montale) portò gioia e tristezza.
Piero non amò essere al centro della tua narrazione. Eppure quante donne, quante lettrici, vennero a trovarti a casa per un consiglio. Tu, che ti sentivi una madre fallita, non capivi come poter aiutare quelle amiche sconosciute. Eppure non hai mai rifiutato un incontro, un appuntamento, da pari a pari.
Gianni Biondillo, Lalla Romano, Storie Milanesi

mercoledì 14 luglio 2021

Caro Sereni / Mi compiaccio con Lei per la sua buona volontà

Ottone Rosai, Carlo Betocchi, 1954-’55 - Firenze, Museo Novecento - Fonte: il Manifesto  

Tullio Pericoli, Vittorio Sereni, 1993 - Fonte: Tullio Pericoli

A volte le lettere trasmettono la ‘voce’ mentale di un poeta più chiaramente delle sue opere. Accade, in particolare, per Vittorio Sereni: si ha l’impressione, o l’illusione, che le situazioni e i dialoghi delle poesie entrino in risonanza con il suo epistolario, ne proseguano il discorso. Non è una questione di autenticità o di utilità: i carteggi di Sereni sono preziosi per commentare i suoi libri, certo, ma non più di quanto accada per altri autori novecenteschi. Il punto è che Sereni scrive le poesie come scrive le lettere, con la stessa postura e il medesimo pathos della ferialità. Per fortuna, abbiamo molte occasioni per ascoltare quella ‘voce’: dal centenario della nascita (2013) a oggi sono stati pubblicati i carteggi con Anceschi, Bodini, Gallo, Luzi, Ungaretti, che si sommano tra gli altri a quelli con Bertolucci, Parronchi, Saba usciti in precedenza. Un nuovo volume si aggiunge ora alla serie: Vittorio Sereni-Carlo Betocchi. Un uomo fratello. Carteggio (1937-1982),  Mimesis, pp. 248, euro 24,00. Clelia Martignoni firma il saggio introduttivo, mentre l’edizione e il commento, ampio e preciso, sono curati da Bianca Bianchi, già redattrice dell’Almanacco «La Rotonda», diretto dallo stesso Sereni con Piero Chiara. I materiali, conservati a Luino nell’Archivio Sereni, comprendono 172 documenti, tra i quali 150 lettere, per lo più manoscritte, la maggior parte delle quali ha per mittente Betocchi. Anche per questo, Un uomo fratello è un libro che parla di Betocchi almeno quanto parla di Sereni, sebbene il primo, per attitudine all’umiltà, finisca per assumere un ruolo tra il maieutico e l’ausiliario nei confronti del secondo. Tra le qualità di Betocchi c’è infatti la capacità di intuire gli esiti della poesia di Sereni e di trovare i giusti toni per incoraggiarlo o interpellarlo; a volte perfino per rimproverarlo, come in una lettera della fine del 1955: «Non mi dare dispiaceri. Fai l’uomo, smetti di ricoverarti dietro tante timidezze».
Milano-Firenze, crescente distanza
L’estensione cronologica del carteggio permette di seguire la vita e l’opera dei due autori nell’arco di un mezzo secolo denso di cambiamenti. Nell’esistenza di Sereni s’inanellano la prigionia, la famiglia, gli onori e gli oneri del lavoro editoriale (cui spesso queste lettere alludono); in quella di Betocchi, le trasferte e la fede perduta dopo la malattia e la morte della moglie. Per entrambi conta e resiste la scrittura, mentre le trasformazioni della società italiana lasciano segni profondi su uomini e libri. Di anno in anno, attraverso le parole e le idee condivise dai due amici, si percepisce ad esempio la crescente distanza tra la Firenze di Betocchi, capitale di una cultura primonovecentesca in esaurimento, e la Milano industriale di Sereni, necessaria alla maturazione dei suoi grandi libri, anche se non sempre amata. «E del resto se mi guardo attorno, che cosa dà più Milano?», scrive Sereni in una lettera del luglio ’54; e prosegue: «Sì, qualche amicizia davvero cara e di cui ho bisogno; ma per il resto pagliacciata e commercio anche di quelle poche ragioni che una volta ci facevano vivi».
All’anagrafe, poco meno di una generazione separava Betocchi (nato nel 1899) da Sereni (nato nel 1913): «In fondo io sono ancora uno, quanto a spirito e conoscenza del mondo, uno del primo ventennio del secolo», scrive Betocchi nell’ottobre del 1980. In effetti, le prime lettere, risalenti all’estate del ’37, tradiscono ancora una certa asimmetria dei ruoli: Betocchi è un poeta già noto (Realtà vince il sogno era uscito nel 1932), Sereni un esordiente. Il carteggio prende spunto proprio dalla pubblicazione dei primi versi sereniani sul «Frontespizio», la rivista fiorentina fondata da Bargellini, per la quale Betocchi curava la rassegna poetica. Fin dall’inizio, però, il tenore delle lettere è tale da ridurre le distanze: «Caro Sereni / Mi compiaccio con Lei per la sua buona volontà; mi dolgo per quel che di meno sereno ha potuto turbarlo nella cerchia dei suoi amici, che sono anche i miei, che si amano poeti». Non è un caso se tra le parole ricorrenti nel carteggio, quasi come un suo Leitmotiv, risalta l’aggettivo ‘umano’, che qualificherà il titolo del libro più importante di Sereni, Gli strumenti umani (per il quale l’autore aveva pensato anche a un’alternativa, Teatro di parole, di ascendenza betocchiana). Del resto, è proprio in una lettera all’amico (4 luglio ’54) che si riconosce l’occasione di partenza più tardi rielaborata da Sereni nella poesia Il muro degli Strumenti: «Vorrei raccontarti d’una sera che andai a vedere un torneo notturno di calcio proprio dietro la chiesa del cimitero e si levò una specie di bufera con lampi e gran polvere».
Quanto all’‘età’ letteraria, i due poeti si consideravano coetanei. Betocchi, convinto della prossimità fra gli autori della cosiddetta terza generazione (in particolare Sereni, Caproni e Luzi), si sentiva più vicino a loro che non a Montale e Ungaretti. È su questa base che, ne primi anni cinquanta, insiste (invano) con Sereni perché gli dia una raccolta delle sue poesie da pubblicare per Vallecchi: «Da una conversazione lunga, fatta ieri sera con Luzi che si è convinto - scrive Betocchi il 3 aprile 1953 - emergevano altre ragioni, per tutti, richiedenti la raccolta in volume, la presentazione compatta in catalogo, e l’uscita poco dopo distanziata delle poesie di Luzi, Sereni, Caproni, Parronchi, Betocchi». L’opportunità di allineare questi autori, fra i quali Betocchi s’include, dipendeva tanto dalla volontà di superare la categoria di ‘ermetismo’ per un «nucleo di poeti, che ha carattere assai compatto di nascita e d’interessi»; quanto dall’esigenza di «presentare la poesia soprattutto dei primi fra i poeti nominati per quello che è realmente, l’unico punto stabile di necessario passaggio dagli Ungaretti Montale ai poeti futuri».
Il problema della linea lombarda
Irriducibile all’ermetismo, Sereni si sottrae anche ad altre forzate assimilazioni: come osserva giustamente Martignoni nell’introduzione, «l’elogio “lombardo” di Betocchi» è un’«altra cosa rispetto all’angusta chiusura nella “linea lombarda” prospettata a suo tempo nell’antologia omonima». Il riferimento è a uno scambio avvenuto tra il marzo e l’aprile del ’58. «Quando sei lombardo - aveva scritto Betocchi - sei della migliore stirpe per interpretare la modernità della storia». «Dalle tue parole - risponde Sereni - sono quasi indotto a pensare che dal poco di nuovo che ho messo fuori vada facendosi strada quel tanto, non più di lombardo, ma di milanese addirittura con cui lotto ogni giorno, non per sopprimerlo ma per ridurlo a ispirazione». È quasi una sintesi della poetica che di lì a pochi anni si compirà negli Strumenti umani. «Nella sua disperazione», quel libro rappresenta, secondo Betocchi, «la giustificazione più intensa» di tutta la storia di Sereni (23 ottobre ’65). La lettera «mette il dito nella piaga», risponde l’autore pochi giorni dopo (31 ottobre), perché lo «raggiunge più nel segreto», con tutte le «vergogne scoperte». Il nuovo libro è poco congeniale a Betocchi, che in una lettera a Caproni - lo ricordano Bianchi nel commento e Martignoni nell’introduzione - confessa di preferire le opere precedenti alla «poesia Milano-Industria».
Ha ragione Sereni allora quando, nell’articolo sugli Strumenti scritto da Betocchi per il «Giornale d’Italia», legge «un’insoddisfazione e un rammarico, non di ordine critico-estetico, ma umano e morale», una sorta di «nostalgia» per com’era o appariva «una volta» (lettera del 5 aprile ’66). È il tratto in cui il carteggio diventa più acuto, ma non polemico o recriminatorio. Tant’è vero che l’attenzione e la comprensione non vengono meno. Betocchi prevede ad esempio l’importanza che Char, tradotto da Sereni, avrà anche per la poesia dell’amico: un lavoro - gli scrive in una lettera del novembre ’74 - «che, penso, ti sarà fonte di altro tuo lavoro personale». E così sarà: quel «lavoro personale» si realizza nella sezione quarta (Traducevo Char) dell’ultima raccolta sereniana, Stella variabile. La lettera finale del carteggio, datata 6 febbraio 1982, si chiude proprio sui «rinnovati rallegramenti» per l’uscita di quella raccolta. Tempo un anno e Sereni, l’«uomo fratello» (così ‘battezzato’ in una lettera del maggio ’48), muore nella sua casa di Milano. Betocchi gli sopravvive fino al 1986, quasi cinquant’anni dopo la sua presentazione delle prime poesie sereniane nel «Frontespizio».
Niccolò Scaffai, Fra Sereni e Betocchi risalta l'aggettivo umano, il Manifesto, 6 giugno 2019
 

Sabato 5 ottobre, alle ore 17.30, nella Sala Conferenze di Palazzo Verbania di Luino si terra’ la Presentazione del volume “Vittorio Sereni - Carlo Betocchi. Un uomo fratello. Carteggio (1937-1982)” - Mimesis Editore, - a cura di Bianca Bianchi, introduzione di Clelia Martignoni.
Ne parlano Gianmarco Gaspari e Giulia Raboni con Bianca Bianchi e Clelia Martignoni. Documento di una profonda solidarietà umana e intellettuale, il carteggio fra Vittorio Sereni e Carlo Betocchi illumina di nuovi riflessi il dibattito sul fare poesia in Italia negli anni del secondo conflitto mondiale e della ricostruzione.
Lo scambio epistolare inizia alla fine degli anni Trenta, quando Betocchi favorisce l’esordio di Sereni su «Frontespizio», e si sviluppa ininterrottamente fino al tempo della sua piena maturità e della definitiva affermazione, chiudendosi solo in seguito alla prematura scomparsa del poeta luinese avvenuta nel 1983.
Bianca Bianchi, laureatasi all’Università di Milano con Marino Berengo, è stata redattrice dell’Almanacco Luinese “La Rotonda” (1979-1984), diretto da Vittorio Sereni e da Piero Chiara. Ha pubblicato alcuni saggi sul carteggio con Carlo Betocchi (2010, 2012), e ha curato il volume Poeti francesi letti da Vittorio Sereni (2002).
Redazione, Sereni, Betocchi: grande letteratura a confronto, VareseNews, 4 ottobre 2019

Nuovo appuntamento con la cultura presso Palazzo Verbania a Luino, con la presentazione del volume “Vittorio Sereni - Carlo Betocchi. Un uomo fratello. Carteggio (1937-1982)”, in programma per il pomeriggio di oggi, sabato 5 ottobre.
Il libro, edito da Mimesis, verrà presentato da Gianmarco Gaspari e Giulia Raboni, che divideranno il microfono con l’autrice Bianca Bianchi e con Clelia Martignoni che ha curato l’introduzione del progetto.
Il carteggio tra Sereni e il poeta torinese Betocchi è un documento di profonda solidarietà umana e intellettuale. Illumina di nuovi riflessi il dibattito sul fare poesia in Italia negli anni del secondo conflitto mondiale e della ricostruzione.
Lo scambio epistolare, come spiegheranno i relatori, parte dalla fine degli anni Trenta, quando Betocchi favorisce l’esordio di Sereni su “Frontespizio”, e si sviluppa interrottamente fino al tempo della sua piena maturità e della definitiva affermazione, chiudendosi solo in seguito alla prematura scomparsa del poeta luinese, avvenuta nel 1983.
Bianca Bianchi, laureatasi all’università di Milano con Marino Berengo, è stata redattrice dell’almanacco luinese “La Rotonda” (1979-1984), diretto da Vittorio Sereni e da Piero Chiara. Ha pubblicato alcuni saggi sul carteggio con Carlo Betocchi (2010, 2012), e ha curato il volume “Poeti francesi letti da Vittorio Sereni (2002).
Redazione, Luino, i carteggi di Vittorio Sereni e Carlo Betocchi a Palazzo Verbania, Luinotizie, 5 ottobre 2019
 
[...] Il 22 ottobre 1956 Sereni dattiloscrisse a Betocchi una lettera dedicando un disponibile e al contempo cauto pensiero a De Giovanni: "A proposito di De Giovanni debbo dirti che non ho visto il numero di «Letteratura» di cui mi parli. È una rivista ormai quasi fantomatica che non ricevo e che non mi capita mai tra le mani. Si potrebbe avere una copia del numero? Forse però non ti ho spiegato che la mia collezione della Meridiana è finita. C’è in corso un’altra iniziativa in cui ho parte, senza però la responsabilità così precisamente personale che avevo prima. Bisogna almeno vedere come si avvia per prendere in considerazione il nome di De Giovanni. Per questo dovrà passare del tempo, ma se intanto riceverò il numero di «Letteratura» potrò farmene un’idea". <14
[...] Betocchi, non ignaro della situazione né incurante, volle ancora ma delicatamente ricordare a Sereni di prendere in considerazione De Giovanni in apertura di una lettera (conservata, anche questa, a Luino) del 22 dicembre 1956:
"Mio caro Vittorio,
abbi gli auguri di Natale e di capo d’Anno: riprendo una tua lettera d’un mese fa, <22 che non aveva avuto risposta. Ti ringrazio se, col tempo, potrai dare uno sguardo ai versi di quel De Giovanni: se poi non incontreranno il gusto tuo e della tua nuova collezione (il bel “Levania” di Sergio Solmi, da lui ricevuto, ma che - con la tua nota - devo ancora leggere, è forse il primo numero della tua nuova raccolta?) fammelo sapere: proverò altrove, il poeta De Giovanni, autentico stagnino, è così ingenuo e fiducioso nell’aiuto di noi che pensa contiamo qualcosa!
" [...]
14 Si rimanda al carteggio Sereni-Betocchi in corso di stampa.
Alessandro Ferraro, «Almeno il suo giudizio». L’esordio poetico di Luciano De Giovanni nello scambio epistolare con Carlo Betocchi e Vittorio Sereni, «Quaderni del '900», XVIII, 2018

Ecco dunque come Sereni ridimensiona la narratività praticata da uno «scrittore a base autobiografica», quale lui è:
"L’esistenza lascia certi segni - quelle lesioni o ustioni o ferite, quegli attriti e magari anche conflitti d'idee che appartengono al tempo, che passano nell'esistenza di un uomo. Che cosa fa lo scrittore a base autobiografica che una volta che abbia deciso di operare uno scarto rispetto ad essi e al quale non basti il documentarli o il descriverli o - sia pure - il 'cantarli'? Si affida ad una forza inventiva che non può non venirgli se non da una combinazione o connessione di fatti e di dati, dell’intuizione <3 di certi nessi... egli demanda, conferisce mandato a determinate situazioni e scorci di sviluppare la fecondità supposta dei moventi. Impropriamente pensavo dunque a una mia inclinazione essenzialmente narrativa, nonostante un certo apporto che tale può essere considerato, una certa piega frequentemente narrativa. Mi esprime meglio una frase colta a caso in un recente ‘pezzo’ di Betocchi, fondato probabilmente su presupposti affatto diversi: «E così, penso ora alla poesia quasi come a un TEATRO DI PAROLE, dove le parole sono come persona, e e penso con i miei difetti, vizi, infinite mutabilità». Strano, non avevo mai pensato al teatro (ed ero quasi tentato di rubare l’espressione a Betocchi per dare questo titolo al libro: teatro di parole. Continuerebbe a non piacere a Niccolò con la giustificazione che sto fornendo?). Il mio sforzo sempre più evidente è appunto quello del mandato ad altri (situazioni e figure evocate, evocazioni di situazioni e figure) a interposte persone, lo sviluppo dell’emozione di partenza". <4
Non ci sarebbe forse bisogno di sottolineare come la nozione, già caproniana, di «interposta persona», messa criticamente in auge una quindicina d’anni fa da Enrico Testa, <5 aiuti qui a Sereni a tematizzare il tipo di ‘alienazione’ espressiva (il fortiniano mandato) da lui posto in essere. Narrare attraverso contenuti che non appartengono direttamente al soggetto lirico, ma che lo hanno segnato e continuano a condizionarlo, significa rappresentare un accadimento in actu; secondo un’intenzionalità ben diversa da quella che mira a riferire e ordinare eventi ed esistenti in sequenze testuali dotate di una loro diegetica coerenza. (Ma su questa distinzione dovrò peraltro tornare più avanti.)
3  Sic: ma forse andrà letto «dall’intuizione».
4  Vittorio Sereni, cit. nella Nota introduttiva di Giulia Raboni a PP 30-31.
5  Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999.

Paolo Giovannetti, Se, e come racconta la poesia di Vittorio Sereni, Vittorio Sereni, un altro compleanno, a cura di Edoardo Esposito, Ledizioni, 2014

mercoledì 7 luglio 2021

Serra appare sempre sensibile al cromatismo


Una vista notturna di La Spezia - Fonte: Wikipedia

La città natale [La Spezia] assume un valore affettivo molto forte proprio perché finisce per coincidere con la figura materna, e il suo sconvolgimento definisce nel poeta [Ettore Serra] quasi una seconda perdita, come emerge dalle prime strofe de "La casa immaginaria!" (vv. 1-18, p. 49-50), uno degli ultimi testi della sezione <143:
Dopo tanto penare
e girovagare,
ho ritrovato
la mia città:
distrutta.
In quegli spazi
già inclusi nelle nostre care stanze,
respirava mia madre.
(Per l’azzurra
notte superstite,
come ne’ miei capelli
risento le sue
affilate carezze).
Tento ricostruirla, la mia casa,
con una geometria immaginaria:
incroci di righe invisibili,
labile fumo nell’aria,
di cui vanisce ogni traccia.

Questo testo rappresenta un unicum nel panorama della raccolta per il suo stile conciso (da contrapporre allo stile solitamente prolisso di Serra) e apparentemente asettico, dietro al quale, in realtà, si nasconde un forte coinvolgimento emotivo.
Inoltre, la sinteticità e il breve dispiegarsi del verso, dove il posizionamento di ogni singola parola risponde a una precisa strategia sul piano semantico - come accade soprattutto nell’esordio - stabiliscono un legame diretto (e visivo) con la costruzione dei testi ungarettiani de "Il porto sepolto".
La prima strofa si delinea grazie alla giustapposizione di versi brevi che, portatori di un nucleo autonomo di significato, vanno modellando progressivamente il messaggio.
I due versi iniziali sono rispettivamente occupati da due voci verbali all’infinito, che rispondono alla doppia funzione di fornire l’antefatto della narrazione e di presentare il protagonista: entrambe parasintetiche, la prima pone l’accento sullo stato d’animo di ‘pena’ del poeta, motivato poi nel secondo verso dal suo stile di vita da ‘girovago’ - immagine cara al poeta che già nell’esordio di "Esule", «col batticuore ho corso tutto il mondo», affidava la sua identificazione al viaggio <144. Ma al termine di questo viaggio il protagonista ritrova «la sua città: / distrutta», dove la forte pausa impressa dalla punteggiatura e dalla fine del verso crea un effetto di suspence che, oltre a conferire una grande forza espressiva al passo, isola il termine chiave ‘distrutta’ sottolineandone il forte valore connotativo.
[...] Allo spazio chiuso dell’abitazione si contrappone l’aria aperta della notte «azzurra» (Serra appare sempre sensibile al cromatismo), che si innalza sopra alle macerie e rispetto a esse è «superstite»: surrogato del respiro materno, la brezza notturna scompiglia i capelli del poeta con le sue «affilate carezze»; il gesto della ‘carezza’, intimo e delicato, è tratto distintivo della madre e appare ogni volta che il poeta la ricorda, come per esempio in "Sabbia nel porto" «ed era una carezza, / solo intravisto, quel bianco sì terso», (vv. 17-18, p. 39) o in "Verso l’ultimo approdo" «caldi della materna carezza la guancia» (vv. 4-5, p. 71).
[...] Se l’abitazione finisce per coincidere con l’infanzia, la sua distruzione corrisponde all’avvento dell’età adulta, come si legge nell’esordio della quinta strofa «ecco, e dal candido / limitare d’infanzia / qui mi sorprendo / sulle macerie» (vv. 24-27). Mentre il poeta è «quasi vegliardo», l’immagine della madre persiste «giovane ancora, bellissima» (v. 30), cristallizzata come fuori dal tempo; ma «nell’amoroso / sogno» che li lega, anche il poeta rimane «quel bimbo d’allora» (vv. 32-34), dove la venatura sensuale autorizza una sovrapposizione con la figura della moglie.
Questa raffigurazione ambigua, oltre a rintracciarsi in altri testi della raccolta come "Sabbia nel porto" (p. 39), sarà proficua all’interno dell’intera produzione dell’autore che, soprattutto in seguito alla malattia e dipartita della moglie, affiancherà spesso le due figure femminili.
Anche in Caproni si trova una sovrapposizione simile, come si legge, per esempio, ne "L’ascensore" dove mima un fidanzamento con la madre.
L’immagine conclusiva della tomba materna, sulla quale trascorre il vento «solingo», si contrappone alla vacuità e inafferrabilità del ricordo e riporta bruscamente il poeta sul piano del presente. Allo stesso modo anche nel sonetto "D’estate" ("presso una moschea") - analizzato nel capitolo precedente - l’atmosfera languida veniva turbata dall’affiorare lontano di una tomba spazzata dal vento; il camposanto ricorre anche in altri due testi della sezione dedicati alla città natale - "Pianto di madre sul mondo" e "Alla Spezia" - sempre con la funzione di controbilanciare lo slancio del ricordo.
Rispetto a "Pianto di madre sul mondo", datata «La Spezia, Gennaio 1946» e dal taglio fortemente patetico, "Alla Spezia" appare più interessante come testimonianza delle sfumature stilistiche rintracciabili all’interno della raccolta.
L’ode per la città ligure, scritta a Marsiglia nel 1948, è composta da una strofa unica di sessantotto versi dal metro vario (in prevalenza settari ed endecasillabi) e viene pubblicata per la prima volta tra le pagine de "La casa in mare"; attraverso la dedica intrecciata, «A Manara Valgimigli / in memoria di Severino Ferrari / della Spezia amatissimo», Serra intende nobilitare la sua città e allo stesso tempo giustificare il suo intento di lode. Infatti, come precisa nelle "Note" poste in chiusura del volume, entrambi gli intellettuali furono profondi estimatori della città ligure: il grecista Manara Valgimigli fu insegnante alla Spezia tra il 1903 e il 1905 nel medesimo liceo dove, alcuni anni prima, fu impiegato anche il poeta Severino Ferrari, il quale dedicò alla Spezia una corona di sei sonetti (Serra ne riporta il primo, "Fonte") <145.
143 Tra le Note conclusive della raccolta (p. 90), Serra puntualizza che la prima pubblicazione de "La casa immaginaria" avvenne, «con qualche mutazione», tra le pagine della «Fiera Letteraria» nel 1951.
144 Nella scelta della voce verbale «penare» si può rintracciare una ripresa della presentazione che a sua volta fa di sé l’autore del "Porto sepolto" nella lirica "Pellegrinaggio": «Ungaretti / uomo di pena», vv. 11-12, p. 46. L’edizione di riferimento per l’opera di Ungaretti è "Vita d’un uomo" (1969), cit.; per eventuali altri richiami ci si limiterà a riportare solo il riferimento alla pagina.
145 E. Serra, "Note" a "La casa in mare" (1959), cit., pp. 91-92.

Simona Borghetti, “Un amore a lungo termine”: Ettore Serra poeta tra i poeti, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa, Anno accademico 2012/13

 

lunedì 5 luglio 2021

L’uomo è un fenomeno tra i fenomeni, non è più signore assoluto

Francesco Biamonti

Matteo Grassano
Il territorio dell’esistenza. Francesco Biamonti (1928-2001)
Milano
Franco Angeli
2019
ISBN 978-88-917-8042-3

Chi ama i romanzi di Francesco Biamonti non potrà che compiacersi dello scrupoloso lavoro di Matteo Grassano, che ha prodotto questa corposa monografia dedicata a uno degli autori più convincenti dei nostri tempi, letterato di grande finezza, artista di forte efficacia. Subito celebrato dalla critica come scrittore di razza, Biamonti non è forse ancora abbastanza conosciuto dal più vasto pubblico dei lettori colti.
Per chi ama testi letterari di valore, l'autore ligure risulta una scoperta stimolante, per la filigrana esistenziale di cui sono permeate le sue opere, la raffinata asciuttezza del suo dettato al tempo stesso rigoroso e lirico, l’approccio personale ed efficacemente artistico della sua strategia narrativa. E poi la rarefazione delle trame, la pudica continenza (che talvolta rasenta la reticenza) con cui il narratore tratteggia i personaggi, che accrescono nel lettore interesse e curiosità per una prosa autentica, vocata, lontana da pose e mode, dotata di una propria cifra stilistica inconfondibile.
Spontaneo, quindi, il desiderio di comprendere di più questo autore dalla marcata personalità artistica.
Proprio qui interviene la paziente ricerca di Matteo Grassano in Il territorio dell’esistenza. Francesco Biamonti (1928-2001), pubblicata da Franco Angeli nella collana «Letteratura italiana. Saggi e strumenti», diretta da Gian Mario Anselmi, Pasquale Guaragnella e Francesco Spera.
Collana che vuole, fra l’altro, «indicare nuovi percorsi e suggerire nuove letture alternative, ravvivando la circolazione delle idee e riconfermando l’alto valore della nostra civiltà letteraria».
Il volume ha la prefazione di Vittorio Coletti, e non per caso, visto che Grassano raccoglie in pieno l’invito dello studioso a «una rilettura più critica e meditata del nostro autore» che miri a «una ricostruzione dei suoi percorsi umani e intellettuali» (Vittorio Coletti, Introduzione a Francesco Biamonti. Le parole il silenzio, Genova, Il nuovo melangolo, 2005, p. 9) inaugurando anzi «una terza età delle critica biamontiana: dopo quella della recensione militante e dell’interpretazione critica, quella della sistemazione complessiva» (p. 10).
Le quattrocento pagine del volume (di cui una trentina di bibliografia) concretizzano una ricerca meticolosa e appassionata, con lo scopo, si avverte, di essere prima di tutto utile, grazie a un approccio rispettoso che non interpone lo studioso tra scrittore e lettore ma vuole, al contrario, fornire strumenti per meglio comprendere e apprezzare i libri di un autore amato; e il saggio di Matteo Grassano tanto è ricco di informazioni, tutte documentate, quanto scritto in un linguaggio non specialistico ma chiaro, accessibile anche a chi fa altro mestiere da quello dello studioso o del critico.
Un elemento, che emerge con chiarezza dalla ricerca di Grassano e che aiuta a capire la genesi dei romanzi di Biamonti, è che per l’autore di San Biagio della Cima l’invenzione artistica parte dal dato reale; l’autore filtra sulla pagina scritta - in chiave narrativa, ovviamente - elementi del proprio vissuto, la conoscenza di ambienti, persone, fatti. I luoghi conosciuti - dunque - diventano lo scenario dell’universo narrativo in cui Biamonti ripropone suggestioni e veri e propri “quadri”, forte della sensibilità e vocazione pittorica che caratterizzavano il suo sguardo sulle cose e sul mondo, alla ricerca della luce e del tratto distintivo, identitario, che quei luoghi possiedono e comunicano: «La Liguria del qui e dell’ora è la frontiera in continuo movimento lungo cui si muove l’uomo e lo scrittore Francesco Biamonti per rappresentare il mondo circostante» (p. 31).
Lo studioso, con un paziente lavoro di verifica incrociata tra biografia, testimonianze, letture e scrittura, accerta infatti che i luoghi della narrativa biamontiana rimandano a contrade familiari o amate dall’autore, così come alcune figure e svariati fatti che compaiono nei suoi romanzi: quella, ricorrente, del pittore, costruita sulla frequentazione dell’amico Morlotti (p. 75); e così Sabel che fa la «stagione in Provenza nei campi di lavanda o nei vigneti» richiama l’esperienza dell’emigrazione (pp. 78-79) documentando il rapporto storico della comunità contadina del Ponente ligure con la Francia; e poi ancora le balie, le nounous di Vento Largo (p. 79); la fuga stessa di Sabel a Saint-Honorat, dove «Biamonti era stato ospite dei monaci» (p. 71); il celebre incontro con il pastore sul passo dell’Annunciata, luogo che «era davvero un punto di svernamento per i pastori delle Alpi Marittime» e dove ancora oggi si trovano i cortì, ovili in pietra (pp. 34 e 95); o l’esperienza di passeur che rimanda al ricordo di un fatto realmente vissuto da Biamonti quando aveva una decina di anni (p. 113), solo per fare alcuni esempi.
Grassano con esplorazione tenace e paziente ripercorre a ritroso i sentieri della composizione biamontiana rintracciando riferimenti filosofici, letterari, storici, linguistici, usi e vicende della tradizione locale e persino familiare dell’autore ligure. E così si precisa meglio la «mistura di vero e immaginario, di concreto e di mentale che costituisce il paesaggio di Biamonti» (Coletti, Francesco Biamonti, cit. p. 13) e più in generale la sua narrativa.
Passo passo Grassano ricostruisce, dunque, la fitta trama di dati reali che stanno dietro la trasfigurazione artistica, svela che l’ispirazione (com’è prevedibile) non è frutto di astrazione ma ha radici nel vissuto, nell’esperienza, nelle conoscenze, nei viaggi dell’autore ligure.
Le ricerche di alcuni studiosi - avverte -  «confermano quanto Biamonti evoca narrativamente» (p. 79). È forse anche questa concretezza, questa densità di reale trasfigurato che sta dietro e dentro la pagina di Biamonti - viene da domandarsi - che dà, tra le altre cose, credibilità e vita alla sua narrativa.
Nei personaggi poi (marinai che vorrebbero tornare a fare i contadini, contadini che sognano di navigare), Grassano intravede una irrequietezza feconda fra «estraneità e malinconia» (p. 197), l’impossibilità di trovare una vera composizione tra curiosità del mondo, fuga verso un altrove da un lato e incrollabile radicamento alla propria terra dall’altro (p. 353); il dilemma, la tensione dei personaggi non si può comporre e lo spaesamento che ne deriva è, prima che individuale, storico.
Non c’è per Francesco Biamonti un buen retiro. Non lo sono le terrazze di ulivi e mimose marginalizzate da una società e una economia mutata; non lo è la fuga verso un altrove (il mare, simbolicamente) che pare tuttalpiù solitaria concentrazione in sé stessi, fino allo smarrimento (p. 354). I suoi protagonisti sono viandanti dell’esistenza, comunicano solitudini, testimoniano esistenze irrisolte (p. 145). E questo viaggio del vivere, condotto con la consapevolezza che non esiste porto sicuro, relazione sentimentale appagante (la donna «concilia l’uomo con la materialità della vita e con l’eternità della morte», p. 224) né requie è, in fondo, la normale, autentica condizione dell’essere umano: «È indubbio che, secondo Biamonti, lo statuto esistenziale dell’uomo sia sostanzialmente interrogativo» (p. 146). Ma la forza, la suggestione che è in grado di esercitare la sua prosa è frutto anche dell’accettazione, mai rassegnata, di questo dato di fatto, piuttosto che del compendiarsi dell’esperienza umana in quei quattro elementi - roccia, vento, mare, luce - che sono quasi metaforico “acronimo” della «vera e propria tetralogia elementare della materia e dell’immaginazione» (p. 362) compiuta dall’autore ligure nei suoi quattro, bellissimi romanzi: Angelo di Avrigue (roccia), Vento largo (vento), Attesa sul mare (acqua), Le parole la notte (luce) (p. 361).
Il lavoro di Grassano aiuta poi a comprendere con maggiore consapevolezza la peculiare esperienza estetica che origina dalla lettura delle opere di Biamonti, attraverso un percorso che conduce a esplorare la geografia reale, narrativa, interiore dell’autore di San Biagio, i luoghi della sua poetica, la «civiltà dell’ulivo» della Liguria contadina fatta di fatica e miseria, il mito consolatorio della Francia e quello antico, ancestrale della Provenza, e poi - insieme - il legame con quella attualità dolorosa di esuli e terre abbandonate o brutalizzate da un’economia senz’anima nell’inarrestabile precipizio della storia.
Acuta e utile, a tale proposito, la notazione di Grassano sul lirismo «fenomenologico-esistenziale» della prosa biamontiana (che si legge quasi fosse poesia) forse il più seducente e efficace strumento a cui lo scrittore affida una pur labile possibilità di resilienza: «[…] più il mondo si fa disumano e la realtà più crudele, più i segni di morte pervadono le coscienze, tanto più la risposta dev’essere lirica per salvare ciò che ancora c’è di umano nel nostro tempo», annota Grassano citando lo stesso Biamonti» (p. 340).
Ma la ricerca di Matteo Grassano è anche uno scavo delle radici del letterato ligure, condotto attraverso l’esplorazione della biblioteca personale dello scrittore a San Biagio della Cima, partendo dalle notizie che si possono trarre da interviste e interventi nei più diversi contesti in cui l’autore ligure ragionava apertamente, dialogando forse anche un po’ tra sé (come i suoi personaggi) sulla propria poetica, sulla lingua come strumento artistico-letterario e sull’arte letteraria come occasione esistenziale e strumento profondamente espressivo, da maneggiare con rigore, audacia e rispetto.
E così Il territorio dell’esistenza diventa lo stimolo a compiere nuove letture per conoscere di più la stessa opera di Biamonti, attraverso i testi e gli autori che furono per lui fondamentali: da L’essere e il nulla di Sartre a La terre et les rêveries du repos di Gaston Bachelard a Camus, Malraux, Valéry, Montale, solo per citarne alcuni, così da rileggere poi i romanzi dell’autore ligure con accresciuto interesse.
Infine, tra i pregi del saggio di Matteo Grassano, l’indicazione delle zone che richiedono ancora di essere illuminate dagli studiosi di Biamonti, prima fra tutte la formazione e le letture filosofiche (p. 149), e - prezioso contributo - l’articolata bibliografia che, con osservazioni puntuali utilmente distribuite di nota in nota, si compone nel corso della lettura del volume quasi in una bibliografia
ragionata.
Massimiliano Francia, Matteo Grassano, Il territorio dell’esistenza. Francesco Biamonti (1928-2001), Oblio, Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca, Anno X, numero 40, Inverno 2020

Il mondo letterario di Francesco Biamonti, la sua personale “terra di mezzo” a metà strada tra realtà e immaginazione <1, è un paesaggio di frontiera.
Nella straordinaria luce del trasognato ma vivido Ponente ligure biamontiano riverbera misteriosa l’entità confine <2. Presi tra l’azzurro cangiante del Mediterraneo e la verticale trascendenza delle Alpi Marittime, tra vertiginosi dirupi e terrazze ulivate, ne possiamo percepire la singolare presenza. Diffusa e viscosa, si appiccica a tutte le cose. Contamina il territorio, lo segna inesorabilmente. Nel presente saggio cercheremo di mostrare come la lirica prosa dello scrittore di San Biagio della Cima sia incentrata sul paesaggio di frontiera della Val Roja e della Val Nervia, dove la Liguria italiana sfuma nella Provenza francese. Forza allora, incamminiamoci “nel paesaggio aspro e scosceso dell’entroterra […], nell’estremo suo lembo di Ponente, al confine con la Francia” <3.
Paesaggio di frontiera
Prima di procedere, una considerazione preliminare, di metodo. In questo lavoro il paesaggio non è da intendersi come il convenzionale sfondo su cui si stagliano le gesta dei protagonisti umani delle vicende narrate. Nella nostra prospettiva il paesaggio è l’espressione estetica di un territorio vivo, cioè la manifestazione sensibile di un’associazione eterogenea di entità biologiche ed inorganiche che disegnano il profilo di una vera e propria società non antropocentrica. Non fondale inerte dunque, ma campo di forze ed energie. Greppi ruderi torrenti, rocce sentieri cespi, crinali terrazze e persino le stelle sono tutti elementi che, insieme agli uomini, compongono con intraprendenza la trama del tessuto geosociale <4 del territorio. Talora complici, talvolta nemici degli sconfinamenti clandestini della frontiera, le entità non umane che popolano il Ponente ligure biamontiano possono opporre resistenza, oppure cospirare con gli uomini.
Ne Le parole e la notte, ad esempio, “i picchi facevano da sentinelle lunari” <5 a un transito segreto. Vi è tutta un’arcana politica segreta di alleanze ed opposizioni, una diplomazia non verbale oltre l’umano. Gli sventurati trovatisi a tentare la sorte sui lameggiati crinali del confine franco-italiano sanno bene quanto gli elementi del territorio possano rivelarsi decisivi per il buono o il cattivo esito dell’attraversamento.
In Vento largo, quando il passeur Varì conduce Dragomir e Danila oltrefrontiera, appare evidente come le entità non umane non stanno sullo sfondo della narrazione, ma reclamino un ruolo da protagoniste. Citiamo il passaggio.
La Cimòn Aurive emergeva scogliosa in faccia alla luna. […]
Camminavano adesso verso il costone che allacciava il crinale d’Aùrno
alla Cimòn Aurive <6. Gli ulivi s’alternavano al bosco; l’aria portava un soffio
autunnale, di foglie secche: veniva dalle querce. […]
Il sentiero andava in cima a terrazze senz’alberi […]
Entrarono in un uliveto, l’ultimo di pace precaria, già assediato dai
rovi. […]
Passate le pietre di un vallone, solo rocce e stelle; poi, la parete vetrificata
incisa dal sentiero.
- Non parlate, - Varì disse col fiato, - la voce da qui non trova ostacoli,
se ne va sino al confine. Venite piano piano.
Si vedeva il mare laggiù in fondo, un mare che turbava: un dirupo più
lucente degli altri, che saldava i promontori. Poi salirono per un canalone
di polvere e conchiglie corrose, dove il piede affondava e dal crinale apparve
un altro mare, più vasto e che sembrava respirare. […]
Sostarono in attesa che la luna passasse a rischiarare l’altro versante, col
buio forato dalle luci di Castellar e di Sospel. […]
Li guardò scendere contro il mare, tra la risacca attutita dalle rupi. Tornò
indietro col cane che cominciava a riannusare i cespugli.
Ci si vedeva meno che all’andata - la luna rasentava il mare e illuminava
solo qualche scheggia di terra alta, da cui scendevano i riverberi
<7.
Ecco come gli elementi del paesaggio sembrano dotati di vita propria, palpitano. Non di rado, forse per farne risaltare in modo più esplicito la vitalità, sono addirittura antropomorfizzati. In Biamonti sentiamo vibrare distintamente “l’intelaiatura stessa del paesaggio, l’intelaiatura morfologica” <8.
Le entità non umane, al pari degli esseri umani, compartecipano alla creazione e allo sviluppo di concatenamenti di senso e d’azione. Potremmo spingerci sino ad affermare che l’ontologia sottesa all’universo narrativo di Biamonti sia “piatta” <9, non antropocentrica. Del resto, a detta dello stesso autore, “l’uomo è un fenomeno tra i fenomeni, non è più signore assoluto” <10. Lo scrittore aveva dichiarato esplicitamente di sperare che nei suoi romanzi “le cose prendessero rilievo in sé: sì, come fenomeno a sé” <11.
[...]
1 Cfr. M. Quaini, Nel segno del paesaggio: Biamonti, la Liguria, il Mediterraneo, in “Resine: Quaderni Liguri di Cultura”, 141-142, Anno XXXV, 3°-4° trimestre 2014, pp. 135-136.
2 In questo saggio scegliamo di utilizzare i termini ‘confine’ e ‘frontiera’ come sinonimi. Per una discussione sul possibile diverso significato dei due termini rimandiamo a M. Graziano, Frontiere, Bologna, il Mulino, 2017.
3 Queste parole sono di Italo Calvino, tratte dalla quarta di copertina dell’edizione Einaudi de L’angelo di Avrigue. Cfr. F. Biamonti, L’Angelo di Avrigue (1983), Torino, Einaudi, 1995.
4 Cfr. N. Clark, K. Yusoff, Geosocial Formations and the Anthropocene, in “Theory, Culture & Society”, 34 (2-3), 2017, pp. 3-23.
5 Cfr. F. Biamonti, Le parole e la notte (1998), Torino, Einaudi, 2014, p. 84.
6 A nostro avviso questa cima rappresenta l’analogo letterario del Monte Grammondo, vetta delle Marittime che con i suoi 1378 metri domina il crinale di confine.
7 Cfr. F. Biamonti, Vento largo (1991), Torino, Einaudi, 1994, pp. 6-9.
8 Cfr. F. Biamonti, Scritti e parlati, Torino, Einaudi, 2008, p. 105.
9 Con la definizione di “ontologia piatta” facciamo riferimento al modello teorico dell’“attore-rete” (Actor-Network-Theory) nell’ambito della ricerca sociale, di cui il collasso della divisione moderna natura/cultura e il riconoscimento di entità non umane come attori (o attanti) qualora queste producano effetti su altri attori. Cfr. B. Latour, Reassembling the Social: An Introduction to Actor-Network Theory, Oxford, Oxford University Press, 2005.
10 Cfr. F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., p. 228.
11 Ibidem.

Ivan Bonnin, Biamonti e il Ponente ligure: un paesaggio di frontiera, Paideutika, L'educazione tra norma e trasgressione, Nuova Serie, Numero 29, Anno XV, 2019


giovedì 1 luglio 2021

Quel ricciolo bianco dell'onda

Joffre Truzzi - Fonte

La casa di Joffre Truzzi é vicina al mare; da questo la divide la massicciata su cui corrono i binari della ferrovia; il mare qui non si vede dai piani bassi, lo si intuisce soltanto; quando é agitato si sente l’odore di salsedine. E’ un dolce settembre e il frastuono dell’estate si é appena spento lasciando ampi spazi ai rumori più famigliari, alle voci che giungono, nitide e solitarie, insieme allo scandire dei passi sui marciapiedi. Sono sceso dall’Aurelia per la piccola strada condominiale; la porta del piano rialzato, dove abita il pittore si é aperta prima che suonassi e subito é apparsa sorridente una bella signora bruna, che mi si presenta come nuora di Joffre. Mi ha indicato in fondo alla stanza la figura di un vecchio che si stava alzando dalla poltrona. La ricordavo quella testa bianca piena di riccioli e dallo sguardo fiero, un po’ inquieto, che si accende e si spegne, mi era noto, anche se non familiare. Non mi é parso molto cambiato dall’ultima volta che lo incontrai - nel gennaio scorso - quando andai ad invitarlo alla presentazione del carteggio Betocchi/Pazielli, nel quale figurava anche lui. Lo stesso portamento eretto, negli occhi la stessa fierezza, anche se oggi mi é sembrato intravedervi una più spiccata inclinazione alla dolcezza. « Io vengo senz’altro » disse quella volta, ringraziandomi, « se qualcuno mi accompagna » e dopo un momento d’esitazione, « e se no, vengo da solo!» accennando al suo bastone nero lì vicino. E da solo venne, infatti, presentandosi all’ingresso della Chiesa Anglicana un bel po’ prima dell’inizio; guardò bene tutt’intorno, mi salutò, parlò con due o tre persone e poi se ne andò. Anche ora ho di fronte un uomo schivo da ogni cerimoniale, attento solo all’essenziale, contrario al superfluo, ribelle di fronte ai convenzionalismi e ad ogni forma d’ipocrisia. Egli vede il bene, e lo apprezza, quando é scevro da ogni orpello, e soprattutto, quando può essere coniugato con l’arte e con la cultura autentiche. Quasi ad avvallare questo aspetto del suo carattere, mi dichiara con una certa fierezza che le sue origini canadesi non sono influenti; e che, invece contano assai di più quelle familiari che sono lombarde, o meglio ancora di confine, perché del mantovano, proprio a cavallo fra Emilia e Lombardia.
Intanto l’onda lenta del mare si ripropone nei momenti di maggiore quiete, come una carezza, nel volgere di uno sguardo; e ripenso allora a quell’onda ben più vigorosa e veloce, ricca di bianca schiuma che la corrente, delle nostre mareggiate di ponente, scaraventa fino ai muraglioni della passeggiata e oltre. Rivedo la bianca distesa di schiuma correre, ormai placata, verso terra e poi improvvisamente, incontrando un ostacolo, impennarsi con una forza inaspettata verso il cielo e rifrangersi quindi in mille rivoli bianchi ricchi di veemente allegria. Ecco, dico fra me, ecco: quel ricciolo impetuoso e arrabbiato potrebbe essere Truzzi, e tutti quegli schizzi bianchi successivi, la sua allegria e la sua raggiunta dolcezza. Così mi piace vederlo, affrontare la risacca della vita, e destreggiarsi in essa.
Ci spostiamo nello studio del pittore e qui, sulla soglia, sono investito da un’onda di luce calda senza che nessuna lampada fosse stata accesa. Le tele sono appoggiate per terra contro le pareti, alcune, appese lungo le stesse; Joffre non indugia a commentare i suoi lavori; ascolta e guarda con me. Alle sue spalle, come arrampicato su una scala di metallo, sento, e poi vedo, lo sguardo ammiccante di un suo bel autoritratto. Mentre usciamo dalla stanza gli chiedo di Bordighera, dei suoi amici, dei suoi  « colleghi» pittori, degli artisti in genere; di Bordighera degli anni prestigiosi (1950-1970), dei Premi 5 Bettole e degli avvenimenti importanti; non spende molte parole in proposito; ma ricorda volentieri alcuni nomi che gli sono cari, come Giuseppe Balbo, prezioso animatore di tante iniziative, e, altri, per il loro rilievo nel campo della cultura e dell’arte: Carlo Betocchi, di cui rievoca la grande ospitalità offertagli nella sua casa fiorentina di Borgo Pinti, nel 1957, Giacomo Ferdinando Natta, arguto e colto conversatore; Sbarbaro, Biamonti, Carlo Bo, Giancarlo Vigorelli, Lorenza Trucchi, Italo Calvino, tutti gravitanti qui e poi, quasi per un segreto appuntamento, tutti da Maria Pia Pazielli alla sua Piccola Libreria. Gli occhi, ad un certo punto, si intristiscono, un altro nome gli affiora sulle labbra: Luciano De Giovanni, il poeta sanremese scomparso da pochi anni cui lo legava una profonda amicizia. Riesco a stento a leggere alcune parole di una poesia che De Giovanni gli ha dedicato; uno dei suoi sonettini del 1986: «… e il cielo che vortica lento/ le sue nuvole e il suo azzurro / e  la barriera dei monti e gli ondulati dorsali/ e le segrete fonti».  Degli amici d’oggi Truzzi ricorda in particolare Enzo Maiolino, Sergio Gagliolo, Sergio Biancheri; nomi legati all’arte e alla vita, alla comune visione naturale di questa aspra e semplice terra di ponente. Ricorda Morlotti e ancora Biamonti, e la gita che fece con lui e Maiolino nei luoghi di Cézanne. Si illumina infine parlando di Piana, e batte la mano sul tavolo in segno di grande stizza e ribellione quando denuncia il persistente oblio che circonda questo pittore di grande valore e straordinaria modernità. Il commiato si avvicina e Joffre appoggia la sua mano sul mio braccio, mi fissa negli occhi e mi dice risoluto: «ricordati che chi non é sincero nella vita, non lo é neppure nell’arte», una bella verità pronunciata da un uomo «vero».
Starei ancora a lungo, accarezzando il silenzio come si accarezzano le nuvole che incorniciano i nostri tramonti nei loro inesorabili mutamenti. Un’ultima occhiata al tavolo di Truzzi: una fotocopia un poco gualcita ricorda una mostra del pittore alla Biblioteca di Ospedaletti nel 1996; una foto ricordo degli anni ’60 con Morlotti e Biamonti, un breve scritto di quest’ultimo, intenso e ricco di significato umano per Truzzi, «… un uomo sempre disponibile al lavoro, alla vita, sempre pronto a partire, verso una tomba, un rudere, un fiore. Poteva anche essere insopportabile, litigioso, in superficie, ma a Morlotti e a me, strappava sempre il sorriso, perché ne conoscevamo la malinconia fondamentale».
Luigi Betocchi, Quel ricciolo bianco dell'onda, Sito dedicato alla figura di Joffre Truzzi, settembre 2005

Da sinistra: Giuseppe Balbo, Giuseppe Piana e Joffre Truzzi - Fonte

Joffre Truzzi, Pescatori, 1955 (olio su tavoletta) - Fonte

[...] Presentiamo qui alcuni tra i primi allievi che hanno raggiunto maturità artistica e riconoscimenti sia in territorio nazionale che all’estero. Tra questi il pittore e grafico Enzo Maiolino e lo scomparso Joffre Truzzi. Dopo Balbo la scuola è stata seguita dal pittore Lilio Domenico Pagnini, suo allievo fin dal dopoguerra e insegnante e presidente per numerosi anni. Sergio Biancheri “Ciacio”, eletto successivamente e presidente per otto anni e Sergio Gagliolo [...].
Redazione, Un po’ di storia, Accademia Riviera dei Fiori "Giuseppe Balbo", 2011

Joffre Truzzi, Paesaggio - Fonte

Nel corso del decennio l’iniziativa, cui succedette, dopo l’edizione ibrida del 1962, il “Premio Bordighera” nel 1963 e 1964, ebbe un successo sempre crescente. Guido Seborga e Renzo Laurano, infaticabili promotori di queste manifestazioni, coinvolsero, tra gli altri, Italo Calvino e il critico Giancarlo Vigorelli. Vale la pena di notare che Biamonti, negli anni successivi, scrisse come critico d’arte su quasi tutti i pittori vincitori del premio: Enzo Maiolino, Joffré Truzzi, Mario Raimondo, Sergio Gagliolo.
[...]
1.5. SCRITTI DI CRITICA D’ARTE
[...]
1977
(1977a) = [Presentazione], in J. Truzzi, Teatro Comunale, Ventimiglia, 15-28 gennaio 1977 [dépliant della mostra].
[...]
1996
(1996a) = [Presentazione], in Joffré Truzzi. I pittori del Ponente 5, Biblioteca Civica, Ospedaletti, 5-25 aprile 1996 [dépliant della mostra]; poi, parte dello scritto (righe 25-33), in Joffré Truzzi, presentazione della mostra personale al Palazzo del Parco, Bordighera, 28 novembre-5 dicembre 2002 [dépliant della mostra]; poi, con il titolo Truzzi, i paesaggi sospesi nel vuoto, in SP (213).
Matteo Grassano, Il territorio dell’esistenza. Francesco Biamonti (1928-2001), Tesi di dottorato, Université Nice Sophia Antipolis, Università degli Studi di Pavia, 29 gennaio 2018 

Joffre Truzzi, Val Nervia, 1988 - Fonte

Ma il cielo e la luce della città delle palme incantano anche Ennio Morlotti, alla ricerca di una “nuova avventura” pittorica. Boschetti di ulivi e di limoni, rocce, cactus, lingue di spiaggia bagnate dal mare: è questo il paesaggio ligure che Francesco Biamonti e Sergio Biancheri, conosciuti nel 1959, mostrano al pittore lombardo durante i numerosi viaggi in automobile. Le campagne di Borghetto San Nicolò e Vallebona, la Val Nervia, gli scogli di Marina San Giuseppe, il pianoro di Punta Migliarese, Perinaldo e, ovviamente, San Biagio della Cima diventano mete da visitare ogni estate, alla scoperta della luce e dei grumi di colore di cézanniana memoria che tanto affascinano sia Morlotti sia Biamonti (si ricordi la loro visita, in compagnia di Maiolino e Truzzi, allo studio di Cézanne a Aix-en-Provence nel 1963).
Mara Pardini, La cultura nel ponente ligure ai tempi di Francesco Biamonti: un accenno, Terra ligure

[...] Il padre Satiro, lavorava alla costruzione della ferrovia Trans-Canada, che doveva unire la Costa Atlantica con il Pacifico, con temperature proibitive e condizioni di lavoro disumane; alla fine il povero Satiro non ce la fece, e dopo dieci anni dovette rientrare nella nativa Mantova, terra dei Gonzaga, dove fiorivano le arti e l'artigianato.
La madre Stella, donna indomita e coraggiosa, accudiva Joffre, i suoi fratelli e la casa di tronchi d’abete, e, per "fare la spesa", usciva a cavallo nei boschi con la doppietta e a volte tornava con un bottino di selvaggina o solo bacche del bosco.
Ancora adolescente, Joffre tornò nella terra dei suoi avi durante un viaggio periglioso, dove rischiarono di affondare e di contrarre qualche brutta malattia contagiosa, stipati com'erano nella stiva di un'ansimante piroscafo.
Nei ricordi di Joffre questo periodo della prima infanzia è vago, ma sempre presente, come visioni, fra sogno e realtà. E sono convinto che ha creato i prodromi di quest’inusuale artista e personaggio eccezionale, temprato dai grandi freddi, con la visione di grandi spazi e di aurore boreali,che a novant'anni dipingeva ancora attivamente.
Nelle mattine soleggiate lo trovavi al suo bar preferito dei Piani di Borghetto, a gustarsi uno "spruzzato" e a scambiare sagaci commenti sul via-vai del marciapiede, ma soprattutto, ti sorprendeva con la sua memoria e la profonda cultura, assimilata in viaggi e letture, con una sempre viva curiosità.
Scontroso e irascibile superficialmente, nascondeva un animo gentile e mite, timido, che proteggeva con questa "corazza" burbera e accigliata.
Spirito di contraddizione e in contraddizione con il mondo e con se stesso, anche con i suoi affetti e amici più cari, si realizza e trova sfogo e pace nei suoi dipinti. Che a veder bene, è una una vera stranezza, che non abbiano avuto il successo e i riconoscimenti che meritano.
Ci sono le ragioni di questo "tesoro" nascosto: sicuramente il carattere scontroso e introverso non ha favorito il necessario supporto di critici e galleristi, oltre alla scelta di vita e di lavoro nella dolce e pigra Riviera di Ponente, senza mai spingersi, non dico all'estero, ma nemmeno a Milano, a cercare e sviluppare contatti e amicizie.
Sono riuscito a portarlo a Parigi e Londra, solo dopo gli ottant'anni, dove ha visitato i grandi musei e ha avuto anche un grande successo con un'esposizione a Oxford.
Lo stesso Morlotti, che frequentava e lo stimava molto, era in continuo movimento pur passando molto tempo in Riviera ed aveva solidi rapporti con importanti galleristi che lo aiutarono ad affermarsi, anche con accordi commerciali, che il nostro Truzzi disdegnava.
Quando qualche critico o gallerista "scopriva" Truzzi, il rapporto quasi inevitabilmente si deteriorava e infine si interrompeva, grazie alle intransigenti posizioni del nostro integerrimo e scontroso Maestro!
Se non sei un buon diplomatico non vuol dire che non puoi essere un buon artista, anzi! Forse non avrai mercato e fama, ma le opere rimangono e testimoniano una produzione artistica di alto livello.
Truzzi ha visitato musei, esposizioni, chiese, paesi e, soprattutto, ha incontrato molta gente comune “la più vera”, con cui amava dialogare con vivace spontaneità e ha sempre letto molto.
Se Truzzi non ha accettato compromessi per affermare la sua arte, si é impegnato a soddisfare la sua cultura e curiosità e per guardarsi nello specchio ogni mattina serenamente.
La sua pittura è stata sicuramente ispirata dai grandi impressionisti, soprattutto Cezanne, di cui ha visitato lo studio a Aix-en-Provence con Morlotti e Francesco Biamonti, e da De Stael, di cui amava molto i cieli, ma anche dall'amico Morlotti.
In Truzzi si è sviluppato misteriosamente un fenomeno di osmosi, tra le atmosfere mediterranee del nostro entroterra, cosi amate e descritte da Biamonti, con i suoi paesaggi ventosi, e un post'impressionismo materico magistrale, che solo sfiora l'informale, vedi le bagnanti e i nudi, che sono un'amalgama poetico di carne, di terra, di acqua e di vegetazione, un'atmosfera e un pathos legato all'ultimo Cezanne, e oltre, proprio per quel suo sfiorare, accarezzare quasi l’informale, ma senza mai cedere alle sue facili lusinghe.
Come gli impasti materici, ma tenui, delicati, dei fiori di Truzzi, le "sue" rose canine che andava a cercare tra i muretti a secco, sopra Sasso e Seborga, o i limoni lucidi di humus, di una materia così viva e "profumata" lavorata con perizia tra spatole e ruvidi pennelli.
Truzzi ama dipingere su superfici dure, solide, dove sente il bisogno di "affondare" il suo segno con il pennello o la spatola, ma anche con la viva mano, l'indice che penetra nella materia ancora duttile e la segna in profondità: così Truzzi si lega alla sua opera, in un’indelebile simbiosi.
Quasi alla fine della sua lunga vita, Truzzi riscopre l’Eros e dipinge una serie di grandi bagnanti, Angeli-Maddalene di un sogno erotico, di carni impastate col fango, la vita, l’eros, e la morte... sul solco tracciato da Renoir, e prima ancora da Tiziano e Rubens,soggetto al quale si dedicò anche Morlotti, nelle ultime sue opere.
Ho avuto la fortuna di frequentare Truzzi per molti anni, da quando scorazzava altero sul suo Galletto-Guzzi. Abbiamo visitato Roma in lungo e in largo, dove amava passeggiare in via Giulia, perché gli ricordava un racconto di Caldarelli; a Firenze, dove riconosceva a prima vista gli affreschi delle Chiese, con nomi e date; a Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, per una grande mostra, la prima postuma, di Morlotti e a Venezia, dove amava rivedere più volte la "Resurrezione" del Tiziano, con quella luce verdastra, dipinta a novant'anni [...]
Daniel Audetto, Joffre Truzzi, Sito dedicato alla figura di Joffre Truzzi, luglio 2013

giovedì 24 giugno 2021

Lei, mio caro De Giovanni, mi scriva tutte le volte che ne ha voglia


La presente “notarella”, <1 mentre esibisce le incoraggianti impressioni di lettura che due grandi poeti del secolo scorso, Carlo Betocchi e Vittorio Sereni, affidarono a lettere scambiate fra loro su un giovane esordiente del ponente ligure o a lui, Luciano De Giovanni, indirizzate, si propone, tramite il recupero di documenti poco noti (alcuni inediti) e la ricostruzione di un piccolo episodio della società letteraria anni Cinquanta, d’illuminare la figura in ombra e l’opera in versi dello schivo “stagnino” sanremese che preferì starsene in disparte, pubblicando di rado e per raffinati editori in genere di provincia, affannandosi ancor meno per primeggiare o comunque presentarsi senza che terzi insistessero. A svantaggio di una poesia valida, già di per sé «prudentissima, e dosatissima, “a frazioni di pollice”, timorosa d’una lacrima troppo compiaciuta (troppo gonfia e cantata) come d’un possibile seme di inondazione ed allagamento», a voler citare un altro grande, Giorgio Caproni, che recensì Viaggio che non finisce. <2
Con la prima raccolta del 1957 De Giovanni avviò un percorso che riprese ben un trentennio dopo con la seconda raccolta, dal sintomatico titolo Cautamente presente, <3 e che raggiunse la “cima” solo nel 1993 con l’antologia Tentativo di cantare una nuvola, <4 uscita quando il poeta idraulico aveva superato i settantuno anni dei settantanove che l’incontrovertibile conteggio della vita gli concesse.
[...] Fra le cartelle della corrispondenza è conservata una singola lettera di Sereni a De Giovanni: un foglio bianco, oramai ingiallito, di formato A4 e senza intestazioni, riempito sul recto e per metà sul verso da una scrittura in penna stilografica che sigla il testo con la firma estesa del mittente e le coordinate «Milano, 10 marzo ’57 / via Mauro Macchi 35».
[...] Nell’estate del 1956 De Giovanni e Betocchi scrissero a Sereni, amico del secondo, in quanto poeta ammirato e, dal 1955, responsabile di un’altra esperienza editoriale milanese, quei «Quaderni di Poesia» delle Edizioni della Meridiana in cui uscirono opere di Giovanni Arpino, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Umberto Bellintani, Bartolo Cattafi, Lalla Romano e Luciano Erba. Sereni ricevette, infatti, una cartolina fotografica (ora conservata a Luino fra la sua corrispondenza) con il seguente stringato messaggio: «Al caro caro poeta di Frontiera e di Diario D’Algeria, in visita al poeta Luciano de Giovanni (vedi «Letteratura» n. 21-22), di cui ti ho parlato per la possibilità di un volumetto nella tua bella collana». Spedita all’«Illustre» Vittorio Sereni da Borello, la cartolina è datata «19 Ag. 1956» e presenta un panorama della stessa località dell’entroterra sanremese dove De Giovanni ebbe modo di accogliere, in quella «straordinaria domenica» <6 estiva, Betocchi e non solo: attorno alle firme del principale invitato e mittente (con «un abbraccio») e del proprietario di casa («con ossequi»), si riconoscono anche i nomi di Mima e Silvia, moglie e figlia di Betocchi, e di Maria Pia Pazielli, la proprietaria della Piccola Libreria di Bordighera che, amica di entrambi i poeti (fu proprio lei a farli incontrare all’inizio del 1956), <7 era fra i protagonisti della cultura del ponente ligure in una particolarmente vivace - e probabilmente irripetibile - stagione. <8
Il numero di «Letteratura» (maggio-agosto 1956), a cui si fa riferimento nella cartolina, ospita quattordici poesie di De Giovanni presentate da Betocchi, <9 assiduo frequentatore di Bordighera (dove morì). <10
L’autore di Realtà vince il sogno tornava spesso nella cittadella di mare per trascorrere lunghi soggiorni, per ritrovare l’intimità degli affetti (lì viveva il fratello Giuseppe) e concedersi, magari, nuove conoscenze e scoperte poetiche: letti, grazie a Pazielli, alcuni testi di De Giovanni decise d’impegnarsi per farlo emergere, forzandone la tenace introversione. <11
A partire dalla pubblicazione sulla rivista romana diretta da Alessandro Bonsanti (venuta dopo, per la verità, l’esordio vero e proprio su «Il Ponte» diretto da Pietro Calamandrei): <12 «Se non era per l’affettuosa violenza che altri gli ha fatto», scrisse Betocchi su «Letteratura», «De Giovanni non mi avrebbe forse mai fatto leggere le sue poesie; timido com’è, occorre strappargliele di mano. Ho qui, ora, il nitidissimo dattiloscritto, che spero troverà il suo editore. In provincia, certi incontri casuali, in occasioni che sono anch’essi casuali: siamo così sbadati, così poco accessibili a quanto, genuinamente, ci viene offerto».
Un editore avrebbe potuto essere, appunto, Sereni al quale, forse di persona o forse per lettera, Betocchi aveva già accennato di De Giovanni prima della cartolina dell’estate 1956 («di cui ti ho parlato per la possibilità di un volumetto nella tua bella collana»).
[...]
Già il giorno successivo Betocchi, da Firenze, avvertì De Giovanni:
"Caro De Giovanni,
ho qui una lettera di Sereni, al quale mandammo una cartolina da Borello (che lui mi ricorda) e al quale avevo parlato del suo libro. Sereni non dirige più la Meridiana, che è finita, ma avrà a che fare presto con un’altra collana. E a ogni modo avrebbe piacere di vedere intanto i suoi versi stampati su «Letteratura» che, come si sa, non è spedita in omaggio, ma è diffusa in gran parte tra gli istituti di cultura attraverso la Pubblica Istruzione. Se lei ha una copia, fra quelle <20, ancora disponibile per Sereni, La prego di spedirgliela al suo indirizzo, con a parte una sua lettera di spiegazione richiamandosi a questa mia cartolina. […] Come stanno i suoi? Come lei? Come Maria Pia? Cordiali saluti dal suo Carlo Betocchi
. " <15
De Giovanni seguì le istruzioni di Betocchi - la lettera di spiegazioni non si trova - e gli rispose due giorni dopo con riconoscenza: «La ringrazio di questo Suo continuo interessarsi di me, anche quando è tanto occupato. Ho subito scritto al Prof. Sereni al quale ho pure inviato una copia di “Letteratura”. Speriamo che le poesie gli piacciano, in ogni caso devo a Lei la possibilità di un nuovo importante contatto». <16
Intanto Betocchi aveva invitato De Giovanni a farsi avanti anche con altri poeti, soprattutto liguri, i più “vicini”, come Camillo Sbarbaro <17 e Angelo Barile.
«Conobbi Angelo Barile nel 1956, quando egli aveva già sessantotto anni ed io esattamente la metà», ricordò De Giovanni: «Betocchi, che stava per pubblicare alcune mie poesie sulla rivista “Letteratura” di Roma, mi aveva convinto a scrivergli e a “mandargli qualcosa”. […] Con affettuosa insistenza, mi spronava a uscire dal mio isolamento. Io, a quei tempi, facevo l’artigiano e il mio mestiere mi pareva così lontano dal mondo letterario da sentire quasi un senso di colpa ogni volta che prendevo la penna in mano». <18
Anche Barile, che divenne poi amico di De Giovanni, si convinse prontamente del valore della sua poesia e dell’opportunità di entrare in contatto con Sereni e chiedergli consiglio: «Lei ha fatto molto bene a mandare a Vittorio Sereni le Sue poesie», scrisse Barile a De Giovanni il 20 dicembre 1956, «Sereni è un poeta sensibile e attento (ho letto proprio in questi giorni un interessante suo saggio su Solmi); e vorrà sicuramente risponderLe. Mi dirà poi il giudizio e il consiglio che Le avrà dato». <19
Sereni era anche un direttore editoriale affaccendatissimo, come si è detto e come andava confidando ad alcuni corrispondenti; se aveva definito, in una lettera del 19 gennaio 1957 ad Attilio Bertolucci, quello che stava attraversando «il peggior periodo pirelliano (peggio, molto peggio di qualunque anno militare)», <20 nella già citata lettera a Parronchi, anticipandogli i progetti con Mantovani, chiosò: «parlane il meno possibile in giro. Altrimenti chi mi salva più dalle richieste, segnalazioni eccetera? Perdo già troppo tempo in corrispondenza, figurati se poi ci si mettono quelli che vogliono giudizi e poi li sollecitano». <21
[...]
Il giorno di Santo Stefano Betocchi, paziente intermediario, spedì all’idraulico di provincia e poeta in cui credeva una lettera che concluse con una rassicurazione: «E Lei, mio caro De Giovanni, mi scriva tutte le volte che ne ha voglia: qualche volta, se non risponderò, lei mi perdonerà: ma penserà che le sue parole saranno lo stesso nel mio cuore, e vi lavoreranno. E stia di buon animo (Sereni mi ha chiesto un po’ di tempo ancora per leggere i suoi versi) e mi voglia bene». <23
Sereni sul serio aveva bisogno di tempo, si pensi che era proprio la collaborazione con Raimondo Mantovani a poter costituire «una molto chimerica via d’uscita dalla sempre più ingarbugliata situazione pratica» in cui si era infilato:
«Possibile», chiese a se stesso il 12 gennaio 1957 e a Parronchi, «che non si possa trovare un lavoro che mi dia da vivere e sia al tempo stesso più adatto a me? pare che non sia possibile». <24
A quasi sei mesi di distanza dalla cartolina di Borello spedita con Betocchi, De Giovanni ricevette la risposta tanto attesa, contenuta nella lettera di Sereni del 10 marzo 1957 conservata a Genova nell’archivio d’autore in costituzione e qui di seguito trascritta integralmente:
"Caro amico,
mi sono fatto vergognosamente aspettare e me ne scuso. Betocchi forse potrà spiegarle bene - o almeno rendere credibili - le ragioni del mio ritardo.
Ho letto più volte le sue poesie su «Letteratura» e la ringrazio di avermele fatte conoscere.
Non ho alcun dubbio circa la sua “necessità” di scrivere versi e sono convinto che non è tempo sprecato. È poesia che non si apprezza al primo colpo, e con la quale bisogna vivere un po’ perché ne sia intesa la forza di fondo, la bella coerenza - sottile e salda insieme.
La collezione di cui saltuariamente mi occupo va alquanto a rilento e alterna titoli tradotti ad altri originali. Questo è un anno sperimentale e oggi non sono in grado di offrirle un qualunque affidamento per il futuro. È così dubbia la fortuna… commerciale di un libro di versi che ho il dovere di andare coi piedi di piombo con l’Amico editore, persona carissima ma non animata (giustamente, del resto) da spiriti mecenatizi.
Stiamo a vedere e, la prego, non si ritenga in alcun modo impegnato con me. Sta di fatto che vedrò in seguito altre cose sue volentieri.
Ancora mi scusi e creda alla simpatia e all’augurio di
Vittorio Sereni
"
[...] il 27 [scrisse Betocchi]:
"Caro De Giovanni,
la sua precedente lettera è del 16 marzo […]. Il mio tavolo è ingombro di posta arretrata, fra cui tengono il campo una ventina di fascicoli di poeti che vogliono saper qualcosa dei fatti loro. Non ce la faccio più, e pretendo di rispondere a tutti. Lei vede la calligrafia, angariata dalla fretta, ma la fretta è nemica del bene. E lei sa se io, invece, ho stima, e quale stima! della vita contemplativa.
Iddio non ce l’ha voluta concedere. Siamo stati dietro alle passioni, e ne paghiamo lo scotto.
Cerchiamo almeno di pagarlo onoratamente. Mi scusi lo sproloquio, ed entriamo in argomento.
[…] Sono contento che anche le altre sue cose vadano meglio; e contento della risposta di Sereni, ma non tanto di queste difficoltà a stampare. Ho due tre poeti come Lei che restano così, e ne provo un dolore!
" <28
«Dopo diverse esplorazioni non riuscite», <29 Betocchi riuscì a trovare la persona giusta per l’esordio poetico di De Giovanni: Bino Rebellato. Un «editore coraggioso sino all’assurdo, al quale piaceva rischiare sui nomi nuovi più che speculare sui già affermati», annotò Caproni, il 7 febbraio 1960, nel proprio Taccuino dello svagato; un editore di provincia che riuscì, «con squisita arte militare, a far di Cittadella (la città più murata d’Italia) la città più aperta alle aspirazioni, e diciamo pure agli assalti e alle invasioni, di centinaia di giovani, cui egli era sempre pronto a offrire un consiglio schietto, se non addirittura il suo aiuto, e il suo nome». <30
Già in una lettera del 16 aprile 1957 <31 Betocchi pianificò con De Giovanni come procedere con Rebellato che, alla fine di quell’anno, pubblicò Viaggio che non finisce (di cui la Piccola Libreria di Maria Pia Pazielli divenne la principale distributrice, come si legge nella fitta corrispondenza con l’editore veneto conservata nell’archivio personale del poeta ligure).
Mentre il libro era in corso di stampa, Betocchi s’occupò anche della sua capillare e mirata diffusione, elencando, in una lettera-schedario del 28 novembre 1957, più di sessanta personalità a cui De Giovanni avrebbe dovuto spedire la raccolta («Indico accanto se sono / poeti, con una P / critici, con una C / scrittori, con una S / Se è opportuno scrivere “illustre” sulla busta aggiungo una I») [...]

1 Ringrazio, per la generosa disponibilità, Silvia Sereni, Giorgio e Anna Maria De Giovanni, figli dei poeti di cui sono qui citati brani epistolari anche inediti; inoltre Maria Novaro e Maria Comerci della Fondazione Mario Novaro di Genova, per la continua fiducia e la complicità, e Simona Corbellini e Tiziana Zanetti dell’Archivio Vittorio Sereni di Luino, per l’aiuto appassionato (ancor di più in un periodo d’accesso sospeso per gli studiosi a causa delle operazioni d’inventariazione e di condizionatura dei documenti); e “infine” Franco Contorbia e Andrea Aveto. Sono venuto a conoscenza, in chiusura della presente “notarella”, che è in corso di stampa presso Mimesis il carteggio tra Sereni e Betocchi : ringrazio la curatrice Bianca Bianchi per aver accettato e animato un veloce ma proficuo scambio di informazioni, e rimando al volume (il sesto della collana « Testi italiani commentati » della casa editrice milanese) per le trascrizioni complete di due lettere di Sereni a Betocchi qui citate (22 ottobre e 18 novembre 1956).
2 Luciano De Giovanni, Viaggio che non finisce, Padova, Rebellato, 1957. La recensione di Giorgio Caproni a Viaggio che non finisce uscì su «La Fiera Letteraria» del 9 marzo 1958 (p. 3); altre sue righe su De Giovanni si rintracciano, invece, sulla terza pagina del «Corriere Mercantile» del 29 settembre 1959 (nell’articolo-rassegna De Micheli, De Bono, Ghiglione, Del Colle, De Orchi, Milani, Bonino).
3 Luciano De Giovanni, Cautamente presente, Bordighera, Managò, 1987. Nel 1991, per lo stesso editore, uscì Il bosco; queste due raccolte di versi e la precedente Viaggio che non finisce sono state ripubblicate in un cofanetto
quadruplo contente anche Caro Domenico… Conversazioni di Luciano De Giovanni con Domenico Astengo
(Ventimiglia, Philobiblon, 2001).
4 Luciano De Giovanni, Tentativo di cantare una nuvola. Poesie scelte 1948-1990, con uno scritto di Carlo Betocchi, una postfazione di Stefano Verdino e i disegni di Enzo Maiolino, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1993.
6 «Non dimentico i bei giorni in cui ho potuto starle un po’ vicino, la straordinaria domenica a Borello»: così la lettera del 4 ottobre 1956 di Luciano De Giovanni a Carlo Betocchi edita in Il muro che ci separa. Carteggio di poeti liguri, a cura di Paola Mallone, Genova, De Ferrari, 2000, p. 56.
7 Per approfondire il primo incontro e il duraturo rapporto fra i due poeti si vedano un paio di scritti di De Giovanni: Carlo Betocchi: un amico di Bordighera, «Provincia d’Imperia», xi, 54, settembre-ottobre 1992, pp. 12-13 («Io, un clandestino delle lettere a tutti gli effetti, non fosse stato per l’affettuosa opera di convincimento della Pazielli, non mi sarei mai azzardato di avvicinare un “poeta ufficiale”»); e Carlo Betocchi: fede nella carità (con una lettera inedita di Carlo Betocchi), «Il Lettore di Provincia», xxiv, 85, dicembre 1992, pp. 19-22 ; ma si sfoglino anche testimonianze occasionali come quelle contenute nelle conversazioni di De Giovanni con Astengo (Caro Domenico…, cit., in particolare pp. 20-21). Per approfondire, invece, il rapporto dei due poeti con la “libraia” si vedano Il sorriso di Maria Pia. Ricordo di Maria Pia Pazielli di Luciano De Giovanni («Provincia d’Imperia », ix, 42, settembre-ottobre 1990, pp. 23-24) e l’epistolario Betocchi-Pazielli Io son come l’erba (a cura di Paola Mallone, con uno scritto di Luigi Betocchi, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2004).
8 A proposito dell’ultimo trasloco della Piccola Libreria (e dell’irripetibile stagione) si legga la Lettera da dovunque pubblicata il 7 settembre 1958 da Carlo Betocchi su «La Fiera Letteraria » (xiii, 35-36, pp. 1-2).
9 Nel fascicolo di «Letteratura» in questione (iv, 21-22, maggio-agosto 1956) la nota di Betocchi e i versi di De Giovanni si trovano alle pagine 108-114, fra le poesie e le presentazioni di Stefano D’Arrigo a cura di Giorgio Caproni (pp. 100-107) e di Alessandro Peregalli a cura di Sergio Solmi (pp. 115-119). Il testo di Betocchi è stato inserito in apertura dell’antologia di De Giovanni Tentativo di cantare una nuvola, cit., pp. 7-10.
10 Per approfondire il rapporto del poeta con Bordighera e con la Liguria, oltre ai saggi a lui dedicati e ampiamente noti, si vedano la raccolta delle sue Prose liguri (a cura di Paola Mallone, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2003) e Carlo Betocchi a Bordighera e dintorni (a cura di Luigi Betocchi, con una lettera di Mario Luzi, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1996), che raccoglie sostanzialmente note e commenti alla mostra documentaristica Carlo Betocchi: un amico di Bordighera, tenutasi nella cittadella ligure dal 25 maggio al 15 giugno 1996.
11 «[Betocchi] era, si può dire, il mio contrario», ebbe a ricordare De Giovanni, «effervescente, ottimista, aperto, disponibile. Il suo aspetto era quello di un uomo ancora giovanile, un po’ affaticato, forse, come chi ha dovuto affrontare molte battaglie e altre se ne aspetta, ma senza perdersi di coraggio. Capì subito ciò di cui avevo bisogno e mi prese, in maniera discreta, sotto la sua protezione, affascinandomi col suo fare deciso e la parlata fiorita del toscano» (Caro Domenico…, cit., p. 20).
12 De Giovanni aveva, infatti, già pubblicato alcuni versi su altre riviste: una dozzina di Liriche su «Il Ponte» di Firenze, prima sette (vii, 2, febbraio 1951, pp. 173-174) e poi cinque (vii, 7, luglio 1951, pp. 762-763), grazie
all’interessamento di Giovanni Ermiglia, professore di filosofia di Sanremo; una poesia (proprio quella che contiene il verso che diede il titolo a Viaggio che non finisce), con una foto del poeta e una nota a cura di Francesca Sanvitale, apparve sempre a Firenze ma sul «Giornale del Mattino» del 21 giugno 1956.
15 Il muro che ci separa, cit., p. 57.
16 Ivi, p. 58.
17 Si veda Luciano De Giovanni, Il mio incontro con Camillo Sbarbaro « Il Lettore di Provincia », xxi, 74, gennaio-aprile 1989, pp. 3-7 e, per un ulteriore approfondimento, Alessandro Ferraro, «Aprii, cauto, la porta». L’incontro di Luciano De Giovanni con Camillo Sbarbaro, « La Riviera Ligure », xxviii, 84, settembre-dicembre 2017, pp. 59-71.
18 Luciano De Giovanni, La poesia di Angelo Barile attraverso le sue lettere, «Bollettino della Comunità di Villaregia», i, 1, 1990, pp. 64-72 (65). 19 Il muro che ci separa, cit., p. 133.
20 Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, a cura di Gabriella Palli Baroni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1994, p. 213. Il dubbio che si tratti di una lettera del 19 gennaio 1957 e non 1956, come indicato nel carteggio - è quasi prassi, nei primi giorni di gennaio, confondersi e indicare il nuovo anno con il vecchio -, sorge per la collocazione nel carteggio della lettera fra quella del settembre 1956 e quella del 21 febbraio 1958 e per il riferimento nel testo all’imminente uscita (avvenuta nel 1957) delle Poesie scelte di Goethe tradotte da Giorgio Orelli per la «Collezione di Poesia».
21 Un tacito mistero, cit., p. 279.
22 Betocchi fece riferimento a una lettera del 18 novembre di Sereni, in cui si legge: «Ho ricevuto i versi di De Giovanni. Spero che non avrà fretta e che potrò trovare il tempo di leggerli nel modo giusto e di scrivergli»; si rimanda al carteggio Sereni-Betocchi in corso di stampa (cfr. nota 1).
23 Il muro che ci separa, cit., p. 60.
24 Un tacito mistero, cit., p. 287.
29 Sono parole di De Giovanni che, in una conversazione con Astengo, raccontò l’incontro con Betocchi e i suoi tentativi di trovare un editore per Viaggio che non finisce (cfr. Caro Domenico…, cit., p. 20).
30 Giorgio Caproni, Visita a Cittadella [rubrica Taccuino dello svagato], « La Fiera letteraria », xv, 6, 7 febbraio 1960, p. 3; ora in Id., Taccuino dello svagato, a cura di Alessandro Ferraro, Firenze, Passigli, 2018, pp. 186-189.
31 Il muro che ci separa, cit., p. 73. 32 Il muro che ci separa, cit., pp. 86-87.

Alessandro Ferraro, «Almeno il suo giudizio». L’esordio poetico di Luciano De Giovanni nello scambio epistolare con Carlo Betocchi e Vittorio Sereni, «Quaderni del '900», XVIII, 2018
 
 
[1049] Viaggio che non finisce, «La Fiera Letteraria», 9 marzo 1958, p. 3 [Recensione a Luciano De Giovanni, Viaggio che non finisce, Padova, Rebellato, 1957]
(a cura di) Michela Baldini, Giorgio Caproni. Bibliografia delle opere e della critica (1933-2020), con la collaborazione di Chiara Favati, MODERNA/COMPARATA 36, FIRENZE UNIVERSITY PRESS, 2021