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lunedì 31 ottobre 2022

Ai primi anni Cinquanta risalgono molte delle operazioni clandestine più ambiziose messe in atto dalla Cia


Sull’argomento delle covert operations sarebbero successivamente tornate due direttive: la Nsc 5412/1 del 15 marzo 1954, e la Nsc 5412/2 del 28 dicembre 1955, che ampliavano le regole sulla base delle quali la Cia aveva agito sino ad allora <213. Questi ultimi due documenti arricchivano infatti la rosa degli obiettivi delle covert operations, che consistevano nel creare e sfruttare i problemi del comunismo internazionale; screditare il prestigio e l’ideologia del comunismo internazionale; limitare il controllo del comunismo su ogni area del mondo e rafforzare il consenso dell’opinione pubblica mondiale nei confronti degli Stati Uniti. Infine, alle covert operations veniva assegnato lo scopo di sviluppare un piano di resistenza efficace che, in caso di guerra, prevedesse la presenza di elementi civili di appoggio all’esercito, una base a partire dalla quale le forze militari potessero espandere le loro forze all’interno del territorio, e la presenza di facilities per eventuali fughe <214.
Nel quadro giuridico relativo alle covert operations rientra anche la direttiva Nsc 68 dell’aprile 1950, intitolata United States Objectives and Programs for National Security <215. Questo documento nasceva in un contesto profondamente mutato. Nel 1950, infatti, la nascita della Repubblica popolare cinese, la fine del monopolio nucleare statunitense e la guerra in Corea avevano aperto scenari cupi per la leadership americana e rendevano necessaria una revisione della strategia estera. L’Unione sovietica si stava infatti dimostrando un avversario ancor più temibile e tecnicamente competente di quanto previsto. La Nsc 68 rifletteva quindi l’esigenza di ristabilire la supremazia statunitense e di uscire dalla logica del contenimento, accusata di inerzia e passività. Era necessario reagire all’avanzata comunista in maniera più incisiva in quanto “una sconfitta in qualsiasi luogo” sarebbe stata percepita come “una sconfitta ovunque” <216. Nello specifico, il documento contiene gli strumenti necessari per garantire integrità e vitalità al sistema occidentale e per correggere le storture tipiche dei regimi democratici che l’Unione sovietica, spinta da una “fede fanatica” ed erede dell’imperialismo russo, avrebbe cercato di sfruttare per portare il continente euroasiatico sotto il proprio dominio. Nella realizzazione di questo disegno, gli Stati Uniti rappresentavano una minaccia permanente, in quanto l’idea di libertà di cui erano incarnazione era totalmente incompatibile con quella di schiavitù sovietica <217. La direttiva Nsc 68 contiene numerosi riferimenti al concetto di “credibilità”, una componente fondamentale per riaffermare la supremazia americana <218. Oltre alla reale distribuzione del potere, infatti, ciò che contava era il modo in cui l’immagine di forza e di fermezza degli Usa era percepita esternamente dal nemico sovietico, dagli alleati europei e dal resto del mondo. La direttiva ebbe tra i suoi principali effetti la “successiva militarizzazione della presenza americana in Europa, premessa per il riarmo della Germania e per la trasformazione del Patto Atlantico in North Atlantic Treaty Organization (Nato), una struttura militare che rendesse possibile la creazione di un esercito permanente in tempo di pace”. Inoltre, la Nsc 68 portò ad un incremento delle spese militari, che dai 22,3 miliardi di dollari (1951) salirono a 44 miliardi (1952) <219. “Ideologicamente e retoricamente sovraccarico”, il documento si inserisce nella serie di direttive volte ad imprimere un cambiamento alla politica estera e a integrare i mezzi tradizionali della politica, inadeguati nel contenere la crescita sovietica, attraverso il dispiegamento di mezzi dall’efficacia più diretta e immediata <220.
Un altro organismo che prese parte attiva nella guerra non ortodossa al comunismo fu, fin dalla sua creazione, la Nato stessa, che diede luogo ad una profonda revisione dei sistemi di sicurezza e di difesa statunitensi, con particolare riferimento alle operazioni clandestine condotte nei paesi dell’Europa occidentale <221. Attraverso protocolli segreti, la Nato assegnava ai servizi segreti dei paesi firmatari compiti di guerra non ortodossa contro il comunismo <222. Nel settembre 1951, ad Ottawa, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia crearono lo Standing Group, un comitato d’emergenza e direzione militare interno alla Nato, creato con lo scopo di dividere gli scacchieri militari in “gruppi regionali di operazioni”, e tra i cui compiti rientravano anche quelli relativi alla pianificazione di una strategia di guerra non convenzionale <223. Sempre a partire dal 1951, iniziò ad operare un altro organismo interno alla Nato nell’ambito della guerra non ortodossa: il Clandestine Planning Committee (Cpc), nato dall’approvazione di una direttiva del Saceur (Supreme Allied Commander in Europe) <224, da parte di Eisenhower, allora comandante delle forze Nato presso il Supreme Headquarters Allied Powers Europe (Shape) con sede a Bruxelles. Il Cpc aveva lo scopo di pianificare, preparare e dirigere guerre clandestine condotte da Forze speciali e dalla Stay Behind net in Europa <225. Quest’ultima rappresentò una rete clandestina operante in tutti i paesi del Patto Atlantico allo scopo di impedire l’espansione del comunsimo in Europa occidentale e, in caso di aggressione esterna, di organizzare la resistenza in ottemperanza della dottrina Nato della “difesa arretrata e manovra in ritirata” <226. In assenza di un attacco diretto, che effettivamente non avvenne mai, la rete servì principalmente ad organizzare una guerra occulta contro i Partiti comunisti dell’Europa occidentale, cui doveva essere impedito di ottenere il potere pena la compromissione della collocazione atlantica dei paesi stessi. Di fatto, le organizzazioni di Stay behind furono coinvolte, a partire dagli anni Cinquanta, in azioni sfuggite al controllo dei governi europei e non conformi alle loro costituzioni. Tali strutture avrebbero inoltre agito subordinatamente agli obiettivi di un più vasto e continuativo disegno atlantico, cui erano strettamente legati per mezzo di accordi militari e protocolli segreti. Rimasta a lungo occultata, dell’esistenza della Stay behind si sarebbero avuto le prime informazioni nell’ottobre 1990, grazie alle dichiarazioni dell’allora Presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti <227. Un’altra costola della guerra non ortodossa in Europa fu l’Allied Clandestine Committee (Acc), che a partire dal 1958 fu preposto al coordinamento delle varie reti di Stay behind europee e, come il Cpc, direttamente sottoposto al controllo degli Stati Uniti e collegato al Saceur <228.
La convinzione che le operazioni di tipo non convenzionale fossero lo strumento più efficace nella lotta al comunismo portò gli Stati Uniti ad impegnarsi in molte parti del mondo, attraverso una grande molteplicità di strumenti: l’elargizione di cospicui finanziamenti ai partiti di centro, il sostegno ai sindacati anticomunisti, la propaganda e l’infiltrazione di gruppi di resistenza armata. Oggi, le attività illegali della Cia sono note grazie ai lavori delle diverse commissioni di inchiesta statunitensi che si susseguirono in seguito allo scandalo Watergate, e che finirono per travolgere la reputazione dell’agenzia di intelligence <229. Le prime attività clandestine di carattere offensivo furono rivolte ai paesi dell’Europa dell’Est e ai paesi satelliti dell’Unione Sovietica, in particolare nei confronti dei paesi baltici e dell’Ucraina. In queste “denied areas” i servizi segreti americani operarono su due fronti: da un lato, misero in campo un’intensa attività di propaganda contro l’Unione sovietica, attraverso i canali ufficiali come The Voice of America, ma anche attraverso la creazione di apposite stazioni radiofoniche come Radio Liberty e Radio Free Europe <230. Gli Stati Uniti sfruttarono inoltre i contatti con le forze politiche antistaliniste, e l’infiltrazione di agenti locali. Le prime azioni di carattere difensivo furono invece destinate all’Europa occidentale, soprattutto a Francia e Italia, ove il peso del Partito e del sindacato comunista rischiava di consegnare i due paesi al blocco comunista. L’intervento più significativo ebbe luogo nei mesi che precedettero le elezioni italiane del 1948. In quell’occasione, gli Stati Uniti affiancarono a interventi di propaganda palese, volti alla costruzione di una immagine positiva di sé, covert operations come il finanziamento occulto alle forze politiche e ai sindacati anticomunisti <231.
A partire dagli anni Cinquanta, la stabilizzazione dell’Europa e il cambio ai vertici dell’amministrazione statunitense, con l’elezione di Eisenhower, portarono la Cia a rivolgere il proprio interesse verso scenari extra europei, ove il processo di decolonizzazione apriva nuovi contrasti con l’Urss <232. A questi anni risalgono molte delle operazioni clandestine più ambiziose messe in atto dalla Cia <233. Molte di queste si conclusero con clamorosi insuccessi, causati dalla superficialità e dalla scarsa lungimiranza con cui la componente operativa della Cia ne faceva un uso indiscriminato. Più che per gli effetti prodotti sul comunismo, queste operazioni sono ricordate per essersi tradotte in limitazioni “della libertà di espressione e di associazione”, in piani di detenzione d’emergenza per presunti “sovversivi”, in violazioni di diritti civili, e soprattutto in “liste nere”, “esecuzioni sommarie”, arresti per semplici “reati di opinione”, e nel “ricorso a dittature militari” <234. Nonostante ciò, le covert operations poterono godere sempre di una grande popolarità all’interno dell’establishment statunitense, divenendo uno strumento il cui ricorso fu costante per tutta la durata della guerra fredda <235. Questo fu principalmente dovuto alla “ubiquità strategica” delle covert operations, quindi alla loro flessibilità, “standardizzazione”, e alla facile applicabilità in contesti e situazioni diverse <236. Un’altra caratteristica che rese le covert operations uno strumento imprescindibile della politica estera americana fu la loro economicità, funzionale a contenere le spese militari senza compromettere la sicurezza e la difesa del blocco occidentale <237. In ultimo luogo, alla legittimazione delle covert operations concorse il ruolo svolto “dalla mentalità della guerra fredda ma anche dalla crescente frustrazione riguardo la passività della politica estera statunitense, che in quegli anni tendeva al “contenimento” dell’Unione sovietica. Alla crescente legittimazione della Cia corrispose così un costante potenziamento delle strutture e degli strumenti destinati alle covert operations” <238.
[NOTE]
213 L. Sebesta, L’Europa indifesa. Sistema di sicurezza atlantico e caso italiano. 1948-1955, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991, p. 215.
214 Frus, 1950-1955, The Intelligence Community, NSC 5412/1, Covert Operations, Washington, 12 marzo 1955, pp. 624-625, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1950-55Intel/pg_624; Frus, 1950-1955, The Intelligence Community, NSC 5412/2, Covert Operations, Washington, undated, pp. 746-747, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1950-55Intel/pg_746.
215 Nsc 68, United States Objectives and Programs for National Security, 14 aprile 1950, disponibile al link: https://www.trumanlibrary.org/whistlestop/study_collections/coldwar/documents/pdf/10-1.pdf.
216 Ibid. p. 8.
217 Ibid., p. 38.
218 M. Del Pero, Libertà e impero, cit. p. 301.
219 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, cit. p. 774.
220 M. Del Pero, Libertà e impero, cit. p. 302.
221 D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato. Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2008, p. 38.
222 P. Willan, I Burattinai. Stragi e complotti in Italia, Napoli, Tullio Pironti, 1993, p. 33.
223 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, cit. p. 788; G. Pacini, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991, Torino, Einaudi, 2014, p. 178.
224 Il Saceur nacque come il comando unificato supremo, con uno stato maggiore (lo Shape), che riuniva gli ufficiali dei diversi paesi alle dipendenze dell’autorità comune della Nato.
225 D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato, cit. p. 39.
226 Tale dottrina prevedeva che fosse lasciata, “all’inizio delle ostilità, una parte del territorio nazionale in mano all’avversario, per poi rallentarne l’avanzata e logorarlo”. Lo scopo era quello di far arretrare le proprie forze e sistemarle in posizioni più idonee da cui sarebbe partita la controffensiva. In estrema sintesi, quindi, tale dottrina comportava la nascita di determinate strutture paramiliari che, “anziché cercare di respingere sul nascere un’invasione e rischiare di essere decimati fin da subito, rimanessero “in sonno” per alcune ore, lasciando avanzare il nemico per poi prenderlo alle spalle”. G. Pacini, Le altre Gladio.p. 179.
227 D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato, cit. p. 7.
228 Ibid., cit. p. 39.
229 Verso la metà degli anni Settanta il Parlamento statunitense avviò tre indagini, le cui relazioni finali restano ancora oggi un punto di riferimento per ricostruire l’espansione dei poteri della Cia e del Pentagono al di fuori fuori del controllo democratico. Le tre Commissioni incaricate di condurre queste indagini furono la Pike Committee, la Church Committee, e la Murphy Committee. D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato, cit. p. 377.
230 J. Campbell, American Policy Toward Communist Eastern Europe: The Choices Ahead, Minneapolis, The University of Minnesota Press, 1965, p. 88; V. Marchetti, J. Marks, Cia, cit. p. 43.
231 A. Silj, Malpaese. Criminalità, corruzione e politica nell’Italia della prima Repubblica. 1943-1994, Roma, Donzelli, 1994, p. 31.
232 La questione coloniale fu centrale nella definizione dei rapporti tra le due potenze. Il modello socialista e l’Urss, per le loro posizioni notoriamente antiimperialiste e a favore dei paesi sottosviluppati, furono assurti a modello di riferimento delle forze nazionaliste locali, e Stalin strumentalizzò questa posizione, con conseguenze nefaste per il modello di sviluppo e di indipendenza dei Paesi del Terzo mondo, che finirono sotto una nuova forma di imperialismo. E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, cit. p. 924.
233 A. Colonna Vilasi, Storia della Cia, Roma, Sovera Edizioni, 2014, p.17.
234 Ibidem.
235 L. K. Johnson, American Secret Power, cit. p. 100.
236 M. Del Pero, Cia e covert operation nella politica estera americana, p. 709.
237 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit. pp. 225 e ss; L. Sebesta, L’europa indifesa, cit. pp. 213-215.
238 A. Colonna Vilasi, Storia della Cia, cit. p. 18.
Letizia Marini, Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020

sabato 22 ottobre 2022

Di tanto in tanto i briganti neri attraversavano Bologna su camioncini

Bologna: Via Malaguti. Fonte: mapio.net

Ai primi del dicembre 1944, le forze tedesche e fasciste di Bologna, riavutesi degli scacchi subiti il 7 ed il 15 novembre dello stesso anno, erano passate decisamente al contrattacco con notevole successo.
Particolarmente attive erano le forze di polizia dirette dal Questore Fabiani, che si era trincerato nel grande palazzo d’angolo fra via Rizzoli e via Castiglione, e da quel suo fortilizio dirigeva un’azione accorta e spietata contro i partigiani.
L’aspetto della città era mutato e si era trasformato in quello di una piazzaforte. Tutte le vie d’accesso al nucleo urbano erano state chiuse da muri e da reticolati; soltanto in corrispondenza delle porte era rimasto un passaggio per il tram e per gli autoveicoli, sorvegliato da soldati tedeschi e da poliziotti italiani. Le caserme delle brigate nere, la casa del fascio, la residenza del Questore e tutti gli uffici pubblici in genere erano cinti di filo spinato, con opere di protezione in muratura fornite di feritoie, con postazioni di mitragliatrici, con riflettori, con cavalli di frisia, che sbarravano tratti di strada.
Di tanto in tanto i briganti neri attraversavano la città su camioncini, tenendo le armi automatiche puntate sui passanti. I tedeschi avevano dichiarata zona proibita, « Sperrzone », per i loro soldati la città vera e propria e così era ben rarò che se ne incontrasse uno; ritenevano molti che il comando germanico avesse voluto chiudere nella «Sperrzone» partigiani e fascisti perchè si distruggessero a vicenda. Si sussurrava anche che Kesserling avesse inviata a Bologna una compagnia di carristi tedeschi per la lotta antipartigiana e che questa compagnia avesse debuttato, in modo veramente non molto felice, nei combattimenti della Bolognina.
Uscendo dalla Città e spingendosi alla periferia, sulle strade principali che conducevano al fronte, distante pochi chilometri dal lato dell’appennino e parecchi da quello della Romagna, passavano spesso isolati di giorno, in colonna di sera, dei militari tedeschi per lo più a piedi, qualche volta in bicicletta. Alla notte transitavano su carrette trainate da cavalli, dando un’impressione di miseria, di sfacelo e di cocciutaggine a chi ricordava le eterne colonne motorizzate, che pochi mesi prima avevano percorso le stesse strade per raggiungere il fronte di Cassino.
Nei quartieri spesso diroccati, posti fra le vie principali, erano sistemati i reparti partigiani, che cercavano faticosamente di riorganizzarsi e di sfuggire al controllo delle varie polizie.
Per poter dirigere la lotta della nostra Brigata (7ª G.A.P.) da un luogo relativamente sicuro, trasportai il comando in via Malaguti N. 31, in un appartamento all’ultimo piano. Avevo scelto quel domicilio perchè si trovava fuori dalla cinta urbana ed in un angolo morto di Bologna; infatti via Malaguti si unisce a via Zanolini e assieme formano un’ansa che congiunge due punti del viale di circonvallazione fra Porta Zamboni e porta San Vitale. La casa scelta era l’ultima di via Malaguti, si trovava proprio all’estremità dell’ansa e, non essendovi quasi mai passaggio di persone per quel punto della strada, si poteva agevolmente controllare la via e, in certo qual modo, prevenire sorprese ed appostamenti polizieschi.
Non appena mi fui trasferito, incominciò il lavoro di riorganizzazione della Brigata che, dal 15 novembre ai primi di dicembre era entrata in crisi. I tedeschi infatti, dopo aver catturato un gruppetto di sappisti, ne uccisero il comandante Mosca ed alcuni componenti, risparmiando coloro che accettarono di entrare al loro servizio, E questi ultimi, scortati da agenti delle SS, presero a pattugliare le vie della città, per far arrestare ogni partigiano che eventualmente incontrassero e riconoscessero. Questo rendeva molto pericoloso ogni spostamento di uomini e poneva in difficoltà anche i collegamenti.
Era in quei giorni ben viva in tutti l’angosciosa impressione suscitata dall’assassinio di quattro notissimi cittadini (prof. Busacchi, avv. Maccaferri, avv. Svampa, industriale Pecori) e già si sussurrava che erano pronte liste di proscrizione per uccidere o deportare in Germania i più eminenti professionisti.
In quest’atmosfera d’incertezza riprendemmo il nostro lavoro; come obbiettivo immediato avevamo la ricerca dei nostri sbandati, il loro inquadramento nei reparti e la sistemazione di questi ultimi in luogo sicuro, perchè potessero riacquistare rapidamente la loro efficeriza combattiva.
Stabilimmo anche un comando accessorio in via Ca’ Selvatica 8/2, da Nazzaro, dove risiedeva l’ufficiale di collegamento Giacomo. Al mattino del 5 dicembre mi recai nella suddetta casa e trovai Giacomo che usciva per recarsi ad un appuntamento con il vice comandante di Brigata, Biondino. Mi promise che sarebbe ritornato alle quattordici, rimasi ad attenderlo, ma all’ora fissata non giunse; il comandante Luigi, arrivato nel frattempo, avanzo l’ipotesi che Giacomo si fosse improvvisamente ammalato ed avesse raggiunta la sua famiglia io invece pensavo al peggio. Aspettammo fino al mattino uccessivo, poi ce ne andammo, ma il dubbio che fosse caduto nelle mani dei nemico era divenuto certezza.
Da via Ca’ Selvatica ci portammo in via Duca D’Aosta, nell’infermeria, dove erano ricoverati 17 feriti dei combattimenti del novemìbre, curati dal capitano medico austriaco Alexander che aveva disertato alcuni mesi prima dall’esercito tedesco ed era passato nelle nostre file. Controllato il buon andamento dell’infermeria, uscimmo ed entrammo in città da porta Sant’Isaia, sorpassando un infinità di carri e carretti tirati da buoi da cavalli da uonuni e carichi di masserizie che affluivano a Bologna dopo lo sfollamento coatto ordinato dai tedeschi nei paesi pedemontani. All’inizio di via Sant’Isaia, presso lo sbocco di via Pietralata proveniente da via Pratelio osservammo che un piccolo gruppo di persone sostava, guardando con curiosità e con timore, ci avvicinammo e vedemmo che via del Pratello era tutta bloccata dalle Brigate Nere. Il nostro pensiero corse subito a Paolo, il vice comandante di Brigata che vi abitava.
Ad un tratto i militi avanzarono verso il gruppo di curiosi, cui ci eravamo mischiati, ed il gruppo si dileguò rapidamente.
Anche Luigi ed io ci salutammo; nel rientrare in via Malaguti, riflettevo sul fatto che in due giorni avevamo perduti i due vice, comandanti di Brigata e l’ufficiale di collegamento. Era pertanto urgente chiudersi nella cospirazione più stretta e passare al contrattacco per generare un po’ d’incertezza nel campo nemico, che, fino a quel momento, dimostrava di esser compatto e ben guidato.
Mentre stavamo prendendo le prime disposizioni per attuare il programma, cominciarono a giungerci cattive notizie da tutti i reparti: ogni giorno qualcuno dei nostri cadeva nelle mani della polizia, diventando una vittima o un provocatore.
Apprendemmo che anche due dei più valorosi gappisti Tempesta e Terremoto erano rimasti nella rete delle SS.
Il 12 dicembre le Brigate Nere piombarono sull’infermeria: personale d’assistenza e feriti arrestati, seviziati e trucidati, tranne il capitano medico austriaco, che si offrì di cercarci, sperando di salvare la propria vita col consegnare la nostra.
In queste condizioni estremamente difficili ricostituimmo i quadri dirigenti, primo passo per arrivare alla riorganizzazione dei reparti ed alla lotta. Libero e Aldo vennero nominati vicecomandanti di Brigata, il posto di ufficiale di collegamento fu assunto dal ravennate Alberto, arrivato in quei giorni da Ferrara, dopo essere sfuggito con audacia alla cattura da parte delle Brigate Nere. Nella casa di via Malaguti, dove tenevo il comando e dove vivevo con la famiglia, tutti i coinquilini, che mi conoscevano con il nome buono e credevano che esercitassi ancora la mia professione di medico, mi creavano attorno una certa atmosfera di sicurezza e di legalità, che, in quei momenti, era preziosa.
Ogni sera la famiglia del piano di sotto, antifascista, saliva da noi ad ascoltare radio Londra e a commentare gli avvenimenti del giorno. Questa condizione di legalità era preziosa e bisognava mantennerla, perciò l’accesso alla casa venne limitato alle persone più fidate, con cui era indispensabile riunirsi per un buon funzionamento del comando.
Venivano: Luigi, che passava per un medico mio amico, il comandante generale Dario, che promovemmo professore, la staffetta Diana, pseudo sarta di mia moglie, Libero, sedicente allievo della facoltà di medicina, e infine Pietro, che, per il suo aspetto dimesso, veniva presentato come l’uomo che porta la spesa ed aiuta nelle faccende di casa.
A mezzo dicembre si seppe che certa Lidia Golinelli (Olga, Vienna), staffetta, era stata catturata assieme al partigiano Formica. Il giovane subito passato per le armi, la ragazza risparmiata ed assunta in servizio dall’ufficio politico investigativo fascista. Lo stesso giorno Alberto dovette fuggire da Bologna perchè individuato da alcuni suoi concittadini fascisti.
Ci chiudemmo in una ancor più stretta cospirazione, mutando anche il nome di battaglia: Luigi divenne Rolando, io Africano, Dario si cambiò in Ciro e Pietro in Rachele. Gli uomini, che da quel momento non ebbero più con noi contatti diretti, ricevettero la comunicazione che i comandanti erano cambiati e che, in considerazione della gravità del momento, era opportuno esercitare l’azione di comando attraverso ordini scritti.
Però, malgrado ogni provvidenza, i compagni continuavano a cadere: uno, due quasi tutti i giorni. Ora era la volta dell’Ada, che uscita per acquistare i viveri ad una squadretta, veniva riconosciuta e prelevata da un reparto di polizia. Ormai sembrava che bastasse affacciarsi all’uscio di casa, per essere impacchettati e portati al fresco.
I piccoli nuclei superstiti ebbero il divieto di uscire dalla base, chè noi avremmo provveduto a tutto. Sostituimmo anche le staffette femminili con elementi nuovi e sconosciuti. Ci occorreva però un uomo che fungesse da tessuto connettivo fra questi vari gruppi, che li vettovagliasse, che trasmettesse gli ordini scritti, che fosse in grado di passare inosservato per ogni via della citià, che potesse entrare in tutte le case senza destar sospetti.
E Pietro incominciò la sua opera di ragno paziente, tessendo solidi fili fra le diverse basi.
Pietro era ricercato dalla polizia con il suo nome vero di Orlandi Diego, non solo, ma molti agenti giravano per la città con la sua fotografia in tasca per riconoscerlo, se per caso lo avessero incontrato, e catturarlo. Pietro però era il miglior cospiratore che io abbia conosciuto. Tutti ignoravano allora il suo nome buono, nessuno sapeva dove dormisse e dove mangiasse. Puntualissimo ai convegni, vi compariva sbucando all’ultimo momento dalla più impensata via d’accesso. Non pronunziava mai una parola più del necessario.
Eravamo d’inverno, la neve, caduta abbondantemente, non era stata rimossa ed aspettava di sciogliersi al sole, e fra la neve, talvolta spingendo un ciclofurgone, tal altra a piedi con una sporta in mano, avvolto nella capparella comune ai nostri contadini, con sul capo un berrettino senza visiera, puntualmente, ogni pomeriggio vedevamo arrivare Pietro, ed il suo arrivo ci dava il senso della continuità e della marcia fatalmente sicura della nostra lotta.
Piuttosto piccolo, dimesso, silenzioso, con un aspetto così umile da non essere notato, Pietro passava dovunque senza incontrare inconvenienti. Del resto aveva ormai una lunga esperienza, tutti i partigiani lo conoscevano di soprannome e di fama, tutti avevano per lui un affettuoso rispetto.
Entrato nella 7ª Brigata G.A.P. poco dopo la costituzione dell’unità, venne destinato, per le sue qualità di ottimo meccanico, alla fabbricazione degli oridigni esplosivi e, accessoriamente, ai servizi di rifornimento in generale. Distese allora una fitta rete di magazzini attraverso tutti i quartieri cittadini, magazzini di cui egli solo conosceva l’ubicazione, destinati a depositi di viveri, di equipaggiamento, di armi, e creò il laboratorio per la fabbricazione degli ordigni esplosivi in via Jacopo della Quercia, laboratorio in cui egli ed i suoi aiutanti confezionavano quegli strumenti di lotta che non servivano soltanto per Bologna, ma per tutta l’Emilia e spesso partivano anche per 1’Italia del Nord.
Quando ci si recava al laboratorio, si vedeva Pietro tranquillo, che lavorava fra casse di tritolo, assistito di solito da Sergio, più raramente da Piccio o da Stefano; lavorava con calma, con pazienza, con metodo, ed esigeva che anche durante i bombardamenti aerei anglosassoni qualcuno rimanesse in laboratorio per impedire che qualche ladro, di quelli che dopo i bombardamenti si abbandonavano al saccheggio, non entrasse nell’appartamento e non scoprisse ciò che era il più geloso segreto della Brigata. I suoi aiutanti arricciavano un poco il naso perchè via Jacopo della Quercia è vicina alla stazione ferroviaria e pertanto al centro di una zona bombardatissima; ma l’esempio del loro capo li costringeva alla disciplina e ve li costrinse anche il giorno in cui una bomba distrusse metà del fabbricato in cui lavoravano. Pietro confezionava ordigni esplosivi di tutti i generi, bombe a miccia, a tempo, a percussione, scatolette per far saltare locomotive in corsa, bottiglie incendiarie da lanciare sugli autocarri; l’arte degli esplosivi non aveva per lui alcun segreto.
Pietro dirigeva anche la riproduzione e la diffusione del materiale di propaganda e dei giornali clandestini, Pietro provvedeva al vettovagliamento della Brigata, Pietro curava che gli uomini avessero le scarpe, i vestiti, le munizioni.
Si diceva che Pietro fosse avaro e i vecchi partigiani giurano ancor oggi che Pietro era avaro, mentre era soltanto un equo e parsimonioso distributore delle nostre magre risorse. Affermavano che si faceva pregare perfino per dare le bombe, mentre voleva essere certo che non andassero sciupate e, prima di mettere in circolazione qualche nuovo tipo, lo collaudava personalmente, di solito contro installazioni ed automezzi tedeschi.
La mattina del 7 novembre Pietro, con un furgoncino carico di bombe, stava dirigendosi verso la base di via del Macello, accerchiata proprio in quel momento dalle Brigate Nere, che lo bloccarono e lo chiusero, assieme al suo accompagnatore Piccio, in un grosso edificio in cui erano raccolti altri rastrellati. Fortunatamente i militi indugiarono prima di verificare il contenuto del furgoncino e Pietro, col suo aiutante e con due partigiane che si trovavano fra rastrellati, scalando muri, calandosi da finestre, entrando in cantine, riuscì a prendere il largo. Il giorno dopo le pattuglie tedesche e fasciste di vigilanza non solo controllarono il contenuto dei furgoncini, ma anche quello delle sporte e perfino delle borsette da donna.
Così Pietro, ricco della passata esperienza, divenne l’assiduo collegamento fra noi e gli uomini immobili nelle basi, mentre Gino, che aveva sostituito Alberto, si occupava di stabilire la rete delle nuove staffette femminili, e Libero preparava al combattimento gli uomini più ardimentosi, che vennero riuniti nella « squadra di polizia ».
Ma i successi nemici continuavano: i gappisti Fulmine e Ciclone; che si erano azzardati ad uscire, vennero attaccati. Fulmine rimase ucciso, Ciclone ferito e prigioniero. Battista, che già aveva abbozzato coi suoi uomini qualche contrattacco ai reparti fascisti, venne incontrato da Olga, che lo fece uccidere dai militi che l’accompagnavano.
La morte di Battista fu 1’ultimo dei colpi avversari perchè ormai i nemici erano stati individuati e gli uomini, squadra di polizia in testa, desideravano il combattimento. Pietro, nel suo continuo peregrinare, era riuscito ad appurare che la cattura di Giacomo e del Biondino era avvenuta in via Sant’Isaia, su indicazione del traditore Giulio Cavicchioli, già appartenente alla squadra Mosca. Mentre i due gappisti venivano tradotti in carcere, Giacomo tentava di fuggire e rimaneva ucciso. La cattura di Paolo restava un mistero, ma non restava un mistero la sua fine eroica. Egli ammise di essere il gappista Paolo, non solo, ma affermò di farsi chiamare anche Luigi, in modo da raccogliere su di sè le responsabilità del comandante di Brigata. Venne fucilato.
Ormai sapevamo che il maggior pericolo era rappresentato dai tre traditori che ci andavano cercando per le vie della città, fortemente scortati da tedeschi e da fascisti: Olga, Cavicchioli e il capitano medico austriaco. Di quest’ultimo si apprese, sui primi di gennaio, che, avendo fatto arrestare soltanto qualche gregario partigiano, non veniva giudicato abbastanza utile dalle SS. le quali lo portarono alla Certosa e lo soppressero.
Muovendoci con molta precauzione, verso il dieci gennaio lanciammo all’attacco la squadra di polizia, comandata da Italiano, che in pochi giorni aprì qualche vuoto nelle file nemiche senza subire perdite.
Incoraggiati, demmo l’ordine di attaccare anche ai distaccamenti di Anzola, Castelmaggiore, Castenaso, Medicina, mentre in città si costituivano altre squadre, che entravano immediatamente in azione.
Allora si vide nettamente quanto fosse effimera la forza tedesca e fascista, che, non avendo capacità di difesa diretta, anticipò per qualche giorno il coprifuoco dalle 20 alle 18, iniziò rastrellamenti in grande di interi quartieri, bloccò strade e piazze per controllare l’identità dei passanti, impose l’affissione davanti alle porte degli appartamenti di un cartello col nome degli occupanti. Ma tutte queste misure valsero soltanto a rendere solidale con noi la popolazione, che sentiva in modo sempre più chiaro il peso dell’occupazione straniera.
La vita di comando, con lo svilupparsi della nostra offensiva, aveva ripreso una sua regolare serenità.
“Jacopo” Aldo Cucchi (Commissario Politico 7ª G.A.P.), Pietro l’artificiere in (a cura di) Antonio Meluschi, Epopea partigiana, ANPI dell’Emilia Romagna, 1947, op. qui ripresa da Istituto Parri

domenica 16 ottobre 2022

Dove era operante una compagine di partigiani comandata da Vittò

Una vista su Taggia (IM) e, a sinistra, su Castellaro. Foto: Eraldo Bigi

Con la Repubblica di Salò si formarono le Brigate Nere [n.d.r.: a quella data per la RSI era attiva la G.N.R., non ancora le Brigate Nere, perlomeno intese in senso con questa denominazione ufficiale] che sparsero il terrore in gran parte d’Italia. Intanto nel novembre 1943 fui chiamato alle armi. Essendo della leva di mare dovevo presentarmi a Vercelli il 20 novembre per essere arruolato nella Decima Mas e inviato in Germania per un periodo d’istruzione: Così era scritto nella cartolina precetto, ma non avevo ancora compiuto 19 anni ed era molto difficile prendere delle decisioni. Avevo molte amicizie fra gli antifascisti e questi mi consigliarono di non partire: unitamente ad altri commilitoni, anche loro chiamati alle armi, decidemmo di nasconderci sui monti che sovrastavano la nostra città. Così abbiamo fatto: ci siamo rifugiati in una casetta di proprietà di uno dei compagni di ventura. Ci portavano da mangiare i nostri parenti con grave rischio per tutti, per cui subito dopo Natale nel gennaio 1944, avuta notizia che sui monti sopra Sanremo si andava costituendo le prime formazioni partigiane, abbiamo deciso di raggiungere quelle località per unirci a quei gruppi combattenti. Eravamo armati con armi recuperate, quando dopo l’8 settembre, i militari avevano abbandonato le caserme, molte delle quali dislocate proprio a Taggia, zona limitrofa al confine di stato. Abbiamo deciso di abbandonare il nostro precario rifugio e siamo partiti per Baiardo (piccolo paese di 900 abitanti sito nell’entroterra di Sanremo). La strada era lunga una quarantina di km, compiendo il seguente percorso: Taggia - Badalucco - Ciabaudo - Vignai - Baiardo, senza mai percorrere le strade carrozzabili passando sempre lungo i boschi limitrofi alle strade principali. Arrivati a Baiardo avevamo già i nomi dei compagni di quella località, che ci hanno ospitato nei loro casolari, uno fra tutti “Garibaldi” [Giuseppe Gaminera] come nome di battaglia. Lungo il percorso siamo stati aiutati e rifocillati dai contadini di quelle borgate che dobbiamo ringraziare per sempre. Dopo alcuni giorni i compagni di Baiardo ci hanno accompagnato a Carmo Langan a 1727 metri di altitudine, dove era operante una compagine di partigiani comandata da “Vittò” (Vittorio Guglielmo), vecchio comunista reduce dalla guerra di Spagna insieme al compagno Longo. E lì incominciai la vera vita da partigiano, assumendo il nome di battaglia “Tarzan”. Intanto continuavano ad arrivare molti giovani e altri meno giovani, militari che l’8 settembre avevano disertato ed erano ricercati dalle Brigate Nere. Mentre si andavano delineando le vere formazioni partigiane. Noi facevamo parte della 1a Zona Liguria, che andava dai confini della Francia all’inizio della Provincia di Savona, ed eravamo inseriti nella 2a Divisione Felice Cascione. Felice Cascione era un medico di Imperia, infatti, il suo nome di battaglia era “u Meigu”. E’ stato uno dei primi partigiani della provincia ed è stato catturato dai nazi-fascisti e fucilato ad Alto piccolo paese sulle alture di Albenga. Cascione fra l’altro aveva scritto la canzone fischia il vento. Intanto la formazione di “Vittò” diventava Brigata formata da tre distaccamenti, io ero nominato comandante di uno di questi distaccamenti e dislocato in una località sita fra Baiardo e Castel Vittorio
[...] Intanto sulle alture di Taggia si era costituito un battaglione di partigiani, chiamato battaglione Luigi Nuvoloni, che era il nome di un caduto in combattimento originario di un paese della valle Argentina. Detto battaglione era costituito in gran parte da partigiani di Taggia e località limitrofe ed era comandato da un vecchio socialista che si chiamava Simi di cognome, col nome di battaglia “Gori”; era molto anziano e cagionevole di salute. Poiché questo battaglione faceva parte della brigata “Vittò” mi chiamò e mi invitò a raggiungere quel battaglione e ad assumere la carica di commissario: in effetti poiché “Gori” era sempre indisposto dovevo portare avanti quella formazione come comandante e come commissario. Intanto eravamo giunti ai primi giorni del 1945 e sapendo che gli Inglesi dovevano fare un lancio di armi e di viveri per le formazioni della 1a zona Liguria ed esattamente sul Mongioie 2600 m. di altitudine, mi fu ordinato di raggiungere tale località poiché conoscevo già il percorso, raggiunsi di nuovo Piaggia e più avanti Viozene provincia di Cuneo, dove ci accampammo in vecchi casolari di pastori, da Viozene al Mongioie la strada era abbastanza breve. In attesa dei lanci abbiamo fatto diverse imboscate sulla strada statale n° 28 che da Imperia porta a Pieve di Teco, Colle di Nava, Ormea, Garessio, Ceva e avanti fino a Torino. Durante uno di questi attacchi abbiamo dovuto ritirarci precipitosamente per non essere sopraffatti dai nazi-fascisti sul Pizzo di Ormea a m. 2475 sul livello del mare dove abbiamo bivaccato all’aperto tutta la notte. Rientrati a Viozene, dopo qualche giorno, seguendo le istruzioni di radio Londra, nella notte stabilita abbiamo acceso dei falò su una spianata alle falde del Mongioie. Tutto si è svolto nella massima semplicità, i lanci si sono svolti regolarmente, abbiamo ricevuto armi e viveri col consueto cioccolato. Armi e viveri sono stati divisi con le formazioni partigiane operanti nella zona fra la provincia di Cuneo e quella di Imperia. Intanto siamo arrivati ad Aprile del 1945, i Tedeschi e le Brigate Nere consapevoli della disfatta, pressati dalle forze alleate e dalle nostre formazioni, si ritiravano verso il nord dell’Italia con la speranza di raggiungere la Germania, molti di loro sono caduti e molti altri fatti prigionieri. Noi abbiamo avuto l’ordine di portarci sulle alture sopra Taggia e Sanremo, durante il trasferimento che è durato alcuni giorni, siamo stati attaccati dai Tedeschi in fuga con raffiche di mitragliatrice, anche se sparavano da molto lontano e disordinatamente, una pallottola ha ferito alla gamba il Comandante Gori che non ha avuto la sveltezza di gettarsi a terra.
Ormai i Tedeschi e i fascisti erano in fuga. Noi abbiamo proseguito la nostra marcia verso Taggia e Sanremo portando a spalle su di una barella improvvisata il Comandante Gori che era stato medicato alla meglio. Si trattava di una ferita lieve, arrivati a Sanremo, è stato ricoverato nel locale Ospedale. Intanto siamo arrivati prima a Taggia e poi a Sanremo, era il 25 aprile 1945, contemporaneamente sono arrivate le truppe alleate e insieme abbiamo presidiato quelle città ormai abbandonate dai nazi-fascisti. Dalla vicina Francia sono arrivate anche delle truppe francesi formate da soldati di colore Senegalesi questi, dopo qualche giorno sono rientrati in Francia. Dopo i festeggiamenti per la vittoria sul nazifascismo, siamo rimasti a presidiare la città con le truppe alleate, fin quando il Comitato di Liberazione che si era costituito, dopo avere regolarmente registrato le nostre generalità e le formazioni in cui avevamo operato, ci ha messo in libertà e siamo rientrati nelle nostre famiglie.
Gio Batta Basso (Tarzan)
Chiara Salvini, Ricordi di un partigiano, Nel delirio non ero mai sola, 29 luglio 2012


Chissà se lassù da qualche parte

sventoleranno le bandiere rosse,

se ci sarà quel mondo di fratelli

che hai sognato nelle gelide

veglie di partigiano.

Come in un film

della Resistenza spagnola

hai fatto saltare

il ponte della vita

e ancora una volta

hai opposto il tuo sdegnoso rifiuto

ad una realtà vile e cialtrona.

Non così avremmo voluto lasciarci.

Tutti insieme

avremmo voluto sfidare con te

la morte

che fa il nido negli angoli bui

della nostra anima

Nelle piazze, sulle strade faticose

delle montagne,

nel gelo degli inverni infiniti

non saresti mai morto.

Non posso che cantarti,

disperata e triste

per la tua bella vita perduta.

Voglio cantarti,

smarrita e triste

contro la morte assassina

per far vivere il tuo ricordo.

Donatella D’Imporzano, In memoria di Vittò, capo partigiano

Chiara Salvini, Vittò, poesia di Donatella D’Imporzano, Nel delirio non ero mai sola, 29 luglio 2012

giovedì 6 ottobre 2022

Il governo americano aveva già predisposto dei piani di possibile intervento militare in Italia


1.1 Il Sifar, il primo servizio segreto della Repubblica
Il primo servizio segreto della Repubblica, per i motivi sopracitati, poté nascere soltanto dopo l’esito delle elezioni dell’aprile del 1948, che sancì la sconfitta del Partito Comunista e aprì la strada alla Nato. Fino a quel momento, l’Oss (Office of Strategic Service) e successivamente la Cia (Central Intelligence Agency) avevano ritenuto opportuno operare sul territorio italiano in prima persona.
Il Sim, ossia il servizio segreto militare di epoca fascista, che stava cercando di far valere la propria identità antifascista all’insegna della discontinuità col vecchio regime (come gran parte degli apparati dello Stato), nel 1945 dovette affrontare il cosiddetto “scandalo Roatta” <7. L’ex capo del Sim negli anni Trenta, il generale Mario Roatta, il quale era sotto processo per la mancata difesa di Roma e per l’omicidio dei fratelli Rosselli oltre che accusato dal governo jugoslavo di crimini di guerra, era stato aiutato dal SIM a fuggire dal suo luogo di detenzione, per trovare asilo nella Spagna franchista. Lo scandalo scatenò un’ondata di sdegno pubblico, che sfociò in importanti moti di piazza animati dalla sinistra. Per placare gli animi, all’ufficio venne semplicemente cambiato nome (pratica che, come si vedrà, verrà riutilizzata in futuro) e, dopo un anno, venne ufficialmente sciolto. Rimase in piedi soltanto l’ufficio “I” (un modesto ufficio d’informazione militare che esisteva, tra scioglimenti e rifondazioni, dal 1865 <8), che si occupò principalmente di distribuire sussidi ai decorati di guerra. Fu soltanto nell’ottobre del 1948, sei mesi dopo le prime elezioni politiche, che il generale Giovanni Carlo Re venne messo a capo di questo ufficio; e fu soltanto il 30 marzo 1949 che Re venne incaricato, con una circolare del ministro repubblicano Pacciardi, di potenziare l’ufficio e riformarlo, ma sempre sulla linea del vecchio Sim. Infine, dopo la firma del patto Nato in aprile, il primo di settembre del 1949 nasceva ufficialmente il Sifar (Servizio Informazioni Forze Armate) <9. Alla stessa data vennero istituiti i Servizi informazioni operative e Situazioni (Sios), che “avrebbero dovuto operare esclusivamente nel campo tecnico-militare di ciascuna forza armata, ma sui quali peseranno, negli anni successivi, le stesse ombre e gli stessi sospetti che si addentreranno sul Sifar e sul Sid” <10.
La contiguità con la stipulazione del patto del Nord Atlantico (ratificato in parlamento il primo di agosto 1949) e la sua relativa Organizzazione è l’elemento da tenere in maggiore considerazione. All’interno della vasta rete di alleanze degli Stati Uniti (Nato, Cento, Seato, Patto di Colombo, ecc.), anche la Nato agiva per mantenere lo status quo politico nei paesi aderenti, ma scelse di tenere segreta questa finalità per le ovvie proteste che avrebbero presentato i partiti comunisti italiano e francese. <11
Il governo americano aveva già predisposto dei piani di possibile intervento militare in Italia. Nel documento 'Foreign Relations of the United States' (1948) del National Security Council, la sezione dedicate all’Italia prevedeva che, nell’ipotesi di una vittoria elettorale del Pci, bisognasse “iniziare una pianificazione militare congiunta con azioni selezionate” e che si dovesse “fornire ai clandestini anticomunisti italiani assistenza finanziaria e militare”; ancora più significativo il passo: “un efficace appoggio degli USA può incoraggiare elementi non comunisti in Italia a fare un ultimo vigoroso sforzo, anche a rischio di una guerra civile, per prevenire il consolidarsi del controllo comunista”. <12
“Per prevenire”: infatti, nonostante il risultato rassicurante delle elezioni, le direttive degli Usa sull’Italia non cambiarono affatto di orientamento; al contrario, le misure furono sempre più intensificate, dato il progressivo aumento dei consensi che il Pci registrò in ogni tornata elettorale per ancora trent’anni. In un’altra riunione del National Security Council, del 5 gennaio 1951, era stato previsto un piano per “dispiegare forze in Sicilia o Sardegna o in entrambe le isole, col consenso del governo italiano, in forze sufficienti a occupare queste isole contro l’opposizione comunista indigena”, direttiva approvata da Truman l’11 gennaio <13.
Si possono qui intravedere le origini del progetto Gladio <14. Il documento, consultabile dal 1985, è tuttavia coperto da omissis nelle parti più delicate; in un passo, che riteniamo significativo, si dice che: “[…] nel caso che [il governo italiano] cessi di mostrare determinazione a opporsi alle minacce comuniste interne ed esterne, gli USA dovrebbero iniziare misure [omissis] … progettate per impedire la dominazione comunista e per ravvivare la determinazione italiana di opporsi al comunismo”. <15
Il “ravvivare la determinazione”, con il senno di poi, ci può far ritenere che si potesse già trattare di iniziative in linea con quella che poi verrà chiamata “guerra psicologica” (v. cap. 3).
Per completare il quadro delle relazioni tra il Sifar e gli apparati di intelligence americani e la massima fedeltà dimostrata dal primo verso i secondi, menzioniamo la funzione dell’ente del dipartimento di difesa americano National Security Agency (NSA), un’agenzia specializzata nello spionaggio delle telecomunicazioni; questa struttura governativa allestì un “pool internazionale delle informazioni”, comprendente i servizi segreti di molti paesi alleati degli americani. La rete di collaborazione, che era sostanzialmente un insieme di patti firmati dai servizi segreti per conto dei governi, funzionava a senso unico, c’era in sostanza una gerarchia per la quale il cosiddetto primo firmatario (appunto, il Nsa) e i secondi firmatari (il GCHQ per la Gran Bretagna, il CBNRC per il Canada e il DSD per Australia e Nuova Zelanda) avevano l’obbligo di scambiarsi tutte le informazioni senza restrizioni; mentre i terzi firmatari (tra cui il Sifar per l’Italia) erano semplicemente tenuti a inviare materiale al primo e ai secondi, in un rapporto impari.
Un ex agente del NSA rivelò nel 1972 il funzionamento di questa catena: “I terzi firmatari non ricevono quasi nulla da noi, mentre noi riceviamo quasi tutto da loro. In pratica è un trattato a senso unico. Noi lo violiamo anche con i secondi firmatari, sorvegliando costantemente le loro vie di comunicazione.” <16
Dopo il generale Re, il Sifar passò per degli anni di gestione “apparentemente incolore”, sotto la guida del gen. Umberto Broccoli e del gen. Ettore Musco. Il salto di qualità nella attività del Sifar cominciò negli ultimi giorni del 1955, con la nomina a capo del servizio del generale Giovanni De Lorenzo, una personalità che diventerà di importanza centrale e che ritroveremo più avanti all’interno del presente studio. Il generale De Lorenzo ricevette questa nomina anche in virtù dei suoi meriti nella guerra resistenziale, probabilmente veritieri ma sicuramente molto gonfiati dal momento che gli vennero assegnate numerose decorazioni senza motivazioni esaustive <17. Il De Lutiis definisce questi meriti “assai presunti” <18. Di fatti, la sua nomina viene favorita piuttosto dal benestare dell’ambasciatrice statunitense in Italia Claire Booth Luce; gli americani ritenevano che un uomo come De Lorenzo avrebbe potuto sorvegliare l’operato del neoeletto presidente della Repubblica Gronchi, “in odore di sinistrismo”. A conferma della reputazione che il generale aveva in seno agli apparati di difesa statunitensi, c’è il fatto che il primo ordine che gli viene impartito, una volta alla guida del Sifar, dal comando generale delle forze armate statunitensi è quello di rispettare gli obiettivi del piano permanente di offensiva anticomunista chiamato 'Demagnetize', che aveva come obbiettivo prioritario quello di limitare “forze, risorse, influenza, nei governi e nei sindacati italiani e francesi” e del quale “i governi italiano e francese non devono essere a conoscenza, essendo evidente che esso può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale” <19.
Ad ogni modo, l’irresistibile scalata del generale ai vertici occulti dello Stato comincia proprio durante i suoi anni al Sifar, ma prenderà una svolta decisiva negli anni a seguire. L’argomento verrà approfondito nel cap. 2.3, I dossier di De Lorenzo.
[NOTE]
7 Cfr. Giuseppe De Lutiis, storia dei servizi segreti in Italia, Editori riuniti cap. Lo scandalo Sim
8 Cfr. Giuseppe De Lutiis, op. cit., cap. Gli esordi
9 Giuseppe De Lutiis, op. cit., pg. 38
10 Ibidem, pg. 39
11 Ibidem, pg. 40
12 Ibidem, pg. 41
13 Citata in G. De Lutiis, op. cit., pg. 41
14 Per Gladio, tra la vasta letteratura in proposito, rimandiamo a …
15 Citato in G. De Lutiis, op. cit., pg 42
16 Cfr. Marco Sassano, SID e partito americano, Padova, Marsilio, 1975, p. 47; Citato in G. De Lutiis, op. cit., pg .43
17 Cfr G. De Lutiis, op. cit., cap. De Lorenzo, la schedatura generalizzata
18 G. De Lutiis, op. cit., pg. 54
19 Joint Chief of Staff, Memorandum, 14 maggio 1952. documento citato in R. Faenza, Il Malaffare, p. 313
Claudio Molinari, I servizi segreti in Italia verso la strategia della tensione (1948-1969), Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2020/2021

domenica 2 ottobre 2022

Vera si vide costretta a ripartire alla volta di Milano dove, tramite un agente dell'OSS, riuscì ad ottenere nuovi piani di trasmissione

Viareggio (LU). Fonte: mapio.net

All’inizio del mese di settembre del 1943, sulle montagne della Versilia molti giovani - tra di loro anche alcuni soldati sbandati - si rifugiarono per organizzarsi e combattere i nazifascisti che erano arrivati a portare morte e distruzione sul territorio.
L’atmosfera di grande rischio ed incertezza richiedeva la soluzione di alcuni problemi logistici, primo fra tutti quello dell’armamento di questi coraggiosi. Si rendeva quindi necessario stabilire un contatto con gli Alleati. La mente instancabile di Manfredo Bertini detto “Maber”, attivo nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), nonchè talentuoso tecnico della fotografia, molto conosciuto anche per la collaborazione alla regia della prima pellicola di Mario Monicelli, aveva già in mente un piano, quello di inviare un emissario per informare gli alleati di quanto si stesse organizzando sul territorio Versiliese e contestualmente richiedere l’invio degli aiuti necessari per poter combattere i nazifascisti. “Maber” finanziò l’Operazione Gedeone - così fu chiamata - , vendendo qualche anello, una catenina ed un fermaglio d’oro.
Su incarico del CLN Vera Vassalle, una donna che non aveva ancora compiuto ventiquattro anni e alla quale in tenera età una poliomielite aveva causato una menomazione permanente alla gamba destra, fu inviata presso un comando alleato a Montella Irpinia da dove, di lì a breve, sarebbe salita al comando della missione “Radio Rosa”. Vera, nata a Viareggio il 21 gennaio 1920, diplomata all'Istituto Magistrale, era stata, per le sopraggiunte difficoltà economiche in famiglia, costretta a lasciare gli studi universitari e a trovare impiego in banca, dove si trovava nel 1941 quando suo padre, Eugenio Vassalle, morì nell'affondamento di una nave da guerra al largo della Sicilia. Di fede antifascista, prese parte attiva alla resistenza nel gruppo di cui faceva parte il cognato Manfredo Bertini.
Il 14 settembre 1943 Vera partì alla volta di Montella Irpinia servendosi di qualche raro treno, di una bicicletta e percorrendo lunghi tratti a piedi. Impiegò due settimane per raggiungere il comando alleato attraversando pericolosamente le linee nemiche e riuscendo finalmente, il 28 settembre, a stabilire un contatto con ufficiali dell'esercito americano. Dopo un breve addestramento presso l'Office of Strategic Service (OSS) di Napoli, viene trasferita a Capri, Pozzuoli, Taranto, Palermo ed infine, a bordo di un aereo alleato, a Bastia in Corsica da dove riuscirà a tornare in Toscana, a Castiglione della Pescaglia, a bordo di una motosilurante dell'esercito inglese in qualità di agente del 2677° Reggimento dell'OSS. Dorme in un cascinale e la mattina successiva con un treno arriva fino a Cecina dove è costretta a scendere e a scappare nei campi in quanto la linea ferroviaria era interrotta. Il 19 gennaio 1944 raggiunge a piedi Viareggio, portando con sé una radiovaligia, spacciata per un bagaglio a mano, riuscendo a sfuggire a diverse perquisizioni.
 


La ricetrasmittente, la radiospia modello A MKIII prodotta dalla compagnia Marconi nel Regno Unito nel 1944, era destinata alle operazioni clandestine sul territorio occupato da parte degli agenti, delle forze speciali e delle unità della Resistenza. Questa radio, molto piccola per l'epoca, poteva essere facilmente collocata all'interno di una valigia di cartone per bambini in modo da eludere controlli e le perquisizioni. Poteva funzionare sia con l'alimentazione di rete (110-130V o 200-250V, 40-60Hz) o tramite un'unità opzionale, con una sorgente esterna 6V DC come la batteria di un auto. Sempre all'interno della valigia venivano posizionati la cuffia e il tasto telegrafico completando la dotazione. L'apparato radio era in grado di trasmettere su tutte le frequenze comprese tra 3 e 9 Mhz divise in gamme con una potenza di uscita di 5 Watt.
La missione “Radio Rosa” consisteva nel rendere operativo un contatto radio clandestino per coordinare le azioni alleate con quelle partigiane ma purtroppo, per negligenza di un radiotelegrafista che aveva perduto i piani di trasmissione, non fu possibile implementare il piano subito dopo l'arrivo di “Rosa” con la radiospia.Vera si vide costretta a ripartire alla volta di Milano dove, tramite un agente dell' OSS, riuscì ad ottenere nuovi piani di trasmissione e la promessa dell'invio di un radiotelegrafista fidato.
Fu così che alla fine di marzo del 1944, Mario Robello detto “Santa”, ex Radiotelegrafista della Marina Militare, venne paracadutato sull'Alpe delle Tre Potenze sull'Appennino Tosco-Emiliano nella missione “Balilla” e fu quindi possibile dare inzio alla missione.
“Radio Rosa” inizia a operare a servizio della libertà.
 

L'osteria della famiglia Frugoli

L'attività clandestina e frenetica di Radio Rosa, dapprima situata in località Focette a Marina di Pietrasanta per poi spostarsi in un’osteria della Famiglia Frugoli nelle campagne di Capezzano Pianore in località Cateratte [n.d.r.: nel territorio del comune di Camaiore, in provincia di Lucca] e per muoversi definitivamente nell'abitazione di Vincenzo Bonuccelli presso il Convento dei Frati di Camaiore, riuscì a trasmettere trecento messaggi e, oltre a fornire notizie sugli spostamenti dell'esercito tedesco alle truppe Anglo-Americane, riuscì ad ottenere sessantacinque lanci di armi e munizioni da parte degli alleati ai partigiani Versiliesi e Toscani.
Il 18 febbraio 1944, alle quattro del mattino, preceduto dal messaggio “Per chi non crede” (frase in codice coniata da Manfredo Bertini - la frase voleva essere un monito per chi nell'antifascismo ancora titubava a passare alla lotta armata -), trasmesso dalla B.B.C., in località Foce di Mosceta (quota 1170m) avvenne il primo lancio effettuato da un Halifax Inglese. Vennero sganciati diciassette bidoni contenenti 50 “Sten” automatici, varie munizioni, materiale da sabotaggio, vestiario, viveri e generi di conforto. Nonostante tutte le precauzioni prese, però, l'iniziativa non passò inosservata ai fascisti che presero coscienza che anche in Versilia si cominciava ad operare seriamente e che occorreva stroncare ad ogni costo e con ogni mezzo il movimento di Resistenza armata.
Il 2 luglio 1944, su delazione di tre donne amiche di ufficiali tedeschi, Radio Rosa dovette cessare le trasmissioni a seguito dell'irruzione dei soldati. Così la Vassalle ricordava l’accaduto:
”Il comando tedesco inviò nella zona tutti i radiogoniometri, riuscendo ad individuare l’apparecchio radio nella stessa casa in cui era il “Santa” e a conoscere le ore di trasmissione. In quella mattina, alle ore 11 circa, mentre “Santa” era intento alla trasmissione, due vetture, da diversa direzione, si avvicinarono alla casa e ne scesero una decina di SS comandate da un maggiore, che circondarono la casa. “Santa” ebbe subito la percezione del pericolo e, dopo aver lanciato cinque bombe a mano con le quali colpì il maggiore e altri quattro tedeschi, si lanciò armato di mitra per le scale riuscendo ad uscire incolume dal portone e a raggiungere i campi. Di tale scena sono stata testimone oculare, trovandomi alla finestra di una casa vicina. I tedeschi credendo che Ciro Del Vecchio, un pensionato che per caso si trovava nei pressi del portone, fosse un altro nostro agente, lo uccisero con una raffica di mitra. Operarono pure numerosi arresti tra cui quelli di una mia cugina, che ospitava “Santa” con la radio, a nome Emilia Bonuccelli, che fu sottoposta a lunghi interrogatori e, poi, con gli altri condotta a Bologna, dove fu in un secondo tempo rilasciata. Io, intanto, ero riuscita a fuggire, portando con me tutta la documentazione, inerente al servizio. Riparai a Monsagrati, dove il giorno successivo ebbi notizia della salvezza di “Santa”. Ma, ricercata dai tedeschi, fui costretta ancora una volta a fuggire e a trovare rifugio presso la formazione “Marcello Garosi”, dove fui raggiunta da “Santa”.
Per la sua preziosa attività la Vassalle fu decorata di Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:
”Ventiquattrenne, di eccezionali doti di mente, d’animo e di carattere, all’atto dell’armistizio, incurante di ogni pericolo, attraversava le linee tedesche e si presentava ad un comando alleato per essere impiegata contro il nemico. Seguito un breve corso d’istruzione presso un ufficio informazioni alleato, volontariamente si faceva sbarcare da un Mas italiano, in territorio occupato dai tedeschi. Con altro compagno R.T. portava con sé una radio e carte topografiche, organizzava e faceva funzionare un servizio dì collegamento fra tutti i gruppi di patrioti dislocati nell’ Appennino toscano, trasmettendo più di 300 messaggi, dando con precisione importanti informazioni di carattere militare. La sua intelligenza e coraggiosa attività rendeva possibile sessantacinque lanci da aerei a patrioti. Sorpresa dalle SS. tedesche mentre trasmetteva messaggi radio riusciva a fuggire portando con sé codici e documenti segreti e riprendeva la coraggiosa azione clandestina. Pochi giorni prima dell’arrivo degli alleati passava nuovamente le linee tedesche portando preziose notizie sul nemico e sui campi minati. Animata da elevati sentimenti, dimostrava in ogni circostanza spiccato sprezzo del pericolo. Degna rappresentante delle nobili virtù delle donne italiane.
Italia occupata, settembre 1943 - luglio 1944”.
Anche Mario Robello detto Santa fu insignito della Medaglia d'Argento al valore militare. Nel dopoguerra Vera e Mario si sposarono e si trasferirono in Liguria a Lavagna dove Vera morì a causa di un male incurabile nel novembre del 1985.
Gabriele Pardini, IZ5JLW, NOME IN CODICE ROSA, “per chi non crede”. Un'affascinante storia di coraggio, di ideali e di radiantismo che hanno contributo in maniera determinante alla liberazione del territorio Versiliese durante il secondo conflitto mondiale 

venerdì 23 settembre 2022

Il Monferrato ebbe una forte gerarchia fascista autoctona

Benito Mussolini in visita a Casale Monferrato il 27 settembre 1925 - archivio Sergio Favretto - immagine qui ripresa da Sergio Favretto, art. cit. infra

Il n. 71 della rivista Quaderno di Storia Contemporanea edito dall’ISRAL di Alessandria, uscito ad agosto 2022 e diretto dal prof. Cesare Panizza, titolato Nascita ed avvento del fascismo in provincia di Alessandria, ospita una serie di saggi che esplorano e ricostruiscono la nascita del fascismo e la sua affermazione fino al 1926.
Con decine di pagine dense e documentate, con alcune immagini, Sergio Favretto restituisce una analisi storica e una narrazione puntuale sulle vicende che in quegli anni connotarono il Monferrato Casalese. Attingendo a fonti scritte, ai giornali di allora, a pubblicazioni, a relazioni, viene curata forse una prima completa cronistoria di eventi, una serie di protagonisti, il clima di tensione sociale e di progressivo dominio sul territorio del nascente fascismo.
Da sottolineare che analizzando il fascismo del Monferrato si richiamano gli ingredienti essenziali e caratterizzanti del fascismo nazionale. La violenza fisica e psicologica, il blocco della crescita sociale e della conoscenza libera, l’indottrinamento diffuso, la propaganda a ogni livello, l’esaltazione dell’uomo forte, la tutela dei privilegi dei poteri economici e elitari, nessun solidarismo ma solo caccia prepotente all’affermazione personale.
Cose che - drammaticamente - si respirano ancora in questi tempi.
redazione Allonsanfan
Lo squadrismo fascista non fu epidermico e dimostrativo, ma violento e organizzato. Basta ricordare: gli eventi di Casale (6 marzo del ’21, scontri presso la Camera del Lavoro con morti e feriti fra fascisti e lavoratori); di Trino (agosto del ’21, con uccisione di Coletto e altri quattro feriti, cittadini e un comunista); di Frassinello d’Olivola (25 dicembre del ’21, con uccisione di Ruschena); di Zanco di Villadeati (1923, con missione squadristica e uccisione del comunista Boario) e di Gabiano (nel ’24, con disturbo, manganellate e violenze al comizio del Popolare Brusasca). Sono stati tutti chiari episodi di gratuita violenza che alimentarono per molti anni il profondo dissenso e la paura di parte delle popolazioni verso il nascente regime. Per tutto il 1921, ad esempio, le azioni dimostrative e violente dello squadrismo fascista si ripeterono anche nelle piccole località: a Coniolo Monferrato, paese di cavatori e minatori, venne distrutto un circolo comunista e data la caccia ai socialisti casa per casa da parte di squadre fasciste; a Terruggia intervennero i ciclisti fascisti casalesi per sedare scontri allorquando la banda musicale si rifiutò di suonare Giovinezza e la Marcia Reale; nel quartiere del Ronzone a Casale, abitato in prevalenza da operai e cavatori, le squadre intervennero a tappeto e con grande effetto intimidatorio.
Il Monferrato ebbe una forte gerarchia fascista autoctona, come ebbe efficienti formule di squadrismo violento che intervennero in varie altre località alessandrine (era molto nota e temuta la squadra denominata La Disperata), nell’Astigiano e nella pianura verso Vercelli e Novara, in direzione di Alba e Genova e Savona.
Accanto al quadrunviro Cesare Maria De Vecchi, si segnalarono per durezza e organizzazione, Giovanni Passerone, Ettore Mazzucco, Michele Miglietta, Felice Governa, Nino Triulzi. La MVSNXI Legione Monferrato era una delle più nutrite e ramificate. È sufficiente leggere le pagine del settimanale fascista La Scolta per avere conferma dell’indottrinamento e del livore propagandistico che venivano utilizzati in modo aggressivo.
Vi fu nel Monferrato anche una presenza imprenditoriale (cementifici e cave, indotto vario) e varie associazioni agricole che si collegarono prestissimo con il nascente fascismo e lo squadrismo di sostegno e di sponda.
Sul fronte avverso, la tradizione comunista e socialista casalese, con il neocostituito Partito Popolare che con le figure di Giovanni e Giuseppe Brusasca, si opposero tenacemente. Molti gli scioperi, le manifestazioni di dissenso, con adesioni fra operai salariati agricoli, braccianti, artigiani. A livello locale e provinciale, i partiti della sinistra e i Popolari seppero distinguersi e battersi per la libertà e contro i privilegi, ma non bastò. Nel ’19 le elezioni amministrative videro la sinistra al governo della città. Con un attento lavoro di propaganda, militanza estrema, condizionamento economico, con violenza culturale, il fascismo tuttavia iniziò a mietere consenso o disarmare ogni coraggio.
Dal mio lavoro di analisi e ricostruzione storica emergono quali siano stati i fattori causali e agevolativi del sorgere del fascismo, ma pure gli aspetti che lo caratterizzarono e ne fecero un unicum e un modello da esportazione nel resto del Piemonte, Lombardia e Liguria.
Dalla ricerca emergono alcune novità o dettagli poco noti:
- a Casale per ricordare l’impresa di Natal Palli, diventato mito e simbolo dannunziano del super uomo, venne creata una associazione giovanile a lui dedicata che poi, nel 1922, confluì per convinta scelta nelle Avanguardie Giovanili Regionali Fasciste, con impegno diretto nella propaganda e nell’organizzazione fascista;
- gli scontri di marzo ’21 accentuarono a Casale il netto divario fra una sinistra movimentista, frazionata al proprio interno e con debole ruolo dei partiti storici riformisti, e un ceto borghese alleato con lo squadrismo fascista e la grande proprietà immobiliare terriera. Venne proclamato lo sciopero generale dei lavoratori casalesi contro il tentativo di riduzione dei salari. Grandi adesioni nei cementifici, nelle cave del Monferrato. Per porre termine allo sciopero, gli industriali e le squadre fasciste attuarono, con reciproco sostegno, un’operazione forte e simbolica: serrata e licenziamento di 4.000 lavoratori, intervento di operai bergamaschi condotti a Casale dai cementifici lombardi dalle squadre fasciste locali, riassunzione poi dei lavoratori casalesi con il gradimento del Fascio, riconquista della piazza e del consenso più generale;
- il 14 gennaio ’22 giunse a Casale Umberto Terracini (direttore di Ordine Nuovo) per svolgere un comizio presso la Camera del Lavoro, venne accolto con sputi e oltraggi alla stazione ferroviaria da squadre fasciste, rincorso e costretto a rifugiarsi in un teatro;
- alle elezioni Amministrative a Casale del 22 aprile 1922 stravinse il blocco fascista e affini, con le tre anime liberale, conservatrice e monarchica, con espressioni degli industriali e dello squadrismo locale, con esponenti degli agrari e del ceto medio. Contro la lista fascista vi fu solo la lista dei Popolari con l’industriale Pietro Buzzi, industriale cementiero stimatissimo ed esponente del cattolicesimo sturziano. Buzzi era anche partecipe degli organismi provinciali dei Popolari. Venne eletto sindaco l’avvocato Luigi Manacorda, rappresentante della componente conservatrice moderata, contro il ribellismo squadrista di Passerone e Cerruti. Assenti le sinistre, vi fu solo il 50% dei votanti aventi diritto;
- con la Marcia su Roma del 28 ottobre ’22 il fascismo conferma potere e violenza nel casalese. Alla Marcia si recarono pochi esponenti fascisti casalesi; protagonista quale quadrunviro con qualche distinguo, invece, Cesare Maria Devecchi con militanti di Torino. La dirigenza fascista rimase a Casale, impegnata a coordinare la mobilitazione della vigilia e poi effettuare l’occupazione della sottoprefettura, degli uffici postali e delle ferrovie. Il concentramento delle camice nere si diede appuntamento all’albergo Tre Re Vecchi nella notte del 27 ottobre. Il console Passerone diresse le operazioni, coudiuvato da Michele Miglietta e Felice Governa, da Luciano Segre e Carlo Ubertazzi e dall’avv. Giovanni Caire. Il sottoprefetto Dardanello venne congedato e i poteri passarono al comando generale fascista. Scorrendo le pagine del settimanale Il Monferrato del 28 ottobre e del 3 novembre, troviamo tutti gli ingredienti dell’organizzazione e dell’approccio dominante: camice nere che occupano uffici e servizi pubblici, attività di falangi fasciste, richiami alla forza virile e autorità di Passerone, le coorti fasciste in pieno assetto di guerra, le squadre avanguardistiche balilla e femminili, nuclei numerosi di triari. Il settimanale La Scolta pubblica ampi resoconti e l’appello e il saluto del console Giovanni Passerone con frasi certamente allarmanti: “La travolgente marcia del Fascismo… Dico con Mussolini che chi infanga il fascismo, infanga i nostri morti; per questo vi giuro che se anche dovessi uccidere saprei di compiere un dovere…”.
- nel gennaio 1923, l’Associazione Agricoltori Monferrini, fondata da Marescalchi, aderì immediatamente e confluì nelle Corporazioni fasciste, su indicazione di Ettore Mazzucco e Arturo Marescalchi, constatando l’identità di obiettivi con il Partito Nazional Fascista.
- simbolico e fortemente rappresentativo è il poco noto fatto della “proposta e bocciatura del telegramma di solidarietà alla vedova per l’uccisione di Matteotti”. Nel consiglio comunale di metà agosto 1924, Giuseppe Brusasca propose di approvare e inviare alla vedova Matteotti un telegramma di condoglianze a nome di tutta la città di Casale e della sua amministrazione. Il telegramma aveva il significato di una forte provocazione democratica per unificare il dissenso contro il fascismo dilagante. Il sindaco di allora, Oddone, la maggioranza consigliare fascista si opposero fermamente, ritenendola una strumentalizzazione. La proposta di Brusasca venne respinta. Ecco il testo del telegramma:
“Consiglio comunale di Casale Monferrato, interprete sentimenti intera cittadinanza, assassinio Giacomo Matteotti, porge vivissime condoglianze madre vedova figlia, con il fervido augurio vostre nobilissime invocazioni alla pace, alla concordia, all’amore siano ascoltate per il bene della Patria da tutti gli italiani”.
La nascita del fascismo nel Monferrato non fu, dunque, mera copia di altre esperienze, copia giunta per propagazione naturale, ma fu un prodotto locale ben distinto e originale.
Sergio Favretto, L’Italia fascista vista dal Monferrato, Allonsanfàn, 23 settembre 2022

[n.d.r.: tra i lavori di Sergio Favretto: Partigiani del mare. Antifascismo e Resistenza sul confine ligure-francese, Seb27, Torino, 2022; Il papiro di Artemidoro: verità e trasparenza nel mercato dei beni culturali e delle opere d’arte, LineLab, Alessandria, 2020; Con la Resistenza. Intelligence e missioni alleate sulla costa ligure, Seb27, Torino, 2019; Un carabiniere, testimone di storia. Mussolini a Ponza e a la Maddalena narrato in un diario, Arti grafiche, 2017; Una trama sottile. Fiat, fabbrica, missioni alleate e Resistenza, Seb27, 2017; Coraggio e passione. Riccardo Coppo, il sindaco, le sfide, Falsopiano, 2017; Fenoglio verso il 25 aprile, Falsopiano, 2015; La Resistenza nel Valenzano. L’eccidio della Banda Lenti, Comune di Valenza (AL), 2012; Resistenza e nuova coscienza civile. Fatti e protagonisti nel Monferrato casalese, Falsopiano, 2009; Il diritto a braccetto con l'arte, Falsopiano, 2007; Giuseppe Brusasca: radicale antifascismo e servizio alle istituzioni, Atti convegno di studi a Casale Monferrato, maggio 2006; I nuovi Centri per l’Impiego fra sviluppo locale e occupazione (con Daniele Ciravegna e Mario Matto), Franco Angeli, 2000; Casale Partigiana: fatti e personaggi della resistenza nel Casalese, Libertas Club, 1977]

domenica 18 settembre 2022

Macciocchi operava al cuore di una rete femminile che aveva il suo territorio d'azione nel centro di Roma

Roma: uno scorcio di Piazza Navona

4. L’incontro con i GAP <45
“Dato che il partito non poteva fornirci un poligono di tiro, per esercitarci a sparare, con Maria Antonietta andavamo alle bancarelle di Piazza Navona” <46. Così Rinaldo Ricci <47, membro dei GAP romani, in seguito assistente regista di Luchino Visconti, ricorda oggi i giorni in cui lui e Macciocchi facevano “coppia” nell’organizzazione romana della Resistenza. I due si conobbero all’inizio degli anni ‘40, quando entrambi, giovani studenti, davano ripetizioni ai figli del ministro della Cultura, Pavolini.
L’antifascismo, per loro come per tanti altri giovani, era prima di tutto un fatto culturale, alimentato da letture vaste e spesso proibite, sintomo di un'inquietudine delle coscienze cui il plumbeo clima culturale del regime non poteva dare risposte. “Ci influenzava la letteratura americana, ma anche Malraux, Marx”, ricorda Rinaldo Ricci. La condizione umana era stata infatti una lettura determinante per Macciocchi: “Ho letto La condizione umana di Malraux (…) Il fascismo ci aveva tenuto all’oscuro di tutta la cultura straniera, eppure, chissà come, questo Malraux era stato tradotto” <48. Il libraio era meta quotidiana per la giovane, che acquistava libri usati, spesso tenuti “sottobanco”, come nel caso dell’autore francese che tanto la influenzò: “Solo Malraux mi aveva messo in rapporto con i comunisti” <49.
Fu Rinaldo Ricci invece a metterla materialmente in contatto con gli ambienti romani della Resistenza, e in primis con Guttuso <50, che nel suo studio di via Pompeo Magno ospitava gli antifascisti. Come ha scritto Giorgio Galli nella sua Storia del Partito Comunista Italiano, i primi sintomi del risveglio di una coscienza politica durante la guerra erano giunti, già dal 40-41, proprio dagli intellettuali, in particolare quelli dell’ambiente romano: Renato Guttuso, Ruggero Zangrandi <51, Mario Alicata <52, Pietro Ingrao <53, Paolo Bufalini <54, Aldo Natoli <55, Fabrizio Onofri <56, Marco Cesarini Sforza <57, Antonello Trombadori <58. Dopo il 25 luglio del ‘43 Guttuso aveva costituito un comitato pluripartitico per dare assistenza agli antifascisti in carcere, rappresentandovi il PCI. Macciocchi entrò in contatto con quest‟ambiente: incontrò Negarville <59, Di Vittorio <60, Giorgio Amendola <61. Quest'ultimo in particolare avrà un ruolo determinante nella vita di Macciocchi, sia dal punto di vista politico, sia personale, visto che diventerà suo cognato. Figlio di Giovanni Amendola <62, Giorgio si era assunto il compito di seppellirne l’eredità idealista liberale - scrisse Macciocchi - in nome dell’ideologia ufficiale del PCI <63. Giorgio Amendola era un politico accorto, estremamente realista, fedele a Mosca. Il partito doveva seguire la linea dettata dall’URSS, il che in questa fase significava accreditarsi come leale agli occhi delle forze politiche democratiche e degli alleati. Per chi si formò politicamente in quel periodo la parola d'ordine democratica era persino più forte del richiamo alla centralità del proletariato, temporaneamente passata in secondo piano. Con la svolta di Salerno Togliatti propose la collaborazione tra tutte le forze che volessero battersi per la libertà d'Italia accantonando la pregiudiziale dell’abdicazione del re. Nel frattempo la presenza delle truppe angloamericane sul territorio italiano veniva presentata dal PCI come la causa transitoria che impediva di portare avanti una linea rivoluzionaria. Si cominciava a parlare di attesa di “nuove più favorevoli condizioni di lotta per le situazioni future” <64.
Macciocchi intanto fu nominata responsabile delle donne della zona centrale di Roma, e si vide assegnare come primo compito la distribuzione de l’Unità <65. In questa fase iniziale, nella distribuzione di materiali di propaganda, fu affiancata da una giovanissima Miriam Mafai, che ricordò in seguito: “Per tutti i mesi dell’occupazione, continuammo a incontrarci, a distribuire volantini e l’Unità (…). Mi fece leggere Malraux e mi spiegò che i comunisti cinesi erano 'gagliardissimi'” <66.
Dopo l’8 settembre 1943 si assisteva alla rinascita dei partiti politici, l’opposizione antifascista si riorganizzava e nel settembre nasceva il CLN. Accanto a questo, al Nord, nascevano i Gruppi di difesa della donna. A Roma invece era l’occupazione tedesca. Furono mesi interminabili e tragici per la città, durante i quali Macciocchi svolse tutti i compiti propri di una staffetta, facendo da tramite per operazioni militari e di sostegno ai partigiani. Accompagnò Giorgio Amendola, suo futuro cognato, in diversi rifugi, e come lui altri esponenti della rete clandestina, introducendoli in alloggi segreti dove sarebbero stati ospitati e tenuti al riparo. Così conobbe tra gli altri Sandro Pertini, avendo l’incarico di accompagnarlo nell’alloggio clandestino indicatole dal comando della zona <67.
Macciocchi operava al cuore di una rete femminile che aveva il suo territorio d'azione nel centro della città, tra il Lungotevere, piazza del Popolo e piazza Colonna. “Il lavoro femminile nella quinta zona clandestina di Roma (…) non era difficile. Cercavo ragazze antifasciste disposte a svolgere un piccolo lavoro politico come la distribuzione de l’Unità, o qualche volantino clandestino da sparpagliare per Roma, oppure disposte a stare nei posti di blocco sulle arterie stradali che uscivano da Roma, per contare i convogli militari che vi passavano” <68. Le clandestine della zona centrale erano una quindicina, ed erano divise in due spezzoni: quello con compiti di propaganda e di sostegno alle famiglie degli antifascisti incarcerati e quello con compiti propriamente militari. Quest'ultimo dipendeva in parte dal PCI, in parte dal CLN. Erano le partigiane più anziane, sulla quarantina, ad istruire le giovani come Maria Antonietta non solo sui compiti pratici di una staffetta, ma anche sui fondamenti teorici della lotta, trasmettendo alle ragazze rudimenti della filosofia marxista-leninista.
La guerra ha spesso costituito per le donne un'esperienza senza precedenti di responsabilità e libertà, legata alla conquista di spazi tradizionalmente riservati agli uomini, all’apertura di nuovi orizzonti professionali, e spesso, come nel caso della Resistenza, alla partecipazione militare <69. L’attivismo femminile alterava la chiusura sociale ma anche “la rigidità dei modi di abbigliamento e di socialità borghesi” <70. Si tratta spesso di un‟esperienza illusoria, poiché i mutamenti legati alla guerra sono limitati dal rafforzamento, pratico e simbolico, dei ruoli sessuali, oltre ad essere funzione di svariati parametri, quali il gruppo sociale, l’età, la situazione familiare e naturalmente la storia individuale <71.
Nell’autobiografia di Macciocchi si ritrova l’immagine di una vera e propria trasfigurazione legata all’esperienza resistenziale, in linea con altre testimonianze che ci rinviano un'immagine di liberazione femminile legata alla fase del conflitto. Se infatti le donne sono spesso doppiamente travolte dalle guerre, divenendo oggetto di specifiche violenze di genere legate ai conflitti, in molte memorie si ritrova invece come elemento comune l’euforia per la liberazione provvisoria dalle regole e dai rigidi ruoli vincolanti in tempo di pace. Macciocchi descriveva in questi termini la sua liberazione: “Di quell’epoca, mi resta il ricordo di giornate intense, e libere. Provavo la gioia assoluta di voltare le spalle a padre, sorelle, tutela casalinga. La mia emancipazione stava nel mescolarmi agli uomini, ai ragazzi, ai compagni, che avevo visto fino allora solo nell’altra fila di banchi a scuola” <72. Dunque fine della segregazione sessuale, della divisione dei ruoli, anche se solo apparente e transitoria. Il desiderio di emancipazione individuale, la volontà di scardinare un sistema di relazioni sociali soffocanti, appaiono come altrettante motivazioni importanti per comprendere il protagonismo delle donne in quel periodo.
Il 15 febbraio 1944 Macciocchi riceveva l’input per entrare nei gruppi di azione partigiana, i GAP <73. Questi le apparvero come un gruppo di giovani borghesi sicuri, decisi, persino altezzosi.
[NOTE]
45 I GAP, Gruppi d'Azione Patriottica, nacquero su iniziativa del Partito Comunista Italiano, sulla base dell’esperienza della Resistenza francese. Erano articolati in piccoli nuclei di quattro o cinque persone e portavano avanti azioni di sabotaggio nei confronti delle truppe nazifasciste. Sui GAP romani e in particolare su una delle vicende più controverse legate alla loro esperienza, ovvero l’attacco di via Rasella, si veda la ricostruzione del comandande GAP Rosario Bentivegna, protagonista dell’assalto di via Rasella, Achtung Banditen!, Milano, Mursia, 1983, n. ed. 2004. E ancora sulla Resistenza a Roma M. Avagliano G. Le Moli, Muoio innocente. Lettere di caduti della Resistenza a Roma, Milano, Mursia, 1999.
46 Testimonianza di Rinaldo Ricci
47 Rinaldo Ricci (Roma, 1923); è stato assistente alla regia di Luchino Visconti, Franco Zeffirelli e Billy Wilder. Nella sua filmografia ricordiamo con Visconti Il Gattopardo e Rocco e i suoi fratelli, con Franco Zeffirelli Romeo & Juliet. Ha partecipato alla Resistenza.
48 Macciocchi, Duemila anni di felicità, cit, p. 77
49 Ivi, p. 77
50 Renato Guttuso (Bagheria, 1911 - Roma, 1987) è stato un pittore italiano, esponente del cosiddetto realismo sociale, e uno dei più illustri nomi della cultura vicini al Partito comunista italiano.
51 Ruggero Zangrandi (1910-1970) è stato un giornalista e scrittore italiano. Si impone al largo pubblico negli anni Sessanta per le sue inchieste sul Sifar e per la sua ricostruzione della mancata difesa di Roma, nel 1943, da parte dello Stato Maggiore italiano.
52 Mario Alicata (Reggio Calabria, 1908 - Roma, 1966) è stato un giornalista e politico italiano. Ha partecipato alla Resistenza. Membro del Comitato centrale del PCI è stato uno dei più stretti collaboratori di Palmiro Togliatti. Ha diretto il quotidiano comunista ‘L’Unità’.
53 Pietro Ingrao (Lenola - Latina 1915), è un giornalista e politico italiano. Partecipò alla Resistenza a Roma e Milano, è stato membro del Comitato centrale del PCI, parlamentare per numerose legislature e presidente della Camera dei Deputati. Ha diretto il quotidiano ‘L’Unità’ e partecipato alla fondazione del Partito Democratico di Sinistra, per abbandonarlo il seguito e aderire al partito della Rifondazione Comunista.
54 Paolo Bufalini (Roma, 1915 - Roma, 2001) è stato un politico italiano. Partigiano, eletto più volte in Parlamento, è stato fra i massimi dirigenti del Partito Comunista Italiano.
55 Aldo Natoli (Messina, 20 settembre 1913) medico, antifascista e deputato italiano per il PCI, fu radiato dal partito con Rossana Rossanda, Luigi Pintor e il gruppo del quotidiano “Il Manifesto” a causa del dissenso sulL’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
56 Fabrizio Onofri (Roma, 1917 - 1982) è stato uno scrittore e dirigente comunista, Medaglia di bronzo al valor militare per il suo impegno nella Resistenza. Fu espulso dal PCI nel '57 in seguito ad una polemica con Togliatti sullo stalinismo.
57 Marco Cesarini Sforza è stato un giornalista e membro del PCI.
58 Antonello Trombadori (Roma, 1917 - Roma, 1993) è stato un giornalista, critico d'arte e politico italiano. Partecipò alla Resistenza e dopo la Liberazione entrò a far parte del Comitato centrale del PCI. Collaboratore di importanti riviste come 'La Ruota', 'Primato', ‘Città’, ‘Corrente’, ‘Cinema’ e ‘Rinascita’, fu eletto quattro volte deputato. Dopo il 1968, si avvicinò dapprima alla corrente migliorista di Paolo Bufalini e Giorgio Napoletano, quindi alle posizioni socialiste. Giorgio Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, Milano, Kaos edizioni, 1993.
59 Celeste Negarville (Avigliana, 1905 - Torino, 1959) è stato un politico italiano. Antifascista, nel dopoguerra sarà uno dei maggiori esponenti del PCI e il primo a dirigere l’Unità dopo gli anni di diffusione clandestina. Fu deputato alL’Assemblea Costituente, quindi senatore e più volte sottosegretario. E' stato sindaco di Torino nell’immediato dopoguerra. Ha contribuito alla sceneggiatura del film di Rossellini Roma città aperta.
60 Giuseppe Di Vittorio (Cerignola, 1892 - Lecco, 1957) è stato un politico e sindacalista italiano. Proveniente da una famiglia di contadini, partecipò da antifascista alla guerra civile spagnola e quindi alla Resistenza in Italia nelle Brigate Garibaldi. Nel 1945 fu eletto segretario della CGIL che aveva contribuito a rifondare e che guidò fino alla sua morte.
61 Giorgio Amendola (Roma, 1907 - Roma, 1980) è stato un politico italiano, autore di numerosi libri. Figlio di Giovanni Amendola e dell’intellettuale lituana Eva Kuhn, aderì al PCI nel 1929 militando nell’antifascismo e quindi nella Resistenza, entrando nel comando generale delle Brigate Garibaldi assieme a Luigi Longo, Pietro Secchia, Gian Carlo Pajetta e Antonio Carini. Fu deputato per il PCI dal 1948 fino alla morte. Fu cognato di Maria Antonietta Macciocchi, che sposò il fratello Pietro Amendola.
62 Giovanni Amendola (Salerno, 1882 - Cannes, 1926) è stato un politico italiano. Docente di filosofia teoretica all’Università di Pisa, parlamentare liberale, fu ispiratore del Manifesto degli intellettuali antifascisti e uno dei principali artefici della secessione aventiniana. Inviso al regime, fu una delle prime vittime del fascismo. Morì a Cannes, in Francia, in seguito ad una lunga agonia, per le percosse ricevute a Serravalle Pistoiese (PT) il 20 luglio 1925 da un gruppo di squadristi.
63 Maciocchi, Duemila anni di felicità, cit, p. 70.
64 G. Galli, op. cit, p. 239.
65 L’Unità era il quotidiano della sinistra italiana, quindi organo ufficiale del PCI, fondato il 12 febbraio 1924 da Antonio Gramsci. Messo fuori legge nel 1925 dal Prefetto di Milano, uscirà clandestinamente, tra Francia e Italia, sino alla seconda guerra mondiale; solo con l’arrivo degli alleati, dal 1944 riprese a Roma la pubblicazione ufficiale del giornale. Il nuovo direttore era Celeste Negarville.
66 M. Mafai, Addio alla Macciocchi, comunista eretica, ‘La Repubblica’, 16/04/07. In realtà Mafai sembra ricalcare il suo ricordo della Resistenza con Macciocchi dalle pagine di Duemila anni di felicità, cit., p. 77
67 Macciocchi, Duemila anni di felicità, cit, p. 85
68 Ivi, p. 88
69 Sulle donne e la guerra alcune considerazioni interessanti si trovano in F. Thébaud, La Grande Guerra, in Storia delle donne. Il Novecento, a cura di F. Thébaud. Bari, Laterza, 1997 “Gli anni della guerra hanno costituito per le donne un‟esperienza positiva, e persino - interrogativo provocatorio quant‟altri mai - un happy time?”, si chiedeva la storica francese analizzando L’impatto della Grande Guerra sulla condizione femminile. Ivi, p. 42. La studiosa rileva come numerose fonti femminili ci rimandino quest‟immagine. L’espressione “good time” è stata usata dalla femminista inglese C. Gasquoine Hartley in Women’s Wild Oats, mentre di “fine time” ha parlato L. Pruette. La propagandista inglese Jessie Pope e la romanziera americana Willa Cather hanno esaltato il rovesciamento dei ruoli sessuali. L’Inghilterra di Harriot Stanton Blatch nel 1918 era un mondo di sole donne, che apparivano sicure nel loro spazio, capaci, felici, gli occhi brillanti.
70 Ivi, p. 46
71 Ivi, p. 49
72 Macciocchi, Duemila anni di felicità, cit., p. 87
73 Ivi, p. 89
 


Eleonora Selvi, Maria Antonietta Macciocchi: profilo di un'intellettuale nomade nel secolo delle ideologie, Tesi di Dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2009