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giovedì 26 novembre 2020

L’Imelde del km 12 della linea Savona Altare


L’Imelde abitava al casello al km 12 della linea Savona Altare. Vi abitava con suo fratello. Erano figli di un operaio venuto a costruire quella linea e poi assunto dalle FS negli anni '30.
Erano di Marzabotto. Mi diceva che i suoi parenti erano stati trucidati dai nazisti e che erano rimasti lì perché non avevano più parenti laggiù.
Era una donna silenziosa, timorosa; risaliva sulla sede ferroviaria i quasi due chilometri che separavano i nostri due caselli e veniva a fare la spesa a Cadibona.
La prima volta che la vidi mi colpì quel suo fare dignitoso, quasi schivo: mi passò accanto ed io la salutai, lei si fermò e mi chiese se ero nuovo di lì; allora le raccontai a mio modo chi ero e da dove venivo. Le chiesi se viveva sola. Lei, stringendo la sua borsa della spesa, mi disse che viveva lì al casello con suo fratello. Mi sorrise l’Imelde e volle che l’andassi a trovare: cosa che feci nei giorni a venire.
Non avevano acqua corrente né luce elettrica in casa; illuminava le stanze con il gas del carburo - allora se ne trovava in grande quantità -; fuori nel cortile avevano una pompa manuale per l’acqua con sottostante interrato serbatoio, con la quale riempivano i secchi. La casa era una grande cucina con un grande caminetto: si vedeva che la loro vita si svolgeva tutta lì in quella grande cucina.
Mi venne in mente che quello era sicuramente un retaggio di una cultura del mondo della mezz’aria e bracciantato, grandi cucine condivise e piccole stanze anguste per dormire.
Suo fratello mi guardò con attenzione - avevo 21 anni - volle sapere da dove venivo ed io fui prolifico di racconti ed aneddoti sulla mia terra. Lui la domenica scendeva alla Società di Mutuo Soccorso a Montemoro.
Credo che la loro vita si svolgesse tutta lì.
E questo mi mise tristezza.
Seppi poi dopo della loro storia da un ferroviere, anche lui emiliano: erano persone buone e la barbara uccisione dei loro parenti li confinò per sempre al km 12 della linea Savona Altare.
L’Imelde morì prima del suo amato fratello e mi dispiacque non so se qualcuno si fosse ricordato di lei credo che in pochi le fecero visita.
Imelde e suo fratello erano figli di un altro tempo ancora di un tempo che non lasciava molto spazio ai sentimenti.
I loro volti erano quelli rassegnati di uomini e donne nati poveri nei primi anni del Novecento.

Roberto Trutalli, ottobre 2018

domenica 22 novembre 2020

Flugblätter...

Il Trofeo delle Alpi a La Turbie, Costa Azzurra

Si racconta che un gioco dei surrealisti fosse quello di saltare da una sala cinematografica all'altra, in modo che le trame dei vari film si combinassero ca­sualmente dando forma a un collage di sequenze. 

Ef­fettivamente, dissociando le scene, isolandole, tutto diventa enigmatico, onirico, nuovo. Se facciamo un montaggio di spezzoni di vecchi film anni '40 e '50 il risultato è qualcosa di spiazzante, surreale. Sequenze decontestualizzate e ritagliate ci lasciano in un'atmo­sfera di sospensione e di sogno, che si apparenta a quella della dechirichiana metafisica.

Con lo zapping la cosa risulta di primo acchito assai più povera ma probabilmente ci sono comunque delle buone possibilità. Ovviamente si può farlo con la letteratura o con qualsiasi altra arte.

Si può provare a costruire un testo, montando e magari commentando pezzi di libro presi davvero a caso.

Un altro gioco può consistere nel prendere due libri: provarsi a leggerne uno di matematica con lo stesso spirito con cui si legge un manuale di letteratura e viceversa.

Tutto si può fare a pezzi e ricostruire, un po' come in archeologia è successo, per dire un caso, con il Trophée des Alpes, chissà quanto scombinato rispetto all'originale: a noi ricorda un po' il Picasso che si diverte a ricollocare gli elementi anatomici di un viso. Ma honni soit qui mal y pense.

Una volta due bambine, Claudia e Ylenia, smontarono - nel senso letterale del termine - una copia de Il pubblico della poesia curato da Bernardinelli e Cor­delli. Con molte di quelle pagine composero un enorme cuore sul pavimento. Il padre non approvò e intervenne assai stizzito. Io pensai che, invece, uno o tutti o alcuni dei poeti ivi antologizzati, Beppe Conte ad esempio, avrebbero approvato e plaudito.

A proposito: le antologie. Viene da chiedersi se nei casi migliori non si tratti di mirabili opere di smon­taggio e rimontaggio. 

Marco Innocenti, Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019

[Marco Innocenti è autore di diversi lavori, tra i quali: articoli in IL REGESTO (Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo), Sanremo (IM);  Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; articoli in Sanremo e l’Europa. L’immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d’occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006] 

sabato 21 novembre 2020

Ricordi singolari in proposito del deputato contadino Abbo e del figlio Libero

Borgomaro (IM) - Fonte: Wikipedia

[...] "Petren" Abbo * il primo deputato contadino socialista del Ponente ligure che entrò in Parlamento nel 1919 e successivamente aveva aderito al Pci. Coloro che hanno conosciuto Petren lo ricordano anche per la sua voce decisa e robusta.
Posso testimoniarlo avendolo conosciuto negli ultimi anni di vita e vissuto con lui un episodio oratorio a Borgomaro. Correva la primavera del 1965 e il Pci aveva organizzato una serie di comizi per ricordare il ventennale della Liberazione.
Anche quel tardo pomeriggio festivo avevo approntato microfono e altoparlanti collegati a una batteria supplementare sulla Fiat 1100 di proprietà della Federazione del Pci. Il comizio era stato preparato sulla piazzetta oltre il ponte sul torrente. Avevamo convenuto che cominciasse Petren Abbo. Il pubblico era intervenuto in un numero rispettabile. Avevo sistemato il microfono di fronte all'anziano oratore, ma Petren, con un gesto studiato del braccio, lo aveva allontanato: non sia che il comizio venga "dopato" dal mezzo tecnico! La voce denunciava pur sempre le origini volitive, ma gli anni c'erano tutti e la fatica incominciava a pesare: Petren concluse il comizio con fatica, ma con le caratteristiche con cui l'aveva iniziato, senza strumentazione in appoggio. È stato l'ultimo comizio di Abbo, il deputato contadino che aveva segnato un'epoca.

[...]
Se a Tovo eri certo di trovare un pubblico numeroso e attento, al comizio in altre località dell'entroterra in diverse occasioni molti di noi avevano parlato di fronte a pochissime persone e non consolava sentirsi dire che molti non erano di fronte all'oratore ma, stessimo pur certi, avevano ascoltato l'orazione da dietro le persiane!
È anche accaduto di trovare una folla insperata che viene fatta "evaporare": è il caso di un comizio programmato a Lucinasco in occasione delle elezioni politiche del 1968.
L'appuntamento era per una domenica pomeriggio. Eravamo preparati a un risultato non esaltante perché il Pci nella località prendeva pochi voti, anche se era il borgo natale di Petren Abbo il quale per giustificare la nostra debolezza a Lucinasco soleva recitare il proverbio latino "nemo propheta in patria". Quando dalla statale, dopo Chiusavecchia avevamo deviato per la provinciale che conduceva a Lucinasco in cima alla collina, avevamo osservato che ci sopravanzava una colonna di almeno una dozzina di auto che "scortava" il candidato democristiano Emidio Revelli **, un avvocato di Taggia che si apprestava a conquistare un seggio in Parlamento.
Giunti a casa di Libero Abbo, il figlio di Petren, che fungeva da nostro referente, avevamo appreso che il comizio democristiano era stato programmato mezz'ora prima di quello del Pci. Eravamo giunti sotto il porticato, in piazza del comune e avevamo trovato una folla straripante per le dimensioni del paese, sicuramente superavano il centinaio. L'oratore Dc senza porre indugi aveva iniziato a parlare sapendo "di giocare in casa" per usare il gergo sportivo. La presenza del prete al comizio era eloquente e quella di molta gente era un fatto fuori della normalità, sicuramente lo era per Libero che non aveva saputo contenersi e aveva cominciato a subissare di improperi l'oratore dello scudo crociato in merito agli scandali del tempo. Nonostante la moglie cercasse di fermarlo, con il procedere del comizio Libero si esaltava e non ascoltava nessuno e le mie pressioni per farlo zittire non sortivano risultati e io paventavo che l'oratore, che si avviava a concludere il suo intervento, avrebbe saputo cogliere l'opportunità che gli era stata offerta per appiopparci l'appellativo di antidemocratici. E così era avvenuto: con gesto plateale, l'avvocato democristiano aveva invitato i presenti ad andar via. Per la verità non tutti avevano accolto l'invito, si erano fermati una trentina, una presenza su cui un comizio del Pci, senza l'iniziativa anticipatrice della Democrazia cristiana, non avrebbe potuto contare, ma è pur vero che l'effetto sgombero tra i più avvertiti aveva lasciato il segno.
[...]

* Pietro Abbo era nato a Lucinasco (Porto Maurizio) il 20 febbraio 1884 ed era deceduto in Lucinasco (Imperia) il 12 maggio 1974. l'Unità del 13 maggio 1974 lo ricordava come "un oratore poderoso". Quanto sopra è riportato da Danilo Bruno "Pietro Abbo il deputato contadino" ed.  Dominici Imperia - dicembre 1986.

** Emidio Revelli, avvocato nato a Taggia il 31 gennaio 1930, deceduto nel giugno del 2006. Era stato parlamentare dalla V all'VIII legislatura

Giuseppe Mauro Torelli (1), Viaggio tra generazioni e politica, 2017

(1) Giuseppe Torelli [Nato a Imperia il 13 marzo 1940]. Figlio di artigiani, ha conseguito la maturità scientifica nel liceo Vieusseux di Imperia. Eletto parlamentare nel 1983, ha partecipato ai lavori della Camera dei deputati nell'ambito del gruppo del Pci nella IX e X Legislatura. In Parlamento è stato componente della Commissione Interni e successivamente della Commissione Esteri. In tale contesto ha avuto l'incarico di responsabile dei problemi dell'ordine pubblico e delle forze di polizia e dei Vigili del fuoco, con particolare riferimento alla problematica della Protezione civile. In precedenza, a partire dal 1965, è stato per venti anni consigliere comunale di Imperia, svolgendovi lungamente la funzione di capogruppo. È stato Sindaco del capoluogo nel 1975. Eletto consigliere provinciale nel 1990, nell'ambito della legislatura ha svolto la funzione di Presidente della Commissione Affari istituzionali. Membro dell'Unione regionale province liguri, è stato eletto altresì nell'assemblea nazionale dell'Upi. Nella Federazione Giovanile Comunista Italiana (Fgci) ha ricoperto l'incarico di segretario provinciale e componente del Comitato Centrale. Nel Pci, dal 1972 al 1983 e quindi nel 1991, ha svolto le funzioni di Segretario provinciale e dirigente in organismi provinciali, regionali e nazionali, come altresì successivamente nel Partito Democratico della Sinistra e nei Democratici di Sinistra. Nel 1989 aderì alla mozione, voluta tra gli altri da Pietro Ingrao e Alessandro Natta, contraria alla svolta della Bolognina, operata dal segretario del Pci Occhetto. Tale mozione si affermò in provincia di Imperia nel congresso del 1990. È stato componente della Presidenza del Consiglio nazionale dei Garanti dei Ds a partire dal congresso di Pesaro del 2001. Al congresso Ds di Firenze del 2007 non aderiva alla proposta di dar vita al Partito Democratico. Dal 1998 era componente del Coordinamento nazionale dell'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra (Ars), di cui è stato tra i promotori e Presidente dell'Ars di Imperia intitolata ad Alessandro Natta. [Deceduto il 12 agosto 2019]. da Wikipedia 
 

giovedì 19 novembre 2020

Nelle pause della brezza il silenzio si posava sul silenzio

Ennio Morlotti, Francesco Biamonti e Joffre Truzzi nel 1960 davanti all'atelier di Cezanne - Fonte: Joffre Truzzi

“Il vento largo è un vento che non soffia mai nella stessa direzione e di conseguenza disorienta molto….E’ come il vento della vita che ti sospinge prima da una parte , poi da un’altra…” Francesco Biamonti

“Nelle pause della brezza il silenzio si posava sul silenzio”. Come fossero lì ad aspettare il loro lettore nella prima pagina di “Vento largo” appaiono queste parole, quasi volessero, da subito, introdurre e portare quel loro lettore dentro quel silenzio. E’ un istintivo pudore quello che si prova verso quelle parole, come se esse invitassero ad abbandonare la smania di dire e inducessero a ritirarsi in quel silenzio, rispettosi della sua intimità e ammirati dalla sua grandezza. Perché nell’intimità e nella grandezza di quel silenzio è la misura di “Vento largo”. Una misura in cui convivono quell’ intimità fatta di accenni sommessi e di intermittenze con se stessi e quella grandezza fatta di immersioni negli spazi e di sguardi che abbracciano vastità, le quali nel silenzio e del silenzio si nutrono.

Come ebbe a dire Calvino dell’ ”Angelo di Avrigue”, che fu il primo dei romanzi di Biamonti il quale, secondo Calvino, era “fatto soprattutto di cose non dette e di silenzi” anche di “Vento largo” che fu il secondo dei romanzi di Biamonti si può dire lo stesso. Perché l’arte di Biamonti sta proprio in quei silenzi eloquenti più delle parole con cui egli evoca l’interiorità delle cose e degli uomini e il mutevole succedersi che nei luoghi in cui quegli uomini vivono hanno l’aria, il cielo, la terra e il mare. Biamonti dialoga e fa dialogare i suoi personaggi come se egli, se essi, fossero in una continua e muta contemplazione e al tempo stesso interazione con ciò che vi è dentro e con ciò che vi è fuori di loro. “I personaggi scambiano frasi brevi, dialoghi enigmatici e sospesi – formule che evocano i ritmi antichi della vita e rispondono allusivamente alle interrogazioni che li tormentano” (Jacqueline Risset - “Biamonti una voce fuori dal tempo che leggeva il presente” - ne “Il Corriere della Sera” del 17.12.2004)

Perché quei personaggi se pur profondamente radicati in quei luoghi che sono i luoghi di Biamonti, i luoghi di quell’estremo Ponente Ligure in cui egli visse e che narrò, non sono per questo immuni dal “vento della vita” che come “il vento largo… disorienta molto”. Se pur di quei luoghi ne amino la selvaggia bellezza e ad essi si aggrappino, sebbene essi siano inesorabilmente destinati all’estinzione, tuttavia ciò non li affranca da un’ inquietudine a cui sono destinati a non sfuggire. In Biamonti non vi sono angosciose e laceranti disperazioni ma non vi sono neanche facili speranze. La sua è una poetica dell’instabilità e dello spaesamento che rimanda ad un universo esistenziale che non ha consolazioni o verità in cui rifugiarsi. Vi è caso mai una segreta saggezza incline al distacco dalle cose proprio per proteggersi e stemperare quell’amarezza che i personaggi di Biamonti sperimentano.

A un certo punto Vari, il protagonista di “Vento largo” dice: “C’è chi si rintana e c’è chi fugge”. Ed è in queste duplici condizioni della separatezza che sono infatti i personaggi di “Vento largo”, mossi, in quel loro rintanarsi e in quel loro fuggire, verso una ricerca che è ricerca in se stessi e di se stessi, ma mossi anche da una forza che è la forza che si prova verso le persone e le cose che si amano. Il rintanarsi è il rintanarsi di Vari che “ultimo testimone di una vita che se ne andava” vive da solo in quello sperduto borgo di Aurno ormai abbandonato. E nonostante che tutto intorno a lui stia morendo egli non lascerà quella terra e quel luogo e resterà a vivere lì, incapace di andarsene.

E’ un radicamento affettivo il suo che parla di legami forti con un passato che è già Memoria e di cui Vari è parte. Ma è anche un bisogno di stare con se stessi che ha in sé l’intimità propria delle nature solitarie ed è insieme l’attaccamento ad una bellezza che ha in sé quel senso di grandezza di cui si diceva: Aurno era “luminosa per via dell’altura, delle rocce e del sole”. Il fuggire è il fuggire di Sabel di cui Vari è innamorato, una figura femminile di una bellezza enigmatica e tormentata che, a un certo punto, scompare come avvolta nel mistero preda, come ella sarà, dei suoi segreti e delle sue ombre. E Vari ne sentirà tutta l’assenza e proverà il vuoto dato dalla mancanza di quel sorriso dolente di Sabel che dava senso e significato alla sua vita. Egli la cercherà e l’attenderà con paziente ostinazione ma invano.

E se pure a noi ci verrà detto dove Sabel è, a cosa è intenta e cosa la tormenta, per Vari Sabel si farà Sogno, fatto di premuroso desiderio: “Purchè torni! – si ripeteva…Mi dirà lei cosa devo fare” e di tenue ricordo: “Gli veniva in mente che Sabel si metteva qualcosa sulle labbra, un velo, un lembo di lenzuolo e dormiva. Misterioso mantello”. Ma “Vento largo” è anche un romanzo sul senso della libertà e Vari che è il primo ad averlo quel senso di libertà sa che la libertà di restare o andare, di esserci o non esserci è troppo privata e grande per cercare di mutarla e quindi si adatterà a convivere con quell’assenza: “<<Ha sempre amato chi vive e muore nascosto, – pensava, – su lei non devo più indagare. C’è una grandezza in quel silenzio>>”.

“Vento largo” è una storia di solitudini nonostante che tutti in quella piccola comunità che orbita intorno a quei luoghi siano parte di un tessuto di reciproche e mutue attenzioni. Perché tutti, anche i personaggi di contorno, hanno un loro tasso di enigmaticità che resta insondato, un non risolto che ne fa chi un rintanato, chi un fuggitivo, un senso di mistero che li fa soli con se stessi. Ed è proprio questo senso di enigma della vita che Biamonti esplora e racconta e quel suo tipico stile con cui egli dice senza dire, rende ed esalta la profondità di quell’enigma.

Perché il linguaggio, la lingua, i toni, le atmosfere in Biamonti sono forma che si fa sostanza, hanno un’espressività e un timbro che crea senso e dà senso più di quanto ne abbiano l’intreccio narrativo e le vicende narrate, tanto che “Vento largo” è un romanzo che in sé non ha una fine. Biamonti ebbe a dire: “ Sto cercando di affrontare la realtà del nostro tempo, senza più consolazioni, soltanto facendo la musica delle parole stesse…Voglio andare nel cuore dell’uomo, nel suo inferno, musicalmente” (J. Risset cit.) Ed è attraverso questo orchestrare e far uscire i suoni delle parole che egli evoca le cose, proteso verso il loro ascolto e la trascrizione di quell’ascolto.

Ma come è noto Biamonti è anche uno scrittore di immagini e per immagini, di “romanzi – paesaggio” lo definì Calvino e anche “Vento largo” in questo senso lo è. Ma anche qui attingere al paesaggio rimanda ad altro e si fa stile. Il paesaggio non è una cornice ma ad esso Biamonti attinge per nutrire la sua visione e per rendere i paesaggi interiori delle cose. Il paesaggio in Biamonti è fisico e metafisico, è poesia ma è anche realtà, rivela metamorfosi e cambiamenti. In questo senso Biamonti non è solo un cantore della Memoria e del Sogno, ma è anche un lettore della Realtà delle cose, dei cambiamenti sia fisici che epocali e quelle sue descrizioni dei paesaggi, dei luoghi, delle vite lo testimoniano, così come queste sue parole che ne rivelano, in questo senso, tutte le sue profonde consapevolezze: “Nei miei romanzi la natura è metamorfica, lo spazio è inficiato, il tempo è malato e il mondo è su un abisso” (J. Risset cit.).

Sergio Ciacio Biancheri, Francesco Biamonti

Ma in Biamonti resta comunque alta quella consapevolezza e capacità di sollevarsi sulle cose e coglierne la segreta grandezza al cui mistero abbandonarsi silenziosi, come nelle ultime righe di “Vento largo” che ci lasciano un’immagine forte e aerea di composta e calma pacatezza: “Veniva scuro, tornavano già i gabbiani dalle rumentiere; sorvolavano rocce. Intonacati d’aria andavano al mare ancora marmoreo come a un letto di pace.”

Il collezionista di letture

 

mercoledì 18 novembre 2020

I mulini silenziosi


Sono stata bene a Prelà, luogo che vedevo per la prima volta.
I mulini silenziosi nascosti dietro muri di pietra, gli archi dei ponti con le ombre e le sagome di asini carichi, che sono transitati per centinaia di anni; le pietre, tutte quelle pietre che entrano sempre in contatto con le mie emozioni più profonde.
La musica fragorosa dell’acqua che ti segue, ti affianca, ti sorpassa, ti racconta, con affanno, quasi per timore di non essere ascoltata, e allora cattura la luce e si fa catturare dagli sguardi.
Luoghi liguri eppure così diversi dai miei territori.
Non diversi, solo sconosciuti.
Lo sguardo non incontra altro che ulivi.
Roverelle, carpini, robinie sembrano stranieri, che faticano non poco per trovarsi uno spazio.
Pareti di ulivi a volte perpendicolari.
Chiese sperdute, una multitudine, come sentinelle sulle colline, quasi a controllare le valli sottostanti.
Gli abitanti come le case, come le chiese e gli ulivi, anelanti alla luce.
Una valle come un forziere che racchiude e protegge anziché pietre preziose, piccoli agglomerati attorno ad un campanile, come pecore attorno al pastore.
Ovunque guardi scopri manufatti di pietra nei luoghi più difficili da raggiungere.
Aggrappati come capre in salita, in precario equilibrio.
Sembra un desiderio infinito di raggiungere la cima per godere del sole che così difficilmente raggiunge quello che sta in basso.
Ero con Irene.
La gioia di essere immersa nel silenzio, nell’argento, nelle pietre affabulatrici, da leggere come libri, nelle sinfonie dell’acqua, ha ridato una forza che temevo perduta alle mie gambe.
Ho pensato che doveva essere difficile staccarsi da quei luoghi.
A casa invece sono stata investita, ripercorrendoli con il pensiero, da un grumo di malinconia, tristezza, un fastidio di ricordi amari, sconosciuti, ma tangibili. Da cui fuggire, altrove.
Avevo letto che la bellezza è un mondo tradito.
Che si può trovare solo dove gli uomini la hanno dimenticata.

E forse la bellezza sta nei miei occhi che sanno cercarla.

Gris de lin, febbraio 2019