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venerdì 1 luglio 2022

Le autorità italiane disposero l'arresto di Pignatelli per sottoporlo ad interrogatorio


[...] Nell'ottobre 1943 Borghese aveva già a disposizione 1000 uomini i quali vennero divisi in tre reggimenti di fanteria marina: il San Marco, destinato al fronte, il San Giorgio (costituito da anziani e mutilati) per la difesa costiera e un battaglione di Nuotatori Paracadutisti (N.P.) denominato ''Folgore''<64. Nonostante l'attivismo del Comandante e i suoi buoni rapporti con i tedeschi, che gli costeranno anche contrasti con gli altri gerarchi della RSI e addirittura alcuni giorni di carcere, solo il Battaglione Barbarigo, e al costo di dure perdite, riuscì ad ottenere l'autorizzazione a combattere sul fronte nel corso della battaglia di Anzio <65. Gli uomini della Decima furono impiegati principalmente in azioni contro i partigiani mettendosi in luce non solo per la particolare violenza ma anche per i numerosi abusi compiuti nei confronti della popolazione civile <66. Coloro i quali, pertanto desiderassero partecipare ad azioni dirette nei confronti degli Alleati avevano una sola opportunità: essere impiegati dai servizi segreti tedeschi con compiti informativi e di sabotaggio oltre le linee nemiche.
I futuri agenti venivano avvicinati da reclutatori (sia tedeschi che italiani) per azioni dirette esclusivamente dall'Abwehr o dal SD oppure venivano scelti dalle organizzazioni della RSI in azioni concordate con i tedeschi <67. Ad esempio possiamo citare il tentativo del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio della RSI, Francesco Barracu, di organizzare un gruppo di persone di fiducia, capitanate da padre Luciano Usai, con lo scopo di costituire una rete informativa politico-militare e di propaganda in Sardegna, sua regione di origine <68. Il gruppo venne addestrato e in seguito paracadutato nell'isola dall'Abwehr ma anche questa iniziativa tuttavia fallì poiché il gruppo venne arrestato dalle autorità alleate <69.
Ma quali erano le modalità di azione degli agenti inviati dai servizi tedeschi? Innanzitutto si deve distinguere da agenti sabotatori, ''lasciati indietro'' in seguito alla ritirata dell'esercito, muniti di esplosivi per specifiche missioni e in contatto diretto o attraverso intermediari con agenti muniti di radio-trasmittente, dagli agenti di spionaggio, solitamente inviati in missione attraverso le linee con il compito di osservare posizioni e numero di truppe, mezzi e sedi nemiche <70. Una terza categoria è invece l'agente doppiogiochista, il cui rendimento, secondo una relazione del controspionaggio del SIM era «difficilmente accertabile» <71. È probabile però che chi si presentava ai comandi alleati «di sua volontà, raccontando i particolari più minuti della sua missione [potesse] essere in azione di doppio gioco, specie per attività di carattere politico che fermentano e si irradiano in specie dai campi di concentramento ove di solito l'agente viene per principio avviato» <72. L'attività di CS era dunque indispensabile per contrastare le azioni nemiche. Essa, secondo il SIM, era dotata di "due armi: l'indagine e l'interrogatorio: quest'ultimo è la base e l'arma più decisiva; occorre imporre la propria supremazia morale e di capacità all'interrogando e non dimenticare di essere abbastanza curiosi e precisi secondo una logica corroborata dal sapere e dalla volontà. Gli schemi per gli interrogatori sono noti: essi sono dovuti al fatto che un interrogatorio deve fornire gli elementi più numerosi che sia possibile per le operazioni repressive successive e gli interrogatori conseguenti. L'interrogatorio vale per quello che apporta all’attività controinformativa non per quello che interessa direttamente l'agente inquisito, ormai individuato. Nei riguardi dell'agente inquisito l'interrogatorio è un dovere per la giustizia; nei riguardi di ulteriori azioni controinformative è sopratutto una necessita procedurale che comporta - in caso di trascuratezza - responsabilità di ordine morale e professionale. Sino ad ora in questo servizio l'informatore più sicuro è l'agente stesso con il vantaggio che - grazie alla capacità ed all'abilità di chi lo esamina - l'informazione ottenuta è controllata e indiscutibile" <73.
Analizzare un interrogatorio di un agente nemico è pertanto un utile strumento per comprendere sia le modalità di reclutamento, di addestramento ma anche per capire la personalità, le motivazioni e i desideri di coloro i quali decidevano di arruolarsi nei servizi di intelligence tedeschi, oltre che ovviamente per cercare di capire come operavano e cosa erano interessati a conoscere i servizi alleati (e italiani).
Un esempio utile può essere l'interrogatorio di Giorgio Pisanò, arruolatosi nel 1943 come paracadutista nella Decima Mas e nel dopoguerra giornalista, saggista, parlamentare e importante esponente del Movimento Sociale Italiano. Un caso non unico tra gli appartenenti al partito ad aver svolto attività di intelligence. L'agente che lo interrogò nel 1945 lo descrisse come «fervent fascist but claims for him Fascism represents Italy. He is intelligent, courageous and very observant. He is anxious to serve his country. Says he would prefer to be tried by Allies, even if it means going before a firing squad» <74. Come molti altri «ardenti fascisti» come lui, si era arruolato nella Decima Mas «partly because he wanted to do something spectacular for his country, and partly because 10th MAS was entirely Italian, and not under the away of the Germans» <75. Sono proprio i tedeschi però, nel giugno del 1944, ad offrire a Pisanò e al suo battaglione di paracadutisti la possibilità di essere addestrati per «lavori speciali» per i quali erano necessari «uomini di coraggio» <76. Al corso di spionaggio, tenuto da istruttori dell'Abwehr, Pisanò e i suoi compagni vennero istruiti nel riconoscimento di aerei, navi, carri armati, armi, uniformi, nel distinguere i distintivi delle unità e delle formazioni, nella lettura delle mappe e nello studio delle fotografie. Completato il corso di durata mensile, a Pisanò venne assegnata una missione in Puglia con il compito di «tenere gli occhi aperti» e notare i distintivi di truppe, veicoli e segnare la loro appartenenza alle truppe britanniche, americane, canadesi o indiane. Gli vennero fornite ventimila lire ed un fazzoletto necessario per il suo riconoscimento nel momento in cui sarebbe tornato presso i comandi tedeschi. In caso di fermo o cattura avrebbe dovuto raccontare di aver lavorato per l'organizzazione Todt ed essere scappato per cercare di raggiungere i familiari nel Sud Italia <77. La sua missione tuttavia fallì miseramente dato che, giunto nei pressi di un comando alleato in Toscana per ottenere i permessi necessari per raggiungere la Puglia, il suo nome e quello del suo compagno di viaggio risultarono essere presenti nelle liste degli agenti nemici <78. Secondo il sergente statunitense responsabile del suo interrogatorio, Pisanò, quando era stato interrogato dal SIM, si era rifiutato di ammettere di essere un agente, riferendo inoltre una storia differente a quella raccontata in precedenza. Negava inoltre di aver partecipato ad altre missioni anche se i compagni di cella riferivano che egli si fosse vantato di averne portato a termine due <79.
3. Sicilia e Sardegna: tra organizzazioni fasciste e rivolte anti-alleate
Fu nel corso del 1944 che i gruppi fascisti presenti nel Sud Italia cercarono di passare dallo spontaneismo all'organizzazione vera e propria, anche grazie ai collegamenti e i contatti che potevano crearsi tramite gli agenti inviati dai servizi di intelligence tedeschi.
Ancora una volta le isole furono capofila del movimento. Nel corso dei primi mesi del 1944, presso Sassari, le forze di sicurezza alleate e italiane arrestarono alcuni militari e civili di sentimenti fascisti che tentavano di raggiungere il continente <80. Un caso analogo a quello descritto in precedenza vista la loro appartenenza al Comitato regionale fascista. La loro attività si era però evoluta anche grazie al giornale propagandistico stampato in proprio e intitolato «La voce dei giovani» <81. Nella copia requisita dalle autorità leggiamo che il gruppo non era «legato ad alcun partito» e che il loro unico obiettivo era quello di perseguire il «bene della patria» <82. Non rivendicavano la propria appartenenza al fascismo ma il loro giornale clandestino attaccava direttamente gli Alleati, il governo di Badoglio e i partiti che facevano parte del Comitato di Liberazione Nazionale <83. Gli arrestati erano stati inoltre trovati in possesso di un memoriale sulla situazione della Sardegna post-armistizio, una lettera destinata al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio della RSI, Francesco Barracu, e un cifrario <84.
Il tentativo organizzato in seguito dallo stesso Barracu di inviare il gruppo di Usai sull'isola potrebbe far supporre che il gruppo, nonostante la cattura degli aderenti, fosse riuscito ad avere un contatto con la terraferma o almeno a far conoscere la loro esistenza ai vertici della RSI. Gli interrogatori ai membri del gruppo Usai condotti dal SIM non ci danno tuttavia alcuna conferma in tal senso <85.
In Sicilia, e in particolare a Catania, gli ex fascisti si erano riuniti in un partito, il Movimento Unitario Italiano (MUI) il cui nome tentava di mascherare le vere finalità del gruppo.
Esso si presentava come contraltare al Movimento per l'Indipendenza Siciliana (MIS) di Andrea Finocchiaro Aprile e alle diverse tendenze separatiste presenti nell'isola come anche si evince dal manifesto che invitava all'adesione al partito:
"Cittadini, mentre la Patria geme così prostrata e sanguinante che soltanto l'amore operoso e concorde di tutti gl'Italiani può mendicarne le piaghe e risollevarne le sorti, taluni, affamati dal tornaconto, vorrebbero accrescerne le sventure reclamandone la mutilazione. […] È infatti, illusione calcolare che l'indipendenza (?) della Sicilia vi arresterebbe o frenerebbe il progresso della giustizia sociale, preservando intatta ogni smodata illecita ricchezza. Ci siamo perciò radunati e Vi chiamiamo a raccolta per impedire di essere fuorviati dal corso della Storia ed esposti a maggiori calamità. L'unità d'Italia deve essere difesa ad ogni costo. Il Paese ha bisogno non di scissioni fratricide ma di raccogliersi in pacifico e fecondo lavoro per risorgere nel clima dell'ordinata libertà e della sana democrazia per ricostruirsi nello spirito di una concreta attuazione dei diritti del lavoro. La nostra stessa libertà, la possibilità di un giusto ordine sociale sono indissolubilmente collegate all'unità. Il separatismo è un pericolo" <86.
La realtà era invece diversa: secondo la Prefettura di Catania l'obiettivo del gruppo era quello di riorganizzare il partito fascista «sotto forma repubblicana». Esso infatti svolgeva «intesa propaganda fra gli ex fascisti e studenti […] riuscendo ad ottenere l'adesione di varie migliaia di persone e l'iscrizione all'organizzazione di circa 3000 individui compresa la sezione femminile» <87. Non solo, secondo il SIM, svolgevano anche attività di «penetrazione negli altri partiti per portarvi la disgregazione» <88. Non stupisce dunque che due membri del partito vennero arrestati dagli Alleati mentre tentavano di varcare le linee per cercare un contatto con le autorità nazifasciste <89.
La presenza di gruppi fascisti in Sicilia è d'altronde, come abbiamo visto, favorita dalla difficile situazione in cui si trovava l'isola, divenuta terreno fertile per la propaganda fascista, sia proveniente da elementi interni che dalla Repubblica di Salò. Il SIM si dimostrava preoccupato per il malcontento crescente provocato dalla presenza delle forze armate alleate nell'Italia meridionale, dal costo della vita elevato, dalla mancanza di cibo e dal mercato nero, che veniva sfruttato dai fascisti «per la loro propaganda», la quale faceva breccia specialmente tra i giovani <90.
Propaganda che non si limitava ad essere ''endogena'', manifestandosi tramite volantini e giornali propagandistici scritti a mano o stampati clandestinamente e scritte murali inneggianti al Duce e contro gli Alleati e il governo Badoglio, ma anche tramite volantini aviolanciati dagli aerei tedeschi nel Sud Italia e tramite le trasmissioni di Radio Tevere. Si trattava di una radio della Repubblica Sociale che aveva iniziato le sue trasmissioni nel giugno 1944 e che aveva assunto quel nome per dare l'impressione di trasmettere clandestinamente dalla Capitale, nonostante la presenza degli Alleati, ma che in realtà aveva sede a Milano. In particolare le trasmissioni repubblichine ponevano l'attenzione e ingigantivano la portata della attività di sabotaggio e di proteste contro gli Alleati che avevano luogo nel Sud Italia, fedeli alle parole pronunciate da Mussolini nel discorso al teatro Lirico di Milano il 16 dicembre 1944: «Quando noi, come soldati della Repubblica, riprenderemo contatto con gli Italiani di oltre Appennino, avremo la grata sorpresa di trovare più fascismo di quanto ne avevamo lasciato» <91. Si mettevano in risalto ad esempio le azioni del mitico ''o' scugnizzo'', sorta di Robin Hood fascista che metteva in difficoltà gli Alleati e la cui identità non dovrebbe probabilmente riferirsi ad un'unica persona ma ai diversi gruppi e singoli, in particolare giovani e giovanissimi, che si attivarono per sabotare l'avanzata degli angloamericani <92.
Furono proprio i giovani ad essere protagonisti della più seria rivolta avvenuta nel territorio italiano controllato dagli Alleati nel corso del secondo conflitto mondiale, e viste le premesse, non poteva che essere la Sicilia il suo luogo di origine. La classica goccia che fece traboccare il vaso fu la pubblicazione del provvedimento di chiamata alle armi per le classi dal 1914 al 1924 e che scatenò le proteste e i moti del ''non si parte'' <93. Un documento redatto dal Commissario della Commissione Alleata di Controllo in Sicilia, H. Carr, ci aiuta a capire l'evolversi della situazione nel dicembre 1944: "Widespread demonstrations and disturbances have occurred throughout the island during the period from approximately 10 DEC[ember] to date [20 Dicembre]. So far demonstrations with or without damage and conflict have been reported at approximately 55 places. Damage to public buildings at CATANIA was serious. […] Casualities so far have not been serious and to date might be estimated as 4 dead and 31 injured, mainly civilians. […] The demonstrations have been directed mainly against the present call-up of military classes. In a few cases the question of grain and bread may have been the sole or partial cause, and I feel that the difficult economic conditions are an underliyng contributary cause to all these disorders. In my opinion the primary reason for the resistance to the call-up is that the Sicilian does not want to fight. Secondary reasons are that the terms of the Armistice have not been made known, that the Sicilian does not want to fight to free the Mainland of the Germans, he does not relish leaving his family on a small allowance when food is scarce and prices prohibitive, he does not wish to fight for the existing Italian Government and so forth" <94.
Per il Commissario la rivolta non aveva dunque motivazioni politiche, nemmeno di tipo separatista anche se non escludeva la presenza di esponenti del MIS tra i fomentatori delle proteste. Allegava alla relazione però un interessante volantino propagandistico che era stato distribuito in città e provincia:
"GIOVANI SICILIANI!
Ancora una volta dopo lunghi anni di guerra, di sciagure e di miseria, si chiede, contro la volontà di un popolo, di spargere il nostro sangue. Come ieri il vile monarca ci impose di morire per la conquista di altri Imperi, oggi con la stessa viltà, ci impone di conservargli col nostro sacrificio quella corona che non ha il diritto di tenere, per il suo alto tradimento al popolo tutto. A noi giovani si uniscano le nostre madri ed i nostri padri. Il popolo tutto formi un blocco compatto per difendere questa gioventù vanamente destinata al macello. Noi non impugneremo le armi.
GIOVANI DI SICILIA,
siate tutti solidali nell'esprimere la vostra volontà non presentandovi. Pace Pane e Lavoro: Ecco quello vogliamo!"
Il contenuto del volantino si presenta dunque come fortemente antimonarchico e proponeva inoltre la tesi fascista del tradimento di Vittorio Emanuele. Questo spinge dunque ad indagare più approfonditamente sulla natura della rivolta, che sicuramente nacque come moto di protesta contro la leva ma che ebbe risvolti diversi. La rivolta non si limitò infatti alla provincia di Catania ma si propagò nei primi giorni di gennaio nella vicina provincia di Ragusa. Secondo una relazione dell'OSS inoltre, il malcontento della popolazione fu sfruttato «dai fascisti locali che ancora occupano gli uffici pubblici e dai fascisti recentemente rilasciati dai campi di internamento alleati» <95. Le rivolte ebbero carattere violento e soprattutto godevano di una certa organizzazione. Vennero assaltati gli edifici pubblici, compresa la Prefettura che venne presa d'assedio, nonché i camion di Carabinieri e dell'esercito italiano, i quali spesso non opposero resistenza <96. Le rivolte assumono un'importanza ancora maggiore se corrisponde al vero quanto riportato nella stessa relazione, a proposito della presenza di nazifascisti inviati dal Nord a Comiso, piazzaforte della rivolta. «The presence of Nazi-Fascist agents - scrive il relatore della nota - is proved by the fact that Fascist broadcasts gave details of the riot on the same day it broke out» <97. La dettagliata relazione dello Psychological Warfare Branch britannico era invece più cauta nel dare per scontata la presenza di attori non siciliani nelle rivolte, anche se sottolineava che il «recente revival del fascismo e delle agitazioni fasciste e naziste», fosse da annoverare tra le cause scatenanti le sommosse <98.
La rivolta venne stroncata dall'intervento dell'esercito italiano il quale però non riuscì ad eliminare del tutto i rigurgiti fascisti presenti nell'Isola. Solamente qualche giorno più tardi infatti, in un teatro di Palermo comparve il giornale clandestino dal titolo chiaramente fascista «A noi!-Foglio del partito fascista repubblicano sezione di Palermo». Il gruppo che stampava il foglio era composto da studenti giovanissimi (dai 16 ai 21 anni) i quali in precedenza avevano avuto contatti con il movimento politico Lega Italica, un partito sorto a Caltanissetta nel novembre 1944, di sentimenti monarchici, ma che in realtà nascondeva un'organizzazione fascista <99. Oltre alla vuota retorica che caratterizza la prima parte del giornale, la seconda parte, invece, intitolata «Perché siam fascisti?» è utile per comprendere le ragioni che spinsero alcuni giovani a lottare per la morente causa fascista (sia nel Sud Italia sia a fianco della Repubblica di Salò) e soprattutto è sorprendente per come, già nei primi mesi del 1945, fosse stata elaborata quella visione del fascismo che caratterizzerà molti dei giovani che aderiranno, nel dopoguerra, al Movimento sociale italiano:
"Molto spesso ci sentiamo chiedere: Perché siete fascisti? Perché vi fate difensori di un partito che ha perso oramai l’ultima battaglia? […] [Q]uel che ci preme adesso precisare è che noi non difendiamo un partito. È morto il partito nazionale fascista: su questo tutti d'accordo. Ma non si è spenta l'idea originaria, non è trapassato lo spirito rivoluzionario del fascismo; e di questa idea, di questo spirito ci sentiamo depositari, proprio noi, giovani di fede incrollabile che del fascismo abbiamo fatto la religione della nostra giovinezza e la nostra forza. Noi siamo fascisti […] perché il fascismo è giovinezza perenne, morale eroica di vita, audacia senza confini; perché fascismo è decoro della Patria, vaticinio sicuro di ogni vittoria; infine, perché fascismo significa Italia!" <100
Un'elaborazione dello spirito fascista molto simile dunque a quel «non rinnegare e non restaurare» in auge tra i neofascisti nei primi anni di vita del MSI e che contraddistingue la memorialistica dei reduci di Salò <101.
4. I movimenti fascisti nel Sud e la rete Pignatelli
Per descrivere i movimenti fascisti che si svilupparono nella Penisola italiana in concomitanza con l'avanzata alleata, si deve fare un passo indietro e ritornare agli ultimi mesi del 1943. Significativamente fu in Calabria, dove si era stabilito il già citato Valerio Pignatelli, e in particolare nelle cittadine di Nicastro e Sambiase (ora Lamezia Terme), che si videro i primi episodi di ripresa dell'attività fascista. Già nell'ottobre del 1943 un gruppo di giovani aveva organizzato degli attentati contro i giornali antifascisti «Era Nuova» e «Nuova Calabria», oltre a lanci di bombe a mano corredate da volantini inneggianti al fascismo <102.
Anche qui, come già in Sicilia e Sardegna, i primi gruppi erano soprattutto organizzazioni locali formate da qualche decina di aderenti i quali però cercavano di entrare in contatto sia tra di loro che con il Nord Italia. Casi esemplari, ad esempio, i gruppi scoperti dal SIM in Puglia in collaborazione con il Field Security Service e con il Counter Intelligence Corps. Il primo, e il più importante, è il caso del gruppo scoperto a Lecce nel gennaio del 1944. Un brigadiere del SIM era riuscito ad infiltrarsi tra gli aderenti fingendosi un agente dei servizi della Repubblica Sociale Italiana in collegamento con altri elementi fascisti presenti a Brindisi e, a loro volta, a disposizione di una trasmittente dotata di potenza sufficiente da raggiungere il Nord. Superando le diffidenze iniziali da parte dei giovani animatori dell'organizzazione, l'agente riuscì a ottenerne la fiducia facendo incontrare un loro esponente con il sedicente rappresentante del gruppo di Brindisi (in realtà un altro agente del SIM) e promettendo di farsi accompagnare da un loro uomo nel momento in cui sarebbe ritornato nel Nord per fare rapporto sulla sua missione <103. La sua attività sotto copertura permise di capire l'effettiva consistenza e gli scopi del gruppo: era nato nel mese di novembre del 1943 tra i giovani ex appartenenti alla Gioventù Italiana del Littorio e ai Gruppi Universitari Fascisti, inizialmente per discutere di politica. In seguito all'aumento di aderenti e simpatizzanti (circa 300 secondo i capigruppo, anche se in seguito gli arrestati saranno 38), venne deciso di creare una vera e propria organizzazione clandestina suddivisa in cinque gruppi. «Ogni capo-gruppo conosceva solo i propri dipendenti. Le riunioni e le decisioni erano prese da un consiglio formato dai capi-gruppo, questi poi comunicavano le decisioni agli elementi dei propri gruppi» <104. L'organizzazione si poneva come obiettivi quelli di:
"- organizzare una vasta rete di informatori allo scopo di raccogliere e fornire notizie di carattere militare all'esercito repubblicano fascista;
- fare opera di disturbo con azioni armate qualora i nazisti [sic!] avessero avuto il sopravvento;
- preparare ordigni esplosivi per effettuare atti di sabotaggio nelle retrovie alleate" <105.
Le intenzioni del gruppo rimanevano tuttavia solo sulla carta per la mancanza di adeguati mezzi finanziari a disposizione nonché per la scarsità di munizioni e materiale esplosivo da adibire al sabotaggio di eventuali obiettivi strategici individuati dai servizi nazifascisti <106. Il gruppo pertanto si dedicò prevalentemente alla scrittura di manifestini di propaganda fascista nonché, per il tribunale militare di Bari che li giudicò nel giugno del 1944, all'attività più grave, ovvero «alla raccolta e al tentato invio nell'Italia occupata, di informazioni riguardanti: la situazione politica attuale; l'aeroporto di Galatina […] e altre notizie di carattere militare» <107. Soprattutto per questo le autorità italiane e alleate decisero di stroncare sul nascere l'organizzazione, utilizzando come pretesto (e come ulteriore prova) il tentativo di uno dei capigruppo, Fabio D'Elia, di oltrepassare le linee alleate assieme all'agente sotto copertura del SIM <108. Dei 38 arrestati solamente 9 (gli esponenti principali) vennero condannati, anche se a pene gravi che variavano dai 6 ai 20 anni di carcere per reati di spionaggio, favoreggiamento bellico e ostilità ai danni degli Alleati <109.
Contemporaneamente a Squinzano, a circa 20 chilometri da Lecce era attiva, almeno all'apparenza, un'ulteriore organizzazione e che prendeva il nome di «Comitato segreto di azione del partito fascista repubblicano». Il suo capo-zona era un certo Enzo Politi, ex ufficiale dell'esercito, il quale sosteneva di essere in contatto con il capo politico del movimento, l'ex ispettore federale del PNF Francesco Fato. Secondo Politi, il movimento, presente nelle provincie di Lecce, Brindisi e Bari, avrebbe goduto di addirittura 18000 aderenti i quali potevano contare di un arsenale composto da «3000 moschetti (dati in consegna a 3000 aderenti, facenti parte del personale fidato a disposizione); 84000 caricatori (distribuiti in ragione di 28 per ciascuna persona); 1000 tra fucili mitragliatori, pistole mitragliatrici e fucili automatici di marca varia, ma di calibro uniforme» <110. Le dichiarazioni di Politi suscitavano molta perplessità da parte del SIM e degli Alleati, soprattutto perché sembrava strano che il gruppo leccese, a cui inizialmente si pensava appartenesse Politi, non sapesse dell'esistenza di un'organizzazione a loro così geograficamente vicina, apparentemente molto più sviluppata ed equipaggiata. Politi pertanto venne ritenuto dal SIM un millantatore anche se le autorità alleate disposero l'arresto di dieci persone (compresi sia Politi che Fato), le quali però vennero in seguito rilasciate per insufficienza di prove <111.
La decisione del tribunale italiano non venne colta con favore dalle autorità della Commissione Alleata di Controllo. In particolare le autorità italiane vennero accusate di aver protetto i militari implicati nei gruppi fascisti. La presunta imparzialità delle corti militari italiane venne pertanto sfruttata dall'amministrazione militare alleata per reclamare, a favore delle proprie corti, il diritto di giudicare casi simili <112. Fu questo dunque il caso del gruppo scoperto sempre in Puglia, a Barletta, e che portò, nel mese di aprile, all'arresto di una quindicina di appartenenti al gruppo. L'organizzazione era sorta nel settembre del 1943 con lo scopo di:
"- combattere con tutti i mezzi ed in tutti i modi possibili gli invasori angloamericani ed i loro prezzolati alleati;
- tenere sempre desta nel popolo con opera e propaganda la fede nella vittoria delle armi ricostituite dell'Italia fascista repubblicana;
- preparare armi e materiale di sabotaggio;
- seguire attentamente l'attività dei partiti antifascisti, tenendosi pronti ad entrare in azione qualora si fosse presentata l'occasione favorevole" <113.
La perquisizione svolta dagli agenti del SIM aveva portato alla luce importanti documenti come lo statuto dell'organizzazione contenente la formula del giuramento, lo scopo dell'organizzazione, gli organi direttivi e di controllo, i doveri degli iscritti, lo schedario cronologico degli aderenti; un diario del gruppo contenente la data e il luogo delle adunate, le questioni discusse, provvedimenti adottati e inoltre un libro cassa contenente il pagamento delle quote versate dagli aderenti e le spese sostenute <114. L'aderente doveva dunque giurare, nel nome di Dio e dell'Italia, "di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista. Giuro inoltre di osservare lealmente lo statuto del Gruppo a cui appartengo; di adempiere a tutti i doveri del mio statuto al solo scopo del bene inseparabile del Duce e della Patria fascista e repubblicana; di non tradire giammai i miei camerati e di non svelare a nessuno i segreti del mio partito" <115.
Non si conosce l'esito giudiziario della vicenda, pertanto non si possono fare paragoni sulla maggiore o minore durezza delle corti alleate rispetto ai tribunali italiani. Ciò che risulta sicuro è l'internamento degli aderenti al movimento, assieme ad altri fascisti giudicati pericolosi, nel campo di Padula in provincia di Salerno <116.
Anche in Calabria, come abbiamo visto, erano attive cellule fasciste le quali, grazie all'azione di Valerio Pignatelli e di persone a lui fedeli, rappresentarono il gruppo più attivo, collegato e pericoloso presente nel Sud Italia <117. Gli attentati compiuti dai giovani a Nicastro avevano allertato i Carabinieri, i quali decisero di indagare sui responsabili, soprattutto perché non furono atti isolati ma perdurarono sino alla seconda metà di aprile del 1944 <118. Alcuni giorni dopo vennero arrestati 60 giovani e giovanissimi residenti delle province di Cosenza, Crotone e Catanzaro con l'accusa di «aver ricostituito il partito fascista svolgendo attiva propaganda» <119. Alcuni di essi vennero inoltre trovati in possesso di armi, munizioni e ordigni esplosivi.
Come era riuscito quel gruppo, composto da giovani provenienti da diversi paesi e province a concretare azioni comuni e condivise? In Calabria, così come in Puglia, già nell'ottobre del 1943 si erano costituiti autonomamente diversi gruppi clandestini di giovani fascisti. Il gruppo di Catanzaro, il più sviluppato, riuscì a dicembre a mettersi in contatto con gruppi analoghi presenti a Cosenza e, soprattutto, con il tenente Pietro Capocasale, ufficiale dell'esercito italiano e capo del gruppo di Petronà (CZ), il quale grazie alle sue conoscenze di carattere militare (conosceva la collocazione dei depositi di munizione e di carburante del 31° corpo d'armata italiano) e familiare (era cugino di appartenenti a gruppi fascisti di Nicotera e Soverato) ben presto divenne uno dei leader dell'organizzazione <120. Nello stesso mese di dicembre il gruppo di Catanzaro, al quale nel frattempo era stato posto a capo l'ex segretario di Barracu Antonio Corda, aveva inoltre inviato due paracadutisti oltre le linee, con l'obiettivo di raggiungere Roma ed interloquire con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio della RSI. Uno dei due, tale Toni Battistini, sembra fosse riuscito a compiere la missione, dato che il 24 aprile, in una trasmissione di Radio Roma era stata riportata la presenza di un paracadutista il quale, arrivato dal Sud Italia, e presentatosi al Comando Tedesco, aveva dichiarato che «nella regione italiana occupata dalle truppe angloamericane non ci sono italiani volontari; gli arruolati sono solo coloro i quali sono stati obbligati dalla fame. A Catanzaro un gruppo di paracadutisti ha distrutto la tipografia di un giornale comunista e picchiato il direttore, Paparazzo» <121. A Cosenza, dove l'organizzazione sembrava essere sviluppata maggiormente, si trovava il capo dell'organizzazione calabrese, l'avvocato Luigi Filosa <122. Capocasale intratteneva i contatti con Filosa tramite Giuseppe Scola figlio del braccio destro di Filosa, Arturo. Come si è visto, i rapporti famigliari erano fondamentali per tenere i contatti tra i diversi gruppi e come dimostra anche il fatto che il fratello di Arturo, Attilio, fosse il collaboratore del capogruppo di Crotone, Gaetano Morelli <123.
L'attività dell'organizzazione, come scrive una relazione dell'OSS, si era sviluppata sempre di più e con maggiore violenza:
"Fra ottobre e aprile ci furono svariati casi di dimostrazioni contro gli Alleati e quindici casi di uso di esplosivi in attentati terroristici eseguiti con lo scopo di costringere la popolazione locale a sottomettersi e convincersi della forza della causa fascista. Questa campagna di violenza culminò in aprile in un attentato eseguito contro un preminente antifascista, l'Ing. Nicotera, attentato rimasto senza successo, e in un altro attentato, in cui, nella notte del 22 aprile in Sambiase, due bombe furono gettate, una delle quali contro un carabiniere. Vi era anche l'intenzione di far saltare il municipio ed un importante ponte" <124.
Questa escalation avrebbe dovuto portare, il 5 maggio 1944, all'inizio delle operazioni di guerriglia contro gli Alleati. Il giorno in cui sarebbe dovuta partita l'operazione era stato trasmesso tramite un messaggio in codice da Radio Roma tra il 20 e il 22 aprile <125.
La tanto agognata insurrezione delle forze fasciste tuttavia non ci fu, poiché in quei giorni i Carabinieri si attivarono per arrestare i congiurati. Dagli interrogatori degli arrestati emerse non solo la ramificazione dell'organizzazione in Calabria ma anche che essa aveva propaggini all'esterno del territorio calabrese, tramite il deus ex machina del fascismo clandestino nel Sud Italia, ovvero il principe Valerio Pignatelli <126.
Il principe infatti, si era trasferito con la moglie dalla sua residenza di Sellia Marina, presso Catanzaro, a Napoli. Da qui, con il suo braccio destro, il colonnello Luigi Guarino, ex ardito, teneva i contatti con i gruppi calabresi tramite Luigi Filosa mentre, contemporaneamente, si adoperava per organizzare analoghi nuclei fascisti in Campania grazie all'aiuto di Ferdinando (Nando) di Nardo, ex dirigente dei GUF napoletani e futuro parlamentare del Movimento Sociale Italiano <127. Il gruppo campano più sviluppato era quello napoletano, grazie alla presenza, in particolare, dei giovani che si erano resi protagonisti, ad esempio, di proteste e lanci di manifestini contro gli Alleati <128. Come si è visto, molto probabilmente il gruppo pugliese non era a conoscenza dell'organizzazione di Pignatelli e viceversa. Lo stesso Pignatelli inoltre, in un memoriale scritto nel dopoguerra, nominava solamente i gruppi calabresi e campani anche se potrebbe essere significativo che, nel tentativo di fuggire all'arresto da parte dei carabinieri, Filosa si fosse rifugiato a Bari <129.
Le autorità italiane disposero l'arresto di Pignatelli per sottoporlo ad interrogatorio e capire se ci fossero fondamenti di verità nelle dichiarazioni degli arrestati. Il principe tuttavia, pressoché negli stessi giorni, era stato arrestato dal Governo Militare Alleato assieme alla moglie. Entrambi dovevano rispondere alla grave accusa di spionaggio a favore del nemico <130.
La vicenda, che assume i contorni di una vera e propria spy story, è molto complessa e ancora oggi non molto chiara in alcuni suoi punti. Innanzitutto è necessario ritornare al dicembre 1943, quando Pignatelli si trasferì a Napoli, ufficialmente per motivi di salute, ma in realtà, secondo quanto racconta nel suo memoriale, per adempiere alle istruzioni che gli sarebbero giunte da Barracu <131. Qui il Principe, assieme alla moglie, Maria Elia, figura di primo piano nella vicenda, come si vedrà, erano protagonisti della vita mondana della città partenopea: l'alta classe sociale dei Principi e il prestigio del casato permetteva loro di intrattenere rapporti sia con le autorità italiane, civili e militari, compreso il luogotenente Umberto di Savoia, nonché con le massime autorità alleate come il comandante supremo del teatro d'operazioni del Mediterraneo, il generale britannico Henry Wilson e il diplomatico statunitense Alexander Kirk <132. I Pignatelli riuscirono inoltre a coltivare conoscenze con esponenti dei servizi segreti italiani e alleati, da loro abilmente sfruttate per ottenere informazioni che potessero essere utili per il governo della RSI <133. Secondo il racconto dello stesso Pignatelli, nei primi mesi del 1944, gli fu richiesto di raggiungere il Nord per concordare con le autorità della RSI le strategie da adottare per la lotta nel Sud Italia, pertanto egli si adoperò per cercare di ottenere un lasciapassare dal Governo Militare Alleato. Il tentativo venne stoppato dai «dirigenti del SIM che, conoscendomi bene mi dichiararono fascista» <134. In questo momento dunque entrò in gioco la Principessa che condivideva pienamente le idee del marito e che aveva aiutato ad organizzare il fascismo nel Sud. La preoccupazione per la mancanza di notizie dai figli Emanuele, Vittorio e Bona, avuti nel precedente matrimonio con il marchese Antonio De Seta, e della figlioccia Vittoria Odinzova si dimostrò un utile alibi per cercare in tutti i modi di oltrepassare le linee <135. È proprio grazie alla Odinzova che si presentò la prima opportunità. Maria si mise in contatto a Napoli con il tenente Carlo Cosenza agente dell'OSS, amico della figlioccia, pregandolo di aiutarla a trovare un modo di passare le linee per avere sue notizie. Cosenza si premurò di mettere in contatto la Principessa con un marinaio che avrebbe potuto metterle a disposizione una barca. Il tentativo però venne giudicato troppo pericoloso e perciò accantonato <136. La Principessa, a riprova delle frequentazioni con i comandi militari italiani cercò in secondo luogo di ottenere un aiuto, senza successo, dal generale Guido Accame, agente del SIM anche lui impiegato dall'OSS. Riuscì a guadagnare invece la fiducia dal tenente Andrea Nuvolari (in seguito informatore del SIM sul caso) il quale le confidò informazioni di natura militare anche se non le fu d'aiuto per la sua missione oltre le linee <137. La relazione del SIM che, tra gli altri documenti, ci permette di tracciare i movimenti della principessa, ci consegna un quadro fosco della Pignatelli, descritta quasi come una fattucchiera che con le sue «male arti» riusciva a carpire informazioni strategiche dai suoi interlocutori. È utile notare pertanto come il SIM preferisca screditare la figura della Principessa (adducendo anche ad una presunta condotta morale, secondo l'estensore della relazione, non consona) che analizzare l'operato inadeguato, se non connivente, degli agenti del servizio con cui essa era venuta a contatto <138. Il seguente incontro si rivelò invece decisivo: quello con il sottotenente di vascello Paolo Poletti, anch'egli al servizio dell'OSS. L'ufficiale della Marina, nel corso di una missione a Roma per conto del servizio statunitense nel dicembre 1943, aveva conosciuto Vittoria Odinzova con la quale aveva deciso di sposarsi. Secondo il racconto dello stesso Poletti, i due amanti avevano bisogno dell'approvazione di Maria Pignatelli <139. È anche per questo motivo probabilmente che Poletti, una volta tornato a Napoli, si mise in contatto con i Pignatelli, da lui già conosciuti precedentemente, per portargli notizie della Odinzova <140. Egli divenne un assiduo frequentatore del salotto dei Pignatelli conquistandone man mano la fiducia, peraltro ricambiata, visto che lo stesso Poletti confidò ai Principi la vera natura del suo incarico a Roma per conto dell'OSS. Maria pertanto colse l'occasione per raggiungere il suo obiettivo e, sfruttando il legame dell’agente con la Odinzova riuscì a convincerlo ad aiutarla <141. Poletti pertanto si mise in contatto con l'agente dell'OSS Arthur Mathieu al quale espose la propria preoccupazione per la situazione in cui si trovava la futura moglie asserendo che avrebbe trovato una soluzione anche se ciò avesse implicato l'attraversamento delle linee nemiche. In un memorandum scritto il 16 maggio 1944, lo stesso Mathieu affermava che "Subsequently, ''Paul'' [Paolo Poletti n.d.a.] announced that he had formed a plan, which involved sending a woman across the lines, who would return with his wife and an Italian officer from Austria <142. Both of them would, in addition, bring back valuable information. On being questioned about the security of the mission, ''Paul'' replied that he had absolute confidence in the woman selected, who was the foster-mother of his wife, and that he would ask Major BERDING [a capo dell'X-2 di Caserta] to trust him on this Selection. The plan was presented to Major ROLLER who approved the operation, now called ''Aspen'', and agreed its secrecy would be maintained. Security Officer only was informed. " <143.
Il primo tentativo di oltrepassare le linee da parte della principessa fallì poiché venne arrestata dal Field Security Service britannico e liberata alcuni giorni dopo per l'intercessione dell'OSS <144. Per evitare altri imprevisti, Poletti decise di accompagnare personalmente, il giorno 11 aprile, la Principessa a Sessa Aurunca, nelle vicinanze delle linee nemiche, assieme ad un capitano italoamericano impiegato nell'OSS, Vincent Abrignani. L'obiettivo, dichiarato, della Principessa era quello di presentarsi, una volta passato il fronte, al comando tedesco più vicino, e tramite le proprie credenziali, ottenere di poter contattare Barracu per conoscere la sorte dei propri figli. Poletti consigliò alla Pignatelli che, nel corso dell'interrogatorio a cui l'avrebbero sottoposta i tedeschi, avrebbe dovuto raccontare di essere giunta nella Capitale grazie ad un'autovettura della Croce Rossa e, inoltre, riferire i rumors da lei raccolti a Napoli riguardanti il territorio italiano occupato dagli Alleati <145. La missione principale di Maria era però quella di contattare Barracu, consegnargli una lettera scritta dal marito e ragguagliarlo sulla situazione dell'organizzazione capeggiata dal Principe nell'Italia del Sud. È molto probabile che le credenziali della principessa erano valide dato che, giunta nel comando tedesco di Anagni, non ebbe difficoltà a farsi accompagnare da un ufficiale a Roma nell'abitazione dei Marincola dove era alloggiata la figlia Bona <146. Il giorno seguente la principessa venne interrogata dal Sicherheitsdienst e in seguito accompagnata dal Feldmaresciallo Kesserling <147. Sono proprio alcuni documenti tedeschi, recuperati dagli Alleati all'indomani della liberazione di Firenze, che ci permettono di ricostruire alcuni punti del soggiorno romano della Pignatelli. Nel corso dell'interrogatorio, essa fornì ai tedeschi numerose notizie sulla situazione politico-economica del Sud Italia oltre che notizie di carattere militare, anche se, tranne l'aver rivelato il nome del capo del SIM (Pompeo Agrifoglio), di scarsa rilevanza <148. Gli stessi documenti chiariscono inoltre che, anche se i tedeschi sapevano dell'esistenza di gruppi fascisti nel Sud Italia, non erano a conoscenza del lavoro di coordinamento messo in atto da Pignatelli. Il maggiore delle SS Klaus Huegel, capo dell'Ausland SD in Italia, in un telegramma datato 22 aprile 1944, scriveva a Herbert Kappler rimarcando la necessità di un ulteriore interrogatorio della Principessa, da effettuarsi prima del suo ritorno a Napoli, perché essa poteva rappresentare «a practical starting point for the work in the South. Her report about her way through the front is moreover a proof that such possibilities exist»149. Questo appunto mette anche in luce che una strategia organica per il Sud Italia non era stata ancora adottata da parte dei servizi tedeschi <150.
La principessa nel frattempo, dopo essere riuscita ad incontrare il figlio Emanuele ed informare la figlioccia Vittoria che avrebbe attraversato con lei le linee quando sarebbe tornata a Napoli, si era premurata di incontrare Barracu. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio della RSI, assieme ad un ufficiale tedesco, portò la principessa a Verona, dove avrebbe dovuto incontrare Mussolini. Le testimonianze a questo punto divergono e non è chiaro se la principessa fosse riuscita o meno ad incontrare il Duce <151. L'obiettivo della missione tuttavia venne raggiunto: le autorità della Repubblica Sociale vennero messe a conoscenza della presenza di un movimento clandestino fascista ancora vivo nel Sud Italia e che necessitava dell'aiuto di Salò e dei tedeschi.
Le autorità britanniche tramite la fonte ''SURE'' avevano però, nel frattempo, tenuto d'occhio costantemente le attività della principessa e informato lo Special counter intelligence (Sci) statunitense <152. Il 25 aprile lo Sci arrestò Valerio Pignatelli e due giorni dopo, al ritorno a Napoli, vennero messe in custodia la stessa Principessa assieme a Vittoria Odinzova. Anche Poletti venne incarcerato nel momento in cui stava andando ad avvisare le due donne, da lui ospitate in una ''casa sicura'', dell'arresto del Principe <153. Tutti i protagonisti della vicenda vennero interrogati dal Combined Service Detailed Interrogation Center britannico (CSDIC), una unità formata da agenti del Secret Intelligence Service e ufficiali dell'esercito specializzata negli interrogatori di presunti agenti nemici [...]
64 L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, pp. 62-63.
65 Per la testimonianza di un Marò della Decima sulla battaglia di Anzio vedi il racconto di Fernando Togni riportato in L. Ganapini, Voci dalla guerra civile. Italiani nel 1943-1945, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 142-145.
66 A. Lepre, La storia della Repubblica di Mussolini. Salò: il tempo dell'odio e della violenza, Milano, Mondadori, 1999, pp. 176-181.
67 TNA, WO 204/12450 X Flotilla MAS and S. Marco regiment vol. 1, Abwehr Abt II. Interest in Italian special formations, 1 giugno 1944, p. 1.
68 AUSSME, SIM, b. 27, f. 1-7-40 Lancio nelle campagne di Cabras a mezzo paracadute di presunti agenti nemici, Appunto del 27 luglio 1944, prot. n. 290/1944.
69 ACS, Allied Control Commission (d'ora in avanti ACC), Legal, f. 443 Case of Usai Luciano & others (enemy agents, Sardinia), Report ''Case of Usai Luciano and others'', p. 1-4.
70 AUSSME, SIM, b. 334, fasc. 1-1-26 Studio sull'organizzazione del S.I. tedesco e repubblicano in Italia, Cenni riepilogativi sull'organizzazione informativa nemica, s.d. [gennaio 1945], p. 5.
71 Ibidem.
72 Ivi, p. 6.
73 Ivi, p. 6-7.
74 NARA, rg 226, e. 174, b. 93, f. 753 IV corps, Supplementary report on detailed interrogation of enemy agent - Pisanò Giorgio, p. 9.
75 Ivi, p. 1.
76 Ibidem.
77 Ivi, p. 2-4.
78 Ivi, p. 6. Pisanò in seguito riuscì a scappare per essere poi riarrestato dagli alleati nel 1945.
79 Questa versione verrà sostenuta anche nelle sue opere autobiografiche. Vedi in particolare G. Pisanò, Io, fascista 1945-1946. La testimonianza di un superstite, Milano, Il Saggiatore, 2002, pp. 102-122.
80 AUSSME, SIM, b. 27, fasc. 1-7-23 Presunta costituzione in Sardegna di un Comitato regionale fascista, s.n., 27 marzo 1944, pp. 1-3.
81 ACS, DGPS, DAG, 1944-1946, b. 47, fasc. Partito fascista repubblicano Sassari, Riservata raccomandata s.n., 27 marzo 1944, p. 3.
82 ACS, DGPS, DAG, 1944-1946, b. 47, fasc. Partito fascista repubblicano Sassari, giornale «La voce dei giovani», febbraio 1944, n. 2, p. 1.
83 Ibidem.
84 ACS, DGPS, DAG, 1944-1946, b. 47, fasc. Partito fascista repubblicano Sassari, Riservata raccomandata s.n., 27 marzo 1944, p. 4.
85 AUSSME, SIM, b. 27, fasc. 1-70-40 Lancio, nelle campagne di Cabras, a mezzo paracadute di presunti agenti nemici, Processo verbale di interrogatorio di Usai Luciano, Manca Angelo, Trincas Francesco.
86 ACS, DGPS, DAG, 1947-1948, b. 59, f. Movimento Unitario Italiano Catania, Manifesto del MUI. Sul separatismo siciliano vedi G.C. Marino, Storia del separatismo siciliano, Roma, Editori Riuniti, 1993; A. Battaglia, Sicilia contesa. Separatismo, guerra e mafia, Roma, Salerno Editrice, 2014.
87 ACS, DGPS, DAG, 1947-1948, b. 59, f. Movimento Unitario Italiano Catania, Relazione Prefettura, Movimento Unitario Italiano, 13 settembre 1944.
88 AUSSME, SIM, b. 113, f. 2-9-12 Movimento fascista a Catania, Movimento fascista a Catania, 7 febbraio 1944.
89 G. Conti, La RSI e l'attività del fascismo clandestino nell'Italia liberata dal settembre 1943 all'aprile 1945, p. 953-954. Tra gli aderenti al Movimento figurava anche il futuro esponente missino catanese Orazio Santagati. Vedi G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, p. 44.
90AUSSME, SIM, b. 27, f. 1-7-122 Italia meridionale – Sicilia-Sardegna: propaganda fascista e separatismo, Italia meridionale – Sicilia-Sardegna: propaganda fascista e separatismo, 7 settembre 1944, p. 2-3.
91 B. Mussolini, Opera omnia, Firenze, La Fenice, 1969, vol. XXXII, p.138.
92 G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, pp. 61-62. Sulla propaganda via radio della Repubblica Sociale Italiana vedi G. Isola, Il microfono conteso. La guerra delle onde nella lotta di liberazione nazionale (1943-1945), «Mélanges de l'Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée», a. 1996, Vol. 108, n. 1, pp. 83-124. Alcuni cenni sulla propaganda della RSI per le ''terre invase'' si trovano in P. Corsini, P. P. Poggio, La guerra civile nei notiziari della Gnr e nella propaganda della RSI, in M. Legnani, F. Vendramini (a cura di), Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 295-296.
93 Sulla questione vedi F. Giomblanco, Alto tradimento: la repressione dei "Moti del non si parte" dal carcere al confino di Ustica 1944-1946, Ragusa, Sicilia Punto L, 2010.
94 NARA, Department of State, Italy US Embassy and Consulate, Rome, General Records 1936-1963, rg. 84 st. 350 r.62 c.2 s.5, b. 143, f. 800-Sicily, Unrest in Sicliy, 20 dicembre 1944, p. 1.
95 TNA, WO 204/12661 Sicily-Ragusa rebellion, Ragusa riots, 18 gennaio 1945, p. 1.
96 Ivi, p. 1-2.
97 Ivi, p. 3.
98 «Furthermore - leggiamo nella relazione - it is not unlikey that some Nazi subversive agents have been at work stirring up trouble, but there is no evidence to confirm this. Enemy agents recently dropped in Sicily and who were captured had quite different mission to accomplish». TNA, WO 204/12661 Sicily-Ragusa rebellion, Report on the rebellion in the province of Ragusa 5/11 January 1945, 23 febbraio 1945, pp. 13-14. Sulle indagini a proposito di una presunta radiotrasmittente in contatto con il Nord vedi A. Battaglia, Separatismo siciliano. I documenti militari, Roma, Edizioni nuova cultura, 2015, pp. 24-27.
99 TNA, WO 204/12621 Sicily-Fascist groups, Transcript of fascist leaflets, 20 marzo 1945, p. 1.
100 TNA, WO 204/12621 Sicily-Fascist groups, Subversive activity in Sicily, 15 febbraio 1945, allegato, p. 2.
101 M. Tarchi, A. Carioti, Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Milano, Rizzoli 1995, pp. 28-29.
102 G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, pp. 56-57.
103 AUSSME, SIM, b. 73, f. 1-7-49 Organizzazione fascista a Lecce, Rapporto di denuncia di Chironi Romualdo et alii, 5 aprile 1944, pp. 4-7.
104 AUSSME, SIM, b. 73, f. 1-7-49 Organizzazione fascista a Lecce, Organizzazione fascista in provincia di Lecce, 14 marzo 1944, allegato n.2 Processo verbale di interrogatorio di D'ELIA Fabio, p. 1.
105 Ivi, pp. 1-2.
106 AUSSME, SIM, b. 73, f. 1-7-49 Organizzazione fascista a Lecce, Rapporto di denuncia di Chironi Romualdo et alii, 5 aprile 1944, p. 7.
107 AUSSME, SIM, b. 73, f. 1-7-49 Organizzazione fascista a Lecce, Promemoria per il signore generale Rossi, 16 marzo 1944, p. 1.
108 AUSSME, SIM, b. 73, f. 1-7-49 Organizzazione fascista a Lecce, Rapporto di denuncia di Chironi Romualdo et alii, 5 aprile 1944, p. 11.
109 AUSSME, SIM, b. 73, f.1-7-49 Organizzazione fascista a Lecce, Esito processo a carico dei componenti organizzazione fascista di Lecce, 13 giugno 1944. Tra i condannati figurava il futuro consigliere comunale del MSI di Lecce Giuseppe Marti. Vedi ivi, Telegramma, 10 novembre 1977.
110 AUSSME, SIM, b. 74, f. 1-7-146 Organizzazione fascista a Brindisi, Organizzazione fascista, 28 febbraio 1944, p.2.
111 Anche Politi e Fato furono rilasciati ma per entrambi scattò l'obbligo di residenza fino alla fine della guerra. Vedi AUSSME, SIM, b. 74, f. 1-7-146 Organizzazione fascista a Brindisi, Organizzazione fascista a Brindisi, 3 maggio 1944, p. 1 e Relazione sulla presunta organizzazione fascista di Brindisi, 26 giugno 1944.
112 TNA, WO 204/12056 Squinzano fascist conspiracy, AMG court - Barletta spy case, 15 luglio 1944.
113 TNA, WO 204/12056 Squinzano fascist conspiracy, Organizzazione fascista di Barletta, 25 aprile 1944.
114 Ibidem.
115 TNA, WO 204/12056 Squinzano fascist conspiracy, Organizzazione fascista di Barletta, 25 aprile 1944, Allegato n. 1, p. 1.
116 ACS, DAG, 1944-1946, b. 45, f. Partito fascista repubblicano Bari, Barletta attività fascista, 12 settembre 1944.
117 Il caso Pignatelli lo troviamo descritto anche in G. Conti, La RSI e l'attività del fascismo clandestino nell'Italia liberata, pp. 954-964; G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, pp. 55-69; A. Mammone, The black-shirt resistance, pp. 288-290; O. Foppani, The Allies and the Italian Social Republic (1943-1945), Berna, Peter Lang, 2011, pp. 87-103. K. Massara, Vivere pericolosamente, pp. 39-46; K. Massara, The ''indomitable'' Pignatellis, pp. 127-131; M. Avagliano, M. Palmieri, L’Italia di Salò 1943-1945, Bologna, Il Mulino, 2017, pp. 293-300.
118 ACS, DAG, 1944-1946, f. Partito fascista repubblicano Catanzaro vol. 2, Associazione filofascista scoperta in Catanzaro, 7 luglio 1944, pp. 1-2.
119 Ivi, p. 4.
120 Capocasale aveva inoltre provveduto a mettersi in contatto anche con il gruppo di Nicastro. ACS, DAG, 1944-1946, f. Partito fascista repubblicano Catanzaro vol. 2, Fascist reorganization in Calabria, s.d. [1944], p. 2-3.
121 Potrebbe riferirsi agli attentati contro le tipografie che stampavano i giornali ''Ora Nuova'' e ''Nuova Calabria'' di cui si è accennato sopra. ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, General Survey, 26 Maggio 1944, Appendix ''G'' Review of the External Leads from the PIGNATELLI Case up to 19 May 1944, p. 2. Traduzione mia.
122 Luigi Filosa (Cosenza 1897-Cosenza 1981), figura di fascista sui generis, fu tra i fondatori dei Fasci in Calabria. Venne espulso dal partito già nel 1923, dopo essere stato eletto federale, per la sua linea intransigente repubblicana e rivoluzionaria, avvicinandosi in seguito agli ambienti antifascisti. Dopo essere stato condannato a 3 anni di confino, nel febbraio del 1943 decise di rientrare nel PNF. Vedi F. Mazza, Filosa, Luigi, in Dizionario Biografico degli italiani, vol. 48, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1997, pp. 2-3.
123 ACS, DAG, 1944-1946, f. Partito fascista repubblicano Catanzaro vol. 2, Fascist reorganization in Calabria, s.d. [1944], p. 5.
124 ACS, DAG, 1944-1946, f. Partito fascista repubblicano Catanzaro vol. 1, Riorganizzazione fascista in Calabria, s.d. [1944], p. 5. Si tratta della traduzione del documento citato nella nota precedente.
125 Le frasi in codice sarebbero state «Ei fu, siccome immobile» e «Sparse le trecce morbide sull'affannoso petto». ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, General Survey, 26 Maggio 1944, Appendix ''G'' Review of the External Leads from
the PIGNATELLI Case up to 19 May 1944, p. 2.
126 AUSSME, SIM, b. 103, fasc. 1-7-1426 Sospetta attività di gruppi repubblicani fascisti nel Sud Italia, Attività di gruppi repubblicani fascisti nel Sud Italia, 30 novembre 1944, p. 1.
127 G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, p. 61.
128 A. Mammone, The black-shirt resistance, p. 290
129 V. Pignatelli, Il caso «Pace», oppure il caso «Dirigenti del MSI», Catanzaro, La Tipo Meccanica, 1948, p. 33-34. Parlato nel suo libro accenna a contatti con i gruppi di Bari e Barletta ma non è chiaro da quale fonte egli tragga questa informazione. G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, p. 61.
130 AUSSME, SIM, b. 76, f. 1-7-142 Organizzazione fascista in Calabria, Promemoria per il sig. capitano Stanhope Wright, 16 dicembre 1944, p. 1.
131 V. Pignatelli, Il caso «Pace», p. 33 e AUSSME, SIM, f. Allegati alla pratica f. 1-7-142 Pignatelli, Processo verbale di interrogatorio di Valerio Pignatelli di Cerchiara, 28 maggio 1944, pp. 2-3.
132 La descrizione dei rapporti intrattenuti dai Pignatelli viene tracciata in G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, pp. 60-61, che la riprende da G. Artieri, Mussolini e l'avventura repubblicana, Milano, Mondadori, 1981, pp. 246-247. Non è chiaro quali fonti l'autore utilizzi per raccontare il soggiorno napoletano dei Pignatelli. Pochi cenni dei suoi contatti con gli Alleati vengono offerti dallo stesso Pignatelli in Il caso «Pace», pp. 33-34.
133 V. Pignatelli, Il caso «Pace», p. 34.
134 Ibidem.
135 Emanuele si trovava a Roma da latitante perché aveva partecipato al Fronte militare clandestino di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Vittorio invece era internato in un campo di concentramento tedesco perché aveva rifiutato di combattere per la RSI. La figlia Bona si trovava invece nella casa di amici di famiglia, i baroni Marincola di San Floro. La baronessa Josephine Pomeroy era cittadina americana nonché sorella dell'agente dell'OSS Livingston Pomeroy. Vittoria Odinzova era invece la vedova del terzo figlio di Maria Pignatelli, Francesco, adottata dai Pignatelli alla morte del figlio. Vedi G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, p. 63 e pp. 327-328. Di Emanuele De Seta (il cognome del primo marito di Maria Pignatelli) ne parla diffusamente Peter Tompkins nella sua memoria Una spia a Roma.
136 AUSSME, SIM, b. 76, f. Allegati alla pratica 1-7-192, Relazione s.n., 5 luglio 1944, pp. 2-3.
137 Ivi, pp. 4-5. Per il fatto che Nuvolari fosse diventato, a quanto risulta, in seguito all'arresto dei Pignatelli fiduciario del SIM, vedi AUSSME, SIM, b. 76, f. 1-7-192 Organizzazione fascista in Calabria, Promemoria PIGNATELLI-Introduzione, 6 giugno 1944, p. 3. Per l'impiego del generale Accame nell'OSS vedi ivi, Il soggiorno a Napoli dei Principi Pignatelli, p. 3.
138 AUSSME, SIM, b. 76, f. Allegati alla pratica 1-7-192, Relazione s.n., 5 luglio 1944, pp. 5.
139 ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, General Survey, 26 maggio 1944, Appendix ''C'' Interrogation report on Paolo Poletti, p. 2.
140 Risulta poco credibile l'incontro casuale «in the street of Naples» descritto nell'interrogatorio da Poletti. Ivi, p. 3.
141 Sembra che ad un iniziale rifiuto da parte di Poletti, dato l'imminente arrivo degli Alleati a Roma, la Principessa avesse finto di aver ricevuto un messaggio di aiuto via radio dalla Odinzova, la quale d'altronde era effettivamente in pericolo in quanto, essendo nata a San Pietroburgo, risultava come cittadina straniera nemica. Vedi AUSSME, SIM, b. 76, f. Allegati alla pratica 1-7-192, Relazione s.n., 5 luglio 1944, p. 5, e AUSSME, SIM, b. 76, f. 1-7-192 Organizzazione fascista in Calabria, Promemoria PIGNATELLI, 6 giugno 1944, Il soggiorno a Napoli dei Principi Pignatelli, pp. 2-3.
142 Si trattava, molto probabilmente, del figlio Vittorio internato in Germania, il quale avrebbe dovuto essere liberato grazie all'intervento di Barracu.
143 ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, The ''Aspen'' Operations, 16 maggio 1944, p. 1.
144 Ibidem.
145 AUSSME, SIM, b. 76, f. Allegati alla pratica 1-7-192, Relazione s.n., 5 luglio 1944, pp. 6.
146 Ivi, p. 7.
147 L'incontro con Kesserling è anche annotato da Eugen Dollmann nelle sue memorie. Vedi E. Dollmann, Roma nazista, Milano, Longanesi, 1949, pp. 378-379.
148 «Military matters. State and extent of the Badoglio army: General Tapino is commander of the Italian troops fighting in Southern Italy whit his HQ in Avellino. Morale, care and pay of the Italian troops: Crown Prince Umberto, after visiting the Front, complained of the unusually high losses sustained by these Italian units». ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, Interrogation of persons crossing over the front and utilization of reports of such persons, 3 maggio 1944. Si tratta della traduzione in inglese dei documenti tedeschi rinvenuti a Firenze.
149 ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, Telegram from Huegel to Kappler, Princess Pignatelli, 22 aprile 1944.
150 Come vedremo in seguito è proprio a partire dai mesi centrali del 1944 che il lavoro dei servizi segreti tedeschi nel Sud Italia si fece più intenso e efficace, grazie anche alla nomina di Huegel a capo dell'Ausland-SD in Italia. Vedi C. Gentile, I servizi segreti tedeschi in Italia 1943-1945, p. 480.
151 La principessa negò nel corso degli interrogatori di essere riuscita ad incontrare il Duce mentre, secondo la testimonianza della figlia Bona e del marchese Marincola (che collaborano attivamente con gli Alleati arrivando a smentire le dichiarazioni della Pignatelli) al ritorno da Verona aveva confermato il colloquio con Mussolini. Anche secondo la fonte ''SURE'' che ragguaglierà i servizi angloamericani sul caso, la Pignatelli avrebbe incontrato il Duce. Una conferma in questo senso ci giunge anche dai documenti tedeschi ritrovati a Firenze, dai quali pare di capire che la Pignatelli abbia fatto tappa anche nella stessa Firenze in visita ad una certa Duchessa d'Aosta non meglio specificata. Vedi AUSSME, SIM, b. 76, f. Allegati alla pratica 1-7-192, Relazione s.n., 5 luglio 1944, pp. 9-10; ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, General Survey, 26 maggio 1944, p. 1; ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, Telegram from Huegel to Kappler, Princess Pignatelli, 22 aprile 1944.
152 Unità di controspionaggio in collaborazione tra X-2 (controspionaggio dell'OSS) e G-2 (controspionaggio dell'esercito statunitense). Vedi NARA, rg 226, e. 174, b.148, f. 1124, Prince and Princess Valerio Pignatelli, Paul Poletti and Vittoria Odinzova, p. 1.
153 ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, General Survey, 26 maggio 1944, p. 1.
Nicola Tonietto, La genesi del neofascismo in Italia. Dal periodo clandestino alle manifestazioni per Trieste italiana. 1943-1953, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, anno accademico 2016-2017

giovedì 23 giugno 2022

Dall’ambasciata statunitense capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni»


Il rapporto Italia-Stati Uniti sulla crisi del ’60 è stato in gran parte trascurato dalla storiografia <85, tuttavia il comportamento di Tambroni, che tentò di rilanciare il condizionamento del conflitto bipolare sulla politica italiana, <86 impone un’attenzione ben maggiore. L’incarico, come ha ricordato Nuti, non fu accolto dall’ambasciata con particolare soddisfazione, soprattutto per la vicinanza di Tambroni a Gronchi <87. «Nel breve periodo - ha scritto Zellerbach - non c’era motivo di preoccuparsi, visto che la cooperazione con gli Usa e con la Nato non sarà molto diversa da quella di Segni». Addirittura le prospettive sulla politica estera italiana venivano definite «eccellenti». Tuttavia la scelta non era giudicata «una soluzione felice». Tra i maggiori pericoli legati al nuovo esecutivo c’erano la possibilità di altre «scorribande» neutraliste in politica estera e l’opportunismo del nuovo capo del Governo. Nello stesso tempo la solidarietà di Gronchi, a cui erano legati il futuro e la stabilità del governo, era tutt’altro che assicurata. <88 A fronte della nuova maggioranza, furono immediate le dimissioni dei ministri della sinistra democristiana Bo, Sullo e Pastore. Poi seguì un tentativo - fallito - di Fanfani, che rispecchiava lo stato di confusione in cui versava la Dc, più volte rilevata dagli osservatori statunitensi. Alla fine di aprile Gronchi invitò Tambroni a completare la procedura e presentarsi al Senato. La direzione Dc approvava e l’ampia maggioranza democristiana confermava il nuovo, tormentato governo. Commentando l’investitura, i funzionari di via Veneto non erano in grado di stimare le probabilità che l’esecutivo arrivasse all’estate. Il presidente del Consiglio, in una formula efficace e sintetica, veniva descritto come un uomo «temuto da molti, ma di cui nessuno si fidava». Tambroni, da par suo, considerava il plauso americano un fattore non secondario per la durata del suo governo. Fu Francesco Cosentino - segretario generale della Camera e consigliere legale di Gronchi - a “sponsorizzare” il governo, ma dall’ambasciata capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni».
[...] In varie città italiane salirono la tensione e il nervosismo <104. I comizi missini nelle città di Reggio Emilia, Parma e Messina furono impediti <105. A Bologna, invece, era stato il discorso di Pajetta, pronunciato in piazza Malpighi il 21 maggio, a provocare l’intervento della polizia <106. Gli scontri durarono quaranta minuti provocando numerosi feriti, tra cui Giovanni Bottonelli, deputato del Pci, che riportò gravi ferite <107.
L’episodio, secondo quanto annotava un funzionario del consolato, rifletteva ancora una volta la «prontezza comunista nello sfruttare gli scontri con le pubbliche autorità» <108. Era questo uno dei tratti maggiormente sottolineati dalle relazioni americane. In più, il giudizio sul partito era a dir poco lapidario. Il Pci non era più in grado di «cavalcare le agitazioni e la propaganda come faceva una volta». La sede dei disordini non poteva che dare credito all’intuizione. Dopotutto, si era trattato di uno scontro in una roccaforte del Pci dove un deputato comunista era stato arrestato e ferito. «Qualche anno fa - ha scritto il segretario d’ambasciata Lister - avremmo assistito a dimostrazioni di massa, scioperi e altre azioni contro il governo in tutta Italia» <109.
Altrettanto attivo era il partito neofascista, galvanizzato dall’appoggio esterno al governo. Il Msi aveva indetto il VI congresso nazionale a Genova, dal 2 al 4 luglio. In quell’occasione, avrebbe dovuto dichiarare fedeltà al metodo democratico e alla Costituzione, anche se la Carta non sarebbe stata accettata come documento intoccabile.
Com’è noto, la scelta di Genova, peraltro conosciuta da tempo <110, fu un’opzione poco felice.
Molti esponenti missini, negli anni successivi, avrebbero fatto autocritica sia sull’effettiva maturità del partito che sulla scelta della sede <111. A suscitare la protesta del fronte antifascista furono soprattutto due elementi. L’oltraggio di un congresso neofascista in una città medaglia d’oro della Resistenza e la presenza - più vociferata che accertata - dell’ex prefetto della città ai tempi di Salò, Carlo Emanuele Basile. Secondo alcuni avrebbe addirittura dovuto presiedere i lavori. Il nome di Basile bastava ad evocare lo spettro dei non lontani massacri di guerra, rendendo l’affronto missino insostenibile.
Sulla scelta di Genova e sulle voci che riguardavano Basile, però, rimangono forti perplessità. Il 15 maggio, quando vennero resi noti i giorni e la sede del congresso le reazioni furono piuttosto blande <112. Genova, inoltre, non era la prima città fortemente legata alla Resistenza in cui il Msi convocava il suo raduno nazionale. Quattro anni prima la sede prescelta era stata Milano. In più, dal 1956, la giunta comunale della città ligure era appoggiata dai voti missini. Certamente Genova era «più contaminata dal Msi con il voto determinante del governo cittadino che con un congresso di tre giorni» <113.
[...] Veniamo ai fatti. Una prima grande mobilitazione contro il Msi ebbe luogo il 25 giugno. Protagonisti - ed è una costante delle proteste anti-tambroniane - furono i movimenti giovanili dei partiti antifascisti e di altre associazioni <121. Il 28 giugno, poi, venne indetto un comizio in piazza della Vittoria a Genova, che si svolse senza problemi.
Per il 30, la Camera del Lavoro proclamava uno sciopero generale con una manifestazione autorizzata dal prefetto. Quel giorno, una volta giunti in via XX settembre al monumento ai partigiani caduti, i manifestanti andavano in piazza della Vittoria, dove avrebbe dovuto terminare il tutto. Qui, la processione tornò indietro al sacrario, con in testa comunisti e socialisti. Poi il grosso della folla si fermava in Piazza De Ferrari, dove cominciava la battaglia.
Gli ordini alla polizia e ai carabinieri e le misure che poteva aver indicato lo stesso Tambroni sono tuttora un punto oscuro. Per Baget Bozzo la polizia «non reagisce». <122 Citando i rapporti dei carabinieri, Garibaldi ha posto l’accento sul fatto che la polizia avesse le armi scariche, e fu maggiormente presa di mira dai manifestanti, che ne erano a conoscenza <123. Il tenente colonnello Gaetano Genco ha scritto che il comportamento della polizia fu molto diverso da quello dei carabinieri. Questi, infatti, non fecero uso delle armi «nemmeno a scopo intimidatorio» ed ebbero solo cinque feriti. E avrebbero addirittura fraternizzato con i manifestanti <124.
Secondo Adalberto Baldoni, l’unica spiegazione per l’atteggiamento così poco collaborativo dei carabinieri, risiederebbe in una «garanzia militare sull’apertura a sinistra». Tale strategia sarebbe stata ispirata dalla coppia Moro-De Lorenzo e dagli Stati Uniti. A Roma, Reggio Emilia e in Sicilia, sempre secondo Baldoni, si doveva esasperare lo scontro e i carabinieri parteciparono attivamente. Tuttavia, non è azzardato nutrire qualche dubbio sulle fonti utilizzate per avvalorare l’ipotesi del coinvolgimento statunitense nella vicenda <125.
Murgia e Del Boca hanno scritto invece di una polizia «in completo assetto da guerra» pronta a scagliarsi sulla folla, senza menzionare i comportamenti delle altre forze dell’ordine <126. Più equilibrate le posizioni di alcune opere di sintesi sulla storia della prima Repubblica, in cui emerge con una certa continuità la sorpresa degli agenti, almeno in un primo momento <127. Tale sorpresa, poi, era dovuta non tanto alla scarsa prevenzione delle autorità locali, quanto alla sottovalutazione delle autorità centrali, che non diedero il «dovuto peso» alle informazioni provenienti da Genova.
Non si negava, infine, «qualche sintomo di nervosismo» tra gli organi di polizia <128.
L’ambasciatore Zellerbach considerò le proteste «in buona parte giustificate». E definì «stupido» il prefetto Pianese per aver concesso l’autorizzazione ai missini <129. Comprensibilmente, però, prese corpo l’ipotesi di una maggiore irrequietezza della piazza rispetto alle forze dell’ordine, che, non a caso, subirono i danni maggiori <130.
[NOTE]
85 Se ne sono in parte occupati solo Nuti e Gentiloni Silveri, si vedano L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 285-299; U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centro-sinistra 1958-1965, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 49-58.
86 Si veda G. Formigoni, A. Guiso (a cura di), Tambroni e la crisi del 1960, cit., p. 368. Significativo è il fatto che Murgia, citando un editoriale del «New York Times», scrive che «sembra uscito dall’ufficio stampa di Tambroni», si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 139. Sfogliando «L’Unità» e «Il Secolo d’Italia» del luglio 1960 si trova una selezione degli editoriali di molti quotidiani stranieri. Naturalmente la stampa internazionale veniva usata per avvalorare la tesi dell’aggressione da parte delle forze dell’ordine o della provocazione di piazza. Era comunque indicativo dell’attenzione rivolta a quanto scrivevano all’estero per comprovare le proprie idee.
87 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
88 Si veda L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 288-289.
104 Sul generale inasprimento delle autorità pubbliche nei confronti dell’opposizione di sinistra si veda P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., pp. 365-367.
105 G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia, cit., p. 138. Per le reazioni sulla stampa missina si veda Preordinate provocazioni dei socialcomunisti a Parma, «Il Secolo d’Italia», 1 maggio 1960.
106 A. Barbato, Da Bologna il primo squillo di tromba, «L’Espresso», 29 maggio 1960, p. 6. Si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 62.
107 Si veda G. Fanti, G.C. Ferri, Cronache dall’Emilia rossa: l’impossibile riformismo del Pci, Pendragon, Bologna, 2001, pp. 67-68.
108 Police breakup of Bologna communist meeting arouses strong reaction, M. Cootes (American Consul General) to the Department of State, May 30, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/5-3060.
109 Communists provoke incidents in Chamber June 1 over clash with police in Bologna, G. Lister (First Secretary of Embassy) to the Department of State, June 10, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-1060. Tuttavia, proprio in relazione ai fatti di Bologna, il parlamentare democristiano Elkan parlò di una grande quantità di armi detenute nelle case di alcuni arrestati o in luoghi vicini. Erano tutti esponenti del Pci e le armi facevano parte, secondo Elkan, di «oscuri e gravi ricordi di guerra civile», si veda AP, CdD, III Legislatura, Discussioni, Seduta del 1° giugno 1960, p. 14423.
110 «L’autorizzazione era stata data da tempo, addirittura da Segni come ministro degli Interni del suo governo», si veda L. Radi, Tambroni trent’anni dopo, cit., p. 105. La notizia del congresso apparve sul quotidiano neofascista a metà maggio, si veda In difesa dello Stato e della nazione insostituibile la funzione del Msi, «Il Secolo d’Italia», 15 maggio 1960. La mozione congressuale fu pubblicata, sempre sul quotidiano neofascista, il 3 giugno.
111 A. Baldoni, La destra in Italia, cit., p. 553; Servello ha scritto di un partito «completamente impreparato», della «sottovalutazione delle capacità di mobilitazione delle sinistre» e della «sopravvalutazione della capacità del governo Tambroni di gestire la situazione». I tempi, comunque, non erano ancora giudicati maturi, F. Servello, 60 anni in fiamma. Dal Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006, pp. 63-68. Sull’autocritica di Almirante si veda A. Pitamitz (a cura di), Tre protagonisti 25 anni dopo, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 47. Particolarmente netto e amaro fu il giudizio di Anfuso, che nel 1962 arrivò a dire che il Msi avrebbe potuto anche sparire, se la Dc si fosse sforzata di comprendere le intenzioni del partito neofascista, A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 202. La questione delle intenzioni missine è peraltro molto dibattuta. Ne «Il Secolo d’Italia» del 30 giugno ’60 si legge «il Msi rappresenta dunque, e assume apertamente di voler rappresentare, la continuazione del Fascismo». Tarchi ha ricordato la «classica connotazione bicefala del Msi», alla luce della quale l’obiettivo ultimo restava la costruzione di «un regime destinato a richiamare - sia pure in forme che nessuno avrebbe saputo indicare con precisione - quello mussoliniano», M. Tarchi, Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Intervista di A. Carioti, Rizzoli, Milano, 1995, p. 66
112 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 39-41; F.M. Solo la Dc a Genova non protesta contro il congresso dei neofascisti, «L’Unità», 11 giugno 1960; Per le reazioni missine si veda La farsa rossa dell’indignazione popolare contro il Congresso nazionale del Msi a Genova, «Il Secolo d’Italia», 11 giugno 1960. Il console Joyce rimase colpito dalla durezza della campagna che poi iniziò. A tal proposito citò un manifesto con la scritta: «Msi uguale fascismo, fascismo uguale nazismo, nazismo uguale camere a gas», Growing opposition to planned Msi convention in Genoa, R. Joyce (American Consul General, Genoa) to the Department of State, June 27, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-2760.
113 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., pp. 287-288. Pombeni ha scritto che lo «scandalo» per il congresso a Genova «era credibile fino a un certo punto», P. Pombeni, L’eredità degli anni Sessanta, in F. Lussana, G. Marramao (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 46. Secondo Cooke le difficoltà sul nascere del governo Tambroni si erano subito riversate a livello locale. Genova fu una delle prime città in cui i missini votarono contro importanti provvedimenti, provocando così la crisi della giunta, si veda P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 26-27.
121 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
122 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, p. 288; P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., pp. 76-77.
123 Il rapporto è il n. 113 del 30 giugno 1960, L. Garibaldi, Due verità per una rivolta, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 49.
124 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 85-88.
125 A. Baldoni, Due volte Genova, cit., pp. 97-104. L’ipotesi del coinvolgimento dei carabinieri - voluto da Moro - nella caduta di Tambroni non pare priva di fondamento. Ma sembra ragionevole, stando a quanto reperito negli archivi statunitensi e alle più recenti indagini storiografiche, non dare credito a dietrologie un po’ azzardate. In particolare l’autore pone all’origine dell’accordo Sifar-Cia contro Tambroni il piano Demagnetize, in realtà esauritosi nel ’53 senza risultati apprezzabili, si veda M. Del Pero, Gli Stati Uniti e la «guerra psicologica» in Italia (1948-56), «Studi Storici», a. XXXIX, n. 4, ottobre-dicembre 1998, pp. 961-974. In più Baldoni si rifà a opere giornalistiche (R. Trionfera, Sifar Affair, Reporter, Roma, 1968 e R. Faenza, Il malaffare, Mondadori, Milano, 1978) smentite da successivi lavori scientifici.
126 A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”, cit., pp. 200-201; P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., pp. 81-82.
127 «La violenza dei dimostranti, diversi dei quali erano armati, fu tale che le forze di polizia si trovarono a mal partito e lamentarono diverse perdite in uomini feriti e materiale distrutto», G. Mammarella, L’Italia contemporanea, cit., p. 260.
128 File with subject file copy of Genoa’s D-2 (in italiano), July 11, 1960, RG 84, Italy, US Consulate, Genoa, Box 3, f.300/500 Polit/Econ reporting 1960. Nello stesso documento si parla di azioni condotte con molta decisione, forse perché «era stata diffusa la voce che da parte delle forze dell’ordine non si sarebbe fatto uso di armi». Sui timori dei poliziotti si veda S. Medici, Vite di poliziotti, Einaudi, Torino, 1979, pp. 55-57.
129 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 295.
130 L. Garibaldi, Due verità per una rivolta, cit., p. 50. Si veda «Il Secolo XIX», 1 luglio 1960, articolo molto ricco citato interamente in P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 91-95; Sul trattamento riservato ad alcuni agenti, in particolare sul tentativo di annegamento e sull’utilizzo di uncini si vedano G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 288; L. Fazi, Un comando rosso ha diretto l’insurrezione, «Il Secolo d’Italia», 2 luglio 1960.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009/2010

giovedì 16 giugno 2022

Il passaggio al teatro di persona non rappresenta una battuta d’arresto nella vita della compagnia Rame


Nel presentare il suo libro-intervista a Franca Rame "Non è tempo di nostalgia", Joseph Farrell parte dalle peculiarità - già evidenziate nel precedente capitolo della tradizione del teatro italiano, affermando che esso "ha dato relativamente pochi scrittori al canone convenzionale del teatro europeo. Penso che questo sia dovuto al fatto che il teatro italiano nel contesto di quello europeo sia anomalo, nel senso che è essenzialmente un teatro attoriale e non autoriale. Secondo il mio parere nella tradizione del teatro italiano il personaggio dominante è sempre stato l’attore, l’attore di un tipo molto particolare". <278
Entrando, però, nello specifico del caso di Franca Rame, aggiunge: "Franca è figlia d’arte, come Eleonora Duse, come Adelaide Ristori e molte altre. È importante sottolineare che l’attrice era nata in una famiglia di attori girovaghi, la Compagnia Rame si ritiene che affondi le sue radici nel Settecento. Fino alla fondazione dei teatri stabili erano famiglie di quel tipo che erano il cuore del teatro italiano, attori che improvvisavano. La Rame è nata praticamente sulla scena, ha fatto la sua prima comparsa quando aveva solamente otto giorni. Nel corso dell’intervista Franca ha spiegato come la Compagnia Rame producesse i propri testi, suo padre era il capocomico, radunava la famiglia e distribuiva i vari ruoli. Questa è la tradizione del teatro italiano, è una tradizione essenzialmente ed esclusivamente italiana e Franca Rame è stata l’ultima grande rappresentante di quella tradizione, perché adesso non esiste più". <279
Ora, che tipo di compagnia era, quella dei Rame? <280 Franca la definisce, prima di tutto come “una famiglia di attori, con una tradizione che possiamo far risalire alla Commedia dell’Arte del Seicento.” <281 Il concetto di “famiglia”, però, è da precisare. Altrove, infatti, Franca spiega che, almeno nel periodo in cui lei vi ha lavorato: “Per «famiglia», in verità, si intendeva l’insieme di due diversi nuclei familiari, più attori e attrici scritturati, nonché un numero cospicuo di dilettanti.” <282 I due nuclei familiari, per quanto diversi, erano comunque imparentati, “due famiglie associate dei Rame, quella di mio zio Tommaso e l’altra, di mio padre Domenico” <283 e, ai membri della famiglia, si aggiungevano, inoltre, altri attori e altre attrici, sia di professione, sia dilettanti, che facevano nella compagnia il loro apprendistato, in cerca di una formazione diversa da quella tradizionale. <284
Sull’origine storica della compagnia, le notizie divergono: come abbiamo visto, Farrell la colloca “nel Settecento”; Franca, nel 2009, dichiara: “I capostipiti della mia famiglia risalgono a una cosa come cinque secoli fa” <285, ma, nel 2013, sostiene che la sua tradizione possa “risalire alla Commedia dell’Arte del Seicento”. Quest’ultima ipotesi è riportata anche da altre fonti: Silvia Varale, infatti, afferma che Franca “proviene da una famiglia di attori girovaghi, le cui antiche tradizioni risalgono al ’600” <286 e anche il critico letterario svedese (membro dell’Accademia di Svezia, dal 1997 al 2009) Horace Engdahl afferma: "The Rame family’s ties to the theatre are very old. Since the late 17th century, they have been actors, and puppet masters, as the occasion required". <287
Nella sua monografia su Enrico Maria Salerno, invece, Valentina Esposito <288 afferma che "La Compagnia della Famiglia Rame, compagnia di marionettisti ambulanti, era stata fondata da Domenico Rame, nonno di Tommaso, agli inizi dell’Ottocento. Nell’intestazione delle lettere a Salerno, sono indicati data e luogo del primo spettacolo: Torino 1821". <289
A corroborare quest’ultima ipotesi concorrono le parole dello stesso Tommaso Rame (lo zio di Franca), il quale, in una lettera a Enrico Maria Salerno, definisce la compagnia “antica perché il mio povero nonno Domenico in Torino diede vita al teatro nel 1821 (con spettacoli di marionette)”. <290 Certo, questo non impedisce di ipotizzare che il “povero nonno Domenico” Rame (bisnonno di Franca) potesse discendere anch’egli da teatranti ed essere, quindi a sua volta, “figlio d’arte”. Non lo si può escludere, poiché il mestiere s’imparava “a bottega” e molto spesso la bottega era la famiglia. Figli d’arte, infatti, erano coloro che vantavano un’antica e continua tradizione familiare: ad esserlo in senso assoluto, non bastava essere nato da attori. Per averne il sacro crisma, la prima condizione era l’anzianità della discendenza. Era una vera e propria nobiltà sui generis quella dei figli d’arte e tanto maggiore era la gloria di appartenervi e tanto più legittimi i diritti di appartenenza quanto a più remoti lombi risalisse la primogenitura. <291
Ad ogni modo, il solo dato certo sull’esatta collocazione storica dell’origine della compagnia è la sua fondazione ufficiale, nel 1821, il che significa comunque che essa -per dirla con le parole dello zio Tommaso- è “antica” (alla nascita di Franca, nel 1929, stando a quanto afferma Tommaso, il gruppo ha già più d’un secolo), il che ci conduce a supporre che la tradizione della Commedia dell’Arte non si sia mai del tutto interrotta, come invece riteneva Copeau e ritengono tuttora Claudia Contin e Ferruccio Merisi.
La direzione della compagnia -ponendo come sua data di nascita il 1821-, dopo Domenico (il fondatore, bisnonno di Franca), passa a suo figlio, il marionettista Pio (1849-1921), il quale, a sua volta, ha tre “figli d’arte”: Domenico (il padre di Franca) <292, Stella e Tommaso. La compagnia, però, non comincia già nella forma che ha quando Franca nasce. Per quasi cento anni, il carro dei Rame girovaga per i paesi e le cittadine del Piemonte e della Lombardia unicamente con spettacoli di marionette e burattini. I primi cambiamenti risalgono agli inizi del Novecento, quando Domenico Rame (futuro padre di Franca) “dal 1908 introdusse spettacoli in cui attori ‘veri’ affiancavano le marionette” <293. Dal 1921, poi, lo stesso repertorio destinato alle marionette viene adattato esclusivamente ad attori veri e tramandato di generazione in generazione.
Col passaggio al teatro di persona, la stessa compagnia cambia nome, per assumere quello di “Gruppo Artistico Famiglia Rame”. Dunque, abbandonato definitivamente il teatro di figura, “l’attività teatrale della compagnia drammatica ambulante continuerà fino al 1940” <294, proseguendo, così, col teatro di persona fino allo scioglimento. Così Franca spiega le ragioni del passaggio al teatro di persona: "Con l’avvento del cinema sonoro (1920), mio padre, mio zio e tutta la compagnia intuiscono che «il teatro delle marionette» sarà presto messo in crisi, schiacciato da questo nuovo straordinario e anche un po’ magico mezzo di spettacolo. Con grande dolore del nonno Pio, decidono un cambiamento radicale del loro programma e della loro condizione: «Reciteremo noi i nostri spettacoli, entreremo in scena noi, al posto delle marionette»". Così le due famiglie dei Rame si sostituiscono ai pupazzi di legno (vere e proprie sculture snodate, tre delle quali sono ancora oggi esposte al Museo della Scala di Milano). <295
Ma il passaggio al teatro di persona non rappresenta una battuta d’arresto nella vita della compagnia, anzi: mette il gruppo di fronte alla necessità di sondare nuove possibilità nella loro arte attoriale, non senza far comunque tesoro dell’esperienza passata, che si rivela fondamentale prima di tutto sul piano scenografico: "I miei hanno cominciato con il teatro delle marionette e con quello dei burattini. Padroneggiavano ambedue i mestieri. <296 Arrivato il cinema, questo tipo di teatro andò via via perdendosi. I miei capirono che dovevano cambiare genere e si misero a fare, appunto, teatro di persona, utilizzando tutti i trucchi del teatro delle marionette che conoscevano molto bene. In questo modo riuscivano a creare degli effetti da film americani di adesso, ovviamente con le dovute proporzioni. Per quei tempi era qualcosa di impensabile". <297
Quest’utilizzo di “tutti i trucchi del teatro delle marionette” e la loro applicazione al teatro di persona rappresenta il vantaggio della compagnia dei Rame, rispetto alle altre compagnie di giro dell’epoca: "montagne che si spaccano in quattro a vista, palazzi che crollano, un treno che appare piccolissimo lassù nella montagna e che, man mano che avanza nei turniché entrando o uscendo dalle gallerie, s’ingrandisce fino a entrare in proscenio con il muso della locomotiva a grandezza quasi naturale. E poi mari in tempesta, nubi che solcano minacciose il cielo tra lampi e tuoni, gente che vola, scene in tulle in primo piano, che illuminate a dovere ti facevano immaginare come fosse il paradiso". <298
I Rame sanno bene di dovere alla tradizione la conoscenza di questi mezzi, perché sono “tutti gli espedienti tecnici delle macchine di spettacolo del Seicento perfezionate dal Bibbiena dentro la scenotecnica delle marionette.” <299 Il fatto interessante non è solo il loro utilizzo nel teatro di figura, né tanto il loro successivo trasporto nel teatro di persona, quanto soprattutto la scelta consapevole di costituire, in questo modo, una forma di spettacolo realmente alternativa alla settima arte, creando sulla scena “effetti da film americani” (fatte, ovviamente, le debite proporzioni).
In qualche modo, i Rame riaffermano la peculiarità del teatro (e la sua dignità professionale: si pensi all’attività di Domenico come Presidente dell’A.I.E.S.V.) rispetto al cinema, proprio nel momento in cui, da un lato, i Futuristi decretano l’imminente morte del primo sotto i colpi del secondo e, dall’altro -di lì a poco-, il Fascismo tenterà di trasportare il modello di produzione industriale cinematografica nell’arte teatrale. Cioè, in mezzo a questi due poli, i Rame sono -di fatto- un notevole esempio di resistenza attuata dalla grande arte degli attoriautori. E in questo, ben consapevolmente, essi si riallacciano alla tradizione del teatro all’italiana, ovvero alla Commedia dell’Arte.
Pochi anni prima di questo momento di svolta, a Bobbio -dove, nel 1912, la compagnia è appena arrivata per presentare uno spettacolo di marionette-, la futura madre di Franca (Emilia Baldini) conosce Domenico. Non proviene dall’ambiente del teatro -è una maestra-, ma entra nella compagnia l’anno successivo, nel momento in cui i due si sposano. Inizialmente si occupa dei costumi delle marionette e dei burattini; col passaggio al teatro di persona diverrà la prim’attrice del gruppo. Con tenerezza Franca rievoca il loro incontro: "La loro è una storia bellissima. Lei passava la settimana a insegnare in un villaggio su in montagna, scendeva in paese solo il fine settimana. Un giorno di vacanza e di festa, arriva il teatro delle marionette per fare spettacolo. Mamma è fra il pubblico, ad applaudire incantata. Con le altre ragazze va a fare i complimenti ai teatranti e conosce mio padre. Poi arriva il carnevale. Le sette sorelle vanno al ballo con eleganti abiti cuciti da loro stesse. Nel grande salone c’è mio padre, che indossa un abito azzurro da re. I due si guardano e ballano fino a tarda notte, fulminati. [...] Si sono scritti per un anno, poi si sono sposati". <300
Lo scioglimento della compagnia risale -come già detto- al 1940, cioè corrisponde all’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Nel corso degli anni di guerra, il teatro viaggiante della famiglia, infatti, viene destinato dal regime ad altro uso. Questo non implica l’interruzione dell’attività teatrale di tutti i membri della famiglia: Domenico continuerà a occuparsi di teatro fino alla morte, nel 1948; Franca, rimasta al seguito del padre nella sua attività d’attrice (dopo una breve parentesi in cui tenta di diventare infermiera), lascerà la famiglia nel 1950, assieme alla sorella Pia, per prodursi nella rivista: nella stagione 1950-’51 verrà, infatti, scritturata nella compagnia primaria di prosa di Tino Scotti <301 per lo spettacolo "Ghe pensi mi" <302 di Marcello Marchesi <303, in scena al Teatro Olimpia di Milano.
Tornando al suo teatro viaggiante, la compagnia teatrale girovaga dei Rame "si esibiva in un suo teatro in legno, smontabile, che conteneva oltre 800 posti a sedere e girava per i paesi e le cittadine della Lombardia, Veneto e Piemonte, recitando drammoni e operette. (Durante la guerra venne requisito dal governo e fu usato come ospedale da campo)". <304
Franca racconta dettagliatamente come fosse fatto questo teatro, a cominciare dai nomi dei macchinari, che le dovevano sembrare strani, dal momento che lo zio Tommaso, alla domanda, postale da lei, sulla loro origine "rispose: «Ce li siamo presi dalla marineria, a partire dalle corde, che noi chiamiamo appunto ‘cime’ come i marinai, e poi la fune lunga e la media; le vele, la randa di quinta, le fiancate e gli stangoni; dai marinai abbiamo appreso anche lo stesso modo di far nodi, di issare le scene e i fondali». «Ma che vuol dire questo? Che i primi attori erano marinai?» «No, non propriamente, ma di certo conoscevano bene come si costruisce una nave.»" <305
Perché questi primi attori conoscessero “bene come si costruisce una nave” non ci viene chiarito, ma è abbastanza per comprendere la ragione per cui Domenico chiamasse questo teatro viaggiante “Arca di Noè” <306. In realtà, dietro questo appellativo si rivela anche un riferimento religioso, rivisitato in chiave architettonica. Prosegue, infatti, Franca, sempre in merito: "Di qui, per analogia, mi appare l’immagine del nostro teatro smontabile. Mio fratello, che aveva qualche nozione d’architettura, diceva che era stato progettato secondo i canoni tipici di una primordiale chiesa metodista. [...] «Che significa?» gli chiesi. Enrico mi rispose: «Quando i Quaccheri arrivarono in America cercarono di mettere in piedi strutture che permettessero di raccogliere qualche centinaio di persone e tenerle al coperto. Usavano il legno, e la pianta di quelle piccole chiese era a croce.» [...] A nostra volta abbiamo scelto quell’impianto. Ogni asse o tavola era stata preparata «a terra» e issata solo dopo che tutti i pezzi erano approntati. Si sceglieva un prato o un terreno solido su cui si disegnava la pianta, e via!" <307
La stessa costruzione del teatro doveva affascinare Franca, che ne ha ricordi risalenti all’infanzia, ma riporta anche particolari interessanti sulla sua struttura: "Mi ricordo la prima volta che montarono il teatro, avevo poco più di sei anni: vidi gli operai issare quei pali tenendoli ritti per mezzo di funi. Lassù, in cima a lunghe scale, stavano i carpentieri, che incastravano i traversoni delle trabeazioni e poi li bloccavano coi bulloni. Era il vanto di mio padre, quando, ammirandolo, esclamava pieno d’orgoglio: «È come l’Arca di Noè, questo nostro vascello, tutto a incastro senza manco un chiodo. Si può montare o smontare in una giornata sola!» Dopo un paio d’ore ecco la gabbia dell’intero edificio già leggibile e pronta perché vi venissero sistemate le pareti. <308 [...] «Fate attenzione» disse a ‘sto punto mio padre, «vi voglio far notare un particolare straordinario di questa nostra struttura mobile: in primavera, d’estate e in autunno noi potremo dar spettacolo al fresco, senza pareti!» Così dicendo diede l’ordine e gli operai spinsero le pareti che si spostavano sulle loro guide. Mio padre contava ad alta voce: «Uno, due, tre...» Arrivò al dieci e tutte le pareti erano sparite, nascoste dietro il fondale. Un «ooh!» di meraviglia esplose sotto le trabeazioni del nostro tempio magico". <309
Franca racconta anche la ragione che spinge la famiglia a dotarsi di un teatro di questo tipo: essa risiede, sostanzialmente, nell’esigenza di disporre di uno spazio in qualche modo libero, non soggetto a condizionamenti esterni e a censure. A questo proposito, narra un aneddoto che sarà opportuno riportare per intero: "Pia, la seconda delle mie sorelle, [...] si lamentava a tormentone di questo andare in giro per piazze, costretti a subire le angherie, spesso ricattatorie, dei gestori delle sale private, parrocchiali o comunali, senza nessun rispetto della parola data o di un contratto stipulato e depositato. L’insulto che fece esplodere la rabbia nella nostra compagnia fu determinato dal parroco di un orrendo borgo del Lecchese che, dopo la rappresentazione del 'Giordano Bruno', dal fondo della platea arrivò come un giudice dell’Inquisizione in palcoscenico e ci ordinò brutalmente di far fagotto. Il prete gestore del locale salì in palcoscenico e urlò: «Tirate su i vostri stracci e, fra un’ora, voi e la vostra gente: sloggiate!» Mio padre diventò pallido, quasi più bianco dei suoi capelli bianchi, poi chiese: «Cosa vi ha tanto indignato, dello spettacolo?». «Il fatto del supplizio prima del rogo», rispose don Giussani (così si chiamava il prete), «quel far ingoiare uno straccio al condannato e poi tappargli la bocca con quella museruola perché non potesse proferir parola: questa è proprio una insopportabile menzogna gratuita da socialisti». Sempre per inciso devo ricordarvi che il fatto avveniva nel 1935, cioè in pieno fascismo, e fra Mussolini e il Vaticano si era appena firmato il famoso Concordato. «Macché gratuita!» risponde mio padre. «È nel testo accettato dal Ministero e già rappresentato centinaia di volte in Italia!». «Non me ne importa un fico dei timbri e dei permessi. Qui nel mio teatro non accetto i rossi, e basta così.»
Facemmo fagotto, come si dice, tutti zitti, nessuno proferì parola, ma era un silenzio più rumoroso di un uragano. Mi ricordo che quella notte io dormivo nella stessa camera di mio padre e mia madre. Loro continuavano, seppur sottovoce, a parlare. Ogni tanto sbottavano in grida. A un certo punto mi alzai avvolta nella coperta e protestai: «Io domani devo andare a scuola e voi non mi fate dormire. Non voglio addormentarmi come al solito con la testa sul banco!». «No, non preoccuparti, non dovrai andarci a scuola. Domani si parte per Novara.». «Recitiamo lì? In che teatro si va?». «Nel nostro. Lì c’è una cooperativa di carpentieri che ce lo costruirà.»" <310
L’episodio è molto esplicativo sia della formazione politica di Franca, sia delle scelte che, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, lei farà con Dario. Da questo aneddoto, infatti, s’intuisce quanto la percezione del mondo come luogo che non permette una reale libertà espressiva sia radicata, nell’interiorità di Franca, fin dall’infanzia, tanto che potremmo dire che essa costituisca il proprio DNA politico, la propria eredità genetico-ideologica. È l’esperienza della propria famiglia a far crescere in Franca la consapevolezza che gli spazi di libertà vanno conquistati e che nessuno li concede (o, quanto meno, non senza secondi fini). Ma quell’esperienza infonde in lei, fin dalla giovinezza, anche il senso della definizione di “spazio libero”: si tratta di costruire luoghi di fronte ai quali lo Stato (o tutto ciò che, in qualche modo, rappresenta i poteri forti del mondo - sia pure un banale parroco di paese) faccia un passo indietro, per permettere ai singoli spiriti liberi di poter fare un passo avanti. È quello spazio che -facendo un calembour col suo nome di battesimo- chiamiamo qui “Zona Franca” [...]
[NOTE]
278 STOPPINI, Alessandra, “Intervista allo scrittore Joseph Farrell e all’editrice Silvia Della Porta”, 10 luglio 2013, in: http://www.sololibri.net/Intervista-allo-scrittore-Joseph.html, consultata il 9 luglio 2016.
279 Ibidem.
280 In ricordo della compagnia (che meriterebbe uno studio a sé stante), Franca ha scritto e recitato un incontro-spettacolo intitolato Ricordi di famiglia, andato in scena per la prima volta a Bobbio il 29 aprile 2000, nel quale propone una carrellata di inedite situazioni vissute in famiglia tra il comico e il grottesco. Cfr. [AUTORE NON INDICATO], “A Bobbio con Franca Rame mostra e ricordi di famiglia”, in: «Libertà», 23 aprile 2000.
281 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., p. 20.
282 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., p. 11.
283 Ivi, p. 12.
284 È il caso, per esempio di Enrico Maria Salerno. Nato a Milano nel 1926, entra nell’autunno del 1945 (a diciannove anni) nella Compagnia Rame - sotto la direzione di Tommaso -, come contrasto (così, nel gergo dei girovaghi, vengono chiamati gli estranei alla famiglia), cercando, allo stesso tempo, di conciliare la nascente vocazione d’attore con la frequenza regolare dei corsi all’Università. Franca racconta che, per spiegare la sua scelta, egli “disse: «Io sono venuto qui per imparare. Sono già stato allievo di un’Accademia d’Arte, ma dopo un mese mi sono reso conto che stavo perdendo il mio tempo. Qui invece sento che mi posso arricchire di qualcosa. Per favore, insegnatemi a recitare alla vostra maniera.»” (Ivi, p. 18) Rimarrà nella compagnia fino all’aprile del 1946.
285 Ivi, p. 21.
286 VARALE, Silvia, “Nel laboratorio di Dario Fo e Franca Rame. 1 - A colloquio con Franca, un’operosa ape regina”, in: D’ANGELI, Concetta e SORIANI, Simone (a cura di), Op. cit., p. 11.
287 ENGDAHL, Horace (a cura di), Nobel Lectures. Literature 1996-2000, New Jersey, London, Singapore, Hong Kong, World Scientific, 2002, p. 21.
288 Regista e drammaturga, Valentina Esposito (Roma, 1975), dal 1995 lavora presso il Centro Studi “Enrico Maria Salerno”, svolgendo attività di promozione culturale e produzione teatrale a livello nazionale ed europeo, con particolare attenzione ai problemi sociali. Dal 2003, collabora con Fabio Cavalli nella direzione del Laboratorio Teatrale del Carcere di Rebibbia, a Roma (testimoniato dal film "Cesare deve morire" dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, di cui, tra il 2011 e il 2012, è stata responsabile organizzativa della parte teatrale). Nel 2013 ha fondato, con Fabio Cavalli, l’Accademia di Teatro Sociale con i detenuti in misura alternativa e gli ex detenuti del Carcere di Rebibbia - laboratorio di formazione teatrale permanente esterno al carcere. Attualmente Insegna Teatro nel Sociale presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha esordito nel cinema con la regìa di "Ombre della sera", docu-film interpretato dai membri dell’Accademia di Teatro Sociale e Pippo Delbono (Italia, colore 2016).
289 ESPOSITO, Valentina, Il teatro di Enrico Maria Salerno: 1945-1994 (Tesi di Laurea in Scienze Umanistiche - Corso di Laurea in Lettere - Università “La Sapienza” di Roma), 2004, p. 8, scaricabile alla pagina web: http://enricomariasalerno.it/biografia_artistica.htm, consultata il 10 luglio 2016.
290 RAME, Tommaso, “Lettera a Enrico Maria Salerno”, Varese, 30 maggio 1959, in «Archivio E.M.S. - Epistolario». L’«Archivio Enrico Maria Salerno» si trova a Castelnuovo di Porto (Roma), all’interno dell’abitazione dell’attore.
291 TOFANO, Sergio, Il teatro all’antica italiana, Roma, Bulzoni Editore, 1985, pp. 71-72.
292 Domenico Rame (1885-1948) ha ideali socialisti. Nel 1913 sposa Emilia Baldini ed è sotto la sua direzione che la compagnia passa dal teatro di figura a quello di persona. Il fratello Tommaso (1888-1968) è suo stretto collaboratore. Nominato Cavaliere nel 1936, Domenico, dal 1940, sarà Direttore del Teatro Odeon di Milano (dove proprio Dario Fo muove i suoi primi passi) e, di lì a poco, Presidente dell’Associazione Italiana Esercenti Spettacoli Viaggianti (A.I.E.S.V.).
293 [AUTORE NON INDICATO], “Lo Scheletro di Pio Rame”, in: Catalogo del Museo dei Burattini di Budrio. Collezione Zanella-Pasqualini, Comune di Budrio (Bologna), 2000, p. 46.
294 Ibidem.
295 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 39 e 41.
296 Sarà bene, qui, precisare che la marionetta è un pupazzo di legno, stoffa o altro materiale, che compare in scena a corpo intero ed è mosso a distanza o con accorgimenti non visibili (i fili, il più delle volte, che la muovono dall’alto); mentre il burattino è un pupazzo con il corpo di pezza e la testa di legno o di altro materiale, che compare in scena a mezzo busto ed è mosso dal basso, dalla mano del burattinaio, che lo infila come un guanto. Nell’Ottocento, tuttavia, quest’ultimo termine diviene talmente popolare da indicare entrambi i tipi di pupazzo (il che spiega perché Pinocchio -che tecnicamente è una marionetta- sia definito dal Collodi “burattino senza fili”).
297 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., p. 20.
298 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 41-42.
299 Ivi, p. 42.
300 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., pp. 25-26.
301 Dopo essere stato calciatore professionista tra il 1924 e il 1933, Tino Scotti (1905-1984) inizia la carriera come attore di teatro, calcando le assi di palcoscenici sui quali vengono prodotti spettacoli di varietà e di teatro di rivista. Dotato di una memoria eccezionale e di una straordinaria capacità oratoria, si contraddistingue per la velocità e la precisione delle sue parlate, sempre convulse e frenetiche, ma mai incomprensibili. Per questo motivo, viene benevolmente soprannominato Tino “Scatti”. Da buon caratterista, inventa due personaggi destinati a segnarne il successo: il cavaliere con il famoso motto “Ghe pensi mi” e il bauscia, emblemi di una milanesità agli antipodi.
302 Interpretato, insieme a Tino Scotti, da Franca e Pia Rame, Sandra Mondaini e Annì Celli.
303 Intellettuale poliedrico, Marcello Marchesi (1912-1978) è giornalista, scrittore di varietà radiofonici e televisivi, sceneggiatore, regista cinematografico e teatrale, paroliere, attore e talent scout. Ha scritto e diretto una conquantina di testi per il teatro di rivista, interpretati dai più importanti attori e dalle più importanti attrici in Italia.
304 [AUTORE NON INDICATO], “Biografia - Franca Rame”, consultabile alla pagina web: http://www.archivio.francarame.it/bioFranca.aspx, consultata l’11 luglio 2016.
305 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 22-23.
306 Ivi, p. 20.
307 Ivi, pp. 23-24.
308 Ivi, p. 24.
309 Ivi, p. 26.
310 Ivi, pp. 24-25.
Fabio Contu, Zona Franca (Rame), Tesi di dottorato, Università di Siviglia, Anno accademico 2016-2017

Enrico Maria Salerno inizia il suo apprendistato d’attore sul palcoscenico ambulante della famiglia Rame. E’ l’autunno del 1945, la compagnia percorre le province del Piemonte e della Lombardia ridotte in macerie dai lunghi anni di guerra.
A bordo del carro “La balorda”, Tommaso Rame allestisce nelle piazze dei paesi l’antico repertorio un tempo destinato al teatro di marionette. Nel suo “registro delle recite”, annota le partecipazioni dei giovani allievi-attori. Il nome di Enrico Salerno compare accanto a tre ruoli: Giuliano Dè Medici nel Cardinale di Louis Napoléon Parker, il Tenente Ruggero ne Le due orfanelle di Adolphe Dennery e Paride nel Romeo e Giulietta di Shakespeare.
La tradizione che la famiglia porta con sé è quella della commedia dell’arte, una tradizione antica che si tramanda di padre in figlio direttamente sul palcoscenico. Accanto ai “figli d’arte”, Salerno impara le regole del “recitare all’improvviso”, gli schemi fissi dei canovacci, le convenzioni che reggono il teatro delle parti e dei ruoli.
Ha un grande amore per la scrittura. A Milano riesce a lavorare come cronista e reporter per la Cineteatro-Lancio, frequentando contemporaneamente i corsi di regia: ha appena vent’anni quando intervista Vittorio De Sica.
Valentina Esposito, Il teatro di Enrico Maria Salerno: 1945-1994, Tesi di laurea, Università “La Sapienza” di Roma, 2004

domenica 12 giugno 2022

Una tipografia partigiana clandestina a Lerici

La villa che ospitò la stamperia clandestina - Fonte: Amanda Antonini, Op. cit. infra

Una delle prime basi di stampa [clandestina] fu creata alla Spezia, nel quartiere operaio del Canaletto, e fu installata, dopo l’8 settembre, in casa di Faustino Gelli, un artigiano di origine toscana, uno dei più infaticabili animatori della Resistenza nel quartiere spezzino.
Da questo centro del Canaletto uscirono i primi appelli scritti su carta-riso o ciclostilati, che venivano posti nelle cassette della posta, lanciati nei portoni, abbandonati sui sedili dei tram, nei locali pubblici, collocati vicino alle macchine operatrici delle fabbriche, perché li potessero leggere tutti e potessero giungere ai giovani affinché non si presentassero alla chiamata alle armi dei repubblichini. <69
Ma, qualche macchina da scrivere o qualche ciclostile, non potevano soddisfare il bisogno crescente di informazioni e di orientamento; di giorno in giorno si rivelava più forte la necessità di disporre di una tipografia.
Presentare ai cittadini un foglio stampato tipograficamente e non scritto con mezzi tanto comuni (come è una macchina dattilografica, che alla fin fine poteva anche essere adoperata da singoli, più o meno avventurosi), era come dare la prova che esisteva una organizzazione ben solida e responsabile.
Scartata l’idea di appoggiarsi a qualcuno degli operai delle tipografie ancora funzionanti, per la comprensibile ragione che esse erano sotto l’assiduo controllo di nazifascisti o anche per il fatto che fra le maestranze potesse esservi alcuno di cui non fidarsi, si decise di creare, con i mezzi che erano ancora tutti da trovare, una tipografia completamente nuova e clandestina.
Già tra il 1929 e il 1933, venne prescelto Lerici per il suo prevalente carattere di località balneare e turistica, senza presenza di fabbriche, dove quindi non si dava per temibile la presenza di una estesa, capillare e perciò forte organizzazione di classe operaia, capace di dar vita ad un delicato congegno quale è sempre un centro di stampa. <70
Per le stesse ragioni, Lerici fu ritenuto il luogo più idoneo, sia per sviare ogni e qualsiasi ricerca della base di produzione della stampa, sia per collegarsi più rapidamente con i centri più vivaci della lotta, con La Spezia e specialmente con i nuclei più forti e organizzati di antifascisti, come Pitelli, Muggiano, Canaletto e Melara, e poi ancora con Arcola e Sarzana, che erano da sempre i Comuni più antifascisti ed aperti alla diffusione della stampa clandestina.
Al compagno Argilio Bertella venne in mente che posto più sicuro per la tipografia non poteva essere che la vecchia villa appartenente ai Marchesi De Benedetti costruita ai primi dell’800 sui monti della Rocchetta. Lontano dalle vie di comunicazione più praticate, quel casamento era poco abitato dai padroni, già da molti anni, tanto che a Lerici se ne andava dimenticando l’esistenza.
La costruzione, ancora oggi difficile da trovare tanto la vegetazione la tiene nascosta, era immersa tra gli alberi di un parco, che già tendeva a inselvatichirsi; i contadini ed i pastori del posto denominavano ormai il luogo con il nome significativo di “Fodo”, termine che nel dialetto lericino significa appunto “sito in cui la vegetazione è fitta e fosca”.
Nel 1943 la villa era di proprietà dell’avvocato Fontana di Carrara. Le informazioni presto assunte diedero la favorevole conferma che il Fontana era avvicinabile perché nella sua città aveva aderito al movimento antifascista.
Recatosi nella sua casa, Alfredo Ghidoni (a cui venne affidata la responsabilità della Stampa e Propaganda e quindi dell’allestimento della tipografia clandestina di Lerici), contrattò l’affitto, che fu fatto figurare in testa a Merani Virgilio, costruttore di barche a vela, che agli occhi dei fascisti, poteva ben permettersi di affittare una villa per stabilirvisi con la sua famiglia, come sfollati. L’accorgimento funzionò.
Il compito di redattore e tipografo venne affidato a Tommaso Lupi.
Sotto il profilo operativo restavano però da risolvere difficili problemi iniziali e condizionanti: trovare e procurare la macchina tipografica, con il relativo corredo di caratteri e di materiale da composizione; trasportare tutto ciò, eludendo la vigilanza dei molti posti di blocco; approvvigionarsi della carta e dell’inchiostro; individuare il sito più sicuro per sistemarvi la tipografia, in maniera che a nessuno potesse venire in mente che potesse funzionarvi un apparato tecnico del genere.
La macchina, una vecchia pedalina, fu presa dalla tipografia Zappa in Via Duca di Genova (ora Fratelli Rosselli). Qualcuno aveva informato che era abbandonata, come un ammasso di ferro vecchio, in un cortile adiacente allo stabilimento e che il padrone era disposto a vendere.
La macchina tipografica, del peso di ben 7,5 quintali, venne caricata in un carro trainato da un robusto cavallo e celata sotto quantità sufficiente di fieno; poi con grande rischio trasportata sino alla villa.
Se si fosse presa la strada più diretta per Lerici, non si poteva dare ad intendere a nessuno che si portava un carico di ferro vecchio ad una fonderia, perché a Lerici non ve n’erano.
Si decise di percorrere la strada di collina: Termo, Baccano, Canarbino, Pitelli, Pugliola, Rocchetta; tragitto più lungo ma certo meno battuto dal pattugliamento tedesco e quindi più sicuro. Una volta arrivata a destinazione la macchina venne montata pezzo dietro pezzo a ritmo febbrile.
La stampa veniva effettuata prevalentemente nelle ore in cui vi era il coprifuoco; tuttavia il fracasso, che la vecchia macchina faceva, era notevole e non poteva non dare preoccupazione.
Il rumore di una macchina tipografica era tipico con la sua cadenza e facile quindi da essere individuato.
Si pensò subito ad utilizzare la grande cisterna vuota, sottostante all’aia lastricata, da molto tempo fuori uso, quindi non umida e in buone condizioni di praticabilità.
Quando l’imboccatura della cisterna era ben tappata con il suo coperchio, all’esterno quasi non si sentiva nulla e comunque quello che si sentiva risultava indistinguibile a chi passava da quelle parti.
Si decise quindi di trasferire la macchina nella cisterna, di murare l’imboccatura naturale e, per accedere al vano, di scavare una piccola galleria di collegamento nel muro che dava direttamente nel bosco, dove, tra l’altro, approfittando della sorpresa, nel caso che si presentassero i tedeschi o le brigate nere, ci si sarebbe potuti nascondere meglio.
Con molta fatica di scalpello fu aperto così un buco nella spessa parete della cisterna, e purtroppo tempo prezioso occorse per smontare la macchina, che altrimenti non avrebbe potuto essere calata attraverso l’imboccatura per collocarla poi nel nuovo ambiente. <71
Durante le operazioni di stampa, tenuto conto della rumorosità, era prevista la guardia costante di un compagno che, con un bastone battuto sull’aia sovrastante, avrebbe dato un eventuale segnale dall’allarme allo stampatore in cisterna. <72
Una volta superato il rischio dell’acquisto della macchina, si doveva affrontare di continuo quello dell’acquisto della carta. Detto approvvigionamento, realizzato ad opera di Ghidoni, risultò la più delicata operazione.
Non si poté contare su una disponibilità esistente in qualche grosso magazzino, anzi alla Spezia, dove non ci sono e non c’erano allora cartiere, c’era la più assoluta scarsità di carta. Chi ne avesse acquistato in quantità notevole e non fosse conosciuto come gestore di tipografia, avrebbe sicuramente suscitato sospetti.
Il pericolo restava sempre quello che individuassero dove ci si riforniva di carta e di qui potessero risalire alla base della stampa. Dovettero perciò adottare ogni possibile accorgimento per eludere gli appostamenti ed i pedinamenti predisposti sicuramente presso le cartolerie ed i magazzini di rivendita di carta.
Si pensò poi, ad acquistare e procurare fuori mano alcune casse di caratteri tipografici necessari per comporre. Li andò a comprare Lupi, a Pistoia.
Si badò che fossero nuovi di zecca, e non invece già usati, per rendere impossibile, anche alla più meticolosa indagine poliziesca, l’individuazione della provenienza della stampa che ne sarebbe uscita.
Questo particolare accorgimento di usare caratteri nuovissimi servì, infatti, a far risultare vani tutti i tentativi e le investigazioni promosse dai nazifascisti per risalire alla provenienza degli stampati. Quando essi cominciarono a circolare giunsero, per l’appunto, anche agli uffici dei comandi militari e polizieschi dei nazifascisti.
Quando, entro pochi giorni alla fine di novembre, il primo volantino uscì fresco d’inchiostro da quello che poco prima era soltanto un ammasso di ferraglia, l’animo di chi aveva contribuito a quell’impresa era colmo di legittimo orgoglio.
Piena era la loro consapevolezza di aver dotato il movimento di liberazione spezzino di un potente strumento di lotta capace di armare le coscienze e di concorrere a distruggere, con la forza del ragionamento e della verità dei fatti che si susseguivano, tutti i castelli di menzogne della martellante propaganda repubblichina, più di quanto non si era riusciti a fare, fino ad allora, con le sole macchine da scrivere o con i ciclostili.
Vennero stampati manifestini rivolti alternativamente ai lavoratori delle fabbriche, per appoggiare le loro rivendicazioni, alla popolazione, alle donne, ai giovani. Il linguaggio era rapido, conciso, tale da imprimersi subito nella mente anche a gente che leggesse furtivamente e con tutti gli accorgimenti necessari per non farsi sorprendere.
I lavoratori e gli antifascisti chiedevano ed avevano bisogno di questa stampa che li informasse della situazione politica interna ed estera, che li incitasse alla lotta contro il fascismo.
Chi leggeva la stampa offriva una quota a favore del Soccorso rosso (organizzazione che forniva aiuti ai militanti); nelle grandi fabbriche, specie nello stabilimento dell’OTO Melara, vi era una rete di attivisti, diffusori e raccoglitori di denaro, che in parte serviva per acquistare la carta e l’inchiostro. <73
Venne il giorno in cui si iniziò a stampare, seppure senza una regolare periodicità, addirittura una edizione spezzina dell’Unità, quattro povere paginette a due colonne e niente di più, ma ricche di carica ideale e attese per le informazioni, che davano sugli scioperi e sulle azioni contro i fascisti.
Giunsero dalla Francia, con cadenza mensile, sottili cliché in zinco fuso, tali da poter essere pressati nei coperchi delle valigie dei corrieri (spiegò Lupi che si era adottato tale accorgimento dopo che alcuni corrieri erano stati scoperti nel trasporto di pacchi di volantini nei doppi fondi delle valigie).
Col sistema del cliché inchiostrato, si appoggiava su questo un foglio bianco, poi lo si pressava con un rullo a secco; dopo di che occorreva far asciugare una notte i fogli così stampati per poi passare a stampare l’altra facciata. In tal modo su di un foglio di due pagine usciva l’Unità clandestina, con una tiratura di cinquecento o mille copie a seconda dei momenti. <74
Di indubbia maggiore efficacia risultò l’edizione spezzina. Si comprese che un organo di stampa locale sarebbe concretamente servito a dare prova della crescente efficienza che conseguiva il movimento partigiano.
L’immediatezza delle notizie avrebbe fatto comprendere ai resistenti a che cosa fosse servito l’apporto, all’apparenza anche modesto, che ogni singolo aveva dato.
I collegamenti con la tipografia erano un capolavoro di paziente e di intelligente tessitura. Niente fu affidato al caso: un solo passo falso avrebbe potuto pregiudicare irrimediabilmente non solo ciò che, con grande capacità politico-organizzativa, venne messo insieme a Lerici, ma forse tutta l’organizzazione politica clandestina nell’intera provincia, compresa quella militare.
Il tessuto dei collegamenti era complesso, a cominciare dal recapito dei testi manoscritti con le direttive e con le notizie pronte per la divulgazione e dal rifornimento del materiale necessario, nella quantità richiesta dalla ininterrotta produzione, per giungere poi alla fase di smistamento della stampa prodotta.
Il materiale non veniva finito di stampare, che subito si provvedeva a fare il piano per la distribuzione: gli stampati venivano depositati in due località prefissate, dove gli incaricati, che soli sapevano il sito, passavano a ritirarlo nelle ore più opportune. Uno di questi siti era alla Venere Azzurra e l’altro a Martino di Solaro, sempre nel comune di Lerici. Di lì la stampa perveniva nelle fabbriche e nelle varie zone della provincia, passando di mano in mano, da una persona all’altra, senza che si cercasse di conoscere da dove venisse, ma sapendo bene però dove fosse da portare.
Ci fu, in tutti coloro che furono protagonisti di quelle difficili battaglie, la piena consapevolezza che la stampa clandestina costituì, nello svolgersi degli avvenimenti più significativi della Resistenza spezzina, una delle prove più alte della capacità di lotta e di direzione politica della classe operaia e del complesso intrecciarsi della iniziativa antifascista nelle fabbriche e nella guerra partigiana, con le masse popolari e con altri ceti della città e della campagna.
I Tedeschi furenti per essere stati beffati per 4-5 mesi, non ebbero la benché minima idea di dove fosse questa così importante base degli antifascisti; era facile prevedere che un giorno o l’altro i tedeschi si sarebbero fatti vivi anche sui monti della Rocchetta, dai quali si dominava tutta la costa della Versilia, la piana di Luni e la foce del fiume Magra. <75
Nell’editoriale n. 10 dell’anno XXI, agosto 1944, dell’Unità, edizione della Spezia, che vene stampato alla Rocchetta proprio in quei giorni si leggeva: “La guerra è alle porte”. <76 Questa frase apriva le quattro pagine del giornaletto stampato proprio mentre i tedeschi stavano salendo alla Rocchetta, ed è anche l’unico, fra tutti quelli stampati precedentemente, di cui si conserva una copia.
 

Accesso alla cisterna della stamperia - Fonte: Amanda Antonini, Op. cit. infra

[NOTE]
69 G. Fasoli, Una tipografia clandestina. Il centro stampa della Rocchetta di Lerici durante la lotta di liberazione, Edizioni Giacchè La Spezia 2006, p. 43-46
70 A. Giacchè, A. Bianchi, Tommaso Lupi partigiano, artefice della stampa clandestina antifascista, Edizioni Giacchè La Spezia, 2012, p. 13-25
71 G. Fasoli, Una tipografia clandestina. Il centro stampa della Rocchetta di Lerici durante la lotta di liberazione, Edizioni Giacchè La Spezia 2006, p. 51-59
72 A. Giacchè, A. Bianchi, Tommaso Lupi partigiano, artefice della stampa clandestina antifascista, Edizioni Giacchè La Spezia, 2012, p. 74-77
73 A. Giacchè, A. Bianchi, Tommaso Lupi partigiano, artefice della stampa clandestina antifascista, Edizioni Giacchè La Spezia, 2012, p. 33-35
74 G. Fasoli, Una tipografia clandestina. Il centro stampa della Rocchetta di Lerici durante la lotta di liberazione, Edizioni Giacchè La Spezia 2006, p. 64-69
75 M. Farina, La Spezia marzo 1944. Classe operaia e resistenza, Istituto storico della resistenza P.M. Beghi La Spezia 1976, p. 81-83
76 G. Fasoli, Una tipografia clandestina. Il centro stampa della Rocchetta di Lerici durante la lotta di liberazione, Edizioni Giacchè La Spezia 2006, p. 106-117
 

Caratteri tipografici utilizzati nella stamperia, rinvenuti dalla famiglia Gattoronchieri - Fonte: Amanda Antonini, Op. cit. infra

Amanda Antonini, Il potere della comunicazione tra regime e resistenza, Tesi di laurea, Università di Pisa, 2018

venerdì 3 giugno 2022

Dopo i ripetuti bombardamenti alleati al ponte di ferro sul fiume Po, i tedeschi organizzarono attracchi per traghetti

Valenza (IM): Palazzo Pelizzari, sede del Municipio - Fonte: Wikipedia

Le montagne dell'Ossola, le colline del Monferrato, le Langhe, la Val Borbera, l'Oltrepo pavese sono tutti luoghi che hanno vissuto una propria e caratterizzante storia resistenziale, oggi di facile ricostruzione e lettura.
Per le città, ciò difficilmente avviene.
Valenza ne è prova. Una città, organizzata e viva, porta con sé un patrimonio di relazioni fra istituzioni, fra poteri pubblici, centri di riferimento economico e sociale.
Negli anni 30'- 40' Valenza, pur in presenza dell'autarchia di Regime, era legata a filo doppio con Alessandria e Casale Monferrato; sviluppava relazioni con la Lomellina, con Pavia e Milano, con Genova e Torino.
Le vie di comunicazione stradale e ferroviaria erano adeguate, poste a raggiera, con frequenti intersezioni verso Milano, Torino e Genova; il Po fungeva da confine fisico fra Piemonte e Lombardia, ma anche da via di traffico e comunicazione naturale.
Le aziende orafe e calzaturiere alimentavano traffici a dimensione più ampia, oltre i confini italiani; i gerarchi fascisti erano correlati al capoluogo provinciale e da qui verso Torino e Roma; le scuole servivano parecchi paesi limitrofi, con scambi di culture fra contadini, operai, artigiani, imprenditori; il Regime aveva da decenni promosso ed organizzato il consenso, con tutte le varie iniziative di proselitismo e indottrinamento.
Era una città articolata, fatta di vissuto diverso, una città aperta e geograficamente polarizzante.
Furono proprio questi fattori a far decidere gli occupanti tedeschi a scegliere Valenza come centro per collocarvi comandi di polizia, squadre di milizie SS, sezione SD Sicherheit Dienst, militari della Wehrmacht, l'organizzazione Todt, la Zugleitung, postazioni di contraerea della Flak, gruppi di genio pontieri.
La presenza tedesca si rafforzò, dopo che Alessandria divenne sempre più frequente bersaglio dei bombardamenti alleati.
A Valenza venne trasferito il comando provinciale delle truppe tedesche. Non solo, vennero intensificati tutti i controlli sulle vie di comunicazione, sulla rete ferroviaria, sul fiume Po, ad ogni attracco di barche e sui vari ponti di attraversamento fra Trino, Casale e Valenza.
In questo contesto va collocata la storia resistenziale di Valenza, una città occupata dai tedeschi perchè ritenuta strategica, una città cerniera fra due regioni, una città sotto il dominio capillare della K 1014 Kommandantur e l'ausilio delle rinate presenze repubblichine, con comandi della G.N.R. e Brigate Nere.
Pur in questo difficile contesto, sorsero le formazioni GAP (gruppi di azione patriottica) di Enzo Luigi Guidi, detto Batista; poi alcune esperienze di SAP (squadre di azione patriottica); la componente comunista, come in passato era stata fattore determinante dell'antifascismo locale unitamente alla matrice socialista, costituì una significativa ispirazione per le formazioni partigiane; venne ricostituita la sezione del PCI, mix di militanza politica ed ideologica.
I distaccamenti Rasinone e Paradiso, il gruppo di Ticineto-Valmacca della Garibaldi, vissero fasi diverse di organizzazione, in crescendo per adesioni ed efficacia. Si affermarono, inoltre, le formazioni GL Paolo Braccini con la brigata Pasino, al comando di Carlo Garbarino fra San Salvatore e Castelletto Monferrato; con la brigata Lenti al comando di Filippo Callori nell'area di Vignale.
Operarono, inoltre, la Divisione Matteotti-Marengo Borgo Po, tra Valle San Bartolomeo-Filippona-Lobbi; la Divisione Patria fra Occimiano-Mirabello-Giarole; la brigata 108 Paolo Rossi della Garibaldi, con il distaccamento nell'area di Bassignana-Fiondi-Pecetto-Grava-Mugarone <1
Attorno a Valenza, mese dopo mese, venne creata una rete capillare ed efficace di dissenso operativo. Le formazioni partigiane si impegnarono in consistenti azioni di sabotaggio e danneggiamento verso i posti di blocco e controllo dei nazifascisti; ospitarono e nascosero per mesi i prigionieri alleati inglesi, americani, australiani, neozelandesi liberati dai campi di concentramento-prigionia del Piemonte e Lombardia e dal Forte di Gavi.
La stazione e la galleria ferroviaria fra Valenza e Valmadonna costituirono per mesi l'obiettivo di furti, saccheggi da parte delle formazioni partigiane.
Sull'arteria ferroviaria, infatti, i tedeschi fecero transitare armi e viveri verso altre località lombarde e piemontesi, per evitare i frequenti bombardamenti alleati su Alessandria.
In alcune circostanze, i partigiani nascosero le armi e munizioni saccheggiate ai tedeschi proprio all'interno della galleria di Valmadonna.
Le formazioni GAP attaccarono a più riprese le postazioni tedesche; le azioni di sabotaggio sono ampiamente documentate e citate in numerosi dispacci e fonogrammi che i tedeschi inviavano giornalmente ai comandi superiori, fonogrammi rinvenuti recentemente, tradotti e pubblicati nel volume "Resistenza e nuova coscienza civile" a cura dell'autore.
I comandi tedeschi giunsero a comminare multe salatissime ai comuni del Valenzano per disincentivare le attività di sabotaggio. Le multe dovevano essere pagate al comando tedesco di Valenza. I tedeschi non solo occuparono il territorio, ma inflissero sanzioni per punire le azioni di dissenso delle popolazioni.
Gli esordi, il CLN, una città controllata dai tedeschi.
La caduta di Mussolini del 25 luglio e l’armistizio dell' 8 settembre 1943 rialimentarono le convinzioni e le speranze per la libertà, anche a Valenza. Durante il ventennio fascista, il dissenso esplicito venne rappresentato, in modo efficace, dal socialista Francesco Boris, già capostazione. Non aderì al Fascio, dovette cercarsi un altro lavoro. Le organizzazioni comuniste, pur nell'omologazione dissuasiva del Fascio, tennero vivo il pensiero antifascista attraverso cellule di militanti. A Valenza era operativa una sezione comunista a tutti gli effetti, con riferimenti organici con Alessandria e Torino.
Anche nelle file cattoliche, si costituì nel ’42 la prima sezione della DC, d’ispirazione degasperiana. Nel laboratorio della farmacia Manfredi, alla presenza dell’ex popolare avv. Giuseppe Brusasca, venne fondata la sezione. Contribuirono Carlo Barberis, Gigi Venanzio Vaggi, Luigi e Vittorio Manfredi, Pietro Staurino, Luigi Deambroggi, Luigi Stanchi, Giuseppe Bonelli e Felice Cavalli. La sezione sviluppò immediatamente temi ed iniziative di dissenso clandestino al regime.
Alla notizia dell’arresto di Mussolini, nell’abitazione di Francesco Boris, si tenne un primo incontro per costituire il CLN valenzano. Accanto a Boris per il partito socialista, vi aderirono Luigi Vaggi per la DC, Ercole Morando per il PCI, Vittorio Carones per il Partito d’Azione e Poggio per il PLI, poi sostituito da Barberis detto Cuttica.
Il CLN di Valenza tenne varie riunioni, cambiando sede di volta in volta, per non destare sospetti. Si svolsero a casa Boris, a casa di Costantino Scalcabarozzi, in casa Mazza alle Terme di Monte Valenza, a casa dei fratelli Marchese, nella biblioteca Silvio Pellico dell’oratorio del Duomo di Valenza. <2
Francesco Boris e Paolo De Michelis (già parlamentare socialista negli anni ’20) furono arrestati a marzo 1944 e condotti nella sezione tedesca delle Carceri Nuove a Torino, per poi essere inviati nei campi in Germania. Vennero poi liberati, grazie ad uno scambio di prigionieri.
Il 16 gennaio 1944, il ventenne Sandro Pino venne colpito a morte in occasione di una perquisizione e retata della G.N.R. nel bar Achille, nel pieno centro, alla caccia di antifascisti e ribelli. Il fatto destò grande sconcerto ed intimorì i giovani. Giulio Doria, antifascista ed aderente a metà ’44 al movimento partigiano, ricorda dettagliatamente quei difficili momenti nell’intervista rilasciata a Maria Grazia Molina e pubblicata nel n. 23 di “Valenza d’na vota” edito a dicembre 2008. Il fratello di Giulio, Mario, aderì subito alla formazione autonoma Patria, guidata da Edoardo Martino e Giovanni Sisto. Il secondo fratello, Pietro, visse anni di prigionia in Germania, come militare catturato dai tedeschi. Giulio disertò la chiamata alla Capitaneria di Savona e si diede alla macchia, nella campagna valenzana. Giulio ricorda d’aver curato e nascosto cinque militari australiani, sfuggiti alla cattura dei tedeschi; di averli poi avviati in Lombardia. Anche Giulio entrò nella brigata autonoma Patria, si collegò con Vaggi e tesse una fitta rete di relazioni fra la città ed i comuni del Monferrato.
La presenza strutturata dei tedeschi occupanti cambiò il volto alla città. I liberi movimenti erano impossibili; le truppe tedesche, coadiuvate ed indirizzate dai fascisti repubblichini, erano pervasive. Vennero organizzati frequenti posti di blocco sulle vie di accesso, sulle arterie di comunicazione verso Pavia, Alessandria, Casale Monferrato, Tortona. La ferrovia era super controllata, perchè utilizzata spesso dai tedeschi per il trasferimento di esplosivi ed armi. Dopo i ripetuti bombardamenti alleati al ponte di ferro sul fiume Po, i tedeschi organizzarono attracchi per traghetti, sui quali transitavano truppe, armi e munizioni verso Milano.
Il 17 febbraio 1944, il 10 dicembre 1944 ed il 2 marzo 1945 si ebbero a Valenza rastrellamenti intensi e radicali, con minuziose perquisizioni ad intere vie ed isolati, arresti di giovani.
L' attività della missione americana Youngstown. Inediti dall'archivio di Gian Carlo Ratti
Una precisa conferma dell'organizzazione militare e logistica tedesca, delle forze partigiane operanti nel Monferrato e nel Valenzano, ci viene dall'inedito e significativo materiale documentale presente nell'archivio Gian Carlo Ratti, ora in consegna all'autore, di prossimo commento e pubblicazione. <3 L'archivio è costituito da un dettagliato memoriale, da ampia documentazione in originale, da mappe, appunti, manoscritti, rapporti, note di guerra, attestati, fonogrammi [...]
 

Un'immagine del bombardamento sul ponte e sulla strada di Torre Beretti (PV), effettuato il 27 Luglio 1944 dai bombardieri statunitensi del 320° Bomb Group, tratta dal sito www.320thbg.org, qui ripresa da Sergio Favretto, Op. cit. infra

[NOTE]
1 Si vedano i saggi: "Valenza antifascista e partigiana" di Enzo Luigi Guidi, edito nel 1981 dall'ANPI di Valenza; "Resistenza e nuova coscienza civile" di Sergio Favretto, edito da Falsopiano nel 2009; "La Provincia di Alessandria nella Resistenza" di William Valsesia, edito nel 1980; "Una brigata di pianura, cronaca della 108° brigata Garibaldi Paolo Rossi" di O. Mussio, edito dall'ANPI di Castelnuovo Scrivia, nel 1976.
2 Questi avvenimenti sono descritti nel volume "Resistenza e nuova coscienza civile" di Sergio Favretto, edito da Falsopiano nel 2009
3 L'archivio Ratti è stato solo recentemente consegnato in esame e custodia all'autore. Si presenta, già a primo acchito, come una fonte significativa di documentazione inedita. Per il 2013 si presume possa costituire la fonte di nuove analisi storiche e possa essere ospitato in alcune pubblicazioni sui temi resistenziali del Piemonte.
Sergio Favretto, La Resistenza nel Valenzano. L'eccidio della Banda Lenti, Comune di Valenza (AL), 2012

[ n.d.r.: nella bibliografia di Sergio Favretto: Partigiani del mare. Antifascismo e Resistenza sul confine ligure-francese, Seb27, Torino, 2022; Il papiro di Artemidoro: verità e trasparenza nel mercato dei beni culturali e delle opere d’arte, LineLab, Alessandria, 2020; Con la Resistenza. Intelligence e missioni alleate sulla costa ligure, Seb27, Torino, 2019; Un carabiniere, testimone di storia. Mussolini a Ponza e a la Maddalena narrato in un diario, Arti grafiche, 2017; Una trama sottile. Fiat, fabbrica, missioni alleate e Resistenza, Seb27, 2017; Coraggio e passione. Riccardo Coppo, il sindaco, le sfide, Falsopiano, 2017; Fenoglio verso il 25 aprile, Falsopiano, 2015; Resistenza e nuova coscienza civile. Fatti e protagonisti nel Monferrato casalese, Falsopiano, 2009; Il diritto a braccetto con l'arte, Falsopiano, 2007; Giuseppe Brusasca: radicale antifascismo e servizio alle istituzioni, Atti convegno di studi a Casale Monferrato, maggio 2006; I nuovi Centri per l’Impiego fra sviluppo locale e occupazione (con Daniele Ciravegna e Mario Matto), Franco Angeli, 2000; Casale Partigiana: fatti e personaggi della resistenza nel Casalese, Libertas Club, 1977 ]

mercoledì 1 giugno 2022

Spesso, poi, gli arresti non avvenivano durante i disordini ma successivamente, quando guardie e carabinieri si mettevano a setacciare i quartieri popolari di Parma

Parma: un angolo di Oltretorrente - Fonte: Wikipedia

Come si è visto nei precedenti capitoli, in cinquant’anni di storia, l’Oltretorrente [a Parma] fu protagonista di numerosi episodi di conflitto che guadagnarono ai suoi abitanti una certa fama nel resto d’Italia, amplificata da eventi straordinari come le proteste contro la guerra d’Africa del 1896 o lo sciopero del 1908 e poi coronata e sublimata, nel primo dopoguerra, dalle vicende delle Barricate antifasciste del 1922.
«Popolo ribelle» o «teppa» - a seconda del punto di vista da cui, di volta in volta, si è guardato a quella realtà sociale e politica e ai protagonisti di quella lunga serie di rivolte - sono le definizioni che più si sono avvicendate sia nelle cronache giornalistiche coeve, sia in non poche ricostruzioni storiche che, negli anni, hanno contribuito a rafforzare un alone leggendario intorno a coloro che parteciparono ai tumulti e alle sommosse, dandone quasi per scontata l’uniformità sociale, come se si trattasse di tutta la popolazione del quartiere. Mai nessun tentativo è stato fatto per comprendere meglio chi realmente fossero questi rivoltosi, mai è stato composto un loro ritratto particolareggiato, né sul breve né sul lungo periodo <737.
Uno degli obiettivi di questo lavoro, dunque, è stato anche quello di ridare un volto a quel popolo, e di verificare in che modo moti e rivolte hanno aderito alle pieghe della società locale, attraverso un’analisi dei loro protagonisti, almeno di quella parte di essi che è incappata nelle reti della giustizia e ha subito arresti o processi. Un’operazione non certo semplice o priva di pericoli che, come ha ben mostrato George Rudé, porta con sé il costante rischio di cadere in facili stereotipi o avventati parallelismi <738. Tenendo presenti i rischi, dunque, si è cercato di recuperare alcuni dei segmenti sociali che composero le folle dei rivoltosi e di analizzarne le caratteristiche.
Capire se si sia trattato di uomini o di donne, di giovani o meno giovani, di abitanti dei borghi o di altre zone non è infatti ininfluente per togliere quella patina di mito che si è depositata sulla storia delle classi popolari della città e, sebbene non si possa pretendere di giungere ad una definizione dettagliata dei protagonisti delle rivolte, è pur sempre possibile individuare le componenti sociali prevalenti e, sul lungo periodo, mostrarne le continuità e le discontinuità, le analogie e le differenze.
La maggior parte dei dati che supporteranno le prossime riflessioni è stata recuperata nelle carte di polizia: nelle relazioni degli agenti al prefetto e di questo al Ministero dell’Interno, infatti, oltre al racconto dei numerosi scontri e tumulti, vennero spesso indicati i nomi e le informazioni anagrafiche degli arrestati e, talvolta, l’imputazione loro contestata. Certo non si tratta di documentazione esente da lacune o mancanze ma, ugualmente, sulla sua base si è potuto costruire un data-base con i dati anagrafici e professionali di 568 uomini e donne fermati in occasione di proteste, manifestazioni, sommosse, tumulti, risse e scontri con la forza pubblica tra il 1888 - nei disordini per l’inaugurazione del monumento a Girolamo Cantelli - e il 1915, durante le manifestazioni interventiste del “maggio radioso”. Le informazioni raccolte su queste relazioni sono poi state confrontate e integrate con altre ricavate dalle cronache dei giornali e dalle carte dei processi celebrati dal Tribunale di Parma dal 1901 al 1915.
Le ragioni - anche molto diverse le une dalle altre - per le quali vennero incarcerate le persone riunite nel data-base ricompongono uno spettro di situazioni di conflitto sociale molto ampio: dalle donne che reclamavano un “giusto prezzo” per il pane, ai giovani che, in uscita da qualche osteria, si accapigliavano con pattuglie di agenti; dalla folla furibonda per l’assassinio di Pietro Cassinelli che prese d’assalto la stazione di Pubblica sicurezza di via d’Azeglio, ai sindacalisti rivoluzionari che per 50 giorni gestirono uno dei primi grandi scioperi del movimento contadino italiano; dagli anarchici e socialisti che inscenarono i primi e rumorosi cortei notturni ai protagonisti delle diverse ribellioni alla forza pubblica di cui l’Oltretorrente fu frequentemente teatro nel corso degli anni.
È tuttavia uno spettro, una fotografia, che ci deriva da una selezione operata, prima che dalla nostra ricostruzione, dalle forze dell’ordine che eseguirono gli arresti e che furono in questo orientate da ragioni molteplici. Ragioni che ebbero a che fare con l’organizzazione e la gestione dell’ordine pubblico in città, con le direttive del governo - che, in alcuni casi, come durante lo sciopero del 1904, impartì precise indicazioni perché le forze dell’ordine si astenessero dal compiere gesti che avrebbero potuto suscitare reazioni tumultuose -, con le abitudini e l’esperienza degli agenti che pattugliavano i quartieri popolari, con la loro capacità di identificare e riconoscere gli individui più “pericolosi”.
Inoltre, solo una esigua minoranza degli uomini e delle donne che scesero in strada o si scontrarono con la forza pubblica finì nei verbali e nelle celle di sicurezza, mentre la gran parte di essi riuscì a sottrarsi alle strette della repressione. E ciò anche in occasione di quegli eventi verso i quali l’azione di polizia fu più massiccia e che si conclusero con arresti di massa, talvolta anche ingiustificati e vanificati poi dall’esito dei processi, come nel caso del giugno 1908 e degli oltre cento dirigenti e organizzati della Camera del Lavoro catturati durante l’assalto in borgo delle Grazie, tutti assolti dal Tribunale di Lucca non senza polemiche per come la polizia e la magistratura parmensi avevano condotto l’istruttoria <739.
Spesso, poi, gli arresti non avvenivano durante i disordini ma successivamente, quando guardie e carabinieri si mettevano a setacciare i quartieri popolari in cerca di coloro che avevano, o credevano di avere, riconosciuto in strada. Non era dunque raro che, in simili circostanze, in ferri ci finissero uomini già noti alle forze dell’ordine per i loro precedenti penali. Anche per questo, probabilmente, tra gli arrestati predominarono quegli uomini giovani che, meglio di donne o di uomini più anziani, corrispondevano, nell’immaginario delle forze dell’ordine, allo stereotipo del rivoltoso e dell’individuo pericoloso.
Solo una parte degli arresti, dunque, venne eseguita nel pieno delle sommosse che, quasi sempre, per lo meno per gli episodi più tumultuosi, si concludevano con un fuggi fuggi incalzato dagli spari dei soldati. I tutori dell’ordine, poi, soprattutto quando i disordini avvenivano in Oltretorrente, mostravano una certa difficoltà nel contenere e reprimere gli scontri, impotenza che va senz’altro messa in relazione con il consenso che i tumulti trovavano in quartiere. Quel dedalo di vicoli e cortili, infatti, si trasformava in un labirinto di vie di fuga per i suoi abitanti che, da una casa all’altra, tramite i tetti o le corti interne, riuscivano a dileguarsi velocemente, mentre guardie e soldati dovevano accontentarsi di acciuffare i pochi che rimanevano nelle strade o ritardavano a rifugiarsi dietro i portoni. Talvolta, dunque, i fermi avvenivano in modo piuttosto arbitrario: gli avventori di un’osteria nei pressi di uno scontro, gli abitanti di una casa da cui era piovuto un sasso, o coloro che, circondati i borghi, rimanevano casualmente impigliati nella retata della forza pubblica.
[NOTE]
737 Gli unici esempi di analisi in questa direzione, infatti, riguardano i “sovversivi” del ventennio fascista, cfr. M. Palazzino, Nel buio. L’antifascismo parmense e lo Stato di polizia, in M. Giuffredi (a cura di), Nella rete del regime…, cit., pp. 1-34; W. Gambetta, L’esercito proletario di Guido Picelli (1921-1922), «Storia e documenti», n. 7, 2002, pp. 23-46.
738 G. Rudé, La folla nella storia…, cit., pp. 19 e 231.
739 Cfr. U. Sereni, Il processo ai sindacalisti parmensi…, cit.
Margherita Becchetti, Oltretorrente. Rivolte e conflitto sociale a Parma. 1868-1915, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Parma, 2010