Pagine

lunedì 27 febbraio 2023

Una piccola raccolta nasce così, da sola


NOTICINA INTRODUTTIVA

Una mattina, era per la precisione il 25 novembre 2022, alle ore 10 e 44 minuti antimeridiane, il Barry (nome con cui confidenzialmente viene talora chiamato Fabio Barricalla) mi scrive, attraverso le vie eteree delle comunicazioni cellulariche, una poesia del genere haikai:

Gocce sul prato
Bianco e nero su verde -
Giorno d'autunno

Io rispondo, alle ore 10 e 51 minuti:

Platano alto
verde contro l'azzurro -
Garibaldi Avenue

Mi trovavo in un bar, effettivamente sito in corso Garibaldi, a Sanremo, ed effettivamente c'era un platano che si stagliava contro il cielo azzurro, lì appresso. La cosa non aveva nulla di sorprendente, giacché il corso Garibaldi di Sanremo è tutto costellato di platani.
Assai più tardi, vale a dire alle ore 15 e 24 minuti, quindi in fascia postmeridiana, il Barry avrebbe replicato:

Quella donna e quel platano
Lungo la via deserta

e la storia é finita lì. Sennonchè, avendo pensato di mettere al corrente l'amica Silvana Maccario delle prime mosse di questa conversazione in versi fra il Barry e me, alle ore 10 e 59 minuti ricevevo, dalla Silvana Maccario medesima, questa poesia:

Perle di corniolo
nel giardino
per gli alati
che non hanno denari

E, alle ore 11 e 6 minuti, quest'altra:

Il caleidoscopio
si arabesca
solo se viene capovolto

La cosa aveva preso una piega imprevista. Di Silvana Maccario conoscevo la delicatezza e la giocosità di certe sue missive, conoscevo la dotta passione con cui lascia vivere un giardino di piante autoctone ed esotiche attorno a casa sua, conoscevo le immagini che crea - "collezionista effimera di colori", per designarla con una definizione da lei stessa coniata - fotografando le sue creature. Nulla sapevo di una sua arsversificatoria.
Su mia richiesta si ha, nei giorni successivi, qualche invio di poesie e di fotografie. Una piccola raccolta nasce così, da sola, in pochissimo tempo, quello impiegato per la crescita di un fungo nel bosco, o per l'aprirsi di un fiore.

Marco Innocenti

[...]


Lo sai che
certe foglie
prima di morire
si vestono a festa?
E che ci sono rose
che per non invecchiare
muoiono senza aprirsi?

La lespedeza
rovescia
cascate di gioia

Le plastiche sugli alberi
sostituiscono gli uccelli.
La civiltà impiccata

Atropo sfingide della notte
porta sulle ali
il vessillo della morte

In uno spazio angusto
un ragno con la preda
si è accasato

Cuscini d'erba
raccontano a grilli distratti
tragedie umane

Erba di mare
dalla prateria di sale
sulla rena
fa la fine di Loth


[...]

 
Silvana Maccario, Margini, Quaderno del circolo lepómene stampato a Sanremo, gennaio 2023

martedì 21 febbraio 2023

L’Alligatore è la prima figura di detective privato italiano credibile


Una caratteristica che rende unico il lavoro di Carlotto è ben esplicitata dalla ricercatrice Barbara Pezzotti:
“Carlotto's novels are interested because are the first crime story to be set in the north-east of Italy, a huge, indistict area that covers the regions of Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia. […] Italian crime fiction writers have strangely negleted this part of Italy, and Carlotto has been the first crime writer to set a series in this troubled part of Italy”. <112
Carlotto racconta il Veneto e tutto il nord-est, una terra che da contadina si è trasformata in una no man's land qualsiasi dopo gli anni del boom e la moltiplicazione di capannoni, poi lasciati vuoti dal turbine della crisi; il territorio è preda di mafie dall'est Europa che addirittura mettono nell'angolo la vecchia criminalità organizzata italiana.
Il paesaggio solare in contrasto con il plumbeo dei noir, dei non luoghi metropolitani, dei parcheggi ma anche della linea veneta che dalle ville palladiane si scontra con i capannoni e l'industrializzazione vorace raccontato da Carlotto.
Tra le opere ricordiamo proprio Nordest (in collaborazione con Marco Videtta, 2005) di cui Franca Pellegrini, in un suo recente saggio dedicato al libro dichiara che il romanzo contemporaneo, nell'intenzione dello scrittore padovano, ha la funzione “di porre di fronte al lettore questioni sociali di cogente attualità per il paese”. <113 Il noir può diventare uno strumento che permette di prendere coscienza di quanto accade intorno a noi e di svelare le dinamiche occulte della criminalità, che i media e la giustizia sembrano non voler o non essere in grado di denunciare. Paradossalmente, il romanzo di finzione diviene quindi il mezzo migliore per raccontare la verità. Il romanzo diventa così contro-informazione.
“Non esiste oggi in Italia un altro autore che sappia raccontare, come Massimo Carlotto, il dolore e la capacità di resistenza degli esclusi; uno scrittore che sappia descrivere meglio i meccanismi attraverso cui una società civile si trasforma in un'arena dove il pubblico reclama lo spettacolo del diverso colpevole e del sangue che scorre”. <114
Nel tempo Carlotto è diventato esponente di spicco del genere noir, nel solco del quale ha pubblicato la serie di romanzi dell'Alligatore, il detective privato Marco Buratti: La verità dell'alligatore, 1995; Il mistero di Mangiabarche, 1997; Nessuna cortesia all'uscita, 1999; Il corriere colombiano, 2000; Il maestro di nodi, 2002 - con il quale vince il Premio Scerbanenco - riuniti in un unico volume dal titolo L'Alligatore, 2007, a cui è dedicato anche il racconto a fumetti Alligatore. Dimmi che non vuoi morire in collaborazione con Igort, 2007; seguono L'amore del bandito, 2009, La banda degli amanti, 2015, Per tutto l'oro del mondo. Un nuovo caso per l'Alligatore, 2015 e Blues per cuori fuorilegge e vecchie puttane 2017, tutti editi e/o.
L'Alligatore è la prima figura di detective privato italiano credibile. La narrativa poliziesca italiana ha prodotto commissari e poliziotti, senza dimenticare il Duca Lamberti di Scerbanenco, che da medico diventa poi poliziotto, ma non detective privati.
“Se il noir è la variante metaforica della controinformazione e una scrittura che vuole tradurre in chiave romanzesca il pasoliniano io so, rimuovendo, almeno nella finzione narrativa, quella censura che occulta i misteri, o meglio i segreti di stato, al fine di fornire al lettore strumenti di riflessione, è un genere che ha bisogno di un investigatore privato credibile, cioè di un personaggio che non crede nella Giustizia dei giudici e dello Stato, ma che combatte per raggiungere la verità, quella verità che la dea bendata della Giustizia non vede mai. Questo personaggio la narrativa noir nostrana l'ha trovato nel protagonista dei romanzi seriali di Carlotto”. <115
L'Alligatore è un ex cantante blues, è stato in galera e ha conosciuto alcuni galeotti che si fa amici, come il fraterno Beniamino Rossini. È melanconico, ama il distillato di sidro di mele, il calvados e non crede nella giustizia dello Stato. Il suo passato e la necessità economica lo spingono a diventare un detective sui generis, a suo agio con le storie al confine della legalità. Le sue passioni - la musica blues, il sidro di mele e le donne - lo avvicinano ai suoi padri putativi mediterranei: Pepe Carvalho e Fabio Montale. L'Alligatore però lavora con dei soci, Beniamino Rossini e in seguito Max la memoria. Il lavoro di quadra, la triade, è un fatto nuovo nella tradizione noirista.
Nel descrivere Beniamino Rossini, Carlotto così si esprime:
“La prima volta che l'avevano pizzicato, Beniamino Rossini portava ancora i pantaloni corti e aiutava la mamma e i fratelli a trasportare merce di contrabbando attraverso il confine svizzero. Poi si era specializzato in rapine ai furgoni portavalori facendosi un nome di tutto rispetto a Milano, città in cui era nato e cresciuto. Ora, a cinquant'anni suonati, era tornato al contrabbando che praticava con comodi e veloci motoscafi, attraversando il braccio di mare che divideva il Veneto dalla Dalmazia. Trasportava di tutto: latitanti, puttane russe, oro, caviale, armi. Droga mai. Detestava gli spacciatori e li accusava di aver rovinato la mala. Ci eravamo conosciuti al penale di Padova; aveva un problema con un gruppo di camorristi intenzionati a tagliargli la gola alla prima occasione e mi aveva chiesto di intervenire. Alla fine, tutto si era risolto per il meglio e col tempo eravamo diventati amici. Ricco e rispettato, non aveva alcun bisogno di collaborare alle mie indagini. A spingerlo erano solo l'amicizia e la voglia di ficcarsi nei casini”. <116
All'amico Rossini Carlotto dedica un intero romanzo, La terra della mia anima (2006) in cui racconta la sua storia e la sua terra che è la frontiera, mentre dichiaratamente noir Carlotto scrive anche L'oscura immensità della notte (2005) e Il mondo non mi deve nulla (2014).
L'Alligatore è stato uno dei personaggi che ha contribuito all'innovazione della scena letteraria del romanzo noir italiano, ma anche all'affermazione internazionale del noir mediterraneo. Quando apparve nel 1993 (con La verità dell'Alligatore) fu come un terremoto: era nata una figura inusuale nella tradizione italiana. Non si era mai visto prima un investigatore uscito di galera, che non aveva fiducia nelle istituzioni, ma era ossessionato dalla giustizia e svolgeva le sue indagini con l'aiuto di un criminale “vecchia maniera” e di uno strano "analista", reduce dai movimenti extraparlamentari anni '70.
“Nella tradizione italiana, la tipologia che ha fatto più fatica a fornire modelli credibili è quella dell'investigatore privato. Da sempre priva di una cultura dell'investigazione, l'Italia ha potuto dar vita a decine e decine di investigatori onesti servitori dello Stato, il più delle volte più onesti dello Stato stesso, commissari, marescialli, vicequestori o agenti di polizia, a volte prodotti letterari di imitazione, nel migliore dei casi realistiche personificazioni, didascaliche e ormai abusate, dell'onestà e della dedizione, alla ricerca della verità e della giustizia. Ma nel filone del giallo tendente al noir, il cui principale interesse è la denuncia sociale, e non il rassicurante ristabilimento dell'equilibrio e del Bene, la figura dell'onesto commissario non funziona”. <117
Emerse immediatamente che l'Alligatore era il soggetto necessario per raccontare l'Italia contemporanea e il suo groviglio tra economia e criminalità e le contraddizioni della giustizia e della politica. Non si fatica a vedere in Buratti un alias dello stesso Carlotto.
Proseguendo nei romanzi dedicati a Buratti, si scopre che l'Alligatore suonava in un gruppo Blues chiamato Old Red Alligators ed offriva ospitalità quasi a chiunque. La sua vita cambia bruscamente quando viene condannato a sette anni per avere accolto in casa un ricercato. Mentre è in galera perde la voce. Il primo libro (La verità dell'Alligatore, 1995) parla di un uomo che viene ingiustamente accusato di avere ucciso a coltellate una donna e infine viene condannato. La narrazione presenta corsi e ricorsi della vita di Carlotto.
Un personaggio terribile e feroce inserito sempre nel “ricco” nordest è Giorgio Pellegrini a cui dedica Arrivederci, amore ciao (2001) e Alla fine di un giorno noioso (2011) e che inserirà anche nei romanzi dell'Alligatore (La banda degli amanti e Blues) in un tipico crossover da serialità televisiva. I romanzi su Pellegrini, scritti in prima persona, raccontano di un uomo che rinnega i propri ideali giovanili per diventare un sadico criminale che desidera a tutti i costi ripulirsi per avere una nuova chance nella società “bene” e ricca del nordest. Ottima trasposizione cinematografica è l'omonimo film Arrivederci, amore ciao di Michele Soavi nel 2006 con Alessio Boni, che riproduce un senso di repulsione verso il personaggio così bene delineato nella sua oscurità. Nel paragrafo 3.2 viene analizzata l'opera sia letteraria che cinematografica.
Dopo il Veneto, un altro luogo del cuore di Carlotto è la Sardegna, a cui dedica Jimmy della collina (2002) ispirato a don Ettore Cannavera della comunità La Collina di Serdiana che consente di sostenere i percorsi di vita di ragazzi perduti. Alla Sardegna e in particolar modo alla zona del poligono di Salto di Quirra è dedicato il romanzo noir Perdas de Fogu (insieme al collettivo Mama Sabot, 2008), frutto di una meticolosa inchiesta di cui parleranno anche i giornalisti molti anni dopo come il programma Presa diretta, Rai Tre, nel 2013. <118
Il noir ha un'importante funzione anticipatoria - come sottolinea Carlotto nell'intervista in appendice - che si evidenzia nel romanzo Mi fido di te (in collaborazione con Francesco Abate, 2007). Il tema centrale è il mondo della sofisticazione alimentare, per il quale entrambi gli autori fecero ricerche accurate. Nel romanzo, il protagonista Gigi Vianello distribuisce prodotti adulterati (cibo, erboristeria, pulizia del corpo) e vive al riparo nel suo ristorante finché il passato non torna a tormentarlo, come avviene a Toni Servillo nel film Una vita tranquilla (di Claudio Cuppellini, 2010).
“Passione civile e veemenza della trama possono convivere in un preciso equilibrio narrativo? In una quindicina di anni e di romanzi, Massimo Carlotto ci ha ampiamente dimostrato che è possibile”. <119
A Torino e al mondo del consumo a tutti i costi, quasi un grido disperato di una donna che invidia le veline e il Grande Fratello è Niente più al mondo (2004) mentre con Respiro corto (2012) Carlotto fa un omaggio alla Marsiglia del suo amico Izzo, con una sorta di Alligatore al femminile (seppure entro i ranghi delle forze dell'ordine), Bernadette Bourdet, un commissario della narcotici che ascolta solo Johnny Hallyday e comanda una squadra di agenti reietti, cacciati da tutti i commissariati.
Con La via del pepe. Finta favola africana per europei benpensanti (in collaborazione con Alessandro Sanna, 2014) Carlotto compie un'operazione oltre il suo stile noir, scrivendo una fiaba - pur sempre nera - e moderna che rimanda a Le irregolari. Entrambe le esperienze, infatti, quella dei desaparecidos argentini e quella dei desaparecidos africani, sono narrate da Carlotto attraverso la medesima operazione: scavare nell'oblio della storia per disseppellire la memoria di persone che scompaiano nel nulla, nel silenzio e con la complicità delle democrazie occidentali. Se il regime dittatoriale argentino pianificava nei minimi dettagli la scomparsa degli oppositori, i regimi democratici europei pianificano da almeno vent'anni la sistematica scomparsa dei migranti africani nel mar Mediterraneo. <120
Il turista (2016) è un thriller anomalo, dove Carlotto sceglie di contrapporre la figura di un abile serial killer che compie un errore e di un ex commissario, che ha già commesso un grave sbaglio nel passato e vede ora l'occasione giusta per riscattarsi.
Carlotto ha spesso analizzato il proprio lavoro, raccontando il suo metodo, il noir mediterraneo e il suo stile di scrittura, in una meta-narrazione fondamentale per capire il suo modus operandi. Con The black album (2012), una lunga conversazione con Marco Amici, Massimo Carlotto ripercorre i temi nodali del genere e gli aspetti centrali della sua scrittura, in cui troviamo rappresentati i profondi cambiamenti avvenuti nell'universo criminale e il ruolo dell'Italia nei traffici illeciti che attraversano l'Europa. Con Tre passi nel buio <121 (con Luca D'Andrea e Maurizio de Giovanni) in una lunga intervista con l'editor Luca Briasco, i tre scrittori decidono di raccontare nei dettagli come costruiscono le loro storie, quali sono gli ingredienti irrinunciabili e come questi si sono evoluti nel corso degli anni.
Carlotto lavora insieme ad altri autori, scrive racconti all'interno di antologie, crede negli intenti comuni. Si veda Cocaina (2013), scritto insieme a Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo dove gli scrittori affrontano una questione quanto mai fondamentale ma assente dall'agenda dei mass media (si veda l'intervista in appendice).
A più mani compare la quadrilogia Le vendicatrici (con Marco Videtta, 2013) composta dai romanzi dedicati a quattro donne, Ksenia, Eva, Luz e Sara e nel 2018, sempre declinato al femminile, Sbirre (con De Cataldo e Maurizio de Giovanni).
Di molti dei suoi romanzi Carlotto cura l'adattamento teatrale e cinematografico, come per Il fuggiasco, regia di Andrea Manni (2003, soggetto e sceneggiatura), Morte di un confidente in Crimini, regia dei Manetti Bros. (2007, soggetto e sceneggiatura), Little dream in Crimini, regia di Davide Marengo (2009, soggetto e sceneggiatura). Dai suoi romanzi vengono realizzati gli adattamenti cinematografici di Arrivederci amore, ciao (Ita/2006) regia di Michele Soavi e Jimmy della collina (Ita/2006) regia di Enrico Pau. Cura alcuni programmi per la radio, nel 2001 - Il piccolo patriota padovano, riadattamento da Edmondo De Amicis (Radio RAI), nel 2004 - Radio Bellablù, radiogiallo di Massimo Carlotto e Carlo Lucarelli, a cura di Sergio Ferrentino (RAI Radio 3) e nel 2006 - Vincenzo De Paoli e il pascià Ulug Alì, in Dialoghi possibili, regia di Giuseppe Venetucci (RAI Radio 3).
Paragonato a Ellroy per la violenza deflagrante, la chiave dell'opera di Carlotto “volta più all'impegno etico che alla ricerca estetica”, <122 secondo Gian Paolo Giudicetti è condivisibile là dove si impernia nella descrizione dell'esperienza individuale con personaggi-diaframma grazie ai quali viene raccontata la Storia, come nei romanzi Il giorno in cui Gabriel scoprì di chiamarsi Miguel Angel e Le irregolari, entrambi scritti di denuncia sulla dittatura argentina.
Le sue opere mostrano spesso un'altra faccia della storia di un crimine, quella del delinquente. In Arrivederci, amore ciao la storia viene enucleata dal punto di vista di Caino, dietro l'apparenza della ricchezza del Veneto si nasconde lo sfruttamento della politica come strumento per ottenere successo, economia legale e illegale si mescolano, nuove mafie, vecchi terroristi, tutti si ripuliscono per dare l'apparenza della “locomotiva del nordest”.
L'Europa, e in particolare l'Italia, ha utilizzato tradizionalmente il genere poliziesco come mezzo per descrivere la realtà sociale ed economica: da Gadda a Sciascia, a Scerbanenco fino ai più recenti Camilleri, Fois, Lucarelli. Lo stesso Carlotto ravvisa questa visione politica come una “tendenza letteraria” <123 del genere noir.
[NOTE]
112 Barbara Pezzotti, “Alligator is back, Massimo Carlotto and the north-east, the Corroded Engine of Italy”, p.324-35 in Storytelling: A Critical Journal of Popular Narrative, 10.1 (2010): 33-49
113 Franca Pellegrini, “Il giallo contemporaneo. Memoria e rappresentazione dell'identità nazional-regionale” in Monica Jansen, Yasmina Khamal, Memoria in noir. Un'indagine pluridisciplinare, Peter Lang, Bruxelles, 2010, p.218
114 Edizioni e/o, introduzione a La banda degli amanti
115 Antonio Emiliano Di Nolfo, Sulle tracce del Noir. L'itinerario di Massimo Carlotto, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Sassari, 2004-2005
116 Massimo Carlotto, Nessuna cortesia all'uscita, Roma, edizioni e/o, 1999 p.24
117 Claudio Milanesi, “L'Alligatore, il nordest come metafora” in Italies, 4, 2000, pp. 673-685
118 Il titolo dell'inchiesta è Servitù militari
119 Sergio Pent  - Tuttolibri/La Stampa
120 https://www.carmillaonline.com/2015/04/28/i-desaparecidos-del-mediterraneo-e-la-via-del-pepe-di-massimocarlotto-e-alessandro-sanna/
121 Massimo Carlotto, Luca D'Andrea, Maurizio De Giovanni, Tre passi nel buio. Il noir, il thriller e il giallo raccontati dai maestri del genere, Roma, Minimun Fax, 2018
122 Gian Paolo Giudicetti, “La narrazione nelle opere di Massimo Carlotto. Impegno etico e affermazione dell'io”, in Monica Jansen, Inge Laslots, Dieter Vermandere (a cura di) Noir de Noir, op.cit., p.103
123 Il concetto di tendenza espresso da Walter Benjamin in L'autore come produttore, Torino, Einaudi, 1973
Giuditta Lughi, Il noir mediterraneo come strumento di investigazione del reale. Il caso di Massimo Carlotto, Tesi di laurea, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Anno accademico 2019-2020

mercoledì 15 febbraio 2023

Sonerò ancora lo splendido violino verde

Giovanni Choukhadarian. Fonte: Luca Simoncelli, art. cit. infra

Sanremo. Un grave lutto ha colpito il mondo del giornalismo locale e non solo. E’ morto, portato via da un male incurabile che lo affliggeva da tempo, il collega Giovanni Choukhadarian: aveva 50 anni. Nato nella Città dei Fiori, di origini armene, ha collaborato con diverse testate, tra le quali Repubblica, il Foglio e Mentelocale. Personaggio eccentrico dal grande spessore umano, critico letterario, si è sempre occupato di cultura e spettacolo, senza ma perdersi un evento, dalla presentazione di un libro al Festival di Sanremo.
[...] Così scriveva il 17 gennaio di quest’anno:
Ma voi, claquers, ditemi immantinente
se resterà almeno un filo
dei miei concerti o se, tranne
la spuma dei vostri entusiasmi,
di fatto non c’era niente.
Sonerò ancora lo splendido violino verde,
finché le mani ce la faranno.
Sento però che la mia destrezza si perde
e crescono il disinganno e l’affanno.
Ma voi, claquers, assicuratemi
che di me durerà almeno un rigo,
che delle mie sconsolate sonate
qualcosa
...
Luca Simoncelli, Sanremo, il giornalismo piange il collega Giovanni Choukhadarian: morto a soli 50 anni, Riviera 24.it, 2 febbraio 2018

Nato e vissuto a Sanremo, ma di origini armene, Giovanni Choukhadarian era un animatore culturale e un giornalista che collaborava sia con giornali locali, sia con testate nazionali. Si occupava prevalentemente di spettacolo, ma non solo. Persona colta e dai modi garbati, era piacevole chiacchierare con lui quando ci si incontrava nella sala stampa dell’Ariston, durante i giorni del Festival, o al Premio Tenco, del quale era assiduo frequentatore.
Per gli amici era “Chouka”, e quanto fosse benvoluto lo dimostrano i tanti post apparsi sui social appena si è diffusa la notizia della sua dipartita.
Massimo Poggini, Addio al giornalista Giovanni Choukhadarian, Spettakolo, 2 febbraio 2018  

Ieri pomeriggio, martedì 15 dicembre 2015, presso la sala Nino Lamboglia dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri a Bordighera, ha avuto luogo la presentazione della seconda ristampa del catalogo col quale Daniele Audetto ha voluto ricordare il suo passato di giovane pittore.
Oltre alla riproduzione fotografica dei suoi dipinti, riproposti nel luglio dell’anno scorso nella mostra all’oratorio San Bartolomeo degli Armeni del Paese Alto, il catalogo raccoglie anche suoi scritti sugli amici pittori e scrittori che hanno animato la vita culturale di Bordighera e della Riviera: Seborga, Cammi, Gian Antonio, Bilinsky, Morlotti, Maiolino, Gagliolo, Truzzi e tanti altri.
Una straordinaria galleria di personaggi, raccontati con sensibilità e affetto, ben oltre l’aneddotica.
Presente in veste di padrona di casa la Dottoressa Daniela Gandolfi, ha fatto da intervistatore, dopo l’introduzione di Giorgio Loreti, il giornalista Giovanni Choukhadarian.
Chiara Salvini, Una serata per artisti a Bordighera al Museo Bicknell, Nel delirio non ero mai sola, 17 dicembre 2015

La prima volta che ho incontrato Giovanni [Choukhadarian] di persona per me era ancora Silvio: così si faceva chiamare e chissà perché, non me lo ha mai spiegato, su it.cultura.libri, il newsgroup dove ci eravamo conosciuti e che tutti noi, ossessionati dai libri e utenti internet della prima ora, utilizzavamo negli anni novanta per scambiarci idee su lettura e scrittura, quando blog e social network erano ancora di là da venire. In quel newsgroup la più parte dei partecipanti litigava, si insultava, ‘Silvio’ invece commentava con impeccabile eleganza. Erano anche i tempi in cui ancora non esistevano Google e Wikipedia ma ‘Silvio’ spaccava il capello in quattro, leggeva tutto, aveva letto tutto. Detestava le cadute di stile tanto nei libri quanto nei commenti su quei libri, detestava il conformismo, la volgarità. Poteva intraprendere scontri che diventavano thread infiniti, ma non smetteva in nessun caso i suoi modi da signore.
Quella prima volta che l’ho incontrato di persona, quando da Silvio è diventato Giovanni, è stata, e dove altrimenti, a un Salone del Libro di Torino. Era un maggio caldo, Giovanni aveva uno dei suoi vestiti chiari e leggeri, una camicia bianca, i mocassini, la pochette color lillà rigogliosa nel taschino della giacca. Spiccava da lontano per distinzione in quel serraglio di addetti ai lavori e lettori tutti egualmente affaticati, sudati, nevrotici. Anche in carne, ossa, lino e seta, era il gentiluomo che mi aspettavo da quel che scriveva: elegante, però anche fuori dal comune, né rettilineo né curvilineo nelle idee, nel portamento, nei movimenti, piuttosto frastagliato, spigoloso, come seguisse un’imprevedibile spezzata. Avrei saputo anni dopo che quella vaga irregolarità del portamento, quel percorso impercettibilmente spezzato dei movimenti, non era un vezzo, ma la conseguenza di un primo episodio ischemico.
[...] Il cognome Choukhadarian viene dal padre armeno, rifugiato a Gerusalemme ed emigrato in Liguria, a Taggia, negli anni sessanta, dove si sposò e Ohannès, Giovanni, nacque nel ’67. Ci fu prima il liceo classico, poi giurisprudenza in Cattolica a Milano, poi gli anni in cui fu venditore per la Utet che si sovrappongono agli anni di it.cultura.libri e dopo ancora, prima dell’Hospice di Sanremo, c’è stato il mondo di Giovanni. Scrivere di libri, occuparsi di libri - ma anche scrivere e occuparsi di musica, l’altra sua grande passione - era stata un’evoluzione naturale dopo i newsgroup. In rete pubblicava e commentava nei siti dove la discussione era più seria e per così dire tecnica, mi ricordo per certo di Vibrisse (il sito/blog di Giulio Mozzi), di Lipperatura (quello di Loredana Lipperini), di Nazione Indiana (nato per mano di Scarpa, Moresco, Voltolini, proseguito poi con altre teste e altre mani), in tempi più recenti naturalmente Doppiozero. Sulla carta stampata avrebbe scritto per testate locali come La Riviera e l’Eco della Riviera, e per le pagine culturali dei quotidiani La Repubblica, Il Giornale, Il Foglio, prevalentemente firmando recensioni di narrativa.
Era ospite fisso della sala stampa del Festival di Sanremo e del premio Tenco, viaggiava per festival musicali e letterari, è stato tra i giurati-lettori del Campiello insieme a Silvana e presentava, ecco, soprattutto presentava i libri degli amici e ogni volta era uno spettacolo. Elegante, con la camicia d’estate e il dolcevita nei mesi più freschi, poi giacca e immancabilmente pochette, lungo le sue spezzate di movimento e di pensiero prendeva in contropiede spettatori e autore. Era impossibile opporsi, contrastarlo, cercare di guadagnare il centro dell’attenzione, il centro era lui ed era giusto così, ne sapeva più di te persino del tuo libro. Riconosciuto questo allora era bello lasciarsi trasportare, lasciarlo fare, perché in quelle occasioni ‘istrione’ e ‘mattatore’ erano le parole che meglio lo descrivevano.
Di presentazioni di miei libri ne avrà fatte un centinaio, ma me ne ricordo solo quattro o cinque, tre sono quelle che ho fatto con lui. La più memorabile? Quella in una Diano Marina invernale, deserta, ‘se spari dieci colpi di fucile ad alzo zero non prendi nessuno’, così ne parlavano quel giorno gli amici liguri. Era domenica, Giovanni aveva inventato un ‘pranzo con l’autore’ che aveva raccolto una manciata di adesioni, eravamo in uno dei pochissimi ristoranti di Diano aperti, c’eravamo io, lui, Silvana, i nostri pochi appassionati lettori seduti con noi e poi due tavoli di avventori ignari. Una famiglia e due coppie di coniugi anziani, che al posto della frittura di pesce si erano visti arrivare Giovanni con un microfono e il mio libro in mano. Giovanni che aveva respinto le loro proteste, li aveva costretti al silenzio, all’ascolto, mi aveva fatto dire un paio di cose mentre lui ne diceva venti. Aveva letto delle pagine. Non aveva esitato a sedersi al tavolo di quelle brave persone. Prima del dessert già gli aveva venduto non una copia a tavolo ma una a testa, con tanto di sentiti ringraziamenti e strette di mano.
Sono felice di aver potuto scrivere qualcosa per il mio amico Giovanni. Come lui ne esistevano pochissimi, anzi forse solo uno. Sono felice che in questo modo qualcosa su di lui rimanga nella rete, ma vorrei che ne rimasse ancora di più. Sto meditando di aprire una voce wikipedia a suo nome. Ne parlavo giorni fa con Silvana, chiedendole se per caso non esistesse già e mi fosse sfuggita. La sua battuta, perfetta: “no, non c’è. Giovanni su Wikipedia compare alla voce ‘pochette’.”
Piersandro Pallavicini, Ciao Giovanni..., Doppio Zero, 16 febbraio 2018 

Nel ciclo inesorabile dei repêchage, siamo arrivati da un bel po’ agli anni Ottanta. Non sono più gli anni dell’edonismo reaganiano, o forse lo sono ancora, ma adesso li si ricorda con nostalgia, se non proprio con orgoglio. Le tivù satellitari riscoprono gli spettacolini scollacciati con Umberto Staila, le discoteche si attrezzano con i successi della disco dance italiana del tempo, giornalisti fino a qualche tempo fa insospettabili di reducismo pubblicano libretti anche gradevoli in cui si fanno cantori di gesta una volta impronunciabili (uno per tutti: Stefano Di Michele, I magnifici anni Ottanta, Venezia, Marsilio, 2003).
Il punto è che, come in tutti i revival, c’è il rischio di non cogliere le complessità, le differenze, al limite anche le obiezioni e le opposizioni. Un quadro più completo di quel decennio lo offre l’esordio da romanziere di Silvio Bernelli, bassista nelle più importanti hardcore band del periodo, oggi ancora musicista e copywriter.
Nelle note di copertina, che non sono firmate ma è facile attribuire a Giulio Mozzi, si avverte che “questo non è né un ‘romanzo musicale’ né un ‘romanzo generazionale’”. E’ però anche quello e bisogna esserne grati all’autore.
Se la maggioranza dei 18-20enni del tempo s’imbrillantinavano, calzavano scarponcini Timberland e calzettoni colorati Burlington e ascoltavano Gazebo e Sandy Marton, altri ce n’erano per cui i miti erano la California dei Minor Threat, degli Avengers o dei Suicidal Tendencies: la fiorente hardcore punk scene, della quale Silvio Bernelli, prima coi Declino, poi coi Negazione e infine con gli Indigesti è stato un autentico pioniere. Di questi adolescenti non riconciliati, Bernelli illustra non soltanto - e sarebbe già moltissimo - la passione per la musica, ma anche e magari soprattutto le singole vicende umane, le storie d’amore e d’amicizia.
Nei “Ragazzi del Mucchio” non si scorge volontà mitografica. L’ultimo capitolo racconta di ragazzi divenuti, da adulti, architetti, web designer, istruttori di kung fu. Rispetto ai loro coetanei integrati, però, nei ragazzi del Mucchio sembra sopravvivere un desiderio, forse non del tutto espresso, di libertà e indipendenza. Gran merito di Silvio Bernelli è averlo spiegato in queste pagine veloci e appassionate.
Calvino editore spiegava i suoi criteri per stabilire “se un libro c’è o non c’è: se ha un linguaggio, se ha una struttura, se fa vedere qualcosa, possibilmente di nuovo”. “I ragazzi del mucchio”, scelti da Giulio Mozzi per la collana indicativo presente, corrispondono in pieno a queste richieste.
Giovanni Choukhadarian, Adolescenti non riconciliati, Stilos, 01.07.2003, art. qui ripreso da Sironi Editore

sabato 4 febbraio 2023

I militi fascisti giunsero a Poggiolo, attraverso i boschi, senza essere avvistati

Castelletto Uzzone (CN). Fonte: Langhe.net

Ma l’episodio più tragico avvenne proprio negli ultimi giorni, il 20 aprile, quando gli arditi del III° Gruppo Esplorante della “San Marco”, travestiti da partigiani, colsero di sorpresa tra Castelletto Uzzone (CN) e Monesiglio (CN) le difese autonome. Molti uomini caddero in combattimento: i prigionieri furono torturati e uccisi. Alla fine della giornata la brigata aveva perso qualcosa come 24 volontari, ma ciò non provocò sbandamenti di sorta e l’unità poté prendere parte alla liberazione della Val Bormida, come vedremo più avanti.
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000



Siamo al 20 aprile 1945, cinque giorni prima della Liberazione. La fine della guerra era nell’aria. Radio Londra aveva trasmesso la notizia della ripresa delle attività alleate sul fronte italiano e informava regolarmente sulla loro rapida avanzata.
La guerra, per noi, stava veramente per finire. Tutti ne eravamo a conoscenza.
Proprio a quattro passi da casa nostra, lungo la Strada Cairo-Cortemilia, a Castelletto Uzzone, e per l’esattezza nei pressi della frazione di Poggiolo, era stanziato un distaccamento partigiano appartenente alla Brigata Savona. Meno di quaranta uomini.
Sapevano che gli avversari stavano ormai capitolando. Con tutta probabilità, sentendosi ormai al sicuro e ritenendo che i loro avversari non avessero più intenzione di fare attacchi a sorpresa, avevano anche allentato le misure di sicurezza.
Invece, proprio nel pieno della notte del 20 aprile, cinquanta italiani della GNR, comandati dal capitano Giovanni Ferraris, assieme ad altri cinquanta del 3° Gruppo Esplorante della Divisione San Marco, comandati dal tenente colonnello Vito Marcianò, partendo da Monesiglio, nell’altra valle, dove erano stanziati, giunsero a Poggiolo, attraverso i boschi, senza essere avvistati. Si appostarono strategicamente e, fatto giorno, attaccarono incominciando a sparare dal basso. Presi alla sprovvista i partigiani tentarono lo sganciamento verso l’alto, ma finirono sotto i colpi di quelli che si erano appostati al di sopra. Risposero al fuoco, ma dovettero soccombere.
Molti caddero feriti e, come dimostra il referto medico legale, furono uccisi e sfigurati da violenti colpi inferti sulla testa con scarpate e con il calcio dei fucili. Fu un’orrenda carneficina.
Le vittime furono:
Remo Briata, di Cairo Montenotte
Aldo Coccoli, da Brescia
Alessandro Caroli, da Rimini
Silvio Catellani, da Reggio Emilia
Pietro Guarriento, da Agna PD
Leonardo Nobili, da Gorgonzola
Salvatore Michele, da Lavello PT
Giuseppe Schipani, da Crotone
Vincenzo Verrando, da Bordighera.
Si salvarono soltanto quei partigiani che tentarono la fuga verso Cortemilia.  Undici di quelli che si avviarono verso l’alto, rimasti senza munizioni, dovettero arrendersi.
Fatti prigionieri, per loro iniziarono subito feroci sevizie. Portati a Monesiglio, il giorno dopo sono stati fucilati uno per volta e seppelliti in una fossa comune. Soltanto uno di loro, riconosciuto come un ex milite della San Marco, fu impiccato al ponte di Monesiglio.
Questi i loro nomi:
Guido Ferraro, da Cairo Montenotte
Francesco Arcidiacono, da Palermo
Luciano Caponi, da Milano
Osvaldo Cigliuti, da Savona
Nicola De Palma, da Bari
Anselmo Dodi, da Reggio Calabria
Luigi Gibia, da Vercelli
Bruno Manzini, da Reggio Emilia
Nino Mezzadra, da Pavia
Arturo Saetti, da Rovigo
Salvatore Impellizzeri, da Enna
Cinque giorni dopo finiva la guerra. Qualcuno di loro la fece franca. Altri furono catturati e processati dalla Corte d’Assise di Cuneo, accusati di una lunga lista di delitti. Alcuni furono condannati a morte, altri all’ergastolo. Poi intervennero gli atti di clemenza e tornarono tutti liberi.
Gianfranco Sangalli, I ricordi di un vecchio bacucco, Le Rive della Bormida (immagini di Cairo e dintorni), 9 dicembre 2019

Nella giornata di ieri sabato 4 giugno si è svolta nel paese di Castelletto Uzzone la Cerimonia in ricordo dell'eccidio nazifascista, avvenuto il 20 aprile 1945 e dove caddero dieci partigiani combattenti.
La Cerimonia è iniziata  con la deposizione di una corona di alloro da parte del Sindaco di Castelletto Annamaria Molinari e con l'onore ai caduti alla presenza di un picchetto del Corpo Militare della Croce Rossa e la benedizione del cippo partigiano.
La seconda parte della Cerimonia si è svolta nella Sala Consigliare, dopo i saluti Istituzionali da parte del Sindaco di Castelletto Uzzone e dei rappresentanti dei Comuni di Cairo Montenotte con l'Assessore Alberto Poggio e del Consigliere Comunale in rappresentanza del Comune di Vado Ligure Sergio Verdino, si sono succeduti gli interventi delle Sezioni Anpi di Cairo Montenotte e Vado Ligure, dove è stato ricordato il partigiano Schipani Giuseppe "audace"e il partigiano Dario Ferrando "Aldo", ancora vivente.
Al termine della Cerimonia sono stati consegnati alcuni riconoscimenti da parte dell'Amministrazione Comunale e dell'Anpi ai famigliari del partigiano Schipani Giuseppe e degli altri sopravvissuti a quel barbaro eccidio avvenuto a pochi giorni della Liberazione.
Redazione, Vado Ligure: Cerimonia in ricordo dell'eccidio partigiano di Castelletto Uzzone, Savona news.it, 5 giugno 2016

Monesiglio (CN). Fonte: mapio.net

Lanfrit Gioacchino, milite della Compagnia OP di Imperia.
Deposizione di Lanfrit Gioacchino del 20.3.1946: Un giorno siamo partiti per un’azione di rastrellamento nella zona di Castelletto Uzzone. Giunti nei pressi di Pruneto, il comandante della compagnia, Capitano Ferraris, divise la compagnia in due gruppi, del primo, comandato dallo stesso Ferraris, facevo parte anch’io. Il gruppo si portò su una altura, vicino ad una casa. In questa operazione il Ferraris, traendo in inganno i partigiani, li aggirò alle spalle, facendo capire loro che eravamo anche noi partigiani. Quando i partigiani si sono accorti del trucco hanno ingaggiato battaglia ma ormai era troppo tardi. Nel combattimento trovava la morte il milite Zappella Pietro e rimaneva ferito il milite Agnello Giuseppe. Da parte partigiana rimaneva una decina di morti mentre altri 11 vennero catturati e accompagnati a Monesiglio, ove vennero rinchiusi in una stanza. Io mi recai a vedere i catturati e vidi che Zappella Lorenzo, fratello del nostro caduto, con il milite Agnello li picchiavano barbaramente. Il Ferraris interrogò quindi i prigionieri ed uno di questi fu accompagnato sul ponte di Monesilio ove venne impiccato e ricordo che gli esecutori furono i militi Zappella, Bardelloni Primo e Agnesi Luigi. Gli altri dieci prigionieri vennero fucilati a gruppi di cinque nei pressi del cimitero di Monesilio e messi poi in due fosse comuni.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019 
 
Nel 1943 il Tenente Giovanni Ferraris, nato nel dicembre del 1916, si trovava ad Imperia nel 41° Reggimento di Fanteria. Dopo gli avvenimenti dell'8 settembre fu fra i primi e più convinti ad aderire alla R.S.I. - Il ricostruendo partito fascista provvide subito a nominare il tenente colonello Bussi comandante della G.N.R. di Imperia e questi affidò al tenente Ferraris il comando di una costituenda Compagnia di Ordine Pubblico.
La C.O.P. aveva il compito primario di dare la caccia ai partigiani e di scovare i renitenti alla leva che si tenevano nascosti.
La compagnia raggiunse ben presto un organico di 150 unità, ma gli elementi su cui il Ferraris poteva realmente fare pieno affidamento non superarono mai le trenta unità.
Questi erano veramente militi fedelissimi ed a loro vennero imputate le maggiori nefandezze compiute nel prosieguo delle loro attività.
Pur dipendendo gerarchicamente dal Capo della Provincia, la C.O.P. godeva della più ampia autonomia decisionale ed ebbe modo di dimostrarlo molto presto, distinguendosi nella lotta contro i partigiani. Questo valse al Ferraris la promozione a Capitano. Gli stessi tedeschi, ammirati dalla sua audacia, gli conferirono più di una onoreficenza.
Il reparto O.P. aveva stanza a Chiusavecchia, dove rimase per lunghi mesi. Era però dotato di una grande mobilità e per lunghi mesi creò il terrore nella zona, massacrando, impiccando e uccidendo nel modo più truce i partigiani che catturava.
Su ordine del comando tedesco la maggior parte Compagnia O.P. nel gennaio del 1945 viene trasferita a Monesiglio per combattere i partigiani delle Langhe. Anche in questa zona instaurano il terrore fra la popolazione civile, bruciando case isolate e intere borgate, uccidendo partigiani. La loro ultima impresa a Poggiolo di Castelletto Uzzone dove sorprendono un gruppo di partigiani, ne massacrano subito dieci, altri undici vengono catturati e giustiziati il giorno dopo a Monesiglio. Uno di loro, riconosciuto come ex commilitone, viene impiccato al ponte del paese. Dopo cinque giorni era il 25 aprile!
ghirghi, La banda Ferraris, La Resistenza in provincia di Savona e zone limitrofe, 5 ottobre 2009

domenica 29 gennaio 2023

A Cuneo venni processata nel settembre del '25

Garessio (CN). Fonte: Borghi Storici

Il giorno che venne a Garessio un responsabile regionale dei chimici ci fu un tafferuglio con i carabinieri sul ponte sul Tanaro: un operaio prese un fucile ad un carabiniere e lo gettò nel fiume. Sul momento presero nota solo del nome, ma due anni dopo quell'operaio fu arrestato.
Nel frattempo i fascisti pubblicarono a Garessio un manifesto firmato da Gigetto Malatesta, un parente del famoso Malatesta, l'anarchico, che aveva fatto scoppiare la bomba al Diana di Milano, causando molte vittime.
Ricordo ancora il tono di quel manifesto, frasi come "perché tutti sappiano cos'è il fascio di combattimento" oppure "i conigli saranno schiacciati".
I carabinieri ricevettero l'ordine dalla Questura di perquisire alcune abitazione e prima ancora di effettuare la perquisizione arrestarono il compagno responsabile della commissione interna della Lepetit.
I carabinieri vennero a perquisire anche casa mia. La sezione si era disfatta; molto materiale era a casa mia; la moglie del segretario della sezione, che in quei giorni era fuori Garessio, venne da me la sera prima della perquisizione portandomi un fascio di documenti, perché non voleva passare dei guai. Il maresciallo dei carabinieri mise sottosopra la casa, io mi sentivo umiliata davanti ai miei genitori.
Ricordo che dopo la perquisizione il maresciallo dimenticò la sciabola da noi; quando tornò a riprenderla mi comunicò che, non essendoci stanze libere per trattenermi quella notte stessa in caserma, mi sarei dovuta preparare per essere accompagnata il mattino seguente a Mondovì.
Ricordo ancora mia madre che mi venne ad avvisare il giorno dopo, per dirmi che i carabinieri mi stavano aspettando: fu davvero un brutto momento.
Mi portarono a Mondovì, davanti a tre delegati di pubblica sicurezza, tre persone di cui non conoscevo neppure il nome. Nel materiale sequestrato il giorno avanti a casa mia, c'erano tutti i documenti relativi alla sezione, i nominativi degli iscritti, le tessere. L'interrogatorio durò dalla mattina alle nove alla sera alle cinque. Cercavo di inventare delle frottole per coprire i compagni. Romagnolo era già stato arrestato, ma dopo di me non presero più nessuno. Rimasi sette o otto giorni a Mondovì, poi mi trasferirono nel carcere di Cuneo. A Cuneo venni processata nel settembre del '25 e mi diedero nove mesi con il beneficio della condizionale.
Quando ero in carcere venne un giorno da me una donna con un biglietto indirizzato a me. Le parole che vi erano scritte sono rimaste impresse nella mia memoria, diceva: "Lucia, piccola maestrina, cosa insegnavi alle tue alunne? La filosofia di Aristotele o l'astronomia? O forse era meglio la teoria di Marx e di Gramsci? Ti ho visto mentre guardavi le rondini sul tetto. Forse pensavi alla tua, o meglio alla nostra libertà". Non sono mai riuscita a scoprire chi mi aveva mandato quel biglietto in cui mi chiamava maestrina, non sapendo che non avevo avuto la possibilità di studiare.
Nel '26 sono di nuovo in carcere con un nuovo processo a carico. Il titolo che apparve nell'articolo del "Subalpino" era: 'Il processo ai sovversivi'.
L'antefatto era questo: nel 1926 il Partito Comunista era già fuori legge; venne convocata una riunione a Mondovì, mi pare in un caffè dell'altipiano. Non potendo recarmi alla riunione scrissi una lettera ai compagni, informandoli della mia assenza e dei suoi motivi.
Il motivo era la presenza a Ceva del principe, accompagnato da tutte le autorità fasciste. Ricordo che usai queste parole: "...non posso transitare per Ceva a causa di tutto quel bordello..."; avevo l'abitudine di scrivere come parlo.
Al processo, l'avv. Lastrucci mi domandò se avevo partecipato alla riunione per cui erano stati arrestati gli altri compagni e io negai. Avevano però in mano la mia lettera di adesione alla riunione e mi chiesero spiegazione dell'uso della parola "bordello", riferita al principe e alla sua visita a Ceva. Ovviamente era stata interpretata come un'offesa al principe stesso e a tutta la casa reale. Io mi difesi dicendo che in piemontese questa parola si usa per indicare una gran confusione, e io del resto l'avevo veramente adoperata intendendo questa accezione, e comunque Dante l'aveva usata prima di me nei famosi versi: "Ahi serva Italia di dolore ostello/non donna di provincia ma di bordello".
Fummo assolti, ma nel frattempo avevo fatto un altro po' di galera.
Tornai alla vita di tutti i giorni. Sbrigavo le faccende domestiche e per un certo periodo lavorai ad imballare la frutta. Mi presentai anche alla Lepetit, avendo saputo che assumevano manodopera femminile. Andai con un'amica, ma né io né lei fummo assunte. Il direttore mi disse esplicitamente che temeva che "facessi fare la rivoluzione là dentro".
I contatti con il Partito erano in quegli anni piuttosto sporadici. Una volta andai ad Alba per una riunione. All'epoca c'era ancora Roberto. Arrivò un compagno ad avvisarci che c'era la polizia, così ci trovammo in un campo un po' fuori città. In quella riunione si decise di cercare di mantenere i contatti con Torino, perché troppo difficile era riuscire a tessere una trama di punti di riferimento in provincia di Cuneo, perché questa era troppo estesa e quindi i contatti difficili e sporadici.
Ricordo che tornando dalla riunione incontrammo la ronda (erano i tempi in cui si cantava "lenta va in giro la ronda"), così il compagno che era con me mi abbracciò e facemmo finta di essere due fidanzatini a passeggio, per passare inosservati.
Anche a Garessio discutemmo su come potevamo mantenere i collegamenti con gli altri gruppi. Una volta ricevetti una lettera di recarmi a Torino, in Via Nizza, in un caffè; ci andai ma non incontrai nessuno. Un altra missiva mi invitava a recarmi a Mondovì, in occasione del congresso eucaristico, dove avrei potuto incontrare altri compagni. Anche quella volta non incontrai nessuno.
Ricevetti in seguito un'altra lettera di convocazione a Torino, ma non ci andai più perché temevo una trappola.
Dopo il 1926 feci per un certo periodo la segretaria per una mutua di contadini della zona di Ormea, Garessio, Priola. I contadini avevano assicurato i capi di bestiame contro la mortalità, insomma se morivano dei capi di bestiame la società ne risarciva una parte del valore; io facevo la segretaria per questa società per L. 100 all'anno. I fascisti non potevano digerire la faccenda perché avevo sempre dei contadini in casa; un paio di volte all'anno facevamo delle riunioni pubbliche e in quelle occasioni avevo sempre presenti al mio fianco due carabinieri: io quasi mi divertivo a provocarli.
Poi venne la guerra. Quando la guerra cominciò ad andare male cercavamo di incontrarci, su in montagna per tentare di riorganizzarci. Dopo l'8 settembre il Partito si ricostituì e incominciammo di nuovo a lavorare. Mandammo tutti gli sbandati della 4^ Armata che transitavano nella nostra zona, specialmente quelli che arrivavano da Albenga, a Valcasotto. Vestivamo quei soldati con abiti civili e li accompagnavamo in montagna, a Valcasotto dove si stavano organizzando le formazioni di Mauri.
Testimonianza di Lucia Canova in Sergio Dalmasso, Lucia Canova, donna e comunista, CIPEC, Quaderno n° 1, Cuneo, 1995

giovedì 19 gennaio 2023

Meridiano d’Italia si compiace di descrivere un Visconti furioso che abbandona immantinente Venezia


All’uscita di "Ossessione" (1942) Visconti raccolse con cura le recensioni in due album suddividendole tra favorevoli e contrarie. Tra di esse, ve n’erano fatalmente molte provenienti da giornali allineati al regime e capaci persino di invocare «legnate» <1 per il regista di quella che venne accolta come un’opera di esemplare degenerazione. In seguito Visconti prese a ostentare disinteresse per la critica, fatta eccezione per alcuni recensori con cui intratteneva rapporti personali, e certamente non ha continuato a occuparsi di quella d’estrema destra. Non è però vero il contrario: il regista è stato infatti per molti anni un bersaglio di questa stampa, tanto da stabilire un poco invidiabile primato eguagliato solo da Pier Paolo Pasolini.
È possibile persino seguire il migrare di questi suoi oppositori (critici anzitutto, ma anche scrittori, giornalisti e burocrati) dal regime alla Repubblica.
Lo scrittore Marco Ramperti, ad esempio, che nel 1944 attacca «quello sporco rigagnolo» <2 che è per lui "Ossessione", diverrà il più sguaiato dei corsivisti di “Meridiano d’Italia”; Adriano Baracco, che l’anno prima su “Film” aveva apprezzato l’esordio di Visconti ma insinuava sul modo in cui Clara Calamai era «tenuta un po’ in secondo piano da una regia banchettante con esagerato compiacimento sui muscoli di Girotti» <3, sotto lo pseudonimo Ugo Astolfo diverrà il critico cinematografico dello “Specchio”.
“Candido” (1945-1961), “Meridiano d’Italia” (1946-1962), “Il Borghese” (1950-1994) e “lo Specchio” (1958-1975), su cui concentreremo l’attenzione, sono solo quattro delle testate che nel dopoguerra raccolgono le spoglie della cultura di destra transitata dal regime <4. Le differenze che le separano non sono trascurabili, soprattutto nel rapporto che intrattengono con il ventennio, variabile tra la nostalgia dichiarata e l’atteggiamento più prudente di una destra «non più fascista ma nello stesso tempo estranea all’antifascismo» <5. Ma queste differenze, così come le vicissitudini interne delle singole testate, non impediscono loro di riflettere nell’insieme un immaginario coerente, fondato - nella sintesi di Germinario - sull’avversione per l’antifascismo, per la modernità, per la Repubblica e per il comunismo <6. Una consonanza, come vedremo, riscontrabile anche nell’atteggiamento assunto da questi giornali nei confronti di Visconti.
[...] non sorprende che "Senso" (1954) venga criticato per la sua rilettura gramsciana del Risorgimento. Sorprende semmai la pacatezza dei toni <7, ancora lontani dall’aggressività di cui i rotocalchi dell’estrema destra daranno prova in seguito, ad esempio quando Baracco definirà "Senso" «uno stupendo vassoio con sopra una carogna in putrefazione» <8. Anche nel caso di “Meridiano”, benché i suoi recensori siano sempre suscettibili quando la guerra è coinvolta o anche solo evocata in metafora, le espressioni salaci sono per ora riservate al neorealismo, con i suoi soggetti «trovati nelle pattumiere e nelle fogne dei suburbi» <9, i suoi «vergognosi e menzogneri miti della “liberazione”» <10, i suoi «concimi merdosi» <11. Visconti invece non provoca ancora insofferenza e in questi anni non è fatto oggetto di attenzioni privilegiate, come del resto non lo è lo spettacolo in generale: composto di sole quattro pagine fino al 1950, “Meridiano d’Italia” si occupa quasi esclusivamente di politica e di storia recente. Per il primo pezzo polemico sul cinema occorre aspettare il 1951, così come per la prima rubrica di recensioni <12, la cui attenzione si sposta presto dal cinema al teatro.
[...] Per il resto, "La terra trema" (1948) è appena citato in una serie di articoli dedicati a ricostruire il modo in cui i comunisti, non potendo fare aperta propaganda senza perdere l’appoggio del pubblico, preferirebbero mimetizzarsi con apporti di sceneggiatura e regia apparentemente privi di risvolti politici <14, mentre "Le notti bianche" (1957) riscuote misurati apprezzamenti, al punto che si esprime l’augurio che Visconti trovi i soldi per fare un nuovo film nonostante la crisi <15.
Alla fine del decennio però qualcosa cambia irreversibilmente il rapporto con Visconti. Annunciando la lavorazione di "Rocco e i suoi fratelli" (1960), il giornale si concede un primo affondo, ancora misurato: «[…] senza nulla togliere al merito di Luchino Visconti, perché questo regista va sempre in cerca di soggetti che han sempre da farsi perdonare qualcosa dalla vita?» <16. A settembre si colloca orgogliosamente fuori dal coro approvando la scelta della giuria di Venezia: nell’oltraggio generale di chi ritiene sopravvalutato "Le passage du Rhin" (Il passaggio del Reno) anche quando non si voglia compromettere con un appoggio esplicito a Visconti, “Meridiano d’Italia” difende il film di André Cayatte dalle accuse di essere «“fascista” o “nazista” […] per il semplice fatto che i personaggi tedeschi non sono dipinti con la solita tavolozza conformista del dopoguerra, come gente bieca, selvaggia, truce e bestiale; ma hanno caratteristiche umane come tutti gli altri», e di conseguenza si compiace di descrivere un Visconti furioso che abbandona immantinente Venezia <17. A distanza di qualche settimana prende inoltre posizione a favore dell’intervento della magistratura e quindi dell’oscuramento in proiezione dei punti ritenuti scabrosi: di fronte alla «sinistra sporca» e a coloro i quali «dovendo fare del teatro o del cinema ricorrono, per fare presa sul pubblico o per dar sfogo ai loro istinti, alle oscenità di ogni genere», “Meridiano” è persino disposto, con malcelato sforzo, a dichiarare che «si può dare ragione anche al Governo Fanfani» e a una censura addirittura «coraggiosa» <18.
Sin qui le ragioni della polemica sembrano legate nuovamente alle modalità di rappresentazione della guerra e a generiche questioni di moralità che coinvolgono sì Visconti, ma accanto a Fellini e a tutta una schiera di imitatori che stanno accelerando il processo di erotizzazione della cinematografia italiana.
Una virata fortemente sentita se il giornale arriva ad avallare l’operato di una DC che ha appena chiuso le porte al MSI dopo il disastroso naufragio di Tambroni. Se infatti la difesa di un film accusato di fascismo si accorda pienamente con la linea editoriale della rivista, l’anticomunismo (su questa come su tutte le riviste che andiamo considerando) si accompagna di solito ad altrettanta diffidenza nei confronti del partito di maggioranza relativa, soprattutto perché reo di rinnegare i trascorsi fascisti di molti suoi rappresentanti.
Nemmeno la posizione sulla censura può dirsi scontata se si considera come sia più diffusa nell’ultradestra la tesi della sua sostanziale inutilità, o peggio di una sua esizialità (perché fonte di pubblicità) rispetto alla quale si preferirà dare appoggio alla magistratura. La svolta va posta sullo sfondo della trasformazione radicale subita da “Meridiano” nel 1959 quando, conclusa la pubblicazione di una biografia a puntate di Mussolini che ne aveva monopolizzato le pagine per quasi due anni, adotta il modello del rotocalco e si apre ad argomenti variegati. Occorre inoltre tenere presente come "Rocco e i suoi fratelli" inneschi una reazione a partire da contenuti oggettivamente provocatori, aggravati dallo sfruttamento ideologico del film fatto da una sinistra incurante di deformarne in parte il senso. Visconti può infatti ora tornare a forme e contenuti che aveva già fatto affiorare nei suoi esordi sia cinematografici sia teatrali (aggirando la censura fascista e approfittando della sua temporanea abolizione nell’immediato dopoguerra) e che erano stati poi inibiti dalla censura restaurata da Andreotti (tanto a teatro quanto al cinema), come accade con l’affossamento di tutti gli adattamenti di Tennessee Williams progettati da Visconti tra il 1954 e il 1957 <19.
Tuttavia queste considerazioni non bastano a comprendere la portata del mutamento e il motivo per cui si instaura una campagna stampa che non muterà toni e contenuti di fronte a più innocui lavori successivi e che coinvolge tutta la stampa di destra, al di là del caso specifico dell’organo del MSI. Occorre dunque guardare a un quadro più ampio, di cui cinema e teatro sono parte integrante ma non costituiscono la totalità.
[NOTE]
1 L.L., Ossessione... di brutti film, in: “Italia Giovane”, 19 giugno 1943. I due album sono conservati presso la Fondazione Istituto Gramsci di Roma, Fondo Visconti, serie 7, unità 10, sottofascicoli 16 e 41.
2 M. Ramperti, Incontri e letture, in: “Stampa Sera”, 6 maggio 1944.
3 A. Baracco, Dalle zero alle 24, in: “Film”, a. VI, n. 23, 5 giugno 1943, p. 5.
4 Cfr. M.B. Sentieri, Dal neofascismo alla nuova destra. Le riviste 1944-1994, Roma, Nuove Idee, 2007.
5 R. Liucci, L’Italia borghese di Longanesi. Giornalismo politica e costume negli anni ’50, Venezia, Marsilio, 2002, p. 194.
6 Cfr. F. Germinario, Da Salò al governo. Immaginario e cultura politica della destra italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 2005. È altresì significativo che vi siano firme comuni a diverse redazioni: ad esempio, le differenze tra “Candido” e “Il Borghese”, pur rilevanti, non impediscono a Giovannino Guareschi di collaborare con quest’ultimo quando il suo giornale viene chiuso.
7 Cfr. Mario Monti, Senso, in: “Il Borghese”, 4 febbraio 1955, e Marco Monti, Dalle cannonate di Custoza ai carri di El Alamein, in: “Meridiano d’Italia”, 13 febbraio 1955.
8 U. Astolfo, Le stelle putrefatte, in: “lo Specchio”, 3 ottobre 1965, p. 31.
9 L. Jocca, Decima Musa, in: “Meridiano d’Italia”, 2 marzo 1952, p. 3.
10 E. Canevari, Cinema italiano, in: “Meridiano d’Italia”, 26 ottobre 1952, p. 3.
11 M. Ramperti, Crollo d’un baraccone, in: “Meridiano d’Italia”, 26 settembre 1954, p. 3.
12 In precedenza compaiono solo, nel 1946, la rubrica “Tra le quinte dello spettacolo” (dedicata ad aneddoti e folclore popolare legato a cinema e teatro, ma non a un vero e proprio esercizio critico) e, nel 1949, una serie di articoli in cui Ramperti rievoca la sua esperienza del cinema in lavorazione a Salò.
14 Cfr. A. Bolzoni, Falliscono i film comunisti, in: “Meridiano d’Italia”, 14 febbraio 1954.
15 Cfr. A. Bolzoni, Cinema, in: “Meridiano d’Italia”, 11 febbraio 1958.
16 A. Desmain, Rocco, il cocco di Luchino, in: “Meridiano d’Italia”, 24 aprile 1960, p. 11.
17 N. Frati, È caduto il festival dell’“apertura”, in: “Meridiano d’Italia”, 18 settembre 1960, p. 29.
18 Cfr. s.n., L’equivoca Arialda, in: “Meridiano d’Italia”, 27 novembre 1960, p. 34. Cfr. anche XYZ, L’offensiva dei pornografi, in: “Meridiano d’Italia”, 4 dicembre 1960.
19 Cfr. M. Giori, Poetica e prassi della trasgressione in Luchino Visconti. 1935-1962, Milano, Libraccio, 2011, pp. 186-188. Sui rapporti tra Visconti e il teatro di Tennesse Williams si veda ora A. Clericuzio, Tennessee Williams and Italy. A Transcultural Perspective, London, Palgrave, 2016
Mauro Giori, Alla corte di Re Luchino. Visconti visto dalla stampa dell’estrema destra laica in (a cura di) Massimo De Grassi, "Luchino Visconti oggi: il valore di un’eredità artistica", Trieste EUT Edizioni Università di Trieste, 2020, pp. 85-116

sabato 7 gennaio 2023

Hồ Chí Minh giunse a Guìlín, utilizzando il nome di Hú Guāng


La crescente minaccia giapponese in Cina preoccupò Nguyễn Ai Quốc [n.d.r.: di lì a breve avrebbe assunto il nome di Hồ Chí Minh] che, dopo il periodo di convalescenza dalla tubercolosi, vi ritornò nell’agosto del 1938. Il paese tuttavia non era lo stesso di cinque anni prima: Chiang Kai-Shek, dopo aver ripulito dai comunisti le aree a sud del fiume Yángzǐ <4, nel 1937 fu convinto a formare un secondo fronte unito col PCC, per contrastare la minaccia nipponica. Questo episodio fu un’opportunità fortuita per NAQ: l'istituzione del fronte unito avrebbe potuto fornirgli una maggiore libertà di movimento nel tentativo di ripristinare i contatti con i rivoluzionari vietnamiti che operavano nel sud della Cina. In secondo luogo, ravvivò le probabilità di una guerra totale nell’Asia dell’Est, con la possibile espansione in Indocina  e la conseguente fine del dominio francese. Dopo aver soggiornato a Xi’ān e Yán'ān, il leader giunse a Guìlín, utilizzando il nome di Hú Guāng, dove gli fu assegnato un impiego come giornalista. Alcuni dei suoi articoli, che riguardavano la situazione cinese in tempo di guerra, furono inviati al quotidiano vietnamita - in lingua francese - di Hà Nội Notre Voix, firmati col nome di P. C. Line <5.
Nel 1939, mentre Nguyễn Ai Quốc continuava a lavorare per il fronte unito in Cina, l’Europa si apprestò ad affrontare lo scoppio la Seconda Guerra Mondiale. A febbraio, il quartier generale del PCC istruì il comandante Yè Jiànyīng di organizzare un programma di addestramento militare a Héngyáng: NAQ a giugno fu promosso commissario politico presso la missione, istruendo le truppe cinesi del fronte unito <6. Dopo aver completato il suo incarico, alla fine di settembre il leader partì per Lóngzhōu, nella speranza di stabilire un contatto con i membri del Partito Comunista Indocinese (PCI), ma senza risultati. Infatti, gli eventi in Europa ebbero un impatto catastrofico sulle operazioni del PCI: il 24 agosto la Germania nazista e l’Unione Sovietica firmarono il patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop, e una settimana dopo, le forze militari tedesche attraversarono il confine polacco, con la conseguente dichiarazione di guerra di Gran Bretagna e Francia. In Indocina, l’alleanza moscovita con Hitler ebbe come conseguenza la messa al bando di tutte le attività del PCI e di altre organizzazioni politiche radicali <7. Tale provvedimento del governatore generale Georges Catroux (1877-1969) fu dettato anche dalla necessità di rafforzare la sicurezza interna del paese, conscio dei venti di guerra che presto avrebbero soffiato8. Nel mentre, NAQ si recò a Chóngqìng, dove Chiang Kai-Shek aveva stabilito la sua capitale dopo l’occupazione giapponese della valle dello Yángzǐ, e riprese i contatti con Zhōu Ēnlái, che stava servendo come rappresentante del PCC. Oltre a quest’ultimo, pochi in ufficio conoscevano la vera identità del leader vietnamita <9.
Nel 1940 Ai Quốc riuscì a stabilire i rapporti con due membri del PCI, che diventeranno i suoi più fedeli seguaci: Phạm Văn Đồng (1906-2000) e Võ Nguyên Giáp. Il leader dunque, travestito da vecchio contadino e facendosi chiamare Ông Trần (Sig. Tran), si mise in viaggio da Chóngqìng per giungere a fine maggio a Kūnmíng, dove attese i due inviati del PCI <10. Phạm Văn Đồng, figlio di un mandarino, fu membro della TN dal 1929 e, in seguito alle retate francesi nell’aprile 1931, trascorse diversi anni in prigione finché non gli fu concessa l’amnistia nel 1937. Anche Võ Nguyên Giáp nacque da una famiglia di mandarini, e riuscì a frequentare l'Accademia Nazionale di Huế. Successivamente si unì all’ICP ma poco tempo dopo fu arrestato per aver preso parte alle manifestazioni studentesche a Huế. Quando venne rilasciato nel 1933, riprese gli studi e si laureò in giurisprudenza presso l’Università di Hà Nội. Dopo la laurea accettò un posto come insegnante di storia e divenne anche giornalista per il Notre Voix. I due infine si aggregarono al PCI e cominciarono a prepararsi per la missione che li avrebbe portati in Cina. Giunti a Kūnmíng a inizio giugno, i rappresentanti locali del PCI dissero loro di aspettare un certo signor Vương (Nguyễn Ai Quốc), il quale avrebbe assegnato loro nuovi compiti. Vương ordinò loro di recarsi al quartier generale del PCC a Yán’ān per iscriversi a un corso militare presso l’istituto del Partito. I recenti eventi in Europa, dove l'offensiva tedesca lanciata nel maggio 1940 aveva portato alla resa finale della Francia il 22 giugno, avrebbero portato rilevanti cambiamenti in Indocina. La creazione del regime fantoccio di Vichy fu una sentita sconfitta per la Francia, e per il leader un'opportunità favorevole per attuare la rivoluzione in Việt Nam <11.
Il Giappone, approfittando della caduta di Parigi, colse il momento propizio per estendere la sua influenza sui territori del Sud Est Asiatico. Nella primavera del 1940, Tokyo iniziò a esercitare forti pressioni sulle autorità coloniali francesi per vietare la spedizione di attrezzature e rifornimenti militari in Cina. Oltre alle pressioni dall’esterno, anche internamente la situazione indocinese non era delle migliori. A seguito dei reclutamenti dei vietnamiti per servire nelle unità militari in Europa, il malcontento generale scatenò un'ondata di ribellioni, specialmente nelle aree rurali, che vennero represse col sangue <12. Il governatore Catroux, in assenza di qualsiasi sostegno da parte del governo assediato di Parigi e dopo aver rivolto una fallimentare richiesta di aiuto agli Stati Uniti <13, decise di aderire alle file della Francia Libera, l’organizzazione politico-militare organizzata dal generale Charles de Gaulle per contrastare il governo di Vichy <14. Quest’ultimo nominò come governatore dell’Indocina l’ammiraglio Jean Decaux (1884-1963). A seguito degli accordi franco-giapponesi del 30 agosto, Decaux diede ai nuovi invasori il permesso di utilizzare le basi aeree e navali, oltre allo stanziamento delle truppe nipponiche in Việt Nam: anche se il Paese del Sol Levante riconobbe la sovranità francese in Indocina, l’avanzata giapponese era ormai inevitabile <15.
[NOTE]
4 Evento che segnò l’inizio della Lunga Marcia e la conseguente istituzione della nuova base comunista a Yán'ān, nel nord della Cina. Duiker, Ho Chi Minh, 172.
5 Duiker, Ho Chi Minh, 173-74.
6 Lacouture, Ho Chi Minh, 80.
7 Duiker, Ho Chi Minh, 179.
8 Taylor, A History of the Vietnamese, 524.
9 Duiker, Ho Chi Minh, 177.
10 Lacouture, Ho Chi Minh, 83.
11 Duiker, Ho Chi Minh, 178-80.
12 Duiker, Ho Chi Minh, 184.
13 Il presidente Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) respinse la richiesta sulla base del fatto che qualsiasi aereo militare disponibile nella regione sarebbe stato utilizzato solamente per difendere gli interessi nazionali degli Stati Uniti. Duiker, Ho Chi Minh, 182.
14 Charles André Joseph Marie de Gaulle (1890-1970) fu un generale e statista francese. Nel giugno del 1940, de Gaulle fuggì a Londra, e col sostegno britannico, unì i francesi nelle aree controllate da Vichy alle sue forze della Francia Libera appena organizzate. Il 26 agosto 1944 tornò a Parigi e insediò il suo governo provvisorio nella Francia metropolitana e nel novembre 1945 ne fu eletto presidente provvisorio. Tuttavia, di fronte a una forte opposizione politica tuttavia fu costretto a dimettersi l’anno seguente. In seguito alla crisi del 1958 (rivolta algerina) tornò alle cariche pubbliche come premier, per essere eletto come primo presidente della Quinta Repubblica di Francia nel gennaio 1959. Dopo diversi turbolenti mandati, si dimise ancora una volta e andò in pensione nel 1969. Archimedes L. A. Patti, Why Viet Nam?: Prelude to America’s Albatross (University of California Press, 1982), 507.
15 Taylor, A History of the Vietnamese, 525.
Giada Secco, Zio Hồ, Zio Sam. Le relazioni tra Hồ Chí Minh e gli Stati Uniti prima della Guerra del Việt Nam, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2019/2020