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domenica 28 maggio 2023

La banda partigiana di Beltrami non è politicizzata


A Novara Gino Vermicelli cerca dei contatti comunisti e arriva tramite vari informatori a Romagnano, presso lo studio di un avvocato, dove si riunisce il Fronte Nazionale dei cinque partiti antifascisti, l’embrione del CLN.
Lentamente riprende i contatti con i compagni di Borgomanero, Omegna, Gravellona; in questo periodo egli conosce Gaspare Pajetta, che diventerà suo grande amico. L’8 settembre è per tutti una doccia fredda: il CLN è costretto a spostarsi a Meina per sfuggire ai Tedeschi che hanno velocemente occupato Novara. Gino e Gaspare rimangono in città per riorganizzare la federazione del partito: nascosti in un deposito di vernici scrivono e stampano “La Lotta” <33, un periodico fondato da loro che continuò ad esistere fino al 1961. Presto vengono raggiunti da Pietro Flecchia, un confinato comunista biellese che pretende di assumere la direzione della federazione. Gino viene così “retrocesso” a responsabile militare: il suo compito diventa organizzare la Resistenza. Il nuovo incarico affidatogli lo porta a Borgosesia, dove conosce Cino Moscatelli, personaggio di spicco che, d’accordo con l’ex-podestà della città, raccoglie armi e sbandati per organizzare la guerriglia; non rimane però con lui a causa di alcuni problemi sorti tra Vermicelli e gli altri combattenti.
Gino decide di raggiungere l’altro gruppo partigiano della zona, quello del “capitano” Filippo Maria Beltrami, ma è coinvolto in una trappola tesa dai fascisti. Viene infatti catturato insieme al commissario politico di Beltrami: fortunatamente entrambi sono presto liberati grazie ad uno scambio di prigionieri. La decisione finale di Gino, che da questo momento sarà Edoardo, è salire in montagna con Beltrami, che l’ha salvato. Così egli sale a Campello Monti, dove ritrova l’amico Pajetta, che si era già unito al gruppo del “capitano”. Questa non è una banda “politicizzata”: Beltrami, essendo un ex ufficiale, adotta ancora la mentalità e i modi di fare tipici del regio esercito, con le sue gerarchie e i suoi cerimoniali; Gino e Gaspare organizzano comunque una cellula comunista all’interno del gruppo.
Purtroppo la banda viene presto decimata durante una sanguinosa battaglia avvenuta a Megolo [nd.r.: Frazione di Pieve Vergonte (provincia del Verbano-Cusio-Ossola)], il 13 febbraio 1944: Gino sopravvive per miracolo, ma l’amico Pajetta e Beltrami soccombono. “Edoardo” torna così a Rimella da Moscatelli, dove, ritrovati altri sopravvissuti alla battaglia di Megolo, si forma un nuovo distaccamento, che viene mandato in Val d’Ossola.
Vermicelli ottiene l’incarico di commissario politico per questo nuovo gruppo. La figura del commissario politico è fondamentale per tutte le formazioni partigiane, dalla più piccola, il battaglione, alla più numerosa, la divisione: affianca in ogni decisione il comandante, e si occupa della politicizzazione dei volontari, cioè deve insegnare loro l’etica del partigiano, i valori e i comportamenti da seguire in battaglia e nei confronti della popolazione che vive nelle montagne. Vermicelli cerca sempre, durante gli anni da partigiano, di comportarsi in modo eticamente irreprensibile, per dare il buon esempio ai giovani.
Il continuo afflusso di volontari, conseguente all’emissione dei bandi Graziani per l’arruolamento forzato, trasforma il distaccamento in battaglione; arriva anche il nuovo comandante, che deve affiancare Vermicelli al comando: Andrea Cascella. Il gruppo si disloca un po’ in Ossola, un po’ in Val Formazza e un po’ in Val Antigorio. I rastrellamenti operati dai Tedeschi sono abbastanza frequenti, per cui i partigiani devono essere spesso in movimento, per evitare di essere individuati. In poco tempo il battaglione diventa divisione, e “Edoardo” ottiene dal CLN l’incarico di vice-commissario.
La liberazione dell’Ossola, che avviene tra il 9 e il 10 settembre 1944 e a cui contribuisce anche Vermicelli, è un fatto spontaneo, non stabilito a tavolino da nessun comando superiore. I vari fortini nazifascisti dislocati un po’ ovunque nella valle sono attaccati quasi simultaneamente da vari gruppi partigiani, comunisti o autonomi, e facilmente occupati. I Tedeschi abbandonano Villadossola, dove c’è il comando tedesco, senza nemmeno aprire il fuoco, lasciando il posto ai partigiani, che prendono in mano il governo della valle, costituendo la Giunta provvisoria di governo dell’Ossola. Vermicelli però rifiuta di partecipare alla gestione della zona: secondo lui il controllo del territorio deve essere lasciato agli abitanti, poiché il compito dei partigiani è solo quello di liberare le zone occupate, non di governarle.
La mancanza di aiuti materiali e di assistenza da parte degli Alleati fa presto fallire questo tentativo di governo democratico, che dura soltanto 43 giorni, dal 10 settembre al 23 ottobre 1944: un nuovo attacco tedesco partito da Gravellona respinge di nuovo i partigiani, che sono costretti ad abbandonare Domodossola.
Dopo la sconfitta, Vermicelli contribuisce a riorganizzare la divisione; i vari distaccamenti ottengono lanci e aiuti dal CLN per affrontare l’inverno alle porte, e riescono ad attuare piccole operazioni di guerriglia, per poter controllare le centrali elettriche della Val Antigorio.
33 “La Lotta”, Novara (1947-1961).
Sara Lorenzetti, Gino Vermicelli tra Resistenza e scrittura, Tesi di laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro, Anno accademico 2006-2007 

[...] "Un bel dì mi venne il fregolo/di fermarmi in quel di Megolo!”. Così inizia così la canzone scritta dal Capitano Filippo Maria Beltrami dopo la faticosa traversata invernale dei suoi partigiani dopo l'abbandono della Valstrona alla fine di gennaio 1944. Non tutti gli uomini, dei quasi trecento che costituivano la "Brigata Patrioti Valstrona", arrivarono nella frazione di Pieve Vergonte: una sessantina se ne andò deponendo le armi; un gruppo sbagliò sentiero e paese; alcuni abbandonarono la formazione durante il tragitto; altri furono inseguiti e impegnati in combattimento. A Megolo, col Capitano, giunsero soltanto una quarantina di uomini. Il componimento, scritto dopo una cena all'albergo del Ramo Secco, risente di quelle disavventure. Nelle due settimane in cui si fermò a Megolo, Beltrami attese per ricostituire la formazione, allontanandosi soltanto per effettuare un attacco alla casermetta di Vogogna. La posizione non era certo favorevole, oltre che facilmente individuabile era poco adatta ad un combattimento. All'alba del 13 febbraio del 1944 i reparti delle SS, appoggiati da una compagnia di repubblichini, giungono a Pieve Vergonte con l'intento di stroncare la Resistenza partigiana. Sorpresi nel sonno, due giovani vengono catturati e torturati ma non riveleranno nulla. Saranno fucilati accanto all'osteria del paese. Intanto i 53 partigiani del Capitano Filippo Maria Beltrami, avvisati del rastrellamento, si preparano a resistere sulle balze del Cortavolo a Megolo contro più di cinquecento nazi-fascisti perfettamente armati. L'armamentario dei partigiani è misero: una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra e una cinquantina di moschetti. La nebbia dà loro una mano, celandoli sino al momento in cui i nazi-fascisti sono a tiro. La battaglia sarà lunga e cruenta vivendo fasi alterne: i partigiani non si arrendono anzi, riescono anche a costringere i nazi-fascisti a un disordinato ritiro. Ma le forze in campo sono troppo impari. Nell'abitato di Megolo il momento più tragico della battaglia, è una strage. Cade il capitano Beltrami e due giovani combattenti che si spingono in suo aiuto: lo studente 17enne Gaspare Pajetta e Antonio Di Dio, 20 anni, ufficiale di carriera unitosi alla Resistenza dopo l'8 settembre. Quella battaglia segnò l'apice e contemporaneamente la fine della "Brigata Patrioti Valstrona". Caddero combattendo Filippo Maria Beltrami "Il Capitano", Carlo Antibo, Giovanni Bressani Bassano, Aldo Carletti, Gianni Citterio, Angelo Clavena, Bartolomeo Creola, Antonio Di Dio, Emilio Gorla, Paolo Marino, Gaspare Pajetta ed Elio Toninelli. Nel piccolo cimitero di Megolo sono ancora sepolti Gaspare Pajetta e lo studente Aldo Carletti che con lui, da Torino, s'era arruolato nella "banda" Beltrami e vi era morto al fianco, quella mattina, poco dopo le otto. Qui hanno voluto essere sepolti i genitori di Gaspare Pajetta e anche i due fratelli, Giuliano e Giancarlo.
Marco Travaglini, Val Grande, Memoria resistente: la Val Grande e Megolo, 26 ottobre 2022

La battaglia di Megolo fu uno degli episodi più eroici della Resistenza. Il 13 febbraio 1944, alle prime luci dell’alba, reparti delle SS, appoggiati da una compagnia della GNR, invasero la piccola frazione di Pieve Vergonte, con l’intento di stroncare la Resistenza dei ribelli che operavano in quel luogo. Due giovani partigiani, che riposavano in attesa di raggiungere i loro distaccamenti, furono sorpresi nel sonno e catturati. Trascinati davanti al comandante delle SS furono a lungo e invano torturati, non fecero alcuna rivelazione. Alla fine, ormai quasi in fin di vita, furono fucilati nella piazzetta a lato dell’osteria del paese.
Avvertiti del rastrellamento in corso, i partigiani della valle, al comando del Capitano Filippo Maria Beltrami, architetto, 36 anni,  medaglia d’Oro al Valor Militare, si disposero a resistere: erano 53 uomini con una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra e una cinquantina di moschetti contro più di cinquecento nazi-fascisti armati di tutto punto, con un cannoncino, due mortai, tre mitragliatrici, fucili mitragliatori e mitra.
Mentre la nebbia di disperdeva e i raggi del sole iniziavano a illuminare il nuovo giorno, i partigiani osservavano in silenzio l’avanzare della colonna nemica. Era necessario attendere che i nazi-fascisti giungessero a tiro, per non sprecare le munizioni. I tedeschi avanzavano su tre linee distanziate fra loro di qualche metro, i fascisti avanzavano sulle due ali. Finalmente il Capitano diede il segnale e i partigiani iniziarono a sparare. Fu una battaglia lunga e cruenta, con fasi alterne. Più volte il fuoco dei partigiani costrinse gli avversari a ripiegare, ma sempre essi si riconpattavano e tornavano all’attacco. L’ unica arma pesante dei partigiani s’inceppò e dovette essere abbandonata, uno dei due mitragliatori fu raggiunto da un colpo di mortaio. Con le poche munizioni rimaste non potevano più resistere a lungo. Il Capitano respinse per la seconda volta l’invito ad arrendersi. Era necessario attaccare il nemico e i partigiani balzarono all’assalto. Sorpresi dall’azione i nazi-fascisti iniziarono a ritirarsi disordinatamente, inseguiti dai ribelli. L’azione terminò nell’abitato di Megolo, dove gli inseguitori furono falcidiati dalle mitragliatrici dei rinforzi giunti dall’Ossola in appoggio dei nazisti. Cadde anche il capitano Beltrami, mentre cercava di riorganizzare i suoi uomini, e caddero, mentre cercavano generosamente di soccorrerlo, Gaspare Pajetta, studente torinese di 17 anni e Antonio Di Dio, di 20 anni, un ufficiale di carriera che dopo l’8 settembre si era unito alla Resistenza.
Un fascista, raggiunto Beltrami, fece scempio del suo corpo con un pugnale.
Il Cap. Simon, invece, riconoscendo la generosità, il valore, il coraggio, la nobiltà dei sentimenti dell’eroico comandante partigiano gli fece tributare gli onori militari da un reparto di SS.
Redazione, La battaglia di Megolo, ANPI Como, 15 maggio 2013

giovedì 18 maggio 2023

Fu allora che dalla piazza antistante al palco scariche di proiettili e bombe a mano investirono i comizianti, provocando 14 feriti tra cui Li Causi


Intellettuale e irruente tribuno, rivoluzionario di professione e incontestata icona antimafia, in bilico tra Sorel, Lenin e Gramsci, Girolamo Li Causi ha incarnato lo slancio degli esordi, i momenti più neri, i fasti e le aporie del movimento operaio italiano del Novecento. Il suo ruolo è stato rilevante e, per certi aspetti, determinante nel psi massimalista di Serrati, nell'organizzazione dell'attività clandestina comunista durante il fascismo, nella formazione della cultura economica del PCI, nell'elaborazione della sua linea meridionalista, nella politica siciliana, nel processo che avrebbe condotto negli anni Sessanta alla reinvenzione di un'antimafia di Stato. Basato su una vasta documentazione d'archivio inedita raccolta tra l'Italia e Mosca, pubblica e privata, il libro analizza per la prima volta l'intero percorso politico del popolare dirigente socialista e comunista, proponendo uno sguardo singolare sulla storia della sinistra e del paese.
È una figura fondamentale della sinistra italiana quella ricostruita e raccontata da Massimo Asta nel libro Un rivoluzionario del Novecento, edito da Carocci. Lo hanno definito un intellettuale in bilico tra Sorel, Lenin e Gramsci, un rivoluzionario di professione. Di sicuro c'è che l'esponente comunista è una protagonista indiscusso nella storia del movimento operaio italiano del Novecento, nella formazione della cultura economica del Pci, nell'elaborazione della sua linea meridionalista.
“Non è vero. È falso, è falso“. È 16 settembre del 1944 e don Calogero Vizzini, lo storico boss di Cosa nostra, è nervoso. Nella piazza di Villalba - il suo regno da mille e poco più anime nel cuore agricolo della Sicilia, sole che brucia le campagne e contadini piegati al padrone dalla violenza dei mafiosi - i comunisti si sono permessi di venire a tenere un comizio. Anzi non i comunisti: il numero uno del Partito comunista in Sicilia. In quella piazza di Villalba, minuscola capitale della mafia agraria, è arrivato addirittura Girolamo Li Causi, dirigente rosso che quindici anni di carcere fascista non sono riusciti a piegare. Una figura fondamentale della sinistra italiana, ricostruita e raccontata da Massimo Asta nel libro Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento, edito da Carocci. Storico e ricercatore all'università di Sciences Po, a Parigi, Asta ha raccolto una vasta documentazione inedita tra l'Italia e Mosca, per analizzare il percorso politico di Li Causi, nativo di Termini Imerese, in provincia di Palermo. Già determinante nel Psi massimalista di Serrati, convertito al comunismo nel 1924, dopo la scarcerazione Li Causi si unisce ai partigiani. Quindi viene mandato in Sicilia per organizzare il Pci, di cui sarà primo segretario sull'isola. Lo hanno definito un intellettuale in bilico tra Sorel, Lenin e Gramsci, un rivoluzionario di professione. Di sicuro c'è che Li Causi è una protagonista indiscusso nella storia del movimento operaio italiano del Novecento, nella formazione della cultura economica del Pci, nell'elaborazione della sua linea meridionalista, nel processo che avrebbe condotto negli anni Sessanta alla reinvenzione di un'antimafia di Stato. Già l'antimafia. Nata forse quel giorno di settembre del '44 a Villalba. Quando la polizia e i carabinieri consigliano a Li Causi e i suoi di non andare a parlare nel regno di don Calò, di non provocare il patriarca mafioso, legato alla Democrazia cristiana e ai separatisti che in quei mesi lavorano per tentare di fare della Sicilia la 49esima stella degli Stati Uniti d'America.E infatti l'inizio di quel comizio è difficoltoso. Anche perché, arrivati nella piazza a bordo di un camion, i comunisti si rendono conto che non possono cominciare a parlare. Il motivo? Le campane della chiesa suonate continuamente dall'arciprete di Villalba, che è il fratello di don Calogero. “Passò quasi un' ora: gli uomini aspettavano nervosi, le campane assordavano la piazza, don Calogero fumava. Finalmente il suono finì e il comizio poté cominciare”, ricostruì sull'Espresso Eugenio Scalfari nel 1956. All'inizio non c'era nessuno, a parte Li Causi e i suoi amici democristiani e separatisti. Piano piano, però, arrivarono una serie di curiosi che apprezzavano i concetti espressi da Li Causi: le terre da togliere ai latifondisti protetti dai gabellotti mafiosi per distribuirle ai contadini. È a quel punto che Vizzini perde la calma forse per l'unica volta nella sua vita: “Non è vero. È falso, è falso“. Fu una specie di segnale: da nulla comparvero una serie di pistole, subito utilizzate contro il palco improvvisato dei rossi e persino alcune bombe a mano. Diversi i feriti, compreso Li Causi che venne colpito a una gamba.
Più volte deputato e senatore, eletto all'Assemblea costituente, il dirigente comunista era anche tra gli obiettivi della strage di Portella della Ginestra il primo maggio del 1947. Episodio sul quale Asta ricostruisce una parte totalmente inedita: poco dopo l'eccidio, infatti, Li Causi ha dovuto utilizzare tutta la sua autorità per impedire una “rappresaglia fuori controllo contro noti esponenti mafiosi e alcuni latifondisti” che un gruppo di comunisti avrebbe voluto mettere in atto sull'onda dell'emozione prodotta dalla strage. Quattordici morti, decine di feriti, tra contadini, donne, bambini che festeggiavano la festa dei lavoratori. Pochi giorni prima il Blocco del popolo aveva vinto le elezioni regionali in Sicilia con il 32% (contro il 20% della Dc). Occorreva un segnale. Si manifestò con le armi di Salvatore Giuliano, della sua banda, e probabilmente non solo. D'altra parte quella di Portella è una strage ancora oggi irrisolta. La prima di una lunga serie nell'Italia repubblicana.
Redazione, Girolamo Li Causi, il comunista che “inventò” l'antimafia. E andò a parlare nella piazza del boss (che gli fece sparare), Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2018

Privo di una tradizione delle autonomie locali, il Pci dovette affrontare qualche resistenza interna prima di muoversi in senso regionalista. L'autonomismo in molti militanti evocava lo spettro dell'isolamento dal movimento operaio nazionale e dalla lotta partigiana, il cui peso specifico in vista di un prossimo governo democratico era ormai prevedibile. Fu il segretario nazionale del partito, Palmiro Togliatti, a dissolvere dubbi e localismi indicando nella linea autonomista il fondamento della politica comunista in Sicilia. Costui nell'agosto del 1944 inviò nell'isola un leader autorevole come Girolamo Li Causi, già prigioniero politico e resistente al Nord, affidandogli l'incarico di organizzare il partito. La sua azione fu improntata al disciplinamento delle tendenze radicali e del plebeismo diffusi alla base, dunque al principio del centralismo democratico, chiave di volta del movimento comunista internazionale <17.
[...] Le rivendicazioni popolari si inquadrarono dunque in un più complessivo disegno autonomistico, il cui indispensabile valore di cornice fu confermato in occasione del congresso comunista regionale del gennaio 1945: la posizione del Pci sull'autonomia consisteva, secondo Li Causi, in una «lotta per l'emancipazione contro le forze reazionarie dell'isola […]». Attraverso l'autonomia, le masse popolari siciliane potevano «intervenire direttamente nella vita politica, farvi direttamente udire la loro voce, porre direttamente i loro problemi» <21. Quel congresso, a riprova della specificità attribuita dal Pci ai problemi dell'isola, segnò anche la nascita della Federazione comunista regionale, concepita idealmente per dotare il partito siciliano di ampi poteri decisionali e di elaborazione, ma sciolta di lì a poco per essere sostituita dal Comitato regionale <22.
[...] L'inflessibile avversione del Pci siciliano alla mafia ebbe un preciso momento genetico: la sparatoria scatenata dal capomafia Vizzini contro Li Causi a Villalba il 16 settembre '44. Nel centro nisseno la fazione cattolico-separatista di Vizzini e di suo nipote Beniamino Farina esercitava un potere indiscusso: i due congiunti si alternavano alla guida del comune, controllando la locale sezione della Dc associata al Mis. Una storica famiglia ad essi avversa era quella dei Pantalone, il cui giovane erede e futuro collaboratore de «L'Ora», Michele, dirigeva in paese un gruppo socialista. Giunto a Villalba per un comizio insieme a Pantaleone e altri militanti, Li Causi non evitò, come pare avesse chiesto Vizzini, di riferirsi alle questioni locali, denunciando la gestione affaristica dei subaffitti del feudo Micciché. Fu allora che dalla piazza antistante al palco scariche di proiettili e bombe a mano investirono i comizianti, provocando 14 feriti tra cui Li Causi.
La vicenda fu emblematica per diverse ragioni: a differenza dei tipici agguati mafiosi, l'aggressione venne compiuta alla luce del sole, al cospetto dell'opinione pubblica <37, legittimando platealmente il ruolo della mafia nel sistema di potere della Sicilia interna. L'episodio ebbe tuttavia anche un altro significato, e dalle conseguenze di lungo periodo: fino ad allora dal punto di vista dei comunisti non si era escluso che nella battaglia contro la grande proprietà i gabellotti - ossia gli affittuari di estrazione per lo più mafiosa - potessero schierarsi dalla parte dei contadini. «I componenti della vecchia mafia, nella lotta per la conquista della terra - giunse a scrivere prima del comizio villalbese Li Causi- non avranno più bisogno di mettersi fuori legge […] essi potranno realizzare le loro aspirazioni ed emanciparsi economicamente come tutti i contadini» <38.
Questa prospettiva di apertura verso settori della mafia rurale riprendeva precedenti formulazioni, elaborate in età fascista da due autorevoli dirigenti comunisti, Ruggero Grieco ed Emilio Sereni: il primo aveva dipinto la mafia come «la difesa più solida del feudalesimo siciliano» <39, distinguendo al suo interno una piccola mafia formata da contadini senza terra, piccoli borghesi poveri, funzionari, avvocati, venuta a scontrarsi con il fascismo, e una mafia grande legata al feudalesimo e inquadrata nel regime. La sua schematica previsione aveva postulato «lo spostamento delle masse di bassi mafiosi di origine contadina, sconfitti dal fascismo e dalla grossa mafia, verso il proletariato rivoluzionario» <40.
Più articolata l'interpretazione di Sereni il quale, sulla scorta delle riflessioni di Franchetti, aveva individuato nella mafia una borghesia impedita nel suo sviluppo, uno strato intermedio «rivolto da un lato contro il grande proprietario latifondista, dall'altro contro il contadino povero e contro il salariato agricolo. E questo secondo volto della maffia si rivela ancor più apertamente nel suo atteggiamento di ostilità [non esitando] di fronte ai mezzi più radicali, come l'assassinio dei capi del proletariato agricolo e industriale siciliano» <41. Ciononostante, il fascismo con la sua repressione indiscriminata avrebbe insinuato un contrasto fra ceti intermedi mafiosi e latifondisti, ristabilendo «l'ordine dei grandi proprietari feudali»; ad aggravare ulteriormente tale frattura in seno alle classi dominanti sarebbe stata la crisi del '29. «È probabile […] - proseguiva Sereni - che la maffia, in quanto forma semifeudale di lotta di classe ancora embrionale e indistinta, sia superata dallo sviluppo delle prossime lotte che l'isola, col popolo italiano tutto, è chiamata a combattere» <42.
Queste letture in chiave classista orientarono i leader siciliani del Pci nel secondo dopoguerra, per quanto anche sul versante cattolico la mafia dei gabellotti fosse ritenuta utile ad aggregare gli strati intermedi delle aree interne: lo dimostrò, subito dopo la sparatoria, la rivendicazione dell'amicizia di Vizzini da parte della stessa Democrazia cristiana <43. Tali dichiarazioni d'interesse nei confronti di un soggetto come la mafia, notoriamente radicato a livello locale, riflettevano la scala di priorità delle forze politiche isolane nel quadro siciliano del '44: ai fini di una valutazione dell'approccio da assumere riguardo al fenomeno mafioso prevalevano non tanto considerazioni di tipo legalitario, quanto invece criteri di realismo politico intesi a costruire un insediamento territoriale.
In seguito all'attentato l'approccio dei comunisti alla questione mutò radicalmente, nonostante permanesse l'attitudine a considerare la dimensione popolare dei gruppi mafiosi o delle formazioni banditesche come una componente in qualche misura redimibile <44. Da allora ebbe inizio un lento e contradditorio processo attraverso il quale il rispetto della legalità democratica avrebbe occupato per il Pci uno spazio progressivamente maggiore fra i parametri di giudizio della questione mafiosa. Che il principio legalitario faticasse ad imporsi era anche risultato della sistematica violazione della legge operata dagli agrari e dell'appoggio loro fornito in questo senso dalle autorità costituite.
[NOTE]
17 Su Li Causi, cfr. la recente sintesi di M. Asta, Girolamo Li Causi. Un rivoluzionario del Novecento. 1896-1977, Carocci, Roma 2018.
21 Cfr. G. Li Causi, Rapporto politico, in «La voce comunista», 18 gennaio 1945, ora in M. Rizza (a cura di), I Congressi regionali del P.C.I. in Sicilia. Storia documentaria. Vol. I., Istituto Gramsci Siciliano, Palermo 1988, pp. 176-192.
22 Ivi, pp. 268 sgg.
37 R. Mangiameli, La regione in guerra, cit., p. 354.
38 L'intervento di Li Causi in «La voce comunista», 24 giugno 1944, cit. in Ivi, p. 554.
39 R. Grieco, Scritti scelti. Vol. I. La formazione del partito e le lotte antifasciste, a cura di Enzo Modica, pp. 194-195, ora in F. Petruzzella (a cura di), La posta in gioco. Il Pci di fronte alla mafia. Vol. I. Da Grieco a Li Causi, La Zisa, Palermo 1993, pp. 19-20.
40 Ivi, p. 21.
41 E. Sereni, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Einaudi, Torino 1946, p. 240. Cfr. anche Id., Il capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino 1947.
42 Ivi, p. 242.
43 R. Mangiameli, La regione in guerra, cit., p. 555.
44 Ibid.

Ciro Dovizio, Scrivere di mafia. «L'Ora» di Palermo tra politica, cultura e istituzioni (1954-75), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2018-2019

Due anni prima anche Girolamo Li Causi, vicepresidente dell'Antimafia, era stato assolto per le sue accuse a Gioia. L'ex senatore e segretario regionale del PCI aveva detto che il ministro era «moralmente» responsabile dell'assassinio di Almerico e, senza entrare nel merito delle responsabilità, il Tribunale di Palermo gli aveva riconosciuto il diritto di esprimere tale giudizio. <230
[...] Poiché parlava al teatro Politeama, dove si poteva accedere solamente tramite inviti, Lima veniva accusato di essersi esposto in un comizio riservato a persone di indiscussa fedeltà, mentre tutti gli altri oratori parlavano in piazza. Numerosi cittadini chiedevano a L'Ora se fosse lecito, in una grande città come Palermo, che il sindaco non parlasse a tutta la cittadinanza ma solo in una sorta di «conferenza familiare». Per avere contezza del suo discorso, dunque, ci si poteva limitare a comprare il giornale. <307
A ridosso delle elezioni [1960], Piazza del Gesù veniva tempestata pure dalle proteste per lo scandalo Genco Russo. Dopo la denuncia della candidatura del boss nelle liste DC, Li Causi ribadiva alla Camera la necessità di un'inchiesta parlamentare sulla mafia. <308
Alla TV Moro ammetteva di non conoscerlo anche se, comunque, la Direzione non aveva la competenza per esaminare tutte le liste presentate negli ottomila comuni dove si andava a votare. <309
[NOTE]
230 Sul ruolo di icona antimafia guadagnato dall'esponente comunista cfr. Massimo Asta, Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento. 1896-1977, Carocci, Roma 2017, pp. 281-304.
307 Il match elettorale respinto dall'on. Gioia, in «L'Ora», 31 ottobre 1960.
308 AP, CD, Leg. III, Discussioni, 13 ottobre 1960, pp. 17579-17610.
309 Nell'ottobre del 1960 i volti dei politici entravano per la prima volta nelle case degli italiani con Tribuna elettorale, fortunata trasmissione condotta da Gianni Granzotto. Sull'esordio del segretario democristiano cfr. Riccardo Brizzi, Aldo Moro, la televisione e l'apertura a sinistra, in «Mondo contemporaneo», n. 2, 2010, p. 144. Sul ruolo di servizio pubblico del mezzo cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Costume, società e politica, Marsilio, Venezia 1999, pp. 333-354.
Vincenzo Cassarà, Salvo Lima. L’anello di congiunzione tra mafia e politica 1928-1992, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2019

domenica 14 maggio 2023

La zona della Brianza Lecchese ha avuto una storia resistenziale difficile


In questa località denominata Gera, nella primavera del 1944, alcuni partigiani cominciarono a radunarsi alla spicciolata, sotto la guida del capitano Giacinto Lazzarini. Vennero ospitati nel cascinale della famiglia Garibaldi, la cui dimora fu spesso rifugio di Ebrei e perseguitati, prima dell'espatrio nella vicina Svizzera. Pian piano il numero dei partigiani aumentò fino ad assumere le caratteristiche di una formazione dedita ad azioni di disturbo e sabotaggio.
All'alba del 7 ottobre del 1944, sotto una pioggia battente, un commando fascista delle brigate nere, forse a causa di una delazione, sorprese nel sonno dodici partigiani rifugiati nel cascinale. Quattro di loro: Giacomo Albertoli, Alfredo Carignani, Pietro Stalivieri e Carlo Tappella furono fucilati sul posto e i loro corpi lasciati per alcuni giorni sul terreno. Gli otto partigiani superstiti vennero fatti sfilare a mani alzate per le vie di Voldomino e poi fino a Brissago Valtravaglia dove, presso il cimitero, altri cinque vennero fucilati: Giampiero Albertoli, Dante Girani, Flavio Fornara, Luigi Perazzoli, Sergio Lozio. Infine, nello stesso giorno, ultima tappa per i superstiti, l'ippodromo delle Bettole di Varese dove vennero fucilati Elvio Copelli, Evaristo Trentin e Luigi Ghiringhelli.
Il capitano Lazzarini sfuggì alla cattura, mentre la moglie Angela Bianchi, ospite della famiglia Garibaldi, subì in carcere interrogatori e intimidazioni.
Si ricordano in questo luogo altri tre partigiani della Formazione Lazzarini, caduti in imboscate o scontri a fuoco: Domenico Pagliolico, Alfredo Aime, Franco Buffoni [...]
Redazione, I Martiri della Gera, ANPI Sezione di Luino


Non mi sarei mai occupato di Giacinto Lazzarini se non avessi scoperto Gino Prinetti, un giovane militare figlio di una nobile famiglia che cade in combattimento con le brigate valsesiane di Cino Moscatelli. Prinetti è un giovane ventenne, figlio di una famiglia della nobiltà legata ai Savoia, che dopo l’otto settembre si rifugia in Svizzera e poi decide di rientrare in Italia con Edgardo Sogno e si ferma a combattere con i garibaldini. Cade in combattimento e gli è concessa una Medaglia d’Oro alla Memoria. Era nativo di Merate <1, sonnacchiosa cittadina brianzola, dove c’è ancora una villa padronale dei Prinetti. Inseguendo la sua storia scopro che nella piccola città ci sono una sala della Resistenza e un museo dedicato alla Formazione Militare Giacinto Lazzarini. Prinetti e gli altri partigiani locali, un gruppo della 104a brigata Garibaldi G. Citterio, sono relegati sulle pareti esterne e nel sottoscala, la sala è piena di manufatti militari, armi, un paracadute, una radio ricevente, un manichino con una strana divisa, una vetrinetta in cui fa bellavista la Spilla di Göring, del partito nazista, di dubbia provenienza e autenticità. C’è anche un corposo fondo, alcuni faldoni, di documenti che ha lasciato il Lazzarini.
Il 7 ottobre 1944, due compagnie della Scuola Allievi Ufficiali della Gnr di Varese, fra cui la IV, detta “Compagnia del Terrore”, sotto il comando dell’Upi, sono dirottate nel Luinese, con l’obiettivo di sorprendere la banda “Lazzarini”. I partigiani, sorpresi verso le 7.30 nel sonno, in una piccola stalla a pochi metri dalla cascina della “Gera”, sono diciotto. Il diciannovesimo, ferito, è ospitato in casa dei signori Baggiolini, proprietari del fondo. Giunge nel frattempo sul posto il colonnello Enrico Bassani, comandante della Scuola Allievi Ufficiali della Gnr, lasciando al sottotenente Carlo Rizzi dell’Upi la facoltà di soprassedere alla fucilazione “per quegli elementi che potevano interessare”. Dodici fra i partigiani catturati, sono fucilati, ma in località diverse. Alla “Gera”, base della “Lazzarini”, i fucilati sono quattro: Sergio Lozzo, Alfredo Carignani, Flavio Fornari e Pietro Stalliviere. A Brissago Valtravaglia i partigiani passati per le armi, al grido “Viva l’Italia libera”, sono cinque: Giacomo Albertoli, Carlo Di Marzio, Dante Girani, Carlo Tappella e Gianpiero Albertoli. Alle Bettole di Varese, presso l’ippodromo, i fascisti fucilano i tre partigiani più giovani: Elvio Coppelli, venti anni, Evaristo Trentini, ventitré e Luigi Ghiringhelli, di venti anni, abbandonando i loro corpi sul prato per due giorni, come monito alla popolazione. A costituire il plotone di esecuzione sono gli Allievi ufficiali della Gnr. Gli altri sette partigiani sono fatti prigionieri e trattenuti all’Upi di via Dante. Vengono fermate anche quattro donne, quasi tutte del luogo: Maria e Rosa Garibaldi, di Valdomino, Dolores Bodini, una sfollata, e la moglie del Lazzarini, Angela Bianchi. La cascina “Gera” dei coniugi Garibaldi è data alle fiamme, l’annessa casa colonica razziata di mobili, suppellettili, animali e generi alimentari <2.
Giacinto Lazzarini non era presente, si era allontanato con altri membri della banda. Il Capitano Lazzarini <3 nel 1990 donò una serie di documenti al comune di Merate (LC), l’anno successivo il comune della città costituì «Il Museo storico “G. Lazzarini” […] dopo che la moglie del colonnello Giacinto Lazzarini di Muralto donò all’Amministrazione comunale l’archivio del marito» <4.
Questo personaggio è presente in una molteplicità di racconti resistenziali con una ben precisa caratteristica, dopo la tragica conclusione della sua banda nella zona di Luino, la fonte delle notizie sulle sue gesta è solo uno: lui.
Quanto m’interessa ora è ragionare sul perché, sulle ragioni, che hanno reso possibile che i suoi racconti prendessero piede financo a diventare un emblema della Resistenza locale nel Meratese, una sala di un museo della Resistenza a suo nome, un volume che declama le sue gesta; ma anche essere inserito nello Yad Vashem come giusto tra le nazioni. Nel 1976 gli è stata data la cittadinanza onoraria di Merate con la motivazione che la città ha rischiato di essere rasa al suolo dai bombardamenti alleati ed è salvata dal suo provvidenziale intervento. Mi è successo di imbattermi in racconti e testimonianze dove l’iperbole delle vicende trascendeva la realtà degli eventi, fatti successi in altri luoghi riportati nei dintorni di Vimercate e Morbegno; si trattava però in genere di una memorialistica che aveva subito il procedere del tempo, episodi inseriti in racconti più vasti che potevano, a ben vedere, essere considerati un’elaborazione senza predeterminazione. Il muoversi di Lazzarini è diverso, c’è dell’ingegno nei suoi racconti, quasi una capacità innata di rispondere ai desiderata di chi lo ascolta, ma c’è anche una superficialità di chi utilizza quanto lui afferma e che mi lascia quantomeno stupito. Può apparire irrilevante, ma il Lazzarini passa tranquillamente dall’essere capitano all’essere colonnello, già questo dovrebbe bastare per mettere in guardia chi utilizza i suoi documenti. Mi si può obiettare che la storiografia è colma di racconti che zoppicano e che i millantatori non ci sono solo nell’ambiente resistenziale ma che coprono l’esperienza umana senza necessariamente prediligerne una condizione. Chi ha frequentato l’ambiente dell’alpinismo non può far altro che sorridere un poco di fronte a questo ragionamento, basterebbe ricordare la polemica in merito alla traversata in solitaria della Hielo Continental di Giuliano Giongo <5. Il problema dei racconti di Lazzarini si pone, però in un modo etico diverso, qui siamo dentro le vicende di una guerra, per alcuni versi civile, che lascia una scia di sangue e che interviene nella modifica dei rapporti comunitari.
Quando dopo alcuni mesi dalla vicenda di Gera di Valdomino (VA) si presenta a Lecco accompagnato da Riccardo Cassin, afferma che il suo compito è ora, fino alla fine del conflitto, quello di coordinare i collegamenti tra i partigiani dell'Alto Lario, di Lecco e della Brianza con le Forze Alleate e di monitorare la presenza e i movimenti delle truppe tedesche.
Se si considera veritiera quest’affermazione, considerando che il suo nome non appare in nessun documento <6, il passo successivo dovrebbe essere quello della riscrittura della storia degli ultimi mesi della Resistenza in questi luoghi: resta sul terreno la difficoltà di far convivere la figura di Lazzarini con i documenti che abbiamo a disposizione.
La zona della Brianza Lecchese, in altre parole il territorio che dalla periferia di Monza va verso i laghi brianzoli di Annone e Oggiono avendo come confine verso la bergamasca il fiume Adda e la stessa Lecco, ha avuto una storia resistenziale difficile. Una capillare presenza degli occupanti tedeschi, la diffusione di un numero consistente di piccole e medie aziende controllate dal RuK (Rüstung und Kriegsproduktion), la mancanza di una tradizione di conflitti operai, l’oggettiva difficoltà geografica di mantenere attive consistenti bande partigiane farà si che i gruppi che si organizzano in questa zona e che poi realizzeranno alla 104a brigata Garibaldi G. Citterio andranno a Milano ad eseguire alcune azioni.
L’altra funzione che questa zona geografica riuscirà a garantire sarà un luogo di occultamento per partigiani, disertori o renitenti alla leva che sono in procinto di salire in montagna o sono in fuga dai rastrellamenti. Non trascurabile sarà anche la funzione di zona da cui partiranno le vettovaglie o i denari per le brigate di montagna. Questo stato delle cose si scontrerà a fine guerra con la necessità nel contribuire alla narrazione di un popolo alla macchia che combatte il fascismo e della funzione che avrà questo combattere come lavacro della ventennale onta fascista. Da questa necessità prenderà vita un racconto che rivendicherà momenti di combattimento collettivi o personali. Il primo troverà nella mandellese Giulia Zucchi la sua musa con un libro di memorie pubblicato alle soglie del secondo millennio; i secondi avranno i loro momenti nelle poche memorie che verranno pubblicate nel Lecchese. La memoria racconterà di Gap e Sap che nascono a ridosso dell’8 settembre e che dalla metà dell’ottobre 1943 saranno operanti le brigate in montagna. Un volume riguardante la 104a brigata G. Citterio sconta l’appiattimento sul racconto retorico della Resistenza <7. La lotta politica che si svilupperà dopo il 1948, non solo tra i partiti di sinistra e le variegate destre ma anche tra il Pci e il Psi, opererà in modo tale che saranno solo le sinistre, e più precisamente il Pci a gestire la memoria della Resistenza locale <8. Questo stato di cose farà sì che un meritorio tentativo fatto da Franco Catalano tra la metà degli anni sessanta del secolo scorso e il decennio successivo, sarà cassato e il lavoro disperso in mille rivoli <9. Nella zona di Merate-Missaglia poi la situazione si presenta ancor più dirompente: qui il presidio meratese della Brigata Nera Cesare Rodini è comandato dal professor Giuseppe Gaidoni, preside delle scuole superiori, la piccola borghesia locale è fascista e non ha subito alcuno sbandamento dopo l’otto settembre. Nel mandamento di Missaglia a comandare il presidio della Gnr è Luigi Formigoni che si renderà compartecipe della fucilazione di quattro partigiani, Natale Beretta, Nazzaro Vitali, Mario Villa, Gabriele Colombo, il 3 gennaio 1945. Nel marzo del 1945 poi, a Merate s’istallerà il comando del Osttürkische Waffenverband der SS con una forza di 4.000 uomini distribuiti tra il Lecchese e il Bergamasco <10. All’insurrezione questo comando non si arrende ai partigiani ma assieme a loro forma delle pattuglie - armate!- miste per il controllo dell’ordine pubblico fino all’arrivo degli alleati. La sbornia per il fascismo nel mondo che aveva riempito le piazzette dei paesini brianzoli finisce nella triste considerazione che i tedeschi e i loro alleati si arrendono solo ad americani e inglesi: succede a Merate ma anche a Mandello del Lario, dove proprio Lazzarini, conosciuto come Athatos-Fulvio, responsabile di una missione dell’Oss, rischia di svelare il proprio bluff. Si è fatto passare per americano e quando i tedeschi chiedono la presenza di un ufficiale alleato per definire la resa, i mandellesi vanno a cercare lui. Riuscirà a sottrarsi con una delle sue grandi capacità inventive. La condizione pre-1945, combattenti per la causa fascista, difficilmente poteva essere sbandierata nel 1945-1946 e così la condizione che si genera successivamente: prigionieri, resistenti a volte riluttanti, occupati da un alleato e liberati da un altro, deve trovare una qualche risoluzione tra le macerie della guerra perduta. Chi la Resistenza l’ha combattuta, può certo recriminare sul dopo, sulle disillusioni e sulla quasi vergogna che alcuni si sentiranno addossata d’essere stato partigiano, ma in cuor suo ha fatto quanto era corretto per ridare e ridarsi dignità, forse prima a se stesso che alla comunità nazionale. Gli altri una qualche identità resistenziale dovranno in qualche modo crearsela. Nella zona Lecco-Brianza Lecchese, le difficoltà elevano a gesto onorevole anche dare un bicchier d’acqua al renitente, al disertore e al partigiano: non c’era nessun ordine o comando da soddisfare se non la propria dignità. Questo dovrebbe bastare, ma non è così, ci si sente inferiori, incapaci di aver affrontato qualcosa di più radicale: nasce un senso d’inadeguatezza. Perché qui non ci si trova senza le case perché bombardate, a Lecco bombardano la ditta Fiocchi e i binari ferroviari, a Merate il vicino ponte sul fiume Adda. Non sono passate le divisioni tedesche in ritirata come sull’Appennino o i militi criminali della Tagliamento; in un paese del Meratese, quando a fine ottobre 1944 si allontana la conclusione della guerra, tutti i renitenti e i disertori si consegneranno e nessuno subisce il carcere o la deportazione, nulla impedisce che lo stesso succeda nei paesi vicini <11. Una volta finita la guerra, passato qualche anno, non ci si può consolare con i caduti partigiani a Milano o con quelli rientrati dalle brigate liguri o comasche, dalla dura esperienza della Jugoslavia o con il ricordo di qualche caduto nei campi di concentramento. Anzi, queste realtà costringerebbero a fare i conti con quanto è successo e della lontananza dalla retorica tradizionale, e allora meglio il silenzio. Val la pena ricordare che la fucilazione di quattro partigiani, il 3 gennaio 1945 a Valaperta di Casatenovo, diventa di pubblico dominio quando Umberto Bossi, segretario della Lega Lombarda, coinvolge il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni perché figlio di Luigi, uno dei presenti alla fucilazione dei quattro. Ci vorranno anni per ricordare Antonio Bonfanti morto a Mauthausen e ancora, qualche anno per riprendere la memoria di Gino Prinetti, mentre sono ancora nell’oblio tre partigiani fucilati a Pusiano: Giuseppe Viganò, Innocente Valassi e Stefano Lanfranconi [..]
[NOTE]
1 Cfr. GABRIELE FONTANA, MASSIMO FUMAGALLI, Gino Prinetti e gli altri caduti e resistenti Merate 1920-1945, Ass. Culturale Banlieue, 2015; ANGELO BORGHI, La storia che non c'è osservazioni sulla Resistenza e sulla Liberazione nel Meratese, «Archivi di Lecco e della provincia rivista di storia e cultura del territorio» a cura dell'Associazione Giuseppe Bovara di Lecco. N. S., a. 27, n. 1 (gen.-mar. 2004), Cattaneo, Oggiono 2004; ANSELMO LUIGI BRAMBILLA, ALBERTO MAGNI, Partigiani tra Adda e Brianza Antifascismo e Resistenza nel Meratese storia della 104^ Brigata S.A.P. Citterio, cit.
2 http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=5045. La località della strage è Luino, Brissago, Varese, in data 7 ottobre 1944. CLAUDIO MACCHI, Antifascismo e Resistenza in Provincia di Varese, Tomo I e Tomo II, Macchione, Varese 2016.
3 Domenico Lazzarini si autonomina capitano o colonnello, non si comprende in base a quali considerazioni. Non ha gradi militari quando si trova citato in documenti pubblici. Nel Registro matricolare del Distretto militare di Milano, è soldato di leva in congedo illimitato perché rivedibile nel tardo 1941. Nel 1982 gli verrà consentito di fregiarsi del titolo onorifico di Tenente. Per ulteriori notizie si rimanda al sito: www.55rosselli.it
4 https://www.memoranea.it/luoghi/lombardia-lc-merate-museo-storico-lazzarini. Ultima visualizzazione 18 luglio 2018.
5 Ancor oggi si può leggere su http://www.barrabes.com/actualidad/noticias/1-1165/hielo-continentalpatagonico-tierra-viento.html questo paragrafo: «El italiano Giuliano Giongo reclamó, con una tienda muy ligera y 35 kilos de carga total, haber sido el primero en cruzar el Hielo Continental en solitario, aunque su logro (que incluía unas cuantas contradicciones e imprecisiones) fue discutido, entre otros, por un polemista nato: Walter Bonatti». Ultima visualizzazione 18 luglio 2018.
6 Ultimamente, la presenza in rete dei documenti delle Brigate Garibaldi e del Partito Comunista Italiano Direzione Nord da parte della Fondazione Gramsci di Roma ha tolto anche l’alibi della difficoltà della consultazione.
7 Cfr. A. BRAMBILLA, E. MAGNI, Partigiani fra Adda e Brianza. Antifascismo e Resistenza nel Meratese. Storia della 104^ Brigata S.A.P. “Citterio”, Cattaneo, Oggiono-Lecco 2005.
8 Va dato merito a Silvio Puccio di aver, per così dire, gettato il sasso nello stagno con il suo volume "Una Resistenza" edito in Lecco da Stefanoni nel 1965.
9 La ricostruzione del lavoro di Franco Catalano è presente nel sito: www.55rosselli.it
10 G. FONTANA, M. FUMAGALLI, Gino Prinetti e gli altri caduti e resistenti Merate 1920-1945, cit., p. 14-15.
Gabriele Fontana e Massimo Fumagalli, La Storia, la politica, la memoria: il caso G.D. Lazzarini, responsabile della Unione Nazionale dei resistenti autonomi e delle delegazioni per l’Italia della Resistenza estera, Associazione Culturale Banlieu

lunedì 8 maggio 2023

Analogamente a quanto accaduto in Italia, i servizi segreti francesi costituirono delle vere e proprie reti in funzione anticomunista


Prima ancora di alimentare lo scoppio dei conflitti coloniali, l’anticomunismo [in Francia] fu il collante indispensabile delle formazioni e dei movimenti di destra, analogamente a quanto avvenuto in Italia.
L’anticomunismo si sviluppò particolarmente nella destra francese durante l’epurazione seguita alla fine del conflitto mondiale. Il Comité national des écrivains (Cne) <178, sotto la guida del comunista Louis Aragon, mise in atto una vera e propria persecuzione ai danni degli intellettuali francesi macchiatisi di collaborazionismo con il regime di Vichy, nei cui riguardi fu attuata una vera e propria schedatura già nel corso della guerra. Obiettivo del comitato comunista non fu solo l’ottenimento della giustizia, ma anche realizzare una effettiva sostituzione degli elementi sgraditi con esponenti comunisti, inseritisi così ai posti chiave della cultura, in modo da rendere più agevole e rapida la scalata al potere del partito <179. Ciò, se da una parte favorì notevolmente il Partito Comunista, destinato a diventare uno dei più forti d’Europa insieme a quello italiano, dall’altra incrementò l’anticomunismo della destra francese, interpretato in chiave nazionalistica, ovvero votato alla difesa della patria, minacciata, secondo l’opinione dei suoi esponenti, dalle mire espansionistiche di Mosca.
La lunga serie di processi finì per cancellare culturalmente e politicamente l’intero gruppo dirigente di destra degli anni Trenta, costretto ad affrontare condanne a morte o fuggire all’estero, mentre la propaganda comunista costrinse quanti scamparono all’epurazione a ritirarsi dalla vita pubblica o a stringersi intorno a Charles de Gaulle, visto come il male minore.
Con l’abbandono del Mouvement républicain populaire <180 da parte del generale de Gaulle, nel 1947, le cose cambiarono: il partito cattolico gaullista, infatti, idealmente collocato a destra rispetto ai principali partiti di sinistra, abbandonò l’impostazione moderata sviluppando un anticomunismo convinto (seppure già condiviso anche dal generale), ma evitando di appoggiarsi a elementi nazionalisti. De Gaulle, da parte sua, fondò il Rassemblement du peuple français <181 con lo scopo di combattere l’avanzata comunista, facilitato dalla rottura tra questi ultimi e i socialisti, primo serio contraccolpo al manifestarsi dei sintomi della Guerra Fredda, che favorirono il ritorno sulla scena politica della destra conservatrice, così come di di quella estrema.
La minaccia sovietica convinse allora i reduci dell’estrema destra a coalizzarsi e concentrarsi attorno alla figura di de Gaulle, mettendo allo stesso modo da parte il proprio odio contro gli Stati Uniti, visti entrambi come l’unico baluardo capace di impedire la conquista comunista della Francia. Portavoce di questa inedita alleanza con americani e gaullisti furono le riviste, come ad esempio "La Sentinelle", che ai toni antisemiti accostarono la lotta anticomunista, come fa notare lo storico Joseph Algazy, il quale spiega che «la lutte sans merci contre le communisme […] continua d’être leur principal thème, mais il ne fut cependant pas question de renoncer au thème raciste […], l’ennemi juif garda toute sa place aux côtés de l’ennemi bolchevique», motivo per cui «ils consacrèrent une part importante de leur efforts de propagande à expliquer les raisons de leur engagement récent dans le camp nazi» <182, che sfociò poi nello sviluppo di una vera e propria corrente negazionista e revisionista.
Il 1947 segnò il punto di svolta fondamentale, dunque, trasformando la lotta anticomunista nel tema cardine destinato a riunire tutte le formazioni appartenenti alla destra francese che, da parte sua, poté comunque godere di sostegni analoghi a quelli dei colleghi d’oltralpe italiani. Anche in Francia, infatti, si costituì una rete clandestina votata alla lotta contro l’invasore sovietico: il Rassemblement du peuple français, per esempio, fornì da un lato la manovalanza e, dall’altro, il polo d’attrazione principale per gli esponenti dell’estrema destra, mentre i dirigenti gaullisti continuavano a cercare di attirare tra loro quanti erano a propria volta preoccupati per l’eventuale caduta francese in mano sovietica.
Analogamente a quanto accaduto in Italia, i servizi segreti francesi costituirono delle vere e proprie reti in funzione anticomunista, servendosi di militanti appartenenti all’estrema destra collegati alle forze di sicurezza. Ne fu un esempio il commissario di polizia Jean Dides, che durante l’occupazione lavorò presso la quinta sezione dei Renseignments généraux <183, incaricata della repressione degli stranieri, il quale fu prelevato dall’Office of Strategic Services (OSS) americano proprio in virtù della sua esperienza pratica per essere riutilizzato in funzione anticomunista all’interno delle strutture di sicurezza. Dides, in particolare, utilizzando come elemento di collegamento Charles Delarue, agente di polizia collaborazionista a sua volta salvato e reclutato dai servizi americani, creò e diresse almeno fino al 1954 un gruppo interno ai servizi francesi stessi che condusse una vera e propria campagna di intossicazione ai danni dei comunisti. L’«affaire de fuites» consistette nella montatura di uno scandalo ai danni del Parti communiste français (Pcf) accusato di aver passato i piani militari francesi ai sovietici e, quindi, di aver causato la disfatta di Diên Biên Phu. La creazione, però, di una commissione ministeriale adibita alla verifica della colpevolezza del partito comunista mise a nudo il piano e smascherò la rete di complicità che legava i servizi di sicurezza americani e francesi <184.
Dides e Delarue fecero contemporaneamente parte di una struttura parapoliziesca, a sua volta creata in funzione anticomunista, chiamata "Paix et liberté". Ideata nel 1950 dal deputato radical-socialista Jean Paul David con il sostegno pratico della Central Intelligence Agency (CIA) e finanziario della North Atlantic Treaty Organization (NATO) e supportata dal ministero dell’Interno francese, ebbe come scopo principale la messa fuori legge del Parti communiste français, da realizzarsi con una feroce azione di propaganda volta a denunciare l’esistenza di «quinte colonne» sovietiche all’interno dell’amministrazione statale <185. Pur rivelandosi a sua volta un fallimento, l’iniziativa favorì il rinsaldarsi della destra francese attorno all’obiettivo comune della lotta anticomunista.
La guerra d’Algeria non fu priva di riferimenti alla lotta in atto per preservare la Francia dalla minaccia sovietica. Negli anni Cinquanta, alla vigilia del conflitto, infatti, l’Algeria era considerata non una colonia, ma parte integrante della Francia e l’insurrezione venne interpretata, erroneamente, come un attacco sovietico all’unità della nazione. La lotta al comunismo fu così, ancora una volta, egemonizzata dalle forze di destra, estrema e non, che la interpretarono in chiave nazionalistica, invece di comprendere i fermenti che avrebbero portato alla decolonizzazione.
In questo contesto, portato all’estremo proprio dai pieds-noirs <186 e dalle forze di destra, si realizzò una sorta di guerra civile francese, che vide schierarsi da un lato i difensori della conservazione dell’«Algeria francese» e, dall’altro, i sostenitori dell’indipendenza algerina. Questi ultimi, rappresentanti di un «fronte pacifista e terzomondista» <187, furono denunciati dall’estrema destra come membri della già citata «quinta colonna» sovietica, dei sabotatori aventi come fine ultimo la sconfitta della Francia, da realizzarsi privando la nazione delle sue colonie <188. Le forze politiche furono ugualmente accusate di starsene a guardare, inermi non per la forza delle rivendicazioni dei popoli sottomessi al dominio coloniale francese, ma perché succubi dei comunisti, portando a sostegno di questa tesi la perdita dell’Indocina e la disfatta di Diên Biên Phu, che consentirono alla destra di godere dell’appoggio massiccio e determinante di ampi settori militari.
Fu in questo contesto che, per esempio, venne creato l’effimero movimento chiamato «Résistance à la désagrégation de la France et l’Union française» in contatto con il Service de Documentation Extérieure et de Contre-Espionnage (SDECE), il servizio segreto francese addetto al controspionaggio, incaricato di impedire il rifornimento di armi al Front de libération nationale (Fln) algerino, traffico proveniente, secondo i servizi, dai paesi dell’Est, finanziati dall’Unione Sovietica <189. Appartenente al medesimo ambiente e con le stesse convinzioni fu anche il Front nationale de l’Algérie française (FnAf), guidato da Jean-Marie Le Pen, che a Parigi poté contare sul sostegno del Comité national pour l’integrité du territoire. A questi due movimenti se ne unirono molti altri, caratterizzati a loro volta da una durata effimera e da un’azione, per quanto articolata, effettivamente ridotta. Ciò che li accomunava, comunque, era la difesa a ogni costo, anche ricorrendo alla violenza, dell’unità territoriale dalla minaccia comunista disgregatrice.
Anche l’Organisation de l’Armée Secrète fu caratterizzata da un forte anticomunismo. Molti furono infatti i generali e comandanti aderenti all’OAS reduci dal conflitto indocinese che disertarono per unirsi all’organizzazione, convinti di agire per il bene della nazione e in sua difesa. L’esperienza indocinese fu considerata anzi un vantaggio, perché chi vi aveva preso parte aveva provato sulla propria pelle l’attacco comunista traendone degli insegnamenti, in materia di controterrorismo e guerra sovversiva, da utilizzare a proprio beneficio.
[NOTE]
178 Il Comité national des écrivains (CNE) fu un organismo della Resistenza «letteraria», emanazione del Front national des écrivains creato nel 1941 dal Partito Comunista Francese (PCF), radicalizzatosi notevolmente in seguito alla Liberazione, tanto da divenire un vero e proprio strumento di controllo dell’opposizione da parte comunista. Per ulteriori informazioni, si veda: http://vercorsecrivain.pagesperso-orange.fr/cne.html#II.
179 M. GERVASONI, La Francia in nero, cit., p. 218. Tra gli intellettuali accusati di tradimento, Gervasoni indica Céline, Châteaubriant, Drieu La Rochelle, Maurras e Brasillach. Quest’ultimo, in particolare, fu processato per collaborazionismo e fucilato.
180 Il Movimento Repubblicano Popolare (Mouvement Républicain populaire, MRP) fu un partito politico fondato da Georges Bidault in Francia nel 1944 e attivo fino al 1967, caratterizzato da un’ideologia cristiano-democratica ed europeista. Fu partito di governo per quattro volte, con l’elezione a presidente del Consiglio di Robert Schuman, Georges Bidault stesso e Pierre Pflimlin. Per ulteriori informazioni, si veda: http://chsp.sciences-po.fr/fond-archive/mouvement-republicain-populaire-mrp.
181 Il Rassemblement du peuple français (RPF) fu il partito politico fondato da Charles de Gaulle il 14 aprile 1947 e dissoltosi nel 1954. Ideato per tradurre in realtà il programma di de Gaulle esposto all’indomani dello sbarco in Normandia e all’indomani della Liberazione (i famosi «discorsi di Bayeux»), fu uno dei principali movimenti d’opposizione sotto la IV Repubblica. Per ulteriori approfondimenti, si veda: http://www.union-gaulliste-de-france.org/pages/Histoire_du_RPF_19471954-568252.html.
182 A. MAMMONE, Transnational Neofascism in France and Italy, cit., p.46.
183 I Renseignements généraux furono l’equivalente dell’Ufficio politico della Questura italiano, e si occuparono di informare il governo di eventuali minacce alla sicurezza interna dello Stato.
184 Per approfondire l’episodio, si consiglia: F. LAURENT, L’orchestre noir. Enquête sur les réseaux néofascistes, Paris, Nouveau monde éditions, 2013, pp. 45-47.
185 Ivi, p. 47.
186 L’espressione pieds-noirs è utilizzata per indicare i cittadini francesi (e, prima ancora, europei) d’Algeria, che la utilizzarono per identificarsi tra loro una volta tornati in Francia. Oggi, questa denominazione è diventata quasi sinonimo di «rapatrié», rimpatriato, poiché i francesi d’Algeria furono rimpatriati con la conquista dell’indipendenza dello Stato algerino, nel 1962. Per un ulteriore approfondimento terminologico, si veda: A. BRAZZODURO, Soldati senza causa, cit., p. 282.
187 M. GERVASONI, La Francia in nero, cit., p. 235.
188 Ibidem.
189 O. DARD, Voyage au coeur de l’OAS, cit., pp. 32-33.
Veronica Bortolussi, I rapporti tra l’estrema destra italiana e l’Organisation de l’Armée Secrète francese, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2016-2017

lunedì 1 maggio 2023

Fui aggregato ad una unità segreta di uomini dell'Haganà che operava dentro l'esercito inglese


Il 22 maggio 1945 la Brigata Ebraica raggiungeva il passo del Tarvisio, un’area strategica a ridosso dei confini austriaco e jugoslavo. Nei mesi seguenti la fine della guerra, gran parte di coloro che oltrepassavano il confine proveniva dalle località di Villach, Klagenfurt, Salisburgo, Gratz, dove le autorità Alleate avevano allestito luoghi di soccorso per rifugiati. Trovandosi al centro di numerose linee di passaggio, interessate soprattutto dal transito di profughi, il passo del Tarvisio acquisiva una sempre più significativa rilevanza strategica. Il governo Italiano intendeva mantenere il controllo della città di Trieste e premeva affinché l’esercito britannico impedisse l’ingresso di forze ostili dalla Jugoslavia. <383 L’incarico assegnato alla Brigata Ebraica sarebbe stato proprio quello di sorvegliare la zona di confine fungendo da raccordo nella catena dei rifornimenti verso l’Austria. <384
All’interno dell’area controllata dai «battaglioni palestinesi», i volontari ebrei allestivano due campi per il soccorso ai profughi: il primo battaglione al di fuori della città di Tarvisio ed il terzo a Camporosso; il secondo battaglione veniva collocato invece all’interno della città. Dopo aver provveduto alle attività di accoglienza e di primo soccorso, i soldati del Jewish Brigade Group iniziavano ad organizzare il trasferimento di migliaia di profughi. <385 Nel maggio ’45 venivano avviate delle vere e proprie staffette verso la città di Milano e altri luoghi, come l’orfanotrofio di Sciesopoli a Selvino, <386 in provincia di Bergamo, la clinica per tubercolotici di Merano o le numerose hacsharot <387 vicino Roma, Mantova, Torino, fra cui quelle di Magenta, Boffalora, Tradate, Nonantola. <388
Al Tarvisio i volontari ebrei avevano ampio spazio di manovra. Essi disponevano, come emerge nei vari resoconti giornalistici dei corrispondenti di guerra, di una grande libertà d’azione: "La Brigata [Ebraica] staziona nella parte italiana del confine e non si trova in Austria, tuttavia convogli delle compagnie trasporti palestinesi e colonne di trasporti della stessa Brigata attraversano quotidianamente il confine per recarsi nei centri di occupazione dell’Ottava Armata, ricoprendo ruoli di responsabilità più vari e gestendo problemi connessi ai rifornimenti". <389
La scelta di trasferire la Brigata Ebraica al Tarvisio rappresentava una formidabile occasione per i sionisti che intendevano entrare in contatto con i profughi oltreconfine, <390 mentre si rivelava per i britannici un grave errore di valutazione poiché finì col determinare una indubbia accelerazione delle operazioni di immigrazione degli ebrei in Palestina. Afferma Shlomo Shamir “Rabinowitz”, il comandante degli ufficiali della Haganà nella Brigata Ebraica: "Sul perché i britannici decisero di schierarci in questa posizione strategica, un luogo che si confaceva ai nostri bisogni nazionali, non ho una risposta chiara. È possibile sia stato un miracolo. Forse i britannici semplicemente non capirono che questo luogo avrebbe potuto essere il nostro trampolino di lancio per stabilire il destino dell’ebraismo d’Europa. A pensarci bene, sono quasi certo che l’elemento ebraico non fu preso in considerazione. Dopo tutto, nemmeno noi sapevamo bene in quel momento cosa fosse successo agli ebrei in Europa". <391
La Brigata Ebraica fu trasferita al confine con l’Austria in virtù della sua particolare duttilità operativa e per il fatto che molti volontari ebrei conoscevano le lingue diffuse nella Mitteleuropa. <392 Ad essere sottovalutato, o almeno in un primo momento non considerato, fu pertanto il fattore legato alle esigenze nazionalistiche della dirigenza sionista, per la quale diventava fondamentale riuscire a far giungere in Palestina il più alto numero di sopravvissuti ebrei, unitamente alla efficace capacità operativa dei nuclei sionisti attivi nell’esercito britannico, i quali riuscirono ad organizzarsi autonomamente, ricevendo solo generali e sporadiche direttive da Gerusalemme a causa della precarietà delle comunicazioni, costituendo una avanguardia dalla fondamentale importanza strategica. <393
[...] Nel maggio del ‘45 era già stata avviata una collaborazione fra le organizzazioni ebraiche che operavano in soccorso ai profughi, fra cui il JOINT e la DELASEM, ed i volontari del Jewish Brigade Group, assieme a quelli di altre compagnie ebraiche, in particolare del RASC, che godeva di una più ampia dotazione di veicoli rispetto alle altre unità militari.
Nel mese di giugno aveva luogo al passo del Tarvisio un incontro fra alcuni esponenti della Brigata Ebraica ed i rappresentanti delle Jewish Companies per decidere le modalità di tradotta dei profughi. <394 Oltre ai circa 4 500 uomini del Jewish Brigade Group erano presenti in Italia otto compagnie formate da ebrei, per un totale di altri 3 000 uomini circa: <395 tre compagnie a Milano e dintorni, la 462esima, la 735sima e la 739sima compagnia; <396 due a Trieste, la 179sima e la 643sima compagnia; una nei pressi di Bologna, la 650sima compagnia; <397 una a Napoli e Bari, rispettivamente la 544sima e la 743sima compagnia; a queste si aggiungevano due compagnie interamente formate da volontari ebrei dislocate in Austria, fra cui la 468sima compagnia, proprio a ridosso del confine con l’Italia. <398 L’incontro era organizzato da Yehuda Arazi, il comandante del "Mossad Le Alyiah Bet" in Italia, <399 e da altri luogotenenti della Haganà giunti dalla Palestina; <400 vi partecipava insieme ad altri commilitoni il volontario della 462esima compagnia del RASC Yoseph Koren: "Fui aggregato ad una unità segreta di uomini dell'Haganà che operava dentro l'esercito inglese. Il suo compito era quello di preparare le vettovaglie: acqua, cibo ed equipaggiamento vario per l’immigrazione clandestina in Israele. L'unità 462 tornò a Milano. Dopo qualche giorno ci fu richiesto di presentarci da Eliyahu Cohen, <401 il warrant officer del nostro battaglione. Egli ci diede il compito di andare al comando della «brigata» che si trovava al momento nel triangolo di confine: Italia-Austria-Jugoslavia. Una volta arrivati sul posto ci avrebbero dato altre istruzioni sulla nostra missione. Nel campo militare che si trovava vicino alla «brigata» si ammassarono numerosi autisti con i loro camion delle unità 178, 179, 462, 468, 650. Il nostro compito era quello di prelevare profughi dell'olocausto dall'Austria e poi sparpagliarli tra i diversi campi UNRRA che c'erano in Italia. Solamente in questo momento siamo riusciti a concepire le dimensioni dell'olocausto. Questa era un'immensa marea umana che faceva il suo primo incontro con soldati ebrei provenienti da Israele". <402
L’unità segreta alla quale si riferisce Yoseph Koren era nota con il nome di unità TTG, una sigla che compariva su certificati e fogli di circolazione, acronimo della locuzione arabo-yiddish «Tilhas Tizi Gescheften» (letteralmente «lick my ass business»), che si riferiva ad una unità Alleata in realtà inesistente. <403
Il T.T.G. era formato da una squadra di 50 autisti che appartenevano ad unità di trasporto dell'esercito inglese. Gli uomini del T.T.G. furono meticolosamente scelti dalla Haganà. Ci fu ordinato di mantenere il silenzio, non solo con gli inglesi ma anche con i nostri compagni di altre unità ebraiche, anche se buoni amici dovevano rimanerne all'oscuro. La nostra attività era ritenuta illegale dagli inglesi e dagli italiani. <404
Una volta provveduto ad una prima ed immediata azione di soccorso, i rifugiati sarebbero stati trasferiti dalle zone di confine verso i principali centri di raccolta del nord Italia, soprattutto attorno a Milano e Torino, a bordo dei veicoli militari dell’esercito britannico: "Alla fine della guerra la compagnia di trasporto 462 fu sciolta. I soldati più avanti negli anni rimpatriarono in Israele mentre invece io e altri soldati più giovani siamo rimasti per continuare l'attività di soccorso ai profughi ovunque in Italia. Gli automezzi erano indispensabili per la nostra attività, li abbiamo sottratti così all'esercito inglese. Abbiamo restituito gli automezzi della compagnia, facendoli entrare da un ingresso principale, ma dopo le pratiche burocratiche li abbiamo fatti uscire da un’apertura nella recinzione. Così passarono nelle mani del T.T.G., rimuovemmo poi i numeri e le insegne che avrebbero potuto tradire la loro origine. Con questo metodo siamo riusciti a procurare 50 automezzi per la nostra banda con lo scopo di utilizzarli nell’azione di trasporto profughi nei centri di raccolta e verso i porti. Questi camion servirono anche per trasportare rifornimenti vari e cibarie per i campi, e anche per rifornire la navi per l'immigrazione clandestina di tutto il necessario". <405
A bordo dei veicoli dell’esercito britannico i volontari ebrei godevano di una relativa libertà di movimento anche secondo quanto sostiene Ada Sereni, una delle figure di spicco della Alyiah Bet in Italia: «I confini, in questo momento, sono aboliti e i camion militari alleati non sono fermati da nessuno. Solo la Military Police ha l’autorità di fermarli, ma quando gli autisti hanno i fogli di via in ordine, neppure la polizia può intromettersi». <406
Questa particolare circostanza consentiva ai volontari ebrei, e a quelli della Brigata Ebraica e del RASC in special modo, di offrire un contributo logistico alla Alyiah Bet in un momento in cui la precarietà dei collegamenti limitava in maniera significativa lo spostamento organizzato di un gran numero di profughi. Essi garantivano al contempo una efficace azione di pronto soccorso grazie alla scrupolosa organizzazione militare e al diffuso sentimento di solidarietà nazionale che caratterizzava le Jewish Companies dell’esercito britannico. In altre parole, i volontari ebrei sfruttavano la macchina bellica dell’esercito britannico per trasferire i profughi verso zone sicure, laddove diveniva per loro indispensabile impartire ai futuri «olim», ossia i nuovi cittadini, nozioni di sionismo nonché i rudimenti della vita in kibbutz.
[NOTE]
383 Circa l’importanza strategica della città di Trieste, si faccia riferimento all’appunto della Direzione Generale Affari Politici del Ministero degli Affari Esteri del 27 agosto 1945, ASMAE, Affari Politici, Gran Bretagna, B. 63 (1945) F. 3. Sionismo. Disponibile anche presso Hagana Museum Archive, Tel Aviv, sotto la collocazione 123/איטל /2. Citato anche in M. Toscano, La porta di Sion, p. 17.
384 The Jewish Infantry Brigade Group (1944-1946) - Brigadier E. F. Benjamin C. B. E Memorandum, CZA DD\12828. In un articolo dell’11 giugno 1945 contenuto in CZA J112\1020 viene riportato che «nel frattempo la Brigata Ebraica staziona a 100 miglia da Udine, in Italia, verso il confine con l’Austria, aiutando insieme ad altre unità dell’ottava Armata Britannica e della decima Divisione Alpina Americana a mantenere una sezione della linea dei rifornimenti delle forze di occupazione in Austria». Si veda anche H. Bloom, The Brigade: an epic story of Vengeance, Salvation, and WWII, Hardscrabble Enterteinment, New York 2002 [H. Bloom, La Brigata: una storia di guerra, di vendetta e di redenzione, Saggiatore, Milano 2005, pp. 157-158].
385 D. Porat, One side of a Jewish triangle in Italy: the encounter of Italian Jews with Holocaust survivors and with Hebrew soldiers and Zionist Representative in Italy (1944-1946), in «Italia Judaica IV, Gli ebrei nell’Italia unita (1870-1945)», Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Roma 1993, p. 506.
386 Si faccia riferimento a questo proposito a S. Luzzatto, I bambini di Moshe - Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele, Einaudi, Torino 2019.
387 Centri di educazione professionale agricola allestiti dai sionisti per preparare i nuovi immigrati in Palestina. Tali strutture erano generalmente situate in campagna all’interno di cascine, poderi, fabbricati agricoli.
388 Si vedano A. Sereni, I clandestini del mare e S. Minerbi, Raffaele Cantoni.
389 CZA J112\1020.
390 Report for Week Ending 13 June 1945, 13/6/1945, AMG Bolzano, Repatriation Division. NA, RG 331, ACC Italy, 11202/128/36; S. Kokkonen, Jewish displaced persons in Postwar Italy (1945-1951), in «Jewish Political Studies Review», 20:1/2, 2008, p. 92.
391 S. Shamir, Intervento divino e una bandiera ebraica nell’esercito britannico, p. 217.
392 Ibid.
393 Hagana Museum Archive, File 29.00046/Yitzhak Levi. Ada Sereni afferma che alcuni radiotelegrafisti ed altri emissari dalla Palestina giunsero in Italia a bordo della nave «Pietro», nell’agosto del 1945, probabilmente per ovviare alle difficoltà di comunicazione e per coordinare la gestione dell’immigrazione clandestina. Questo solo dopo che la Brigata Ebraica lasciò il Tarvisio. A. Sereni, I clandestini del mare, p. 44.
394 A. Sereni, I clandestini del mare, p. 21.
395 Lo storico Yoav Gelber sostiene che vi fossero in Italia, nel novembre 1944, circa 10.000 volontari ebrei, Y. Gelber, The Meeting Between the Jewish Soldiers from Palestine Serving in the British Army and She’erit Hapletah, in Y. Gutman; A. Drechsler (a cura di), «She’erit Hapletah, 1944-1948», p. 66. Mario Toscano riporta la cifra di circa 8.000 volontari per quanto riguarda l’estate del 1945, M. Toscano, La porta di Sion, p. 39. Ciò che emerge con chiarezza dalla documentazione del National Archive è che, al maggio 1945, erano operativi al di fuori della Palestina 12 662 volontari ebrei, di cui 5 777 in Egitto e 4 553 nella Brigata Ebraica. Il resto dei volontari ebrei era distribuito fra le Jewish Companies in Italia e nei Balcani. Nei mesi seguenti, alcune centinaia di volontari ebrei lasciavano l’Egitto e raggiungevano i propri commilitoni in Italia, inclusi alcuni membri del Jewish Brigade Group; appare pertanto verosimile che vi fossero circa 7/8 000 volontari ebrei in Italia nel giugno/luglio 1945, Monthly Strenght of Jews and Arabs in Armed Forces and Police - Foreign Office Memorandum, London, 19/3/1946, TNA FO 371/495. Il volontario Piero Cividalli, ad esempio, raggiunse l’Italia insieme ad un centinaio di commilitoni nel maggio 1945, per poi aggregarsi alla Brigata Ebraica, in Belgio, ai primi di ottobre. Intervista a Piero Cividalli (Ramat Gan, 16/5/2020).
396 C. Villani, Milano, Via Unione 5. Un centro di accoglienza per ‘displaced persons’ ebree nel secondo dopoguerra, in «Studi Storici», Anno 50, No. 2, Aprile-Giugno 2009, pp. 335.
397 Intervista al figlio di Ariè Sheck Eugenio (Milano, 15/1/2015).
398 Bintivey Ha’apala Information Center, Atlit Detention Camp Archive, File Peilim/Yoseph Koren.
399 Ada Sereni riporta un dialogo con Arazi nel corso del quale egli avrebbe affermato: «Prima che lasciassi Tel Aviv, Elyahu Golomb [uno dei capi della Hagana] mi disse chiaramente che sarei stato il comandante in Italia». A. Sereni, I clandestini del mare, p. 22.
400 S. Minerbi, Raffaele Cantoni, p. 151.
401 Elyahu Cohen era sergente maggiore della 462esima compagnia trasporti del RASC, «il più alto ufficiale dell’Hagana arruolato nell’esercito britannico», A. Sereni, I clandestini del mare, p. 35.
402 Bintivey Ha’apala Information Center, Atlit Detention Camp Archive, File Peilim/Yoseph Koren.
403 M. Beckman, The Jewish Brigade, pp. 56-59.
404 Bintivey Ha’apala Information Center, Atlit Detention Camp Archive, File Peilim/Yoseph Koren.
405 Ibid.
406 Illegal immigration movements in and through Italy - Vincent La Vista Memorandum, Israeli Defence Forces and Defence Establishment Archives (Tel HaShomer military base, Kiryat Ono), F. 87/1867/1998.
Stefano Scaletta, La Brigata Ebraica e le compagnie di ebrei volontari nell’esercito britannico (1939-1946), Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, Anno accademico 2020-2021