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mercoledì 16 giugno 2021

Anche se, come Brodskij, giudicavo più grande Ovidio


Inediti

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Brodskij
22.11
Orazio ritrovato
C’è una «Lettera a Orazio» nello straordinario Dolore e ragione di Iosif Brodskij, appena uscito presso Adelphi. (L’edizione italiana contiene una prima parte dell’opera: la seconda uscirà l’anno prossimo).
Con la libertà che mi dà la passione per Brodskij e in questo caso anche per Orazio, oso avventurarmi in un minimo ma per me fortemente coinvolgente excursus di memoria. Considero la memoria un «eterno presente», e rivolgermi a Orazio un moto naturale dell’anima, come per il grande poeta russo che lo leggeva nella sua lingua, essendo lui, come dice, un «iperboreo».
Nel mio antico Diario di Grecia avevo annotato il significato profondo della Grecia per noi, lettori nella fanciullezza non della Bibbia ma di Omero.
Davanti alla Porta dei Leoni di Micene: qui - scrissi - è il segno della nostra colpa antica e forse del nostro riscatto.
Ma è stata una memoria della mia giovinezza, o meglio adolescenza, il ritrovamento di Orazio, letto da me in secondo liceo. Non ho cercato, anche se credo di averlo, il testo che usavo a scuola; ma ho conservato dai tempi dell’università una preziosa edizione di tutto Orazio, a cura di Ettore Stampini, mio professore di latino. A me fu regalata dal mio prozio Giuseppe Peano, il grande logico. Il testo reca la dedica «All’amico Giuseppe Peano, affettuosamente / Ettore Stampini». Il frontespizio: « Q. Orati Flacci Opera. Recognovit prefatus est adnotationes criticas addidit Hector Stampini. Mutinae an. MDCCCXCII» Il professor Stampini era piuttosto terribile: collerico, impaziente. Non era burbanza accademica: era insofferenza della mediocrità.
Io non dimentico né perdo niente; ma ho una debolezza: se mi si chiede in prestito qualcosa anche di raro, di prezioso, non so dire di no. Così il mio «Orazio» ha sofferto di qualche intrusione, ma la cosa grande per me oggi è stato proprio rileggere Orazio. La forte, quasi violenta impressione è stata la sua presenza in tutta la mia vita intellettuale.
« Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi/ Finem di dederint, Leuconoe…». Ecco i Dialoghi con Leucò, il capolavoro di Pavese! Sì, l’ho riletto, e non solo i Carmina; l’ho ritrovato, ancora amato. Anche se, come Brodskij, giudicavo più grande Ovidio.
Come ho trovato fraterno il grande Brodskij! Anch’io amo le Georgiche e le Bucoliche più che l’Eneide.
Quelli che segnarono la mia adolescenza di un effimero ma insieme imperituro momento di identificazione con un fantasma di poesia, sono gli ultimi versi del carme XXII del libro I: « Dulce ridentem Lalagen amabo, / Dulce loquentem».
Era il 1922. Secondo liceo. Circolarono bigliettini: « L. è conquistabile?»
Non significa nulla: i «ricordi» sono pettegolezzi. Ma «Lalage» vive nella memoria. In ognuno rivive la memoria: figlia, ma anche madre del tempo.
Torno a Orazio. Dovevo, era necessario violare il meraviglioso testo di Brodskij? Per me è stata l’occasione; ma tutta la «Lettera a Orazio» è una festa dell’intelligenza e della poesia. Non si può non leggerlo con passione e grandissimo divertimento. Ne citerò alcuni passi.
«…se è vero ciò che Svetonio ci dice del tuo aspetto fisico […] e se eri piccolo e corpulento, allora somigliavi probabilmente a Eugenio Montale o al Charlie Chaplin degli anni di Un re a New York».
« Quello al quale non riesco assolutamente a dare una faccia è Ovidio. […] non sono mai riuscito a evocare la faccia di Nasone. A volte lo vedo interpretato da James Mason - con un occhio bruno grondante di dolore e diffidenza; altre volte, però, è lo sguardo grigio, invernale, di Paul Newman.
[…] O forse, Orazio, in quello che vado dicendo c’è troppo Karl Marx e un po’ troppo cinema?»
«Nasone era più grande di voi due. […] in fatto di immaginazione Ovidio vi batte tutti».
«Un sogno, Flacco, è nel migliore dei casi una metamorfosi temporanea. […] E se ho deciso di mettermi a scrivere è perché l’interpretazione di un sogno […] è in fondo, a rigore, una lettura. […] Che è erotica perché è ripetitiva. Tutto un voltar pagine: ecco che cos’è; ed è quello che tu stai facendo o dovresti fare in questo momento, Flacco. Be’, è anche questo un modo di evocarti, non ti pare? Perché la ripetizione, vedi, è il tratto primario della realtà».
«…si trattava semplicemente di un sogno. Diciamo solo che, insieme alla morte, il sogno fa parte della realtà».
«Ah, Flacco! La realtà, come la Pax Romana, vuole espandersi. Ecco perché sogna, ecco perché tiene duro fino all’ultimo respiro».
Così termina Brodskij. Così termino e concludo il mio personale excursus nel mondo moderno-antico, perché immortale, della parola dei poeti.
[Lalla Romano]
Paolo Di Paolo, La scrittura critica di Lalla Romano, Tesi di laurea, Università degli Studi Roma Tre, 2012

Il lavoro di ricerca [quello di Paolo Di Paolo] nell’archivio di Lalla Romano (Milano, Via Brera) ha consentito di ricostruire una bibliografia complessiva dei suoi scritti di carattere critico (compresi fra il 1947 e il 2001): accanto all’attività di poetessa e pittrice prima e di narratrice poi, Romano ha costantemente collaborato con riviste e periodici. Per lunghi periodi è stata titolare di rubriche di recensioni e ha avuto quindi modo di analizzare un vasto numero di opere di autori suoi contemporanei. Dall’analisi dei testi pubblicati e dei rispettivi appunti preparatori, minute ecc., è possibile verificare come gli aspetti più peculiari - su un piano perfino di struttura sintattica - della sua scrittura “creativa” siano fondanti anche della sua scrittura critica. La recensione diventa, per Romano, un “diario di lettura” che risponde agli stessi criteri di un qualunque altro suo testo in prosa e che soprattutto non si piega alle esigenze giornalistiche (interessanti sono gli scambi epistolari con capiredattori e direttori di testata), rivendicando un assoluto stilistico senza deroghe. Gli scritti critici di Lalla Romano consentono di tratteggiare una sorta di “biografia intellettuale” della scrittrice piemontese, che evidenzia - accanto alle relazioni con i protagonisti della cultura italiana di oltre mezzo secolo - la vastità dei suoi interessi, il gusto severo e l’anticonformismo con cui affrontava le scritture altrui. Nel laboratorio di lettrice e critica entrano in gioco anche i numerosi testi - pubblicati o inediti - attraverso i quali Lalla Romano si confrontava con sé stessa e con la propria scrittura nel corso degli anni: prefazioni, note, conferenze che la portano a ripensare i propri stessi libri, a precisarne anno per anno gli intenti e il senso, a definire con consapevolezza un itinerario di coerenza estrema. L’intento dello studio - articolato in due parti (la prima che consiste nella trattazione e la seconda che offre i materiali ricostruiti, laddove possibile, in tutte le fasi di redazione d’autore) - si conferma quello di mettere meglio a fuoco la personalità di un’autrice che - come ha scritto Giulio Ferroni - “con la sua vita, con la sua scrittura […] ha riscattato tutto ciò che di prezioso ha trovato nel mondo e nel secolo che ha attraversato”. Ne risulta anche l’opportunità di un’ulteriore discussione del rapporto problematico tra scrittura e vissuto, centrale nell’opera di Lalla Romano e rispetto alle odierne tendenze delle letterature internazionali. Arcadia UniRoma