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domenica 31 luglio 2022

Siamo stati costretti a questa tragica decisione dal sopravvenire di un imponente rastrellamento


Liberato due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, su decisione del direttore del carcere, in quanto “detenuto politico”, ritorna a casa ed è protagonista di una fondamentale fase di transizione dell’organizzazione comunista: il passaggio alla lotta armata. Argante Bocchio diventa partigiano, prendendo il nome di battaglia “Massimo”, ed è inviato in valle Sessera, nel Biellese orientale, presso il distaccamento “Pisacane”, comandato da “Gemisto”, nome di battaglia di Francesco Moranino <8.
[...] “Massimo” è protagonista di una serie di episodi salienti che posso qui, per esigenze di brevità, solo citare. Innanzitutto, la costituzione, tra la fine di dicembre del 1943 e il mese di gennaio del 1944, della cosiddetta repubblica di Postua <9: per circa tre settimane il territorio postuese si trova sotto il controllo partigiano, assumendo le caratteristiche di una vera e propria “zona libera”. Oltre al controllo del territorio esercitato dal distaccamento “Pisacane”, nella vallata vicino, sopra Coggiola, anche il distaccamento “Matteotti” è padrone del campo, per cui si può affermare che i partigiani controllino, sia pur per breve tempo, un territorio molto vasto, dalla valle Sessera a quella del Ponzone, abitato da qualche migliaio di persone, la stragrande maggioranza delle quali lavorano nell’industria tessile. Gemisto è il capo indiscusso ed è punto di riferimento per tutti: tiene frequentemente comizi di fronte alle fabbriche in appoggio alle richieste operaie e riscuote l’ammirazione e la fiducia della popolazione. Dopo vent’anni di silenzio imposto dal regime, emerge finalmente la voce di un antifascista alla testa di una forza già sufficientemente armata. Per gli operai della zona si crea una situazione inaspettata: i fascisti, pur essendosi riorganizzati nella Repubblica di Salò, sono concentrati a Vercelli e a Biella, nelle vallate di montagna del Biellese orientale si riassapora la libertà.
Il 25 gennaio 1944, però, capita quello che i partigiani si aspettano da tempo: ritornano, in forze, i fascisti. I partigiani li affrontano con le armi, ma sono costretti a ritirarsi e a tornare sulle montagne intorno a Postua.
Poiché la situazione è insostenibile, Gemisto prende la decisione di trasferire il distaccamento a Noveis, ma quando i fascisti avviano il grande rastrellamento del febbraio ’44, è inevitabile dividere gli uomini in tre gruppi, uno dei quali viene affidato a Massimo. Seguono per lui e i compagni mesi difficili, durante i quali viene devastata la casa di famiglia e sono arrestati i genitori, con la madre trattenuta in detenzione per oltre due mesi; il gruppo è costretto a spostarsi più volte dalla zona di Mezzana alla Serra e viceversa e in questi frangenti si viene a sapere dell’imboscata di Curino, avvenuta l’8 maggio, in cui Gemisto è gravemente ferito e nove partigiani sono uccisi.
Grazie all’aiuto della popolazione, nel frattempo, il campo base di Mezzana si rafforza, diventando anche un centro di reclutamento di nuovi partigiani. Nella seconda metà di maggio il distaccamento si ricongiunge a Postua. Il bilancio del primo inverno è molto pesante <10: dei venticinque iniziali sono rimasti solo una dozzina di partigiani. La popolazione ha pagato il prezzo delle rappresaglie, dei rastrellamenti, degli arresti e degli incendi. Ma la Resistenza continua e si deve ora provvedere all’addestramento dei nuovi arrivati. Con la liberazione di Roma (4 giugno 1944) e l’apertura (6 giugno) del secondo fronte con lo sbarco in Normandia, la situazione cambia totalmente e gli eventi subiscono un’accelerazione. I tedeschi, infatti, sono costretti a prendere forze dal fronte antipartigiano per portarle frettolosamente in Francia. Per il distaccamento partigiano iniziano i «dieci giorni che cambiano la faccia del Biellese orientale». La ritirata dei tedeschi obbliga i fascisti a smantellare i due grossi presidi di fondovalle, Borgosesia e Pray. Da un giorno all’altro i partigiani assumono il controllo del territorio compreso tra Borgosesia, Valle Mosso e Buronzo, in prossimità dell’autostrada Milano-Torino. La gente scende in piazza, li accoglie e li riconosce come le nuove autorità e da parte loro i partigiani esercitano le proprie capacità di governo e riorganizzano le file. Approfittando della pausa militare della zona libera, il distaccamento “Pisacane” si evolve sul piano militare: diventa battaglione, poi la 50a brigata “Garibaldi”, intitolata a Edis Valle. Gemisto ne rimane il comandante militare;
“Carlo” (Silvio Bertona) diventa il commissario politico; vengono nominati “Danda” (Annibale Giachetti) come vicecomandante e Massimo come vicecommissario.
L’esperienza della zona libera finisce ai primi di luglio: i partigiani si trovano a combattere in poco tempo due grosse battaglie, a Crevacuore e a Noveis. Con la prima tentano di bloccare le operazioni di rastrellamento, riuscendo a resistere solo due giorni; nella seconda si difendono meglio grazie alla collaborazione di partigiani delle formazioni di Moscatelli dotati di una mitragliatrice, piazzata in un buon punto sotto il monte Barone; sono però costretti a pagare il prezzo della cattura di sette uomini, che vengono fucilati.
L’estate del 1944 continua turbolenta, ma a fine agosto appaiono evidenti le difficoltà di tedeschi e fascisti nel mantenere il controllo del territorio libero dai “ribelli”.
[...] Alle difficoltà dell’approvvigionamento si aggiunge quella anche più grave della sicurezza delle formazioni dalle infiltrazioni di spie. È proprio in questo contesto che si verifica la tragica vicenda per cui saranno chiamati a processo Gemisto, Massimo e altri partigiani dopo la Liberazione. Il 26 novembre ’44, nei pressi di Portula, sono fucilati, dai partigiani di Gemisto, Emanuele Strasserra, Giovanni Scimone, Sergio Santucci, Mario Francesconi ed Ezio Campasso; i primi due sono agenti al servizio della Oss, l’organizzazione militare segreta americana <13, gli altri tre sono partigiani vercellesi, vicini agli ambienti di “Giustizia e libertà”. Qualche tempo dopo, il 9 gennaio ’45, a Flecchia, frazione di Pray, sono uccise anche le mogli del Santucci e del Francesconi, rispettivamente Maria Dau e Maria Martinelli. Nel dopoguerra la magistratura apre un’indagine sui due episodi che porta all’incriminazione di Moranino, all’epoca parlamentare e inizialmente protetto dall’immunità, ed altri, tra cui Bocchio e Bertona, contro i quali viene emesso un mandato di cattura il 10 maggio 1949, ineseguito per irreperibilità.
[...] Non si è trattato di un normale procedimento giudiziario, perché ovviamente sul banco degli imputati sembra finita la Resistenza biellese e non solo. Bocchio, nel raccontare la vicenda, insiste sui sospetti derivati da alcuni episodi in cui sono stati coinvolti i tre vercellesi, in particolare un lancio di armi in una zona che hanno detto essere da loro controllata, ma che era vicinissima alla città e ai nazifascisti. «Nemmeno un bambino avrebbe organizzato un lancio simile vicino ad una zona dove non c’era un presidio, bensì una presenza militare tedesca e fascista considerevole», commenta. Il lancio ha luogo: arrivano due apparecchi inglesi e lasciano cadere le armi alla periferia di Vercelli, lungo le rive del Sesia. Mezz’ora dopo arrivano i fascisti e recuperano tutto. La cosa insospettisce, come anche il millantato passaggio di un intero reparto fascista alla causa partigiana e l’assenza di contatti tra i due genovesi e la missione alleata “Cherokee” <14. Si fa strada la convinzione che si tratti di spie. Prosegue Massimo: «Sollecitati dalle notizie provenienti dalla rete clandestina di Vercelli e dall’atteggiamento ambiguo dei sedicenti partigiani, che giravano liberamente in città, senza alcun apparente timore di essere arrestati, a differenza degli altri antifascisti, con l’accordo del Comando di Zona biellese e del tenente inglese Pat <15, giustiziamo i due ex tenenti, i tre che li seguivano e le mogli dei due che, da settimane, stavano in valle Sessera. Siamo stati costretti a questa tragica decisione dal sopravvenire di un imponente rastrellamento e dall’impossibilità di portarci dietro prigionieri nei nostri trasferimenti». La versione dei fatti di Massimo, riportata in termini sintetici, non risolve i molti interrogativi che incombono ancora oggi sulla tragica vicenda, meritevole di ben altra attenzione storica di quella che si ripromette l’articolo. Ai fini del nostro racconto, infatti, ci limitiamo a prendere atto delle conseguenze personali che l’inchiesta avrà per Massimo.
Riprendendo la storia della sua guerra partigiana, arriviamo al grande lancio del 26 dicembre 1944, organizzato in accordo con la missione inglese “Cherokee” e chiamato scherzosamente il “Santo Stefano dei miracoli”. Grazie ad esso, i partigiani sono finalmente decentemente armati, soprattutto di “sten”, mitragliette inadatte a una battaglia sul campo, ma efficaci per atti di guerriglia.
Poco dopo, il 6 gennaio 1945, inizia un nuovo imponente rastrellamento <16, messo in atto dai tedeschi e dai fascisti concentrati a Vercelli e a Biella. I partigiani decidono di spostare la 50a brigata che già opera in pianura ancora più a sud; la 110a brigata, con Massimo, occupa la Baraggia vercellese; la terza, la 109a brigata, forte di almeno centocinquanta uomini - la decisione più coraggiosa - cammina per giorni e giorni dalle montagne del Biellese al Monferrato, oltre il Po. L’operazione viene affidata al capitano Giberto.
La Liberazione e la latitanza in Italia
A marzo del ’45, i partigiani si preparano per l’atto finale. Gli Alleati stanno sfondando la Linea gotica e stanno avanzando anche russi e francesi. L’attacco degli Alleati ha successo. La XII divisione ha affrontato bene l’urto del grande rastrellamento. Ha subito delle perdite, ma il grosso della formazione si è salvato. Dal Comando della Zona biellese si propone una riorganizzazione degli incarichi: a Gemisto, fino ad ora comandante militare, in previsione del passaggio dalla guerra alla libertà si chiede di passare al ruolo di commissario politico; dopo una breve discussione, la proposta è accettata. Come nuovo comandante militare, si propone “Quinto” (Quinto Antonietti). Massimo da vicecommissario politico diventa vicecomandante militare, Giberto diventa capo di stato maggiore.
Nel mese di aprile si definisce il piano insurrezionale. La Linea gotica viene definitivamente sfondata con ventitré divisioni e gli Alleati contano anche su quanto possono fare i partigiani. Il compito dei partigiani delle formazioni biellesi è quello di controllare la ferrovia e l’autostrada Torino-Milano. Gli angloamericani sanno che i tedeschi si ritireranno da Genova e utilizzeranno tutti i mezzi per raggiungere Milano e Trieste e da lì mettersi in salvo in Austria. Il piano dei partigiani è denominato E27 <17, con gli obiettivi dell’eliminazione dei presidi repubblichini di Valle Mosso e Cossato, della difesa delle fabbriche, dell’occupazione di Biella e Vercelli.
Scatta anche l’appello del Cln all’insurrezione popolare, che prevede la messa in moto di tutta la rete clandestina, nonostante l’avviso contrario degli Alleati, che vogliono evitare una deriva troppo politicizzata degli eventi. Il rapporto con la locale missione si fa più difficile. Anche nel Cln, organo interpartitico composito, non tutti sono d’accordo sull’insurrezione popolare; prevale tuttavia l’opinione favorevole. Gli obiettivi primari sono, come si è detto, la liberazione del Biellese orientale e la resa del presidio repubblichino di Valle Mosso, che resiste a tre attacchi partigiani, prima di concordare la resa, con l’intervento di Quinto, Massimo e un imprenditore tessile che fa da mediatore. Dopo due giorni di trattative i fascisti sono condotti in un improvvisato campo di concentramento a Trivero. Liberato il Biellese orientale, si punta su Vercelli, città che ancora pullula di militari fascisti e tedeschi, dotati di armi pesanti. I partigiani dispongono le forze e si avviano verso la destinazione [...]
[NOTE]
8 Nel gennaio del 1944 si costituirà poi la 2a brigata d’assalto “Garibaldi”, composta da sette distaccamenti tra cui il “Pisacane”, in cui opera Argante Bocchio. Il “Pisacane”, assunto il nome di battaglione, diventerà, alla fine di giugno del 1944, a seguito dell’aumento dei suoi uomini, 50a brigata “Nedo” in ricordo del comandante Piero Pajetta. Nel novembre 1944 la 50a brigata “Nedo” si trasformerà nella XII divisione “Nedo” operante nel Biellese orientale, mentre nel Biellese occidentale opererà la V divisione “Piero Maffei”. Cfr. C. DELLAVALLE, op. cit., pp. 115; 147; 180; GIANNI FURIA - LUIGI SPINA - ANGELO TOGNA (a cura di), 60 anni di vita della Federazione biellese e valsesiana del Pci attraverso i suoi congressi, Biella, Federazione biellese e valsesiana del Pci, 1984, e Rapporti inglesi sulla Liberazione, in PIETRO SECCHIA - FILIPPO FRASSATI, La Resistenza e gli alleati, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 428.
9 Cfr. anche A. BOCCHIO, 25 gennaio 1944: cade il “governo” partigiano di Postua, in “l’impegno”, a. III, n. 4, dicembre 1983.
10 Sui rastrellamenti compiuti nel tentativo di sradicare le bande partigiane, cfr. SANTO PELI, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2004, pp. 59-60. Cfr. anche A. BOCCHIO, Il distaccamento di Gemisto nel dramma del primo inverno, in “l’impegno”, a. IV, n. 2, giugno 1984.
13 L’Oss (Office of Strategic Services) è il servizio segreto americano, che ha sede per l’Europa a Berna, alle dipendenze di Allen Dulles. Si veda GIORGIO CANDELORO, Storia dell’Italia moderna, vol. X, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 260 e MASSIMO RENDINA, Dizionario della Resistenza italiana, Roma, Editori Riuniti, 1995, pp. 110-111.
14 Sul ruolo della missione “Cherokee”, cfr. ANELLO POMA - GIANNI PERONA, La Resistenza nel Biellese, Parma, Guanda, 1972, pp. 298-302.
15 Patrick Amoore è indicato da Bocchio come “tenente”, ma in realtà è capitano e membro della missione di ufficiali britannici denominata “Cherokee”.
16 Cfr. anche A. BOCCHIO, Popolazione e partigiani del Biellese orientale nel rastrellamento del gennaio-febbraio 1945, in “l’impegno”, a. V, n. 1, marzo 1985.
17 Vedi A. POMA - G. PERONA, op. cit., pp. 401-402
.
Benedetta Carnaghi, Argante Bocchio. Una storia del Novecento in "l’impegno", n. 2, dicembre 2011, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia

venerdì 22 luglio 2022

Da più di quarant’anni si sapeva, infatti, che Moulin era stato tradito


Protetto dai servizi segreti americani, il capitano delle SS Klaus Barbie capo della sezione IV della Gestapo di Lione dal 1942 al 1944, condannato in contumacia nel 1952 e nel 1954 per crimini di guerra, era riparato in Bolivia dove, nel 1971, era finalmente scoperto da Beate Klarsfeld che premette affinché le autorità francesi, che conoscevano il nascondiglio dell’ex nazista fin dal 1963, ne domandassero l’estradizione. Fu solo nel 1983, grazie al cambiamento politico boliviano che aveva portato la sinistra al potere nel 1981, che la Bolivia acconsentì alla richiesta della Francia dove l’affaire Barbie, con la sua carica emotiva e cerimoniale, entrava subito nel registro del simbolico col trasferimento dell’imputato a Lione nella prigione di Montluc, luogo in cui erano avvenuti i crimini di cui era accusato.
Con l’elezione di François Mitterrand, il Paese aveva infatti conosciuto una nuova impennata della tradizione resistenziale che si esprimeva anche con il desiderio manifesto di un potere politico di offrire alla memoria collettiva un momento eccezionale come il giudizio che di lì a poco sarebbe stato portato contro Klaus Barbie, simbolo della barbarie nazista e della morte di Jean Moulin. <866 Lo Stato francese intendeva dunque, in nome di un impossibile oblio, offrire alle nuove generazioni una vera lezione di storia, sulla scia di quanto era avvenuto in Israele negli anni Sessanta con il processo Eichmann.
Questo l’avviso di numerosi ex resistenti e deportati che, con Simone Veil, condividevano il desiderio di un processo pedagogico, <867 senza intravedere gli effetti incontrollabili che si sarebbero presto manifestati e il cui innesco si trovava al cuore stesso dell’evento: gli otto capi di imputazione ritenuti contro Barbie riguardavano l’arresto, la tortura o la deportazione di civili, in particolare ebrei, mentre le imputazioni per i delitti commessi contro i resistenti, dunque combattenti volontari, erano interpretati, in osservanza a quanto decretato dal tribunale di Norimberga, come crimini di guerra e pertanto caduti in prescrizione.
La giustizia francese non considerava quindi la morte di Jean Moulin come parte del dibattito giudiziario e l’eventuale condanna di colui che aveva assassinato il martire nazionale sarebbe stata pronunciata nel nome di una memoria che si stava allora risvegliando e che a lungo era rimasta nell’ombra di quella resistenziale: la memoria della Shoah. <868 Ed è proprio in questa fase che la strategia di rottura <869 ideata dall’avvocato Vergès nel corso della sua carriera fa esplodere un conflitto tra giustizia e storia che sarebbe anche potuto rimanere latente. Qualche giorno dopo aver assunto la difesa di Barbie, Vergès dichiarava, infatti, che l’ex ufficiale nazista era entrato nella storia della Francia per aver arrestato Jean Moulin rigettando l’esclusione dell’«affaire Moulin» dal dibattimento a causa della definizione di crimine contro l’umanità che, per l’avvocato, poteva benissimo essere applicata anche per questo delitto che chiamava in causa il modo in cui Moulin era stato consegnato ai tedeschi, ovvero in virtù del tradimento dei compagni di lotta. <870
Vergès portava così il suo attacco alla memoria della Resistenza che non solo era stata esclusa dal processo, ma doveva anche cedere il terreno a un avvocato provocatore che utilizzava, con una modalità scandalistica, un argomento sensibile nell’opinione pubblica riacutizzando vecchie polemiche sulla compattezza del movimento. E lo faceva pubblicando "Pour en finir avec Ponce Pilate", millantando l’esistenza di documenti segreti che avrebbero confermato il tradimento ai danni di Jean Moulin. <871 Non si trattava certo di una rivelazione. Da più di quarant’anni si sapeva, infatti, che Moulin era stato tradito, ma i sospetti erano stati rivolti principalmente contro René Hardy, considerato da numerosi resistenti, malgrado i non-luoghi a procedere della giustizia, l’«uomo che aveva tradito». <872
Di fatto, negli anni precedenti il processo, la memoria della Resistenza era stata oggetto di attacchi sistematici in cui il fattore ideologico, determinato da una condanna senza sfumature del comunismo, aveva avuto un ruolo decisivo. <873 I resistenti reagirono alle provocazioni di Barbie con dichiarazioni, testimonianze e pubblicazioni. Anche René Hardy, l’«uomo che aveva tradito», prese la parola per mettere in discussione, nelle sue memorie, Raymond Aubrac. <874 Accuse che rinnovava nel film di Claude Bal Que la vérité est amère, offrendo a Vergès l’occasione di indirizzare i sospetti verso gli Aubrac che ottennero una condanna per diffamazione. <875 È a questo punto che Lucie Aubrac decise di reagire pubblicando un testo che sarebbe presto divenuto un elemento importante della controversia. La stessa esigenza di ristabilire la verità storica minacciata da Vergès portò Henri Noguère, che si sentiva chiamato in causa in quanto resistente e in quanto storico, a intervenire nel dibattito. Ciò che maggiormente lo avevo turbato non erano però le manovre diversive dell’avvocato di Barbie, che da sole non avrebbero giustificato una discussione storica, quanto la complicità di Hardy nella costruzione delle menzogne di Vergès con la sua partecipazione al film di Bal e la pubblicazione delle sue memorie. <876
Frattanto una decisione storica rivedeva, nel 1985, il concetto di crimini contro l’umanità e stabiliva che Barbie dovesse rispondere, oltre che delle precedenti imputazioni, di altri tre capi d’accusa, tra i sei di cui si era macchiato contro i resistenti, che per la particolare natura finivano col rientrare non più nei “semplici” crimini di guerra, ma nel quadro di una politica di egemonia ideologica di cui Barbie era stato un esecutore. Decisione che, se da un lato soddisfaceva alcuni, lasciava completamente scontenti altri.
Mentre Henri Noguère si felicitava per la possibilità che Barbie fosse giudicato anche per i crimini commessi contro i resistenti, <877 Serge Klarsfeld intravedeva invece nell’estensione del concetto di crimine contro l’umanità solo un modo per attenuare la specificità dei delitti compiuti contro gli ebrei così com’era delineata dai redattori della carta di Norimberga. <878 Vergès era perciò stato particolarmente abile nell’insinuarsi tra le incrinature della memoria collettiva dei francesi riuscendo a dar vita a un conflitto che avrebbe avuto inevitabilmente delle ricadute sulla portata pedagogica del processo. <879 Un processo che si prestava a divenire la scena in cui i conflitti del passato tornavano ad affrontarsi condizionando la lettura del presente. Da parte sua, Vergès desiderava processare Francia per crimini, specie quelli coloniali, che non gli sembravano meno gravi di quelli nazisti. <880 Lo stesso Barbie era solo una pedina in una battaglia in cui la posta in gioco non era, per l’avvocato, la condanna del nazismo e la memoria della Shoah, ma la dimostrazione della scarsa moralità di un intero Paese e in particolar modo di una Repubblica fondata su un mito, quello resistenziale, che si era rivelato corrotto. Ecco che allora l’accusato si trasformava in accusatore. <881
L’11 maggio 1987 aveva inizio la prima delle trentasette udienze che si conclusero il 3 luglio, dopo otto settimane, con un verdetto di colpevolezza per diciassette capi di imputazione. <882 Le tanto attese rivelazioni sul tradimento di Jean Moulin restarono insoddisfatte e riemersero solo negli anni Novanta. Il 4 luglio 1990, Vergès consegnava infatti al giudice Hamy, che avrebbe dovuto istruire un altro processo contro Barbie per l’assassinio di Bruno Larat, arrestato con Jean Moulin a Caluire, un memorandum di sessantatré pagine, in seguito ribattezzate testamento di Klaus Barbie. L’istruzione non ebbe luogo a causa della morte dell’imputato il 25 settembre 1991, ma il testamento cominciò a circolare nelle sale di redazione diffondendo l’ultima infamante accusa dell’ex ufficiale nazista: Raymond Aubrac, con l’aiuto della moglie Lucie, era il diretto responsabile dell’arresto di Jean Moulin. <883
Barbie, che non si era mai pentito per i suoi delitti, aveva tre buoni motivi per odiare gli Aubrac. Prima di tutto, il ruolo avuto da Raymond nella sua identificazione in un filmato realizzato dal giornalista Ladislas de Hoyos quando Beate Klarsfeld lo scovò in Bolivia nel 1972 e poi il fatto che la sua più cocente sconfitta gli era stata inflitta da una donna, Lucie Aubrac, che gli aveva sottratto non solo un nemico politico, ma soprattutto un ebreo (il vero cognome è Samuel, mentre Aubrac è una delle identità utilizzate durante la Resistenza e mantenuta anche dopo la guerra). <884
Fu in quel momento che Aubrac domandò per la prima volta la costituzione di una commissione di storici, specialisti della Seconda Guerra Mondiale, che avrebbe dovuto far chiarezza sulle insinuazioni di Barbie/Vergès mettendo fine alle calunnie. <885
[NOTE]
866 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., pp.229-231.
867 Dominique Gerbaud, Simone Veil: Faire le procès de l’idéologie plus que de l’homme, «La Croix», 8 février 1983.
868 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., pp.234-235.
869 Jacques Vergès, Strategia del processo politico, Einaudi, Torino, 1969. Per Vergès, la distinzione fondamentale che determina lo stile del processo penale è l’atteggiamento dell’accusato di fronte all’ordine pubblico. Se lo accetta, il processo è possibile e l’accusato spiega il proprio comportamento; se lo rifiuta l’apparato giudiziario si disintegra (Ibidem, p.15) ed è ciò che ha cercato di fare con il processo a Klaus Barbie il quale si dichiarava ostaggio non riconoscendo alla corte francese il diritto di giudicarlo. Barbie, nella strategia di Vergès, era un cittadino boliviano illegalmente detenuto in Francia e giudicato, grazie a una legge retroattiva inesistente al momento dei fatti contestati, per crimini risalenti a quarant’anni prima e dunque prescritti. In uno Stato di diritto, il processo Barbie sarebbe stato perciò impossibile. Cfr. Jacques Vergès, Je défends Barbie, Jean Picollel, Paris, 1988, pp.11-12. Per Claude Lanzmann, il vero accusato del processo è Jacques Vergès e non Klaus Barbie il quale, nella difesa di rottura del suo avvocato finisce per essere lui stesso una pedina nello spettacolare processo nel quale Vergès chiama in causa la Francia per crimini, ai suoi occhi, paragonabili a quelli del nazismo. Vergès, che ha scelto Barbie e non è stato scelto da Barbie che all’inizio della vicenda giudiziaria aveva un altro avvocato, non sarebbe per Lanzmann un difensore senza accusato, ma un accusato senza difensore. Cfr. Entretien avec Claude Lanzmann, Le masochisme de Vergès, in Bernard-Henri Lévy (a cura di), Archives d’un procès. Klaus Barbie, Globe, 1986, p.189.
870 Jacques Vergès, Étienne Bloch, La face cachée du procès Barbie, Samuel Tastet éditeur, 1983, p.16. 871 Jacques Vergès, Pour en finir avec Ponce Pilate, Le Pré aux clercs, Paris, 1983.
872 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., p.239.
873 Alexandre Adler, L’histoire à l’estomac, «Le Monde», 15 novembre 1996.
874 René Hardy, Derniers mots, Fayard, Paris, 1984.
875 Laurent Douzou, Lucie Aubrac, Perrin, Paris, 2012, p.249.
876 Henri Noguère, La vérité aura le dernier mot, Seuil, Paris, 1985, pp.11-13.
877 Henri Noguère, Les victimes et les bourreaux, «Le Monde», 3 janvier 1986.
878 Serge Klarsfeld, L’affaire Barbie. Serge Klarsfeld répond à Henri Noguères, «Le Monde», 15 janvier 1986.
879 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., pp.240-241.
880 Jean Edern Hallier, prefazione a J. Vergès, Je défends Barbie, op. cit., pp.VII-VIII.
881 Donald Reid, Resistance and Its Discontents: Affairs, Archives, Avowal, and the Aubracs, «The Journal of Modern History», n°77, March 2005, pp.97-137, p.106.
882 B. H. Lévy, Archives d’un procès. Klaus Barbie, op. cit., p.375.
883 L. Douzou, Lucie Aubrac, op. cit., pp.252-254.
884 François Delpla, Aubrac, les faits et la calomnie, Le temps des Cerises, 1997, p.27.
885 Pascal Convert, Raymond Aubrac. Résister, reconstruire, transmettre, Seuil, Paris, 2011, pp.625-626.
Frida Bertolini, Il ruolo e la funzione del falso nella storia della Shoah. Storici, affaires e opinione pubblica, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, in cotutela con l'Università Parigi X Nanterre, 2012

sabato 16 luglio 2022

Ma le due riunioni non permisero l'approvazione del piano politico presentato dai comunisti

Milano: tra Corso Sempione ed Arco della Pace

Tornato a Bologna informai Roasio, e insieme ci recammo a Milano per esaminare la situazione e portare le notizie raccolte a Padova.
Il 10 giugno [1943] si avvicinava, senza che potesse prendere corpo il vago disegno di utilizzare l'anniversario della entrata in guerra dell'Italia e della uccisione dli Giacomo Matteotti, per scatenare uno sciopero generale politico con manifestazioni di strada e pronunciamenti anche di reparti dell'esercito. Un manifesto, firmato PCI e PSI, chiamava i lavoratori ad azioni dimostrative: due minuti di silenzio al fischio della sirena delle ore 10 del mattino, non comprare i giornali, non uscire la sera dopo le 20,30. Ma non mi risulta quale diffusione tale manifesto abbia effettivamente avuto. In Emilia non credo che sia arrivato. Comunque l'invito non fu raccolto. In realtà mancavano le premesse politiche e organizzative di una tale iniziativa. I socialisti e gli azionisti opponevano la pregiudiziale repubblicana a una intesa unitaria con le forze liberali e cattoliche. Questi, attraverso i loro esponenti più autorevoli, erano sempre fermi su posizioni attesiste. La liquidazione della guerra spettava alla monarchia che l'aveva dichiarata. Il prezzo della sconfitta sarebbe stato durissimo, essi affermavano, e non conveniva che i partiti antifascisti dovessero assumersi questa responsabilità. Quindi, secondo la destra, bisognava limitarsi a promuovere l'intervento del re. Si sapeva che tentativi in questo senso, per ottenere questo intervento, erano già stati compiuti a Roma, da parte del gruppo di Bonomi e di certi ambienti militari, ma il re non si era impegnato o compromesso con affermazioni precise. Così era impossibile preparare, come avremmo voluto, un manifesto unitario di tutte le opposizioni per il 10 giugno. E del resto, anche se ci fosse stato l'accordo politico, mancavano le basi organizzative per tradurlo in azione. Dove stampare l'appello e in quanti esemplari diffonderlo? Ancora una volta si faceva sentire la sproporzione tra le necessità e le possibilità del momento e il grave ritardo organizzativo.
La venuta di Marchesi a Milano ci obbligò come centro interno a esaminare la situazione e a prendere delle decisioni. Negarville ed io fummo incaricati di avere con Marchesi un incontro, che si svolse nella sede della casa editrice Principato in corso Sempione. Convincemmo Marchesi a partire per Roma, dove avrebbe dovuto prendere contatto con i senatori Casati e Bergamini. Egli aveva già visto Casati a Milano, nella stessa sede della casa Principato. A Roma egli doveva insistere perché le pressioni sul re aumentassero in modo da ottenere al più presto un intervento per liquidare il governo fascista, con l'arresto di Mussolini e degli altri gerarchi, e promuovere la formazione di un governo di coalizione antifascista presieduto da Bonomi. I comunisti avrebbero dato il loro appoggio a tale iniziativa ed erano pronti anche a partecipare ad un governo di unità nazionale. Marchesi andò a Roma, prese contatto con i senatori Casati e Bergamini e assunse in questi colloqui le posizioni convenute con noi. Questo viaggio deve avere avuto luogo, secondo i miei ricordi, ai primi di giugno. Al ritorno a Milano ci riferì che la sua missione aveva suscitato una grande impressione. A Roma si parlava anche di un intervento dell'esercito e si facevano i nomi di Badoglio, Caviglia, Ambrosio.
Il mese di giugno passò in affannosi preparativi. Contemporaneamente, su tre piani diversi, si muovevano le iniziative per tentare di uscire dalla guerra.
In seno al partito fascista si andava raccogliendo quella che sarebbe stata la maggioranza del 24 luglio al Gran Consiglio. Era ancora presente l'illusione che, accantonando Mussolini, magari col suo consenso, sarebbe stato possibile agli stessi gerarchi fascisti trattare con gli inglesi e con gli americani il rovesciamento della alleanza. Il compromesso raggiunto da Churchill e Roosevelt con Darlan, nell'Africa del nord, costituiva un esempio, al quale gruppi di dirigenti fascisti si richiamavano. In verità, questa soluzione appariva sempre più irrealizzabile di fronte agli sviluppi de!le operazioni militari, e alle stesse reazioni politiche provocate dal compromesso fatto con Darlan. Comunque i gerarchi marciavano su questa linea, pensando di poter godere dell'appoggio del re e di certi collegamenti politici e finanziari mantenuti su scala internazionale.
Il re, muovendosi con estrema prudenza e senza mai compromettersi, teneva i contatti con tutti. Manifestava sempre a Mussolini la sua fiducia. Lasciava credere a Grandi di poter raccogliere la successione di Mussolini. Aveva ricevuto esponenti liberali, Bonomi e Orlando, ma soprattutto si orientava per la formazione di un governo di militari e di tecnici, contando sull'intervento all'ultima ora dell'esercito e della polizia.
Per evitare una successione fascista (Grandi), o una soluzione militare, bisognava che le forze antifasciste sapessero e potessero prendere in tempo una loro iniziativa politica e promuovere un intervento delle masse popolari.
Dopo il viaggio di Marchesi a Roma si arrivò, non senza ulteriori difficoltà, alla convocazione a Milano di una riunione con i rappresentanti dei partiti antifascisti. Questa si tenne il 24 giugno in corso Sempione presso l'editore Principato. Facemmo un ultimo pressante tentativo perché alla riunione andasse uno di noi due, o Negarville o io. Ma non ci fu modo di vincere la forza delle obiezioni di carattere cospirativo. Così, alla mattina del 24 noi due ci incontrammo con Marchesi, con il quale concordammo la scaletta del suo intervento e il programma di azione che doveva esporre ai rappresentanti degli altri partiti antifascisti. Alla riunione parteciparono: Casati per il PLI (allora Ricostruzione Liberale), Gronchi per la DC, Lombardi per il Partito d'azione, Basso per il MUP, Veratti per il PSI e Marchesi per il PCI. Marchesi espose, a nome del partito, il seguente piano di azione:
a) costituire un fronte nazionale, con un comitato direttivo a cui fosse affidata la direzione di tutto il movimento popolare;
b) lanciare un manifesto al paese per sollecitare l'azione insurrezionale;
c) organizzare un grande sciopero generale con manifestazioni di strada;
d) fare intervenire l'esercito a sostegno del popolo contro il governo fascista;
e) determinare, sulla base di questo movimento insurrezionale di popolo e di esercito, un intervento della monarchia, l'arresto di Mussolini e la formazione di un governo democratico che rompesse immediatamente il patto di alleanza con la Germania, concludesse un armistizio con gli alleati e ristabilisse le libertà democratiche. Questo governo doveva essere composto dai rappresentanti di tutti i partiti antifascisti, compresi i comunisti.
Ho preso l'elenco delle proposte comuniste, per non essere tratto in inganno dai ricordi, dal testo della relazione presentata al V Congresso del partito, del gennaio 1946. Il secondo capitolo, che riporta questo testo, «Dal 25 luglio all'occupazione tedesca», fu redatto personalmente da me; e allora, a poco più di due anni, i ricordi erano ancora freschi. Nessuno, del resto, ha mai smentito questa parte della relazione.
Le proposte di Marchesi suscitarono una viva discussione. I due elementi che caratterizzavano il piano politico presentato dai comunisti erano, contemporaneamente, l'appello al popolo, per una sua azione diretta, e la preparazione concreta di questa azione, e, d'altro lato, l'appoggio a un intervento del re che, premuto dall'iniziativa popolare, incalzato dal precipitare degli eventi militari, sarebbe stato obbligato a prendere un'iniziativa per formare un governo di unità nazionale, incaricato di fare l'armistizio, e di preparare la resistenza alle prevedibili reazioni tedesche.
Una seconda riunione si svolse il 4 luglio in via Poerio. Vi erano gli stessi partecipanti, con l'eccezione della DC, che mandò Mentasti al posto di Gronchi, e del PLI, che mandò Leone Cattani al posto di Casati. Ma le due riunioni non permisero l'approvazione del piano politico presentato dai comunisti. Marchesi si urtò sempre contro le stesse obiezioni. Socialisti e azionisti non vollero rinunziare alla pregiudiziale repubblicana (anche se si doveva fare una distinzione tra la posizione rigidamente attesista assunta da Basso del MUP, e quella più duttile presa da Veratti del PSI), e democratici cristiani e liberali al loro proclamato attesismo.
Invano si cercò, con colloqui separati, di persuadere le sinistre socialista e azionista che da soli non ce la facevamo a intervenire dal basso nelle prossime settimane, in tempo utile per condizionare lo sviluppo degli avvenimenti. E invano si cercò di convincere le destre, democratici cristiani e liberali, che rinunciare a premere apertamente sul re, anche con manifestazioni dal basso, significava lasciargli le mani libere per organizzare il colpo di Stato come avrebbe voluto, giungere a un governo di militari e di tecnici, ed essere tagliati via dalla partecipazione alle trattative per la conclusione dell'armistizio. Meglio così, rispondevano i liberali e i democratici cristiani, così non ci assumeremo delle responsabilità molto gravi che non ci spettano. Ma noi siamo interessati, incalzavamo, perché le trattative per l'armistizio procedano in un certo modo e giungano a determinati risultati, in modo da permettere all'Italia di partecipare alla guerra contro la Germania, guerra che non sarà evitabile perché i tedeschi cercheranno in ogni modo di mantenere il controllo del paese.
Le discussioni erano rese più difficili dall'orientamento personale di Marchesi, che tracciava una netta delimitazione tra le proposte che egli faceva a nome del partito e che riguardavano l'attualità, e le considerazioni che a titolo individuale faceva sugli sviluppi dell'azione comunista, da lui presentata come tutta orientata alla presa del potere con la violenza. Quando, dopo la prima riunione, Marchesi ci fece la relazione sull'andamento della discussione, fu candidamente sorpreso dalla nostra reazione critica. Perché non dovevo dire queste cose? Non riuscimmo a persuaderlo che non si trattava di non dire «queste cose», di nasconderle diplomaticamente, ma di non pensarle, perché esse erano fuori della prospettiva strategica del PCI, che era quella di avanzare al socialismo per una via di democrazia progressiva.
La «doppiezza», di cui tanto si è poi parlato nelle discussioni suscitate dal XX Congresso, non è stata una invenzione tattica di Togliatti, ma il risultato della sovrapposizione, non criticamente meditata, della linea di unità nazionale elaborata dall'Internazionale comunista a partire dal VII Congresso sulla vecchia visione di un'azione diretta per l'instaurazione della dittatura del proletariato. Il fatto che il PCI si andasse ricostituendo e riorganizzando con militanti restati per anni tagliati via dalle esperienze di elaborazione del centro del partito e dell'Internazionale comunista faceva sì che in questi compagni le due linee, la vecchia e la nuova, coesistessero, si intrecciassero, si confondessero in un rapporto variabile da compagno a compagno, secondo la diversa formazione culturale e le diverse esperienze (emigrazione, carcere, attività illegale all'interno o, addirittura, prolungata forzata inattività). La lotta per affermare coerentemente la linea politica della direzione assumeva una crescente importanza. Ma l'urgenza dei tempi ci diceva che questa lotta doveva essere condotca essenzialmente nella pratica esperienza della battaglia politica, ponendo concretamente i militanti e le organizzazioni di fronte alla necessità di attuare i compiti indicati dalla direzione e corrispondenti alla gravità della situazione in cui si trovava il paese.
La discussione con gli altri partiti era resa anche più difficile dalla necessità di osservare le norme cospirative. Gli arresti di compagni e degli altri militanti antifascisti continuavano, e ciò ci ricordava la esigenza della cautela, anche se l'urgenza dei tempi esigeva una maggiore scioltezza di movimenti. In fondo, malgrado le nostre impazienze, dovevamo riconoscere che Francesco aveva ragione di essere severo e puntiglioso nell'esigere il rispetto di certe elementari norme cospirative.
Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, 1973, pagg. 105-109

venerdì 8 luglio 2022

I primi rastrellamenti in grande stile evidenziarono la debolezza del movimento partigiano piemontese


Un capitolo particolarmente significativo dell'esperienza umana e politica di Edoardo Martino è rappresentato dalla partecipazione alla guerra di liberazione come comandante di una divisione partigiana, la divisione autonoma Patria, formazione militare associata dalla storiografia alla Democrazia Cristiana e alla resistenza “bianca” piemontese. <81 Si tratta a tutti gli effetti dell'esperienza che segnò il punto di svolta, la trasformazione da comandante “Malerba” a parte viva della nascente Democrazia Cristiana alessandrina (anche se non mancano testimonianze della proverbiale ritrosia di Martino nei confronti della politica, come emerge da alcune corrispondenze private). <82
I documenti conservati presso l'abitazione privata di Edoardo Martino e descritti in appendice permettono di ricostruire le caratteristiche e le modalità con cui questo gruppo partecipò alla guerra di liberazione nella provincia di Alessandria, delineando la storia di un gruppo partigiano la cui azione non può essere circoscritta alle azioni militari messe in atto durante la guerra di liberazione.
Mi propongo quindi di tratteggiare un profilo ideologico della divisione Patria che integra, rendendo ragione dell'avvicinamento di Martino alla Democrazia Cristiana e la definizione del suo profilo politico, concentrandomi sulle tre caratteristiche indicative che definiscono l’ideologia che animò l’azione della divisione Patria e del suo comandante. Non prima, però, di aver individuato le caratteristiche salienti del movimento resistenziale in Piemonte e in provincia di Alessandria, per meglio contestualizzare l'azione della formazione partigiana guidata da Martino.
1. La Resistenza in Piemonte
La continuità tra la dissoluzione del Regio Esercito e l’inizio del movimento partigiano è sicuramente un tratto peculiare della resistenza piemontese. Roberto Battaglia coglie tale peculiarità nella pronta risposta dei militari in un processo di maturazione culminato nel momento in cui «aggiungendo alla “guerra” e alla “patria” quell’aggettivo di “fascista”, lo stesso regime aveva contribuito a vanificarne il significato, distruggendo l’idea di una collettività nazionale con obiettivi ed esigenze superiori anteposte a quelli di una singola fazione politica, sicché la guerra si era ridotta a un fatto individuale, in cui l’elemento determinante dell’impegno era l’adesione personale e convinta al fascismo». <83 A ciò va aggiunto un fattore contingente: la IV armata che si stava ritirando dalla Francia rimase sorpresa dall’armistizio ai piedi delle Alpi, ragione per cui quando venne sciolta dal generale Vercellino i suoi componenti che compresero la situazione che si stava delineando si disseminarono nei paesi di fondovalle per poi risalire verso i passi alpini. Rispetto all’attesismo degli ufficiali più alti in grado è doverosa una sottolineatura sulla condotta coraggiosa di molti altri soldati, ufficiali effettivi e di complemento che imbracciarono le armi contro l’occupante tedesco nonostante le reazioni scomposte e incomprensibili dei loro comandanti. <84
L’esperienza della guerra fascista ha accomunato una intera generazione, ragione per cui è legittimo interrogarsi rispetto ai militari e alla «misura» della loro adesione, potremmo dire la «quantità» del loro fascismo, per determinare la qualità del loro successivo impegno antifascista.
[...] Tuttavia, nonostante questo tratto «militare» della resistenza piemontese, la prima formazione che troviamo costituita e stanziata fin dal 12 settembre 1943 fra Valle Gesso e Valle Stura è Italia Libera, composta da una dozzina di civili, azionisti, capeggiati da Duccio Galimberti. Anche loro iniziano la loro avventura partigiana dopo essersi rivolti ad alcuni ufficiali effettivi, e di fronte al rifiuto di guidare la spedizione si pongono come primo obiettivo di organizzarsi solidamente e adeguatamente alla vita in montagna, costituendo il primo nucleo di quelle che saranno le divisioni Giustizia e Libertà del Cuneese.
Nel torinese ebbero immediato successo le iniziative del tenente Pompeo Colajanni (Barbato) <89 con un’ottantina di ex militari quasi tutti di origine meridionale. In val Chisone si insediò la banda Sestriere, composta esclusivamente di militari o graduati del corpo degli alpini, comandati dal sergente Maggiorino Marcellin (Bluter) <90. In Valsesia, spostandosi verso la parte orientale della regione, Cino Moscatelli <91 con un gruppo di ventidue ribelli costituì il primo nucleo delle future formazioni garibaldine della zona, mentre e nella val d’Ossola spicca tra i primi organizzatori Filippo Beltrami <92, che trasforma gli sbandati della zona in una formazione efficiente.
Gli sbandati della IV Armata si concentrano invece nella zona di Boves, presso Cuneo; spesso sono ancora in divisa. Fra loro troviamo un buon numero di ufficiali effettivi, si favoleggia di un imminente sbarco alleato in Liguria e di divisioni alpine ancora intatte e attestate sui monti; ma il 19 settembre di fronte all’attacco tedesco ogni illusione svanisce, la resistenza resta affidata a un pugno di uomini capeggiati da pochi ufficiali subalterni, tra cui si distingue il sergente Ignazio Vian <93; i tedeschi, sorpresi dal contrattacco, sfogano la loro rabbia sulla popolazione di Boves, incendiando l’intero paese e uccidendo 24 persone.
Questa prima fase si può definire «ribellistica», e consiste in un periodo di assestamento e di chiarificazione che perdura fino al dicembre del 1943, favorita dall’inerzia delle truppe nazifasciste. La reazione contro i primi nuclei partigiani è infatti particolarmente lenta, nella convinzione che si sarebbe dileguata ben presto «questa assurda velleità di voler combattere senza armi e senza mezzi contro il più potente esercito del mondo» <94. Questi primi sparuti gruppi di resistenti «in divisa» invece diedero origine alle prime formazioni autonome piemontesi, subendo massicce operazioni di rastrellamento tra l’8 settembre 1943 e la primavera del 1944: i tedeschi miravano infatti «a ripulire dai partigiani le vallate piemontesi» <95, segno che erano diventata una minaccia da neutralizzare.
I primi rastrellamenti in grande stile evidenziarono la debolezza del movimento partigiano piemontese, basate su forme elementari di resistenza delle bande, abbarbicate sulle posizioni di montagna e incapaci di manovra. Pareva impossibile dare vita a un esercito partigiano, ritenendo necessario limitarsi a un’opera organizzativa dei suoi quadri futuri e sciogliendo momentaneamente le formazioni e privilegiando la guerriglia con piccole squadre di sabotatori.
Questa tesi venne esposta nel convegno di Valle Pesio, alla fine di gennaio 1944:
"Là un ufficiale che era stato fra i più brillanti esponenti della banda di Boves sosteneva che, visti i risultati del primo esperimento, bisognava abbandonare l’idea di costruire o mantenere delle formazioni numerose, composte in prevalenza da «uomini»: secondo lui la miglior cosa sarebbe stata formare dei piccoli nuclei di sabotatori e di terroristi, composti esclusivamente di ufficiali, con al massimo qualche uomo per i bassi servizi. Questa idea (condivisa del resto da molti anche altrove, specie fra i «militari») trovò largo seguito fra i presenti al convegno, ma i politici la contrastarono decisamente: la guerra partigiana doveva essere la guerra del popolo italiano; per quanto possibile essa doveva essere impostata e mantenuta su basi e in termini tali da interessare e coinvolgere il maggior numero di persone". <96
I primi difficoltosi passi nella guerra di liberazione evidenziano una prima differenziazione nel fronte dei «ribelli»: da una parte vi sono gli ufficiali effettivi che pur avendo intrapreso la guerriglia continuavano ad essere legati a una concezione legalitaria della guerra, convinti che occorresse affrontare la problematica della preparazione delle «reclute» <97 nella convinzione che ogni azione, se poteva ottenere risultati bellici irrisori, rischiava soprattutto di mettere a repentaglio la sicurezza delle popolazioni. Dall’altra parte invece vi era l’ala politica dei sostenitori della «guerra per bande», dei ribelli il cui nome «corrisponde alla realtà di fatto, indica la funzione ancora polemica o di eversione violenta di ogni struttura tradizionale che i primi partigiani si sono assunta» <98.
La primavera del 1944 portò con sé anche una nuova consapevolezza da parte nemica: la ribellione andava stroncata sul nascere con un’offensiva a vasto raggio, caratterizzata dal contemporaneo sfondamento frontale e dall’aggiramento sulle ali, al fine di non lasciare scampo all’avversario. Al 7 marzo l’operazione investì le valli di Lanzo, al 13 si spostò in Val Casotto, successivamente in Val Varaita. Nella Val Casotto, dove era stata adottata la tattica della difesa rigida frontale, i volontari subirono un rovescio senza precedenti, perdendo i due terzi degli uomini, e solo una esigua schiera di superstiti al comando del capitano Enrico Martini Mauri riuscì a rompere l’accerchiamento e a riparare nelle Langhe. In Val Varaita e in Val di Lanzo le perdite furono minori, ma le bande uscirono dagli scontri disarticolate e scosse.
Nonostante la «batosta» primaverile, l’attività di organizzazione andava via via migliorando, le formazioni e le bande andavano adottando strutture di comando più vicine a quella profilata dal Comitato, pur mantenendo alcuni caratteri originali. Il Comitato Militare gettò le basi, tra il gennaio e il marzo del 1944, del Corpo dei Volontari della Libertà piemontese, nonostante si profilasse all’orizzonte una ulteriore battuta di arresto per l’attività cospirativa: la mattina del 1 aprile il comitato doveva riunirsi nella sacrestia del Duomo di Torino, ma forze imponenti di polizia e di agenti circondarono i dintorni e i cospiratori furono fermati uno ad uno. A seguito di un processo la cui sentenza era evidentemente già scritta la mattina del 5 aprile otto membri del Comitato vennero fucilati, e con la loro morte segnarono la dispersione di un patrimonio di contatti e piani intessuti in quei mesi.
Tuttavia il movimento partigiano si riprese prontamente, il comitato fu ricostituito, anche se ritoccato sulla base della rappresentanza delle varie correnti politiche <99, ereditando dal comitato del generale Perotti una situazione di maggiore concordia e unità d'intenti.
Nonostante colonne di migliaia di uomini avessero battuto le valli alpine e martellato le formazioni garibaldine e Giustizia e Libertà del cuneese non le avevano fiaccate; le bande della Val di Lanzo, temporaneamente ricacciate in alto, ritornavano ad assalire convogli e presidi nemici; quelle delle valli Pellice e Chisone e del Biellese si ingrossavano spostandosi verso la pianura; i volontari di Mauri operavano e crescevano nelle Langhe; in valle Maira, valle Stura e val di Gesso le formazioni GL avevano resistito asserragliate sulle cime tra Italia e Francia.
Stava spuntando «l’estate partigiana», e la caduta di Roma diede un’ulteriore accelerazione al processo di espansione delle formazioni partigiane e all’evolversi dell’organizzazione militare dei resistenti dell’Alta Italia.
[NOTE]
81 In merito alla partecipazione cattolica alla guerra di liberazione, in cui è ricompresa l'azione della divisione e delle brigate “Patria” si veda ad esempio S. TRAMONTIN, La Democrazia cristiana e la Resistenza, in Storia della Democrazia Cristiana, a cura di Francesco Malgeri, vol. 1, 1943-1948. Le origini: la DC dalla Resistenza alla Repubblica, Roma, Cinque Lune, 1987, pp. 66 e ss.; R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1974; PERONA G., Formazioni autonome nella Resistenza, Milano, Franco Angeli, 1996. In merito alla resistenza in Piemonte e in provincia di Alessandria si ricordano in questa sede B. GARIGLIO, I cattolici piemontesi nella guerra e nella Resistenza, in Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale, Atti del convegno, Torino 8-9 giugno 1995, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 15-32; G. PANSA, Guerra partigiana tra Genova e Po, Bari, Laterza, 1967; W. VALSESIA - F. GAMBERA, La Resistenza in provincia di Alessandria, Alessandria, ANPI 1976; M. GIOVANA, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, Milano, Feltrinelli, 1962.
82 In merito si veda la lettera di Luigi Manfredi a Martino del 25 agosto 1950, in Appendice, Per una descrizione del fondo Martino, Corrispondenza, fasc. 3.
83 R. BATTAGLIA, Storia della Resisenza italiana, cit., p. 39.
84 Ci viene ancora in aiuto un episodio raccontato da Nuto Revelli: «Penso al tenente colonnello Palazzi, e ne parlo a Piero. Palazzi con il suo prestigio, il suo coraggio, potrebbe ancora organizzare una resistenza contro i tedeschi. Palazzi è rientrato dalla Russia prima della ritirata, perché malato; non ha vissuto il disastro, ma ha conosciuto i tedeschi. In Grecia, in Albania ha dato il meglio di se stesso, non piegava la schiena di fronte ai comandi; si è fatto perdonare dai suoi ufficiali la scorza dura, il tratto da soldato terribile, esigentissimo. Corriamo da Palazzi, sono le 21. palazzi appare, in pigiama. Ha tardato ad aprire. Sull’uscio di casa ci sbarra l’entrata. Non parla, ci guarda di brutto. Con il pigiama a righe sembra un carcerato. “Colonnello, - gli dico - in caserma tutti scappano. Abbiamo fiducia in lei, venga in caserma. Con lei saremo in molti a sparare…”.Esplode “Fuori dai ciglioni, grida - via, non voglio sapere niente. Tutti pidocchi, tutti pidocchi, fuori dai coglioni”. Scendiamo a testa bassa, mentre continua a urlare, e ogni insulto è una staffilata. Abbraccio Piero. Piangiamo come due bambini.» Cfr. N. REVELLI, La guerra dei poveri, cit., p. 123.
89 Pompeo Colajanni, comandante Nicola Barbato 1906-1987. Già negli anni Venti, giovane comunista, si adoperò per la costituzione di un fronte unitario antifascista del quale facevano parte giovani repubblicani, socialisti, anarchici e comunisti e che per quest’attività subì arresti e perquisizioni. Ufficiale di complemento di cavalleria durante la seconda guerra mondiale, subito dopo l’8 settembre del 1943 organizzò in Val Po, presso Borgo San Dalmazzo, con i suoi soldati, altri ufficiali e civili, una delle prime bande partigiane (il distaccamento garibaldino "Pisacane"), da cui si sarebbero poi sviluppate, brigate, divisioni e raggruppamenti di divisioni. Il nome di "Barbato", divenuto comandante della VIII Zona (Monferrato) e vicecomandante del Comando militare regionale piemontese, divenne presto leggendario per le imprese delle formazioni al suo comando e per la competenza militare. Nell’approssimarsi dell’insurrezione generale ebbe il compito di investire e liberare Torino, coordinando le formazioni Garibaldi, GL, Matteotti e Autonome. Il mattino del 28 aprile Torino era completamente liberata e Colajanni veniva designato vicequestore. Pochi mesi dopo "Barbato" era sottosegretario alla Difesa nel governo Parri e lo fu anche nel primo governo De Gasperi. Sino alla sua scomparsa Colajanni non cessò mai l’attività politica: consultore nazionale, membro della Camera dei deputati, membro del Comitato centrale del PCI, deputato regionale in Sicilia, vice presidente dell’Assemblea siciliana, segretario delle federazioni comuniste di Enna e di Palermo, consigliere nazionale dell’ANPI, attivo nel Consiglio nazionale della pace.
90 Maggiorino Marcellin, nato a Pragelato (Torino) il 16 luglio 1914, deceduto a Sestriere (Torino) nel 2001, maestro di sci, Medaglia d’argento al valor militare. Di umili origini - montanari poverissimi, padre di antica militanza socialista - aveva dovuto emigrare in Francia durante il regime fascista, dovendo presto abbandonare la scuola per cogliere le occasioni d’occupazione che gli si offrivano. Allorché i suoi tornarono in Italia, Maggiorino trovò prima lavoro negli alberghi del Sestriere poi, quando nella località turistica si costituì la scuola di sci che sarebbe diventata famosa, divenne maestro di sci. Questo non gli impedì di tornare spesso, clandestinamente, in Francia, dove - a Cannes e a Lione - aveva mantenuto contatti con i circoli degli emigrati antifascisti. Al ritorno da uno di questi viaggi, Marcellin fu arrestato e, per evitare guai maggiori, si risolse ad arruolarsi negli Alpini. Tra richiami e punizioni per le sue posizioni antifasciste riuscì, soprattutto per la sua abilità di sciatore, a diventare sottufficiale. Partecipò con il 3° Alpini alle operazioni belliche in Francia e in Grecia. Rimpatriato per una ferita, Marcellin fu denunciato e arrestato per propaganda antifascista. Non fu processato perché intervennero i suoi superiori, che non volevano privarsi di un sergente maggiore così bravo a insegnare a sciare agli alpini. Sopraggiunto l’armistizio, Marcellin, diventato "Bluter", riuscì subito a raccogliere nuclei partigiani locali e poi a svilupparli, dando vita alla I Divisione autonoma "Val Chisone". Questa sarebbe poi diventata, al comando di "Bluter", la 44a Divisione Alpina Autonoma "Adolfo Serafino”. Ferito due volte in scontri con i nazifascisti, "Bluter" è stato decorato, oltre che con la Medaglia d’argento, anche della Bronze Star alleata. Dopo la Liberazione ha continuato, per molti anni, a fare il maestro di sci al Sestriere.
91 Vincenzo Moscatelli (Cino) nacque a Novara il 3 febbraio 1908. Comunista e antifascista, continuò la sua attività nel partito durante il regime. Il 26 luglio 1943, giorno successivo alla caduta del fascismo, improvvisò a Borgosesia una manifestazione popolare e, nei quarantacinque giorni del governo Badoglio, riprese a dirigere il movimento antifascista in Valsesia, ristabilendo i contatti con le fila dell'organizzazione. Dopo l'8 settembre fu tra i promotori del Comitato valsesiano di Resistenza (il futuro Cln) e svolse subito, impegnando tutti i suoi risparmi, un'intensa attività per l'organizzazione degli sbandati e della guerriglia, contro le forze che la Repubblica di Salò andava riorganizzando, a fianco dell'esercito di occupazione. Per i meriti acquisiti nella lotta partigiana, Moscatelli fu congedato con il grado di tenente colonnello e gli vennero conferite la medaglia d'argento al valor militare e due croci al merito di guerra. Dopo la Liberazione venne designato sindaco di Novara dal Cln. In seguito, dopo essere stato membro della Consulta nazionale, che doveva preparare l'elezione dell'Assemblea Costituente, e fu parlamentare in più occasioni. Morì a Borgosesia il 31 ottobre 1981. Per la biografia completa si veda il sito web dell’Istituto per la Storia della Resistenza di Biella e Vercelli, www.storia900bivc.it
92 Filippo Beltrami, nato a Cireggio (Novara) nel 1908, caduto a Megolo (Novara) il 13 febbraio 1944, architetto, Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria. Il primo riconoscimento, in qualche modo ufficiale, dell’esistenza nell’Italia occupata di un movimento partigiano, che preoccupava i nazifascisti, è comparso il 29 dicembre 1943 su La Stampa. In un articolo intitolato "I cavalieri della macchia" firmato da Concetto Pettinato, sul giornale torinese si ironizzava a proposito di un "artista lombardo" e di sua moglie, scorrazzanti in Val d'Ossola. Quell’"artista lombardo" era Filippo Beltrami, che sarebbe morto in combattimento un mese e mezzo dopo, cadendo con altri dodici compagni, tra i quali Gianni Citterio, Antonio Di Dio e Gaspare Pajetta. All’epoca capitano d’artiglieria, l’8 settembre del 1943 Beltrami si era trasferito, con moglie e figli, da Milano a Cireggio, in una villa di famiglia. Noto nella zona per le sue idee antifasciste, l’architetto fu ben presto avvicinato da alcuni giovani comunisti che, con un gruppetto di militari sbandati, avevano costituito una formazione partigiana sopra Quarna. Gli offrirono di comandare la piccola banda e il capitano accettò. A dicembre il gruppo contava già oltre duecento effettivi le cui azioni, come dimostrò indirettamente l’articolo su La Stampa, cominciarono a diventare un serio problema per le forze d’occupazione. Per questa ragione il Comando tedesco di stanza a Meina, approfittando del fatto che, nel corso delle ultime azioni, i partigiani di Beltrami erano stati duramente provati, decise di proporgli una sorta di salvacondotto per sgombrare dalla zona. Un colloquio tra il comandante partigiano e quello tedesco, Simon, si concluse con una frase di Beltrami, sferzante come quelle della lettera che aveva spedito a Pettinato dopo la pubblicazione dell’articolo: "…qui siamo a casa nostra, siete voi che dovete andarvene". Il giorno dopo l’incontro, i tedeschi attaccarono di sorpresa e con forze soverchianti la base partigiana di Megolo, che fu occupata soltanto quando i partigiani di Beltrami caddero ad uno ad uno o finirono le munizioni.
93 Ignazio Vian, nato a Venezia nel 1917, impiccato a Torino il 22 luglio 1944, maestro elementare e studente in Magistero, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria. Tenente di complemento della Guardia alla Frontiera, l’8 settembre 1943 Vian era in servizio a Boves. All’annuncio dell’armistizio, fu tra i primi ad attestarsi sulla Bisalta, la montagna che sovrasta l’intera zona, per apprestarsi a rispondere con le armi all’incombente minaccia tedesca. Raccolti attorno a sé circa 150 uomini, ne assunse il comando costituendo una delle prime formazioni partigiane e, contrariamente ad altri gruppi che avevano scelto di attendere, cominciò subito la guerriglia. Il 19 settembre la formazione di Vian venne duramente impegnata in combattimento dalle SS del maggiore Joachim Peiper, che avrebbe poi perpetrato la strage di Boves (uccisi 32 paesani inermi e incolpevoli, rase al suolo 44 case, nonostante Peiper si fosse impegnato a non effettuare rappresaglie dopo la restituzione di due SS catturate dai partigiani). Per oltre dodici ore i patrioti resistettero all’attacco nemico, condotto con l’appoggio dell’artiglieria. Mentre Boves bruciava e vi veniva commesso l’eccidio, Vian raggiunse la Val Corvaglia. Alla sua banda affluirono altri volontari, così da raggiungere la forza di una Brigata che continuò, senza tregua, la guerriglia. Nel marzo del 1944, i partigiani di Vian si unirono alle formazioni di Martini Mauri e il giovane tenente assunse la responsabilità di comandante in seconda del 1° Gruppo Divisioni alpine degli "Autonomi". In missione a Torino, il 19 aprile del 1944, il comandante partigiano cadde in mano dei nazifascisti. Venne ripetutamente torturato perché rivelasse nomi e luoghi della Resistenza, ma non cedette. Nel timore di non poter più resistere, dopo settimane di torture, si svenò nel carcere. Fu curato e tre mesi dopo l’arresto, quando a malapena riusciva a reggersi in piedi, i nazifascisti lo impiccarono a un albero nel centro di Torino.
94 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit, p. 190.
95 Ibid, pp.204-205.
96 D. L. BIANCO, Venti mesi di guerra partigiana nel cuneese, Cuneo, Panfilo, 1946, p. 63.
97 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 190. Questo tratto è comune alla preoccupazione che sembra emergere dalla bozza dell’ordine scritto dal comandante Malerba in merito all’arruolamento, in Appendice, Per una descrizione del fondo Martino, Resistenza, fasc. 10.
98 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit, p. 188.
99 Facevano parte del ricostituito Comitato militare il maggiore Gonella e Carlo Marsaglia per il PLI, Maurizio Fracassi per la DC, Pittavino per il PSI, Galimberti per il Pd’A, Pratolongo per il PCI. Inoltre vi erano, in qualità di consulenti militari, il generale Alessandro Trabucchi (Alessandri), il generale Carlo Drago (Nito), il maggiore Creonti e il colonnello Contini (Elle). Cfr M. GIOVANA, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, cit., p. 100.
Lodovico Como, Dall'Italia all'Europa. Biografia politica di Edoardo Martino (1910-1999), Tesi di Dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Anno Accademico 2009/2010

venerdì 1 luglio 2022

Le autorità italiane disposero l'arresto di Pignatelli per sottoporlo ad interrogatorio


[...] Nell'ottobre 1943 Borghese aveva già a disposizione 1000 uomini i quali vennero divisi in tre reggimenti di fanteria marina: il San Marco, destinato al fronte, il San Giorgio (costituito da anziani e mutilati) per la difesa costiera e un battaglione di Nuotatori Paracadutisti (N.P.) denominato ''Folgore''<64. Nonostante l'attivismo del Comandante e i suoi buoni rapporti con i tedeschi, che gli costeranno anche contrasti con gli altri gerarchi della RSI e addirittura alcuni giorni di carcere, solo il Battaglione Barbarigo, e al costo di dure perdite, riuscì ad ottenere l'autorizzazione a combattere sul fronte nel corso della battaglia di Anzio <65. Gli uomini della Decima furono impiegati principalmente in azioni contro i partigiani mettendosi in luce non solo per la particolare violenza ma anche per i numerosi abusi compiuti nei confronti della popolazione civile <66. Coloro i quali, pertanto desiderassero partecipare ad azioni dirette nei confronti degli Alleati avevano una sola opportunità: essere impiegati dai servizi segreti tedeschi con compiti informativi e di sabotaggio oltre le linee nemiche.
I futuri agenti venivano avvicinati da reclutatori (sia tedeschi che italiani) per azioni dirette esclusivamente dall'Abwehr o dal SD oppure venivano scelti dalle organizzazioni della RSI in azioni concordate con i tedeschi <67. Ad esempio possiamo citare il tentativo del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio della RSI, Francesco Barracu, di organizzare un gruppo di persone di fiducia, capitanate da padre Luciano Usai, con lo scopo di costituire una rete informativa politico-militare e di propaganda in Sardegna, sua regione di origine <68. Il gruppo venne addestrato e in seguito paracadutato nell'isola dall'Abwehr ma anche questa iniziativa tuttavia fallì poiché il gruppo venne arrestato dalle autorità alleate <69.
Ma quali erano le modalità di azione degli agenti inviati dai servizi tedeschi? Innanzitutto si deve distinguere da agenti sabotatori, ''lasciati indietro'' in seguito alla ritirata dell'esercito, muniti di esplosivi per specifiche missioni e in contatto diretto o attraverso intermediari con agenti muniti di radio-trasmittente, dagli agenti di spionaggio, solitamente inviati in missione attraverso le linee con il compito di osservare posizioni e numero di truppe, mezzi e sedi nemiche <70. Una terza categoria è invece l'agente doppiogiochista, il cui rendimento, secondo una relazione del controspionaggio del SIM era «difficilmente accertabile» <71. È probabile però che chi si presentava ai comandi alleati «di sua volontà, raccontando i particolari più minuti della sua missione [potesse] essere in azione di doppio gioco, specie per attività di carattere politico che fermentano e si irradiano in specie dai campi di concentramento ove di solito l'agente viene per principio avviato» <72. L'attività di CS era dunque indispensabile per contrastare le azioni nemiche. Essa, secondo il SIM, era dotata di "due armi: l'indagine e l'interrogatorio: quest'ultimo è la base e l'arma più decisiva; occorre imporre la propria supremazia morale e di capacità all'interrogando e non dimenticare di essere abbastanza curiosi e precisi secondo una logica corroborata dal sapere e dalla volontà. Gli schemi per gli interrogatori sono noti: essi sono dovuti al fatto che un interrogatorio deve fornire gli elementi più numerosi che sia possibile per le operazioni repressive successive e gli interrogatori conseguenti. L'interrogatorio vale per quello che apporta all’attività controinformativa non per quello che interessa direttamente l'agente inquisito, ormai individuato. Nei riguardi dell'agente inquisito l'interrogatorio è un dovere per la giustizia; nei riguardi di ulteriori azioni controinformative è sopratutto una necessita procedurale che comporta - in caso di trascuratezza - responsabilità di ordine morale e professionale. Sino ad ora in questo servizio l'informatore più sicuro è l'agente stesso con il vantaggio che - grazie alla capacità ed all'abilità di chi lo esamina - l'informazione ottenuta è controllata e indiscutibile" <73.
Analizzare un interrogatorio di un agente nemico è pertanto un utile strumento per comprendere sia le modalità di reclutamento, di addestramento ma anche per capire la personalità, le motivazioni e i desideri di coloro i quali decidevano di arruolarsi nei servizi di intelligence tedeschi, oltre che ovviamente per cercare di capire come operavano e cosa erano interessati a conoscere i servizi alleati (e italiani).
Un esempio utile può essere l'interrogatorio di Giorgio Pisanò, arruolatosi nel 1943 come paracadutista nella Decima Mas e nel dopoguerra giornalista, saggista, parlamentare e importante esponente del Movimento Sociale Italiano. Un caso non unico tra gli appartenenti al partito ad aver svolto attività di intelligence. L'agente che lo interrogò nel 1945 lo descrisse come «fervent fascist but claims for him Fascism represents Italy. He is intelligent, courageous and very observant. He is anxious to serve his country. Says he would prefer to be tried by Allies, even if it means going before a firing squad» <74. Come molti altri «ardenti fascisti» come lui, si era arruolato nella Decima Mas «partly because he wanted to do something spectacular for his country, and partly because 10th MAS was entirely Italian, and not under the away of the Germans» <75. Sono proprio i tedeschi però, nel giugno del 1944, ad offrire a Pisanò e al suo battaglione di paracadutisti la possibilità di essere addestrati per «lavori speciali» per i quali erano necessari «uomini di coraggio» <76. Al corso di spionaggio, tenuto da istruttori dell'Abwehr, Pisanò e i suoi compagni vennero istruiti nel riconoscimento di aerei, navi, carri armati, armi, uniformi, nel distinguere i distintivi delle unità e delle formazioni, nella lettura delle mappe e nello studio delle fotografie. Completato il corso di durata mensile, a Pisanò venne assegnata una missione in Puglia con il compito di «tenere gli occhi aperti» e notare i distintivi di truppe, veicoli e segnare la loro appartenenza alle truppe britanniche, americane, canadesi o indiane. Gli vennero fornite ventimila lire ed un fazzoletto necessario per il suo riconoscimento nel momento in cui sarebbe tornato presso i comandi tedeschi. In caso di fermo o cattura avrebbe dovuto raccontare di aver lavorato per l'organizzazione Todt ed essere scappato per cercare di raggiungere i familiari nel Sud Italia <77. La sua missione tuttavia fallì miseramente dato che, giunto nei pressi di un comando alleato in Toscana per ottenere i permessi necessari per raggiungere la Puglia, il suo nome e quello del suo compagno di viaggio risultarono essere presenti nelle liste degli agenti nemici <78. Secondo il sergente statunitense responsabile del suo interrogatorio, Pisanò, quando era stato interrogato dal SIM, si era rifiutato di ammettere di essere un agente, riferendo inoltre una storia differente a quella raccontata in precedenza. Negava inoltre di aver partecipato ad altre missioni anche se i compagni di cella riferivano che egli si fosse vantato di averne portato a termine due <79.
3. Sicilia e Sardegna: tra organizzazioni fasciste e rivolte anti-alleate
Fu nel corso del 1944 che i gruppi fascisti presenti nel Sud Italia cercarono di passare dallo spontaneismo all'organizzazione vera e propria, anche grazie ai collegamenti e i contatti che potevano crearsi tramite gli agenti inviati dai servizi di intelligence tedeschi.
Ancora una volta le isole furono capofila del movimento. Nel corso dei primi mesi del 1944, presso Sassari, le forze di sicurezza alleate e italiane arrestarono alcuni militari e civili di sentimenti fascisti che tentavano di raggiungere il continente <80. Un caso analogo a quello descritto in precedenza vista la loro appartenenza al Comitato regionale fascista. La loro attività si era però evoluta anche grazie al giornale propagandistico stampato in proprio e intitolato «La voce dei giovani» <81. Nella copia requisita dalle autorità leggiamo che il gruppo non era «legato ad alcun partito» e che il loro unico obiettivo era quello di perseguire il «bene della patria» <82. Non rivendicavano la propria appartenenza al fascismo ma il loro giornale clandestino attaccava direttamente gli Alleati, il governo di Badoglio e i partiti che facevano parte del Comitato di Liberazione Nazionale <83. Gli arrestati erano stati inoltre trovati in possesso di un memoriale sulla situazione della Sardegna post-armistizio, una lettera destinata al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio della RSI, Francesco Barracu, e un cifrario <84.
Il tentativo organizzato in seguito dallo stesso Barracu di inviare il gruppo di Usai sull'isola potrebbe far supporre che il gruppo, nonostante la cattura degli aderenti, fosse riuscito ad avere un contatto con la terraferma o almeno a far conoscere la loro esistenza ai vertici della RSI. Gli interrogatori ai membri del gruppo Usai condotti dal SIM non ci danno tuttavia alcuna conferma in tal senso <85.
In Sicilia, e in particolare a Catania, gli ex fascisti si erano riuniti in un partito, il Movimento Unitario Italiano (MUI) il cui nome tentava di mascherare le vere finalità del gruppo.
Esso si presentava come contraltare al Movimento per l'Indipendenza Siciliana (MIS) di Andrea Finocchiaro Aprile e alle diverse tendenze separatiste presenti nell'isola come anche si evince dal manifesto che invitava all'adesione al partito:
"Cittadini, mentre la Patria geme così prostrata e sanguinante che soltanto l'amore operoso e concorde di tutti gl'Italiani può mendicarne le piaghe e risollevarne le sorti, taluni, affamati dal tornaconto, vorrebbero accrescerne le sventure reclamandone la mutilazione. […] È infatti, illusione calcolare che l'indipendenza (?) della Sicilia vi arresterebbe o frenerebbe il progresso della giustizia sociale, preservando intatta ogni smodata illecita ricchezza. Ci siamo perciò radunati e Vi chiamiamo a raccolta per impedire di essere fuorviati dal corso della Storia ed esposti a maggiori calamità. L'unità d'Italia deve essere difesa ad ogni costo. Il Paese ha bisogno non di scissioni fratricide ma di raccogliersi in pacifico e fecondo lavoro per risorgere nel clima dell'ordinata libertà e della sana democrazia per ricostruirsi nello spirito di una concreta attuazione dei diritti del lavoro. La nostra stessa libertà, la possibilità di un giusto ordine sociale sono indissolubilmente collegate all'unità. Il separatismo è un pericolo" <86.
La realtà era invece diversa: secondo la Prefettura di Catania l'obiettivo del gruppo era quello di riorganizzare il partito fascista «sotto forma repubblicana». Esso infatti svolgeva «intesa propaganda fra gli ex fascisti e studenti […] riuscendo ad ottenere l'adesione di varie migliaia di persone e l'iscrizione all'organizzazione di circa 3000 individui compresa la sezione femminile» <87. Non solo, secondo il SIM, svolgevano anche attività di «penetrazione negli altri partiti per portarvi la disgregazione» <88. Non stupisce dunque che due membri del partito vennero arrestati dagli Alleati mentre tentavano di varcare le linee per cercare un contatto con le autorità nazifasciste <89.
La presenza di gruppi fascisti in Sicilia è d'altronde, come abbiamo visto, favorita dalla difficile situazione in cui si trovava l'isola, divenuta terreno fertile per la propaganda fascista, sia proveniente da elementi interni che dalla Repubblica di Salò. Il SIM si dimostrava preoccupato per il malcontento crescente provocato dalla presenza delle forze armate alleate nell'Italia meridionale, dal costo della vita elevato, dalla mancanza di cibo e dal mercato nero, che veniva sfruttato dai fascisti «per la loro propaganda», la quale faceva breccia specialmente tra i giovani <90.
Propaganda che non si limitava ad essere ''endogena'', manifestandosi tramite volantini e giornali propagandistici scritti a mano o stampati clandestinamente e scritte murali inneggianti al Duce e contro gli Alleati e il governo Badoglio, ma anche tramite volantini aviolanciati dagli aerei tedeschi nel Sud Italia e tramite le trasmissioni di Radio Tevere. Si trattava di una radio della Repubblica Sociale che aveva iniziato le sue trasmissioni nel giugno 1944 e che aveva assunto quel nome per dare l'impressione di trasmettere clandestinamente dalla Capitale, nonostante la presenza degli Alleati, ma che in realtà aveva sede a Milano. In particolare le trasmissioni repubblichine ponevano l'attenzione e ingigantivano la portata della attività di sabotaggio e di proteste contro gli Alleati che avevano luogo nel Sud Italia, fedeli alle parole pronunciate da Mussolini nel discorso al teatro Lirico di Milano il 16 dicembre 1944: «Quando noi, come soldati della Repubblica, riprenderemo contatto con gli Italiani di oltre Appennino, avremo la grata sorpresa di trovare più fascismo di quanto ne avevamo lasciato» <91. Si mettevano in risalto ad esempio le azioni del mitico ''o' scugnizzo'', sorta di Robin Hood fascista che metteva in difficoltà gli Alleati e la cui identità non dovrebbe probabilmente riferirsi ad un'unica persona ma ai diversi gruppi e singoli, in particolare giovani e giovanissimi, che si attivarono per sabotare l'avanzata degli angloamericani <92.
Furono proprio i giovani ad essere protagonisti della più seria rivolta avvenuta nel territorio italiano controllato dagli Alleati nel corso del secondo conflitto mondiale, e viste le premesse, non poteva che essere la Sicilia il suo luogo di origine. La classica goccia che fece traboccare il vaso fu la pubblicazione del provvedimento di chiamata alle armi per le classi dal 1914 al 1924 e che scatenò le proteste e i moti del ''non si parte'' <93. Un documento redatto dal Commissario della Commissione Alleata di Controllo in Sicilia, H. Carr, ci aiuta a capire l'evolversi della situazione nel dicembre 1944: "Widespread demonstrations and disturbances have occurred throughout the island during the period from approximately 10 DEC[ember] to date [20 Dicembre]. So far demonstrations with or without damage and conflict have been reported at approximately 55 places. Damage to public buildings at CATANIA was serious. […] Casualities so far have not been serious and to date might be estimated as 4 dead and 31 injured, mainly civilians. […] The demonstrations have been directed mainly against the present call-up of military classes. In a few cases the question of grain and bread may have been the sole or partial cause, and I feel that the difficult economic conditions are an underliyng contributary cause to all these disorders. In my opinion the primary reason for the resistance to the call-up is that the Sicilian does not want to fight. Secondary reasons are that the terms of the Armistice have not been made known, that the Sicilian does not want to fight to free the Mainland of the Germans, he does not relish leaving his family on a small allowance when food is scarce and prices prohibitive, he does not wish to fight for the existing Italian Government and so forth" <94.
Per il Commissario la rivolta non aveva dunque motivazioni politiche, nemmeno di tipo separatista anche se non escludeva la presenza di esponenti del MIS tra i fomentatori delle proteste. Allegava alla relazione però un interessante volantino propagandistico che era stato distribuito in città e provincia:
"GIOVANI SICILIANI!
Ancora una volta dopo lunghi anni di guerra, di sciagure e di miseria, si chiede, contro la volontà di un popolo, di spargere il nostro sangue. Come ieri il vile monarca ci impose di morire per la conquista di altri Imperi, oggi con la stessa viltà, ci impone di conservargli col nostro sacrificio quella corona che non ha il diritto di tenere, per il suo alto tradimento al popolo tutto. A noi giovani si uniscano le nostre madri ed i nostri padri. Il popolo tutto formi un blocco compatto per difendere questa gioventù vanamente destinata al macello. Noi non impugneremo le armi.
GIOVANI DI SICILIA,
siate tutti solidali nell'esprimere la vostra volontà non presentandovi. Pace Pane e Lavoro: Ecco quello vogliamo!"
Il contenuto del volantino si presenta dunque come fortemente antimonarchico e proponeva inoltre la tesi fascista del tradimento di Vittorio Emanuele. Questo spinge dunque ad indagare più approfonditamente sulla natura della rivolta, che sicuramente nacque come moto di protesta contro la leva ma che ebbe risvolti diversi. La rivolta non si limitò infatti alla provincia di Catania ma si propagò nei primi giorni di gennaio nella vicina provincia di Ragusa. Secondo una relazione dell'OSS inoltre, il malcontento della popolazione fu sfruttato «dai fascisti locali che ancora occupano gli uffici pubblici e dai fascisti recentemente rilasciati dai campi di internamento alleati» <95. Le rivolte ebbero carattere violento e soprattutto godevano di una certa organizzazione. Vennero assaltati gli edifici pubblici, compresa la Prefettura che venne presa d'assedio, nonché i camion di Carabinieri e dell'esercito italiano, i quali spesso non opposero resistenza <96. Le rivolte assumono un'importanza ancora maggiore se corrisponde al vero quanto riportato nella stessa relazione, a proposito della presenza di nazifascisti inviati dal Nord a Comiso, piazzaforte della rivolta. «The presence of Nazi-Fascist agents - scrive il relatore della nota - is proved by the fact that Fascist broadcasts gave details of the riot on the same day it broke out» <97. La dettagliata relazione dello Psychological Warfare Branch britannico era invece più cauta nel dare per scontata la presenza di attori non siciliani nelle rivolte, anche se sottolineava che il «recente revival del fascismo e delle agitazioni fasciste e naziste», fosse da annoverare tra le cause scatenanti le sommosse <98.
La rivolta venne stroncata dall'intervento dell'esercito italiano il quale però non riuscì ad eliminare del tutto i rigurgiti fascisti presenti nell'Isola. Solamente qualche giorno più tardi infatti, in un teatro di Palermo comparve il giornale clandestino dal titolo chiaramente fascista «A noi!-Foglio del partito fascista repubblicano sezione di Palermo». Il gruppo che stampava il foglio era composto da studenti giovanissimi (dai 16 ai 21 anni) i quali in precedenza avevano avuto contatti con il movimento politico Lega Italica, un partito sorto a Caltanissetta nel novembre 1944, di sentimenti monarchici, ma che in realtà nascondeva un'organizzazione fascista <99. Oltre alla vuota retorica che caratterizza la prima parte del giornale, la seconda parte, invece, intitolata «Perché siam fascisti?» è utile per comprendere le ragioni che spinsero alcuni giovani a lottare per la morente causa fascista (sia nel Sud Italia sia a fianco della Repubblica di Salò) e soprattutto è sorprendente per come, già nei primi mesi del 1945, fosse stata elaborata quella visione del fascismo che caratterizzerà molti dei giovani che aderiranno, nel dopoguerra, al Movimento sociale italiano:
"Molto spesso ci sentiamo chiedere: Perché siete fascisti? Perché vi fate difensori di un partito che ha perso oramai l’ultima battaglia? […] [Q]uel che ci preme adesso precisare è che noi non difendiamo un partito. È morto il partito nazionale fascista: su questo tutti d'accordo. Ma non si è spenta l'idea originaria, non è trapassato lo spirito rivoluzionario del fascismo; e di questa idea, di questo spirito ci sentiamo depositari, proprio noi, giovani di fede incrollabile che del fascismo abbiamo fatto la religione della nostra giovinezza e la nostra forza. Noi siamo fascisti […] perché il fascismo è giovinezza perenne, morale eroica di vita, audacia senza confini; perché fascismo è decoro della Patria, vaticinio sicuro di ogni vittoria; infine, perché fascismo significa Italia!" <100
Un'elaborazione dello spirito fascista molto simile dunque a quel «non rinnegare e non restaurare» in auge tra i neofascisti nei primi anni di vita del MSI e che contraddistingue la memorialistica dei reduci di Salò <101.
4. I movimenti fascisti nel Sud e la rete Pignatelli
Per descrivere i movimenti fascisti che si svilupparono nella Penisola italiana in concomitanza con l'avanzata alleata, si deve fare un passo indietro e ritornare agli ultimi mesi del 1943. Significativamente fu in Calabria, dove si era stabilito il già citato Valerio Pignatelli, e in particolare nelle cittadine di Nicastro e Sambiase (ora Lamezia Terme), che si videro i primi episodi di ripresa dell'attività fascista. Già nell'ottobre del 1943 un gruppo di giovani aveva organizzato degli attentati contro i giornali antifascisti «Era Nuova» e «Nuova Calabria», oltre a lanci di bombe a mano corredate da volantini inneggianti al fascismo <102.
Anche qui, come già in Sicilia e Sardegna, i primi gruppi erano soprattutto organizzazioni locali formate da qualche decina di aderenti i quali però cercavano di entrare in contatto sia tra di loro che con il Nord Italia. Casi esemplari, ad esempio, i gruppi scoperti dal SIM in Puglia in collaborazione con il Field Security Service e con il Counter Intelligence Corps. Il primo, e il più importante, è il caso del gruppo scoperto a Lecce nel gennaio del 1944. Un brigadiere del SIM era riuscito ad infiltrarsi tra gli aderenti fingendosi un agente dei servizi della Repubblica Sociale Italiana in collegamento con altri elementi fascisti presenti a Brindisi e, a loro volta, a disposizione di una trasmittente dotata di potenza sufficiente da raggiungere il Nord. Superando le diffidenze iniziali da parte dei giovani animatori dell'organizzazione, l'agente riuscì a ottenerne la fiducia facendo incontrare un loro esponente con il sedicente rappresentante del gruppo di Brindisi (in realtà un altro agente del SIM) e promettendo di farsi accompagnare da un loro uomo nel momento in cui sarebbe ritornato nel Nord per fare rapporto sulla sua missione <103. La sua attività sotto copertura permise di capire l'effettiva consistenza e gli scopi del gruppo: era nato nel mese di novembre del 1943 tra i giovani ex appartenenti alla Gioventù Italiana del Littorio e ai Gruppi Universitari Fascisti, inizialmente per discutere di politica. In seguito all'aumento di aderenti e simpatizzanti (circa 300 secondo i capigruppo, anche se in seguito gli arrestati saranno 38), venne deciso di creare una vera e propria organizzazione clandestina suddivisa in cinque gruppi. «Ogni capo-gruppo conosceva solo i propri dipendenti. Le riunioni e le decisioni erano prese da un consiglio formato dai capi-gruppo, questi poi comunicavano le decisioni agli elementi dei propri gruppi» <104. L'organizzazione si poneva come obiettivi quelli di:
"- organizzare una vasta rete di informatori allo scopo di raccogliere e fornire notizie di carattere militare all'esercito repubblicano fascista;
- fare opera di disturbo con azioni armate qualora i nazisti [sic!] avessero avuto il sopravvento;
- preparare ordigni esplosivi per effettuare atti di sabotaggio nelle retrovie alleate" <105.
Le intenzioni del gruppo rimanevano tuttavia solo sulla carta per la mancanza di adeguati mezzi finanziari a disposizione nonché per la scarsità di munizioni e materiale esplosivo da adibire al sabotaggio di eventuali obiettivi strategici individuati dai servizi nazifascisti <106. Il gruppo pertanto si dedicò prevalentemente alla scrittura di manifestini di propaganda fascista nonché, per il tribunale militare di Bari che li giudicò nel giugno del 1944, all'attività più grave, ovvero «alla raccolta e al tentato invio nell'Italia occupata, di informazioni riguardanti: la situazione politica attuale; l'aeroporto di Galatina […] e altre notizie di carattere militare» <107. Soprattutto per questo le autorità italiane e alleate decisero di stroncare sul nascere l'organizzazione, utilizzando come pretesto (e come ulteriore prova) il tentativo di uno dei capigruppo, Fabio D'Elia, di oltrepassare le linee alleate assieme all'agente sotto copertura del SIM <108. Dei 38 arrestati solamente 9 (gli esponenti principali) vennero condannati, anche se a pene gravi che variavano dai 6 ai 20 anni di carcere per reati di spionaggio, favoreggiamento bellico e ostilità ai danni degli Alleati <109.
Contemporaneamente a Squinzano, a circa 20 chilometri da Lecce era attiva, almeno all'apparenza, un'ulteriore organizzazione e che prendeva il nome di «Comitato segreto di azione del partito fascista repubblicano». Il suo capo-zona era un certo Enzo Politi, ex ufficiale dell'esercito, il quale sosteneva di essere in contatto con il capo politico del movimento, l'ex ispettore federale del PNF Francesco Fato. Secondo Politi, il movimento, presente nelle provincie di Lecce, Brindisi e Bari, avrebbe goduto di addirittura 18000 aderenti i quali potevano contare di un arsenale composto da «3000 moschetti (dati in consegna a 3000 aderenti, facenti parte del personale fidato a disposizione); 84000 caricatori (distribuiti in ragione di 28 per ciascuna persona); 1000 tra fucili mitragliatori, pistole mitragliatrici e fucili automatici di marca varia, ma di calibro uniforme» <110. Le dichiarazioni di Politi suscitavano molta perplessità da parte del SIM e degli Alleati, soprattutto perché sembrava strano che il gruppo leccese, a cui inizialmente si pensava appartenesse Politi, non sapesse dell'esistenza di un'organizzazione a loro così geograficamente vicina, apparentemente molto più sviluppata ed equipaggiata. Politi pertanto venne ritenuto dal SIM un millantatore anche se le autorità alleate disposero l'arresto di dieci persone (compresi sia Politi che Fato), le quali però vennero in seguito rilasciate per insufficienza di prove <111.
La decisione del tribunale italiano non venne colta con favore dalle autorità della Commissione Alleata di Controllo. In particolare le autorità italiane vennero accusate di aver protetto i militari implicati nei gruppi fascisti. La presunta imparzialità delle corti militari italiane venne pertanto sfruttata dall'amministrazione militare alleata per reclamare, a favore delle proprie corti, il diritto di giudicare casi simili <112. Fu questo dunque il caso del gruppo scoperto sempre in Puglia, a Barletta, e che portò, nel mese di aprile, all'arresto di una quindicina di appartenenti al gruppo. L'organizzazione era sorta nel settembre del 1943 con lo scopo di:
"- combattere con tutti i mezzi ed in tutti i modi possibili gli invasori angloamericani ed i loro prezzolati alleati;
- tenere sempre desta nel popolo con opera e propaganda la fede nella vittoria delle armi ricostituite dell'Italia fascista repubblicana;
- preparare armi e materiale di sabotaggio;
- seguire attentamente l'attività dei partiti antifascisti, tenendosi pronti ad entrare in azione qualora si fosse presentata l'occasione favorevole" <113.
La perquisizione svolta dagli agenti del SIM aveva portato alla luce importanti documenti come lo statuto dell'organizzazione contenente la formula del giuramento, lo scopo dell'organizzazione, gli organi direttivi e di controllo, i doveri degli iscritti, lo schedario cronologico degli aderenti; un diario del gruppo contenente la data e il luogo delle adunate, le questioni discusse, provvedimenti adottati e inoltre un libro cassa contenente il pagamento delle quote versate dagli aderenti e le spese sostenute <114. L'aderente doveva dunque giurare, nel nome di Dio e dell'Italia, "di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista. Giuro inoltre di osservare lealmente lo statuto del Gruppo a cui appartengo; di adempiere a tutti i doveri del mio statuto al solo scopo del bene inseparabile del Duce e della Patria fascista e repubblicana; di non tradire giammai i miei camerati e di non svelare a nessuno i segreti del mio partito" <115.
Non si conosce l'esito giudiziario della vicenda, pertanto non si possono fare paragoni sulla maggiore o minore durezza delle corti alleate rispetto ai tribunali italiani. Ciò che risulta sicuro è l'internamento degli aderenti al movimento, assieme ad altri fascisti giudicati pericolosi, nel campo di Padula in provincia di Salerno <116.
Anche in Calabria, come abbiamo visto, erano attive cellule fasciste le quali, grazie all'azione di Valerio Pignatelli e di persone a lui fedeli, rappresentarono il gruppo più attivo, collegato e pericoloso presente nel Sud Italia <117. Gli attentati compiuti dai giovani a Nicastro avevano allertato i Carabinieri, i quali decisero di indagare sui responsabili, soprattutto perché non furono atti isolati ma perdurarono sino alla seconda metà di aprile del 1944 <118. Alcuni giorni dopo vennero arrestati 60 giovani e giovanissimi residenti delle province di Cosenza, Crotone e Catanzaro con l'accusa di «aver ricostituito il partito fascista svolgendo attiva propaganda» <119. Alcuni di essi vennero inoltre trovati in possesso di armi, munizioni e ordigni esplosivi.
Come era riuscito quel gruppo, composto da giovani provenienti da diversi paesi e province a concretare azioni comuni e condivise? In Calabria, così come in Puglia, già nell'ottobre del 1943 si erano costituiti autonomamente diversi gruppi clandestini di giovani fascisti. Il gruppo di Catanzaro, il più sviluppato, riuscì a dicembre a mettersi in contatto con gruppi analoghi presenti a Cosenza e, soprattutto, con il tenente Pietro Capocasale, ufficiale dell'esercito italiano e capo del gruppo di Petronà (CZ), il quale grazie alle sue conoscenze di carattere militare (conosceva la collocazione dei depositi di munizione e di carburante del 31° corpo d'armata italiano) e familiare (era cugino di appartenenti a gruppi fascisti di Nicotera e Soverato) ben presto divenne uno dei leader dell'organizzazione <120. Nello stesso mese di dicembre il gruppo di Catanzaro, al quale nel frattempo era stato posto a capo l'ex segretario di Barracu Antonio Corda, aveva inoltre inviato due paracadutisti oltre le linee, con l'obiettivo di raggiungere Roma ed interloquire con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio della RSI. Uno dei due, tale Toni Battistini, sembra fosse riuscito a compiere la missione, dato che il 24 aprile, in una trasmissione di Radio Roma era stata riportata la presenza di un paracadutista il quale, arrivato dal Sud Italia, e presentatosi al Comando Tedesco, aveva dichiarato che «nella regione italiana occupata dalle truppe angloamericane non ci sono italiani volontari; gli arruolati sono solo coloro i quali sono stati obbligati dalla fame. A Catanzaro un gruppo di paracadutisti ha distrutto la tipografia di un giornale comunista e picchiato il direttore, Paparazzo» <121. A Cosenza, dove l'organizzazione sembrava essere sviluppata maggiormente, si trovava il capo dell'organizzazione calabrese, l'avvocato Luigi Filosa <122. Capocasale intratteneva i contatti con Filosa tramite Giuseppe Scola figlio del braccio destro di Filosa, Arturo. Come si è visto, i rapporti famigliari erano fondamentali per tenere i contatti tra i diversi gruppi e come dimostra anche il fatto che il fratello di Arturo, Attilio, fosse il collaboratore del capogruppo di Crotone, Gaetano Morelli <123.
L'attività dell'organizzazione, come scrive una relazione dell'OSS, si era sviluppata sempre di più e con maggiore violenza:
"Fra ottobre e aprile ci furono svariati casi di dimostrazioni contro gli Alleati e quindici casi di uso di esplosivi in attentati terroristici eseguiti con lo scopo di costringere la popolazione locale a sottomettersi e convincersi della forza della causa fascista. Questa campagna di violenza culminò in aprile in un attentato eseguito contro un preminente antifascista, l'Ing. Nicotera, attentato rimasto senza successo, e in un altro attentato, in cui, nella notte del 22 aprile in Sambiase, due bombe furono gettate, una delle quali contro un carabiniere. Vi era anche l'intenzione di far saltare il municipio ed un importante ponte" <124.
Questa escalation avrebbe dovuto portare, il 5 maggio 1944, all'inizio delle operazioni di guerriglia contro gli Alleati. Il giorno in cui sarebbe dovuta partita l'operazione era stato trasmesso tramite un messaggio in codice da Radio Roma tra il 20 e il 22 aprile <125.
La tanto agognata insurrezione delle forze fasciste tuttavia non ci fu, poiché in quei giorni i Carabinieri si attivarono per arrestare i congiurati. Dagli interrogatori degli arrestati emerse non solo la ramificazione dell'organizzazione in Calabria ma anche che essa aveva propaggini all'esterno del territorio calabrese, tramite il deus ex machina del fascismo clandestino nel Sud Italia, ovvero il principe Valerio Pignatelli <126.
Il principe infatti, si era trasferito con la moglie dalla sua residenza di Sellia Marina, presso Catanzaro, a Napoli. Da qui, con il suo braccio destro, il colonnello Luigi Guarino, ex ardito, teneva i contatti con i gruppi calabresi tramite Luigi Filosa mentre, contemporaneamente, si adoperava per organizzare analoghi nuclei fascisti in Campania grazie all'aiuto di Ferdinando (Nando) di Nardo, ex dirigente dei GUF napoletani e futuro parlamentare del Movimento Sociale Italiano <127. Il gruppo campano più sviluppato era quello napoletano, grazie alla presenza, in particolare, dei giovani che si erano resi protagonisti, ad esempio, di proteste e lanci di manifestini contro gli Alleati <128. Come si è visto, molto probabilmente il gruppo pugliese non era a conoscenza dell'organizzazione di Pignatelli e viceversa. Lo stesso Pignatelli inoltre, in un memoriale scritto nel dopoguerra, nominava solamente i gruppi calabresi e campani anche se potrebbe essere significativo che, nel tentativo di fuggire all'arresto da parte dei carabinieri, Filosa si fosse rifugiato a Bari <129.
Le autorità italiane disposero l'arresto di Pignatelli per sottoporlo ad interrogatorio e capire se ci fossero fondamenti di verità nelle dichiarazioni degli arrestati. Il principe tuttavia, pressoché negli stessi giorni, era stato arrestato dal Governo Militare Alleato assieme alla moglie. Entrambi dovevano rispondere alla grave accusa di spionaggio a favore del nemico <130.
La vicenda, che assume i contorni di una vera e propria spy story, è molto complessa e ancora oggi non molto chiara in alcuni suoi punti. Innanzitutto è necessario ritornare al dicembre 1943, quando Pignatelli si trasferì a Napoli, ufficialmente per motivi di salute, ma in realtà, secondo quanto racconta nel suo memoriale, per adempiere alle istruzioni che gli sarebbero giunte da Barracu <131. Qui il Principe, assieme alla moglie, Maria Elia, figura di primo piano nella vicenda, come si vedrà, erano protagonisti della vita mondana della città partenopea: l'alta classe sociale dei Principi e il prestigio del casato permetteva loro di intrattenere rapporti sia con le autorità italiane, civili e militari, compreso il luogotenente Umberto di Savoia, nonché con le massime autorità alleate come il comandante supremo del teatro d'operazioni del Mediterraneo, il generale britannico Henry Wilson e il diplomatico statunitense Alexander Kirk <132. I Pignatelli riuscirono inoltre a coltivare conoscenze con esponenti dei servizi segreti italiani e alleati, da loro abilmente sfruttate per ottenere informazioni che potessero essere utili per il governo della RSI <133. Secondo il racconto dello stesso Pignatelli, nei primi mesi del 1944, gli fu richiesto di raggiungere il Nord per concordare con le autorità della RSI le strategie da adottare per la lotta nel Sud Italia, pertanto egli si adoperò per cercare di ottenere un lasciapassare dal Governo Militare Alleato. Il tentativo venne stoppato dai «dirigenti del SIM che, conoscendomi bene mi dichiararono fascista» <134. In questo momento dunque entrò in gioco la Principessa che condivideva pienamente le idee del marito e che aveva aiutato ad organizzare il fascismo nel Sud. La preoccupazione per la mancanza di notizie dai figli Emanuele, Vittorio e Bona, avuti nel precedente matrimonio con il marchese Antonio De Seta, e della figlioccia Vittoria Odinzova si dimostrò un utile alibi per cercare in tutti i modi di oltrepassare le linee <135. È proprio grazie alla Odinzova che si presentò la prima opportunità. Maria si mise in contatto a Napoli con il tenente Carlo Cosenza agente dell'OSS, amico della figlioccia, pregandolo di aiutarla a trovare un modo di passare le linee per avere sue notizie. Cosenza si premurò di mettere in contatto la Principessa con un marinaio che avrebbe potuto metterle a disposizione una barca. Il tentativo però venne giudicato troppo pericoloso e perciò accantonato <136. La Principessa, a riprova delle frequentazioni con i comandi militari italiani cercò in secondo luogo di ottenere un aiuto, senza successo, dal generale Guido Accame, agente del SIM anche lui impiegato dall'OSS. Riuscì a guadagnare invece la fiducia dal tenente Andrea Nuvolari (in seguito informatore del SIM sul caso) il quale le confidò informazioni di natura militare anche se non le fu d'aiuto per la sua missione oltre le linee <137. La relazione del SIM che, tra gli altri documenti, ci permette di tracciare i movimenti della principessa, ci consegna un quadro fosco della Pignatelli, descritta quasi come una fattucchiera che con le sue «male arti» riusciva a carpire informazioni strategiche dai suoi interlocutori. È utile notare pertanto come il SIM preferisca screditare la figura della Principessa (adducendo anche ad una presunta condotta morale, secondo l'estensore della relazione, non consona) che analizzare l'operato inadeguato, se non connivente, degli agenti del servizio con cui essa era venuta a contatto <138. Il seguente incontro si rivelò invece decisivo: quello con il sottotenente di vascello Paolo Poletti, anch'egli al servizio dell'OSS. L'ufficiale della Marina, nel corso di una missione a Roma per conto del servizio statunitense nel dicembre 1943, aveva conosciuto Vittoria Odinzova con la quale aveva deciso di sposarsi. Secondo il racconto dello stesso Poletti, i due amanti avevano bisogno dell'approvazione di Maria Pignatelli <139. È anche per questo motivo probabilmente che Poletti, una volta tornato a Napoli, si mise in contatto con i Pignatelli, da lui già conosciuti precedentemente, per portargli notizie della Odinzova <140. Egli divenne un assiduo frequentatore del salotto dei Pignatelli conquistandone man mano la fiducia, peraltro ricambiata, visto che lo stesso Poletti confidò ai Principi la vera natura del suo incarico a Roma per conto dell'OSS. Maria pertanto colse l'occasione per raggiungere il suo obiettivo e, sfruttando il legame dell’agente con la Odinzova riuscì a convincerlo ad aiutarla <141. Poletti pertanto si mise in contatto con l'agente dell'OSS Arthur Mathieu al quale espose la propria preoccupazione per la situazione in cui si trovava la futura moglie asserendo che avrebbe trovato una soluzione anche se ciò avesse implicato l'attraversamento delle linee nemiche. In un memorandum scritto il 16 maggio 1944, lo stesso Mathieu affermava che "Subsequently, ''Paul'' [Paolo Poletti n.d.a.] announced that he had formed a plan, which involved sending a woman across the lines, who would return with his wife and an Italian officer from Austria <142. Both of them would, in addition, bring back valuable information. On being questioned about the security of the mission, ''Paul'' replied that he had absolute confidence in the woman selected, who was the foster-mother of his wife, and that he would ask Major BERDING [a capo dell'X-2 di Caserta] to trust him on this Selection. The plan was presented to Major ROLLER who approved the operation, now called ''Aspen'', and agreed its secrecy would be maintained. Security Officer only was informed. " <143.
Il primo tentativo di oltrepassare le linee da parte della principessa fallì poiché venne arrestata dal Field Security Service britannico e liberata alcuni giorni dopo per l'intercessione dell'OSS <144. Per evitare altri imprevisti, Poletti decise di accompagnare personalmente, il giorno 11 aprile, la Principessa a Sessa Aurunca, nelle vicinanze delle linee nemiche, assieme ad un capitano italoamericano impiegato nell'OSS, Vincent Abrignani. L'obiettivo, dichiarato, della Principessa era quello di presentarsi, una volta passato il fronte, al comando tedesco più vicino, e tramite le proprie credenziali, ottenere di poter contattare Barracu per conoscere la sorte dei propri figli. Poletti consigliò alla Pignatelli che, nel corso dell'interrogatorio a cui l'avrebbero sottoposta i tedeschi, avrebbe dovuto raccontare di essere giunta nella Capitale grazie ad un'autovettura della Croce Rossa e, inoltre, riferire i rumors da lei raccolti a Napoli riguardanti il territorio italiano occupato dagli Alleati <145. La missione principale di Maria era però quella di contattare Barracu, consegnargli una lettera scritta dal marito e ragguagliarlo sulla situazione dell'organizzazione capeggiata dal Principe nell'Italia del Sud. È molto probabile che le credenziali della principessa erano valide dato che, giunta nel comando tedesco di Anagni, non ebbe difficoltà a farsi accompagnare da un ufficiale a Roma nell'abitazione dei Marincola dove era alloggiata la figlia Bona <146. Il giorno seguente la principessa venne interrogata dal Sicherheitsdienst e in seguito accompagnata dal Feldmaresciallo Kesserling <147. Sono proprio alcuni documenti tedeschi, recuperati dagli Alleati all'indomani della liberazione di Firenze, che ci permettono di ricostruire alcuni punti del soggiorno romano della Pignatelli. Nel corso dell'interrogatorio, essa fornì ai tedeschi numerose notizie sulla situazione politico-economica del Sud Italia oltre che notizie di carattere militare, anche se, tranne l'aver rivelato il nome del capo del SIM (Pompeo Agrifoglio), di scarsa rilevanza <148. Gli stessi documenti chiariscono inoltre che, anche se i tedeschi sapevano dell'esistenza di gruppi fascisti nel Sud Italia, non erano a conoscenza del lavoro di coordinamento messo in atto da Pignatelli. Il maggiore delle SS Klaus Huegel, capo dell'Ausland SD in Italia, in un telegramma datato 22 aprile 1944, scriveva a Herbert Kappler rimarcando la necessità di un ulteriore interrogatorio della Principessa, da effettuarsi prima del suo ritorno a Napoli, perché essa poteva rappresentare «a practical starting point for the work in the South. Her report about her way through the front is moreover a proof that such possibilities exist»149. Questo appunto mette anche in luce che una strategia organica per il Sud Italia non era stata ancora adottata da parte dei servizi tedeschi <150.
La principessa nel frattempo, dopo essere riuscita ad incontrare il figlio Emanuele ed informare la figlioccia Vittoria che avrebbe attraversato con lei le linee quando sarebbe tornata a Napoli, si era premurata di incontrare Barracu. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio della RSI, assieme ad un ufficiale tedesco, portò la principessa a Verona, dove avrebbe dovuto incontrare Mussolini. Le testimonianze a questo punto divergono e non è chiaro se la principessa fosse riuscita o meno ad incontrare il Duce <151. L'obiettivo della missione tuttavia venne raggiunto: le autorità della Repubblica Sociale vennero messe a conoscenza della presenza di un movimento clandestino fascista ancora vivo nel Sud Italia e che necessitava dell'aiuto di Salò e dei tedeschi.
Le autorità britanniche tramite la fonte ''SURE'' avevano però, nel frattempo, tenuto d'occhio costantemente le attività della principessa e informato lo Special counter intelligence (Sci) statunitense <152. Il 25 aprile lo Sci arrestò Valerio Pignatelli e due giorni dopo, al ritorno a Napoli, vennero messe in custodia la stessa Principessa assieme a Vittoria Odinzova. Anche Poletti venne incarcerato nel momento in cui stava andando ad avvisare le due donne, da lui ospitate in una ''casa sicura'', dell'arresto del Principe <153. Tutti i protagonisti della vicenda vennero interrogati dal Combined Service Detailed Interrogation Center britannico (CSDIC), una unità formata da agenti del Secret Intelligence Service e ufficiali dell'esercito specializzata negli interrogatori di presunti agenti nemici [...]
64 L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, pp. 62-63.
65 Per la testimonianza di un Marò della Decima sulla battaglia di Anzio vedi il racconto di Fernando Togni riportato in L. Ganapini, Voci dalla guerra civile. Italiani nel 1943-1945, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 142-145.
66 A. Lepre, La storia della Repubblica di Mussolini. Salò: il tempo dell'odio e della violenza, Milano, Mondadori, 1999, pp. 176-181.
67 TNA, WO 204/12450 X Flotilla MAS and S. Marco regiment vol. 1, Abwehr Abt II. Interest in Italian special formations, 1 giugno 1944, p. 1.
68 AUSSME, SIM, b. 27, f. 1-7-40 Lancio nelle campagne di Cabras a mezzo paracadute di presunti agenti nemici, Appunto del 27 luglio 1944, prot. n. 290/1944.
69 ACS, Allied Control Commission (d'ora in avanti ACC), Legal, f. 443 Case of Usai Luciano & others (enemy agents, Sardinia), Report ''Case of Usai Luciano and others'', p. 1-4.
70 AUSSME, SIM, b. 334, fasc. 1-1-26 Studio sull'organizzazione del S.I. tedesco e repubblicano in Italia, Cenni riepilogativi sull'organizzazione informativa nemica, s.d. [gennaio 1945], p. 5.
71 Ibidem.
72 Ivi, p. 6.
73 Ivi, p. 6-7.
74 NARA, rg 226, e. 174, b. 93, f. 753 IV corps, Supplementary report on detailed interrogation of enemy agent - Pisanò Giorgio, p. 9.
75 Ivi, p. 1.
76 Ibidem.
77 Ivi, p. 2-4.
78 Ivi, p. 6. Pisanò in seguito riuscì a scappare per essere poi riarrestato dagli alleati nel 1945.
79 Questa versione verrà sostenuta anche nelle sue opere autobiografiche. Vedi in particolare G. Pisanò, Io, fascista 1945-1946. La testimonianza di un superstite, Milano, Il Saggiatore, 2002, pp. 102-122.
80 AUSSME, SIM, b. 27, fasc. 1-7-23 Presunta costituzione in Sardegna di un Comitato regionale fascista, s.n., 27 marzo 1944, pp. 1-3.
81 ACS, DGPS, DAG, 1944-1946, b. 47, fasc. Partito fascista repubblicano Sassari, Riservata raccomandata s.n., 27 marzo 1944, p. 3.
82 ACS, DGPS, DAG, 1944-1946, b. 47, fasc. Partito fascista repubblicano Sassari, giornale «La voce dei giovani», febbraio 1944, n. 2, p. 1.
83 Ibidem.
84 ACS, DGPS, DAG, 1944-1946, b. 47, fasc. Partito fascista repubblicano Sassari, Riservata raccomandata s.n., 27 marzo 1944, p. 4.
85 AUSSME, SIM, b. 27, fasc. 1-70-40 Lancio, nelle campagne di Cabras, a mezzo paracadute di presunti agenti nemici, Processo verbale di interrogatorio di Usai Luciano, Manca Angelo, Trincas Francesco.
86 ACS, DGPS, DAG, 1947-1948, b. 59, f. Movimento Unitario Italiano Catania, Manifesto del MUI. Sul separatismo siciliano vedi G.C. Marino, Storia del separatismo siciliano, Roma, Editori Riuniti, 1993; A. Battaglia, Sicilia contesa. Separatismo, guerra e mafia, Roma, Salerno Editrice, 2014.
87 ACS, DGPS, DAG, 1947-1948, b. 59, f. Movimento Unitario Italiano Catania, Relazione Prefettura, Movimento Unitario Italiano, 13 settembre 1944.
88 AUSSME, SIM, b. 113, f. 2-9-12 Movimento fascista a Catania, Movimento fascista a Catania, 7 febbraio 1944.
89 G. Conti, La RSI e l'attività del fascismo clandestino nell'Italia liberata dal settembre 1943 all'aprile 1945, p. 953-954. Tra gli aderenti al Movimento figurava anche il futuro esponente missino catanese Orazio Santagati. Vedi G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, p. 44.
90AUSSME, SIM, b. 27, f. 1-7-122 Italia meridionale – Sicilia-Sardegna: propaganda fascista e separatismo, Italia meridionale – Sicilia-Sardegna: propaganda fascista e separatismo, 7 settembre 1944, p. 2-3.
91 B. Mussolini, Opera omnia, Firenze, La Fenice, 1969, vol. XXXII, p.138.
92 G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, pp. 61-62. Sulla propaganda via radio della Repubblica Sociale Italiana vedi G. Isola, Il microfono conteso. La guerra delle onde nella lotta di liberazione nazionale (1943-1945), «Mélanges de l'Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée», a. 1996, Vol. 108, n. 1, pp. 83-124. Alcuni cenni sulla propaganda della RSI per le ''terre invase'' si trovano in P. Corsini, P. P. Poggio, La guerra civile nei notiziari della Gnr e nella propaganda della RSI, in M. Legnani, F. Vendramini (a cura di), Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 295-296.
93 Sulla questione vedi F. Giomblanco, Alto tradimento: la repressione dei "Moti del non si parte" dal carcere al confino di Ustica 1944-1946, Ragusa, Sicilia Punto L, 2010.
94 NARA, Department of State, Italy US Embassy and Consulate, Rome, General Records 1936-1963, rg. 84 st. 350 r.62 c.2 s.5, b. 143, f. 800-Sicily, Unrest in Sicliy, 20 dicembre 1944, p. 1.
95 TNA, WO 204/12661 Sicily-Ragusa rebellion, Ragusa riots, 18 gennaio 1945, p. 1.
96 Ivi, p. 1-2.
97 Ivi, p. 3.
98 «Furthermore - leggiamo nella relazione - it is not unlikey that some Nazi subversive agents have been at work stirring up trouble, but there is no evidence to confirm this. Enemy agents recently dropped in Sicily and who were captured had quite different mission to accomplish». TNA, WO 204/12661 Sicily-Ragusa rebellion, Report on the rebellion in the province of Ragusa 5/11 January 1945, 23 febbraio 1945, pp. 13-14. Sulle indagini a proposito di una presunta radiotrasmittente in contatto con il Nord vedi A. Battaglia, Separatismo siciliano. I documenti militari, Roma, Edizioni nuova cultura, 2015, pp. 24-27.
99 TNA, WO 204/12621 Sicily-Fascist groups, Transcript of fascist leaflets, 20 marzo 1945, p. 1.
100 TNA, WO 204/12621 Sicily-Fascist groups, Subversive activity in Sicily, 15 febbraio 1945, allegato, p. 2.
101 M. Tarchi, A. Carioti, Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Milano, Rizzoli 1995, pp. 28-29.
102 G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, pp. 56-57.
103 AUSSME, SIM, b. 73, f. 1-7-49 Organizzazione fascista a Lecce, Rapporto di denuncia di Chironi Romualdo et alii, 5 aprile 1944, pp. 4-7.
104 AUSSME, SIM, b. 73, f. 1-7-49 Organizzazione fascista a Lecce, Organizzazione fascista in provincia di Lecce, 14 marzo 1944, allegato n.2 Processo verbale di interrogatorio di D'ELIA Fabio, p. 1.
105 Ivi, pp. 1-2.
106 AUSSME, SIM, b. 73, f. 1-7-49 Organizzazione fascista a Lecce, Rapporto di denuncia di Chironi Romualdo et alii, 5 aprile 1944, p. 7.
107 AUSSME, SIM, b. 73, f. 1-7-49 Organizzazione fascista a Lecce, Promemoria per il signore generale Rossi, 16 marzo 1944, p. 1.
108 AUSSME, SIM, b. 73, f. 1-7-49 Organizzazione fascista a Lecce, Rapporto di denuncia di Chironi Romualdo et alii, 5 aprile 1944, p. 11.
109 AUSSME, SIM, b. 73, f.1-7-49 Organizzazione fascista a Lecce, Esito processo a carico dei componenti organizzazione fascista di Lecce, 13 giugno 1944. Tra i condannati figurava il futuro consigliere comunale del MSI di Lecce Giuseppe Marti. Vedi ivi, Telegramma, 10 novembre 1977.
110 AUSSME, SIM, b. 74, f. 1-7-146 Organizzazione fascista a Brindisi, Organizzazione fascista, 28 febbraio 1944, p.2.
111 Anche Politi e Fato furono rilasciati ma per entrambi scattò l'obbligo di residenza fino alla fine della guerra. Vedi AUSSME, SIM, b. 74, f. 1-7-146 Organizzazione fascista a Brindisi, Organizzazione fascista a Brindisi, 3 maggio 1944, p. 1 e Relazione sulla presunta organizzazione fascista di Brindisi, 26 giugno 1944.
112 TNA, WO 204/12056 Squinzano fascist conspiracy, AMG court - Barletta spy case, 15 luglio 1944.
113 TNA, WO 204/12056 Squinzano fascist conspiracy, Organizzazione fascista di Barletta, 25 aprile 1944.
114 Ibidem.
115 TNA, WO 204/12056 Squinzano fascist conspiracy, Organizzazione fascista di Barletta, 25 aprile 1944, Allegato n. 1, p. 1.
116 ACS, DAG, 1944-1946, b. 45, f. Partito fascista repubblicano Bari, Barletta attività fascista, 12 settembre 1944.
117 Il caso Pignatelli lo troviamo descritto anche in G. Conti, La RSI e l'attività del fascismo clandestino nell'Italia liberata, pp. 954-964; G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, pp. 55-69; A. Mammone, The black-shirt resistance, pp. 288-290; O. Foppani, The Allies and the Italian Social Republic (1943-1945), Berna, Peter Lang, 2011, pp. 87-103. K. Massara, Vivere pericolosamente, pp. 39-46; K. Massara, The ''indomitable'' Pignatellis, pp. 127-131; M. Avagliano, M. Palmieri, L’Italia di Salò 1943-1945, Bologna, Il Mulino, 2017, pp. 293-300.
118 ACS, DAG, 1944-1946, f. Partito fascista repubblicano Catanzaro vol. 2, Associazione filofascista scoperta in Catanzaro, 7 luglio 1944, pp. 1-2.
119 Ivi, p. 4.
120 Capocasale aveva inoltre provveduto a mettersi in contatto anche con il gruppo di Nicastro. ACS, DAG, 1944-1946, f. Partito fascista repubblicano Catanzaro vol. 2, Fascist reorganization in Calabria, s.d. [1944], p. 2-3.
121 Potrebbe riferirsi agli attentati contro le tipografie che stampavano i giornali ''Ora Nuova'' e ''Nuova Calabria'' di cui si è accennato sopra. ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, General Survey, 26 Maggio 1944, Appendix ''G'' Review of the External Leads from the PIGNATELLI Case up to 19 May 1944, p. 2. Traduzione mia.
122 Luigi Filosa (Cosenza 1897-Cosenza 1981), figura di fascista sui generis, fu tra i fondatori dei Fasci in Calabria. Venne espulso dal partito già nel 1923, dopo essere stato eletto federale, per la sua linea intransigente repubblicana e rivoluzionaria, avvicinandosi in seguito agli ambienti antifascisti. Dopo essere stato condannato a 3 anni di confino, nel febbraio del 1943 decise di rientrare nel PNF. Vedi F. Mazza, Filosa, Luigi, in Dizionario Biografico degli italiani, vol. 48, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1997, pp. 2-3.
123 ACS, DAG, 1944-1946, f. Partito fascista repubblicano Catanzaro vol. 2, Fascist reorganization in Calabria, s.d. [1944], p. 5.
124 ACS, DAG, 1944-1946, f. Partito fascista repubblicano Catanzaro vol. 1, Riorganizzazione fascista in Calabria, s.d. [1944], p. 5. Si tratta della traduzione del documento citato nella nota precedente.
125 Le frasi in codice sarebbero state «Ei fu, siccome immobile» e «Sparse le trecce morbide sull'affannoso petto». ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, General Survey, 26 Maggio 1944, Appendix ''G'' Review of the External Leads from
the PIGNATELLI Case up to 19 May 1944, p. 2.
126 AUSSME, SIM, b. 103, fasc. 1-7-1426 Sospetta attività di gruppi repubblicani fascisti nel Sud Italia, Attività di gruppi repubblicani fascisti nel Sud Italia, 30 novembre 1944, p. 1.
127 G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, p. 61.
128 A. Mammone, The black-shirt resistance, p. 290
129 V. Pignatelli, Il caso «Pace», oppure il caso «Dirigenti del MSI», Catanzaro, La Tipo Meccanica, 1948, p. 33-34. Parlato nel suo libro accenna a contatti con i gruppi di Bari e Barletta ma non è chiaro da quale fonte egli tragga questa informazione. G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, p. 61.
130 AUSSME, SIM, b. 76, f. 1-7-142 Organizzazione fascista in Calabria, Promemoria per il sig. capitano Stanhope Wright, 16 dicembre 1944, p. 1.
131 V. Pignatelli, Il caso «Pace», p. 33 e AUSSME, SIM, f. Allegati alla pratica f. 1-7-142 Pignatelli, Processo verbale di interrogatorio di Valerio Pignatelli di Cerchiara, 28 maggio 1944, pp. 2-3.
132 La descrizione dei rapporti intrattenuti dai Pignatelli viene tracciata in G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, pp. 60-61, che la riprende da G. Artieri, Mussolini e l'avventura repubblicana, Milano, Mondadori, 1981, pp. 246-247. Non è chiaro quali fonti l'autore utilizzi per raccontare il soggiorno napoletano dei Pignatelli. Pochi cenni dei suoi contatti con gli Alleati vengono offerti dallo stesso Pignatelli in Il caso «Pace», pp. 33-34.
133 V. Pignatelli, Il caso «Pace», p. 34.
134 Ibidem.
135 Emanuele si trovava a Roma da latitante perché aveva partecipato al Fronte militare clandestino di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Vittorio invece era internato in un campo di concentramento tedesco perché aveva rifiutato di combattere per la RSI. La figlia Bona si trovava invece nella casa di amici di famiglia, i baroni Marincola di San Floro. La baronessa Josephine Pomeroy era cittadina americana nonché sorella dell'agente dell'OSS Livingston Pomeroy. Vittoria Odinzova era invece la vedova del terzo figlio di Maria Pignatelli, Francesco, adottata dai Pignatelli alla morte del figlio. Vedi G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, p. 63 e pp. 327-328. Di Emanuele De Seta (il cognome del primo marito di Maria Pignatelli) ne parla diffusamente Peter Tompkins nella sua memoria Una spia a Roma.
136 AUSSME, SIM, b. 76, f. Allegati alla pratica 1-7-192, Relazione s.n., 5 luglio 1944, pp. 2-3.
137 Ivi, pp. 4-5. Per il fatto che Nuvolari fosse diventato, a quanto risulta, in seguito all'arresto dei Pignatelli fiduciario del SIM, vedi AUSSME, SIM, b. 76, f. 1-7-192 Organizzazione fascista in Calabria, Promemoria PIGNATELLI-Introduzione, 6 giugno 1944, p. 3. Per l'impiego del generale Accame nell'OSS vedi ivi, Il soggiorno a Napoli dei Principi Pignatelli, p. 3.
138 AUSSME, SIM, b. 76, f. Allegati alla pratica 1-7-192, Relazione s.n., 5 luglio 1944, pp. 5.
139 ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, General Survey, 26 maggio 1944, Appendix ''C'' Interrogation report on Paolo Poletti, p. 2.
140 Risulta poco credibile l'incontro casuale «in the street of Naples» descritto nell'interrogatorio da Poletti. Ivi, p. 3.
141 Sembra che ad un iniziale rifiuto da parte di Poletti, dato l'imminente arrivo degli Alleati a Roma, la Principessa avesse finto di aver ricevuto un messaggio di aiuto via radio dalla Odinzova, la quale d'altronde era effettivamente in pericolo in quanto, essendo nata a San Pietroburgo, risultava come cittadina straniera nemica. Vedi AUSSME, SIM, b. 76, f. Allegati alla pratica 1-7-192, Relazione s.n., 5 luglio 1944, p. 5, e AUSSME, SIM, b. 76, f. 1-7-192 Organizzazione fascista in Calabria, Promemoria PIGNATELLI, 6 giugno 1944, Il soggiorno a Napoli dei Principi Pignatelli, pp. 2-3.
142 Si trattava, molto probabilmente, del figlio Vittorio internato in Germania, il quale avrebbe dovuto essere liberato grazie all'intervento di Barracu.
143 ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, The ''Aspen'' Operations, 16 maggio 1944, p. 1.
144 Ibidem.
145 AUSSME, SIM, b. 76, f. Allegati alla pratica 1-7-192, Relazione s.n., 5 luglio 1944, pp. 6.
146 Ivi, p. 7.
147 L'incontro con Kesserling è anche annotato da Eugen Dollmann nelle sue memorie. Vedi E. Dollmann, Roma nazista, Milano, Longanesi, 1949, pp. 378-379.
148 «Military matters. State and extent of the Badoglio army: General Tapino is commander of the Italian troops fighting in Southern Italy whit his HQ in Avellino. Morale, care and pay of the Italian troops: Crown Prince Umberto, after visiting the Front, complained of the unusually high losses sustained by these Italian units». ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, Interrogation of persons crossing over the front and utilization of reports of such persons, 3 maggio 1944. Si tratta della traduzione in inglese dei documenti tedeschi rinvenuti a Firenze.
149 ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, Telegram from Huegel to Kappler, Princess Pignatelli, 22 aprile 1944.
150 Come vedremo in seguito è proprio a partire dai mesi centrali del 1944 che il lavoro dei servizi segreti tedeschi nel Sud Italia si fece più intenso e efficace, grazie anche alla nomina di Huegel a capo dell'Ausland-SD in Italia. Vedi C. Gentile, I servizi segreti tedeschi in Italia 1943-1945, p. 480.
151 La principessa negò nel corso degli interrogatori di essere riuscita ad incontrare il Duce mentre, secondo la testimonianza della figlia Bona e del marchese Marincola (che collaborano attivamente con gli Alleati arrivando a smentire le dichiarazioni della Pignatelli) al ritorno da Verona aveva confermato il colloquio con Mussolini. Anche secondo la fonte ''SURE'' che ragguaglierà i servizi angloamericani sul caso, la Pignatelli avrebbe incontrato il Duce. Una conferma in questo senso ci giunge anche dai documenti tedeschi ritrovati a Firenze, dai quali pare di capire che la Pignatelli abbia fatto tappa anche nella stessa Firenze in visita ad una certa Duchessa d'Aosta non meglio specificata. Vedi AUSSME, SIM, b. 76, f. Allegati alla pratica 1-7-192, Relazione s.n., 5 luglio 1944, pp. 9-10; ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, General Survey, 26 maggio 1944, p. 1; ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, Telegram from Huegel to Kappler, Princess Pignatelli, 22 aprile 1944.
152 Unità di controspionaggio in collaborazione tra X-2 (controspionaggio dell'OSS) e G-2 (controspionaggio dell'esercito statunitense). Vedi NARA, rg 226, e. 174, b.148, f. 1124, Prince and Princess Valerio Pignatelli, Paul Poletti and Vittoria Odinzova, p. 1.
153 ACS, ACC, Pignatelli May 1944-June 1946, General Survey, 26 maggio 1944, p. 1.
Nicola Tonietto, La genesi del neofascismo in Italia. Dal periodo clandestino alle manifestazioni per Trieste italiana. 1943-1953, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, anno accademico 2016-2017