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giovedì 31 dicembre 2020

In realtà, Talbot aveva praticato a lungo la pittura

William Henry Fox Talbot, fotografato nel 1864 da John Moffat -
Fonte: Wikipedia

Nei primi decenni dell’Ottocento, fra i grand-touristi che esplorano in lungo e in largo l’italica penisola, c’è anche William Henry Fox Talbot: è sul Lago Maggiore con la moglie, che è un’abile pittrice. Talbot assai meno, e cercando di riprendere gli ambienti che gli si parano davanti agli occhi inciampa in notevoli difficoltà tecniche. Non si sa se per sconforto o ira ma - così si racconta - decide di gettar via l’armamentario da pittore e di studiare un metodo automatico per riprodurre ambienti e paesaggi.

In realtà, Talbot aveva praticato a lungo la pittura (e fu anche un letterato e un decifratore di scritture cuneiformi) ma era infine giunto all’idea che questo mezzo non riusciva a rappresentare il mondo nella sua complessità.

Pensò allora - come in quegli anni anche altri stavano pensando - di percorrere la “strada della luce”, cioè di utilizzarne l’azione diretta per creare immagini foto-chimiche.

L’uso della luce per creare immagini era studiato già da secoli, e ce ne racconta qualcosa Francesco Ginatta (“giovine molto competente in questa materia, per aver frequentato riputati stabilimenti fotografici della Francia e dell’Austria”, come spiega …, e specialista degli ingrandimenti indelebili al carbone, secondo quanto egli stesso dichiarava), fotografo nella Sanremo del XIX secolo: La fotografia è fondata sull’azione della luce, e quest’azione fu riconosciuta prima dai greci. Vitruvio aveva rimarcato che il sole alterava certi colori e metteva i suoi quadri in una sala esposta al nord. Però il trovato del Porta, il quale inventò la camera oscura fu l’origine della fotografia. Nel 1556, poco tempo dopo dell’invenzione della camera oscura, un alchimista, Fabricio, trovò il cloruro d’argento, osservò la proprietà di quel sale di annerire sotto l’azione della luce, e per mezzo d’una lente egli prospettò sul cloruro d’argento un’immagine che vi rimase impressa. Era già un bel risultato, ma quello scienziato ricercava la pietra filosofale e passò quindi oltre […]

Nel 1834 William Henry Fox Talbot fa esperimenti sull’immagine latente, da rivelare grazie a particolari sostanze, esperimenti che sono già un primo esempio di quel processo che in seguito sarà chiamato “sviluppo”: Proposi di spargere sopra un foglio di carta una sufficiente quantità di nitrato d’argento, e di porlo alla luce del sole, avendo prima collocato avanti la carta qualche oggetto che vi gettasse una ben decisa ombra. La luce agendo sul rimanente del foglio, naturalmente lo annerirebbe, mentre le parti ombreggiate riterrebbero la loro bianchezza.

I fogli risultano sorprendentemente colorati: Le immagini ottenute in questo modo sono bianche; ma il fondo, sul quale si disviluppano è variamente e piacevolmente colorato.
Tale è la varietà, di cui il processo è capace, che soltanto col cambiare le proporzioni, e qualche lieve dettaglio di manipolazione si ottengono varj dei seguenti colori:

Bleu Celeste
Giallo
Color di rosa
Bruno di varie gradazioni
Nero

Il verde unicamente non è compreso, ad eccezione di un’ombra oscura di esso, che si approssima al nero.

Talbot, Disegno fotogenico, 1839
Fonte: Wikipedia

Realizza icone “in negativo”, ponendo foglie o spighe su un foglio particolarmente trattato - un gesto che chissà quanti avevano già fatto e chissà quanti altri poi faranno, dai facitori di erbari a Man Ray - ed esponendo il tutto ai raggi solari.

Sono i disegni fotogenici: Il primo genere di oggetti, che provai di copiare con questo processo furono fiori e foglie freschi e scelti dal mio erborario, ed apparvero della maggiore verità e fedeltà, offrendo anche le diramazioni delle foglie, i minuti peli, le tessiture delle piante, ecc.

Talbot, Latticed window, immagine ricavata dal più antico negativo esistente, 1835
Fonte: Wikipedia

All’inizio non riesce a stabilizzare queste immagini che per poche ore soltanto: le foto da lui ottenute continuano ad essere suscettibili alla luce. Occorreva bloccare il successivo annerimento. Nel 1835 studia la qualità dei sali d’argento, le concentrazioni necessarie, le procedure per eliminare l’argento non ossidato. Grazie a Sir Frederick William Herschel conoscerà le proprietà fissative del tiosolfato e quindi troverà un metodo sicuro per arrestare l’annerimento. E nel 1841 mette a punto la tecnica della calotipia (detta poi talbotipia): adoperando carta resa trasparente dalla paraffina e sensibilizzata con bagni in soluzioni di cloruro di sodio e nitrato d’argento e sviluppando poi l’immagine con acido pirogallico: otteneva così un negativo dal quale era possibile trarre un qualsivoglia numero di copie.

Nel 1844-46 Talbot darà alle stampe il fotolibro The Pencil of Nature, a cui seguirà, nel 1848, Sun Pictures in Scotland.

Lo studio di Talbot a Reading
Fonte: Wikipedia

Quel che è certo, dunque, è che, quando viene inventato il dagherrotipo, lo scienziato inglese già da molti anni stava sperimentando le sue mouse traps, cioè le prime box fotografiche, riuscendo a riprodurre scorci del “mondo vero”.

Marco Innocenti in Sanremo e l’Europa. L’immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018



 

[  Marco Innocenti è collaboratore de IL REGESTO, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM) ed autore di diversi lavori, tra i quali: Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d’occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006  ]

 

sabato 26 dicembre 2020

La poesia del beà

Il tramonto ci invitava verso casa.
La nonna raggruppava parte del raccolto e quello che non stava sulla carriola del nonno finiva in due canestri.

Erano i regali quotidiani del Prau [nel territorio di Camporosso (IM)].

Un fascio profumato di erbe e scarti di verdure dell’orto, che finiva in un telo. Fatto con due sacchi cuciti insieme con quattro lacci ai lati, si chiamava “lensurun”, un lenzuolo povero e disprezzato.

Conteneva la cena per conigli e galline.

Poi la nonna, con un fazzoletto dai colori di un prato sbiadito, fazzoletto che girava attorno alle mani, costruiva un piccolo cerchio, simile ad un nido che finiva sulla sua testa.
Serviva da ammortizzatore al peso di quello che sembrava un grande ombrello rovesciato.
Quando era ben posizionato sul suo capo, il nonno caricava il “lensurun.”

La nonna con i due canestri, uno per mano per l’equilibrio, sembrava un‘acrobata.
Il percorso non era facile: occorreva superare il bedale rialzato.
Ad un lato del sentiero scendeva veloce alle fasce sottostanti un’acqua trasparente.

Le gambe strofinavano, salendo, menta acquatica e nepeta, che esalavano i profumi della fine del giorno.
A noi nulla davano da portare, sapendo che avremmo perduto il carico per strada, mentre raccoglievamo piccoli maggiolini verde-blu. Insetti dal colore delle opali, piccoli gioielli.

Povera nonna carica come un somaro, che giunta a casa doveva ancora lavare, tagliare, cuocere la fatica dell’orto!

Quanti soli di tarassaco, violette, selene, abbiamo reciso, noi bambine per farle naufragare nel nostro mare. Un rigagnolo nel verde, percorso dall’acqua a giorni prestabiliti.

Quanti concerti con improvvisati flauti di germogli di canne riempivano i pomeriggi!

La nostra merenda vicino ad una baracca di canne era un banchetto.
Per il nonno e per noi aveva il sapore di una liturgia.
Mentre l’acqua scivolava nei solchi e abbeverava tutte le verdure si poteva fare una sosta.
Sempre con un occhio vigile all’acqua che facesse il giro giusto.
Non dimenticando nessuno degli assetati.

Estraeva il suo coltellino a scatto, quello per fare gli innesti con la punta curva. Lo puliva sulle braghe di fustagno e tagliava i pomodori da mettere sul pane. Una fiaschetta di olio, il sale estratto da un fazzoletto, che aveva visto tempi migliori, e poi l’operazione magica che riduceva il cetriolo in quattro perfette strisce, lasciando i semi intatti.

Ne ricordo il colore, il gusto ed il rumore sotto i denti.

Continuo a tagliare ancora il cetriolo in quattro per vedere luccicare i semi, per ricordare quei momenti magici.

Questi i ricordi di noi bambine, quando in estate, libere dalla scuola, seguivamo i nonni nel loro grande orto.
Percorrevamo una strada dai bordi fioriti, che seguiva prati a fieno e campagne curate come le stanze di casa.

Tutto serviva alla sopravvivenza.

Libere di correre e giocare, ma guai a rovinare i canaletti o “surchi“, strade che il nonno tracciava all’acqua: le piante dovevano bere tutte!
Quella terra non lontana dal torrente era di consistenza sabbiosa.

Un passo falso e quello sbarramento disegnato con cura dal nonno crollava.
Seguivano le terribili minacce di cacciata dall’eden.

Gris de lin

venerdì 18 dicembre 2020

Gli artisti Enzo Maiolino e Giuseppe Balbo

Giuseppe Balbo, Ritratto di Enzo Maiolino - Fonte: Archivio Balbo

Scrive Enzo Maiolino nel suo libro Non sono un pittore che urla [Conversazioni con Marco Innocenti, con uno scritto introduttivo di Leo Lecci, Ventimiglia,  Philobiblon, 2014]:

"Balbo  fu l’incontro più importante dei miei vent'anni. Devo a Balbo, alla sua generosità, la realizzazione del sogno della mia adolescenza: diventare pittore".


Balbo e Maiolino si sono conosciuti nel 1946, quando Enzo si unì ad un primo gruppo di pittori che cominciò a radunarsi  nello studio allestito [in Bordighera (IM)] da Balbo al ritorno dall’Africa. "Noi, allievi della sua Scuola serale, fummo subito etichettati “pittori dilettanti” o “pittori della domenica”.".

Balbo insegnava a “vedere” da pittore. Cosa complessa, una vera e propria tecnica. La scelta del soggetto, la comprensione dell'”insieme”, l’osservazione e il confronto tra i vari elementi, la percezione dei “valori” chiaroscurali e tonali, ecc. Tutto ciò, insomma, che precede la trasposizione di un soggetto sul supporto (carta, tela, tavola)… Secondo me Balbo conosceva molto degli antichi procedimenti. Come provava la sua consuetudine, specie nelle tempere murali, di abbozzare con toni freddi e procedere, poi, con velature di colori caldi”.
"Poiché ognuno di noi si guadagnava da vivere con un secondo mestiere, a volte, la domenica, la Scuola al completo si trasferiva in campagna per esercitazioni en plein air." (Maiolino, op.cit.) 
 
L’incontro fu fondamentale per la formazione del giovane pittore, ma fu importante anche per Balbo, che trovò in Enzo e nel fratello Beppe Maiolino due validi collaboratori. In particolare Beppe Maiolino, come fotografo, ha documentato momenti importanti della Mostre organizzate da Balbo.

I percorsi artistici di Balbo e Maiolino andranno avanti in autonomia, ma resterà sempre tra di loro un legame speciale, una vicinanza artistica nonostante gli opposti mondi pittorici. In particolare Maiolino  scrive due attente recensioni nel 1966 e nel 1972, in occasione delle personali di Balbo, rispettivamente nella galleria del “Piemonte Artistico Culturale” di Torino e nella galleria della “sua” Accademia di  Bordighera.
In particolare, nel 1972,  Maiolino analizza con grande efficacia il mondo di Balbo:"… l’eclettismo di Balbo, più appariscente nelle due precedenti mostre, appare in questa più contenuto e un attento esame delle opere esposte ci permette una più serena riflessione sulla sua opera. La quale , a nostro avviso, presenta due aspetti fondamentali: il primo riguardante il diretto contatto del pittore con alcuni aspetti della realtà circostante; il secondo, l’estrinsecazione del suo mondo fantastico nel quale confluiscono spesso suggestioni letterarie e una sincera componente “surrealista”…".

Enzo Maiolino e Giuseppe Balbo - Fonte: Archivio Balbo

Alla fine di questo articolo Maiolino si sbilancia:
Augurandogli altri lunghi anni di sereno lavoro, sentiamo che ci riserverà ancora delle sorprese (il suo recente entusiasmo per alcune tecniche calcografiche mai prima sperimentate, ci fa ben sperare in tal senso).

Enzo Maiolino, La Cattedrale di Ventimiglia (tempera) - Fonte: neldeliriononeromaisola

Le sperimentazioni calcografiche di Balbo si erano fermate alla puntasecca e alla xilografia, le tecniche incisorie più immediate, dove il segno morde e comanda, senza ripensamenti ma anche con minori possibilità espressive.
 
Un lavoro di Enzo Maiolino - Fonte: Laura Hess

Invece Maiolino già negli anni 50 affrontava il mondo delle acqueforti, e proprio nel 1972 realizza una significativa cartella di sei acqueforti dal titola “La casa nera”, a cura di Vanni Scheiwiller.

Ho un ricordo vivido di una estate dei miei sedici anni; nel magazzino dei fiori di mio padre Elio, spesso usato dallo zio Beppe per i lavori ingombranti, appare un torchio da stampa, bottiglie di acido, carte preziose, e con la guida tecnica di Enzo, Balbo realizzerà una bellissima serie di acqueforti con acquatinta, allo zucchero e a pasta molle.
 

Marco Balbo © Archivio Balbo Archivio Balbo

 
 
“È guardando agli innumerevoli aspetti della natura e della vita, come ai più diversi momenti della vicenda umana, che Giuseppe Balbo ha creato una inesauribile e ricchissima antologia, mosso da una mai quieta curiosità esplorativa e, più nel profondo, da una assoluta necessità di intendere le cose e la realtà intorno a sé attraverso la pittura stessa. Per tutta la vita egli ha visto, ha osservato, ha raccontato o ha illustrato e, soprattutto, tutto ciò ha dipinto, respingendo suggestioni e modi che non lo riguardavano, lavorando con assiduità e convinzione. Balbo ha saputo dare l’esempio di un impegno dignitoso e severo ed ha fornito insieme una lezione della più alta fedeltà”. 
Massimo Cavalli, “La Voce Intemelia” del 23 gennaio 1978 

A partire dagli anni Settanta Enzo Maiolino approda ad un astrattismo di matrice neoconcreta, attraverso un’inedita combinazione di forme geometriche basate sui giochi del Tangram, dei Pentamini e degli Esamini. Numerose le personali a lui dedicate, dalle prime mostre liguri alle grandi esposizioni tedesche di Ingolstadt, Bottrop, Bonn, Colonia, Münster. Nel 2007, in occasione del suo ottantesimo compleanno, il Museo Civico di Sanremo gli dedica la Mostra “Geometrie in gioco. Enzo Maiolino. Opere 2000-2007”, a cura di Leo Lecci e Paola Valenti. Oltre ad una ricca selezione di opere grafiche e pittoriche, una sezione della mostra espone i documenti raccolti da Enzo Maiolino nella sua lunga attività di artista e studioso: libri, fotografie, manifesti, depliant, pubblicazioni, articoli di giornali che testimoniano e raccontano tutte le vicende legate alla vita culturale dell’ultimo cinquantennio. Una parte consistente dell’Archivio Maiolino è attualmente conservata presso l’AdAC (Archivio di Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Genova) al quale l’artista ha deciso di destinare la sua intera raccolta documentaria.
Comune di Sanremo (IM), ottobre 2014
 
Enzo Maiolino, calabrese di nascita (1926) e ligure d’adozione (dal 1937), pubblicò le sue prime acqueforti negli anni Settanta e iniziò a orientare la propria opera verso una pittura aniconica di matrice neoconcreta con splendide scansioni cromatiche, praticando intanto l’arte incisoria per sperimentare ancor meglio l’astrazione delle forme.
Nel 1993 il critico e storico d’arte tedesco Walter Vitt conobbe l’opera di Maiolino e cominciò a promuoverla tramite una mostra monografica e itinerante per la Germania (1996-1997) e poi curò un prezioso catalogo (1).
Con l’aprirsi del nuovo millennio anche l’Italia s’è accorta dell’artista, nel 2001 alcune sue creazioni sono entrate nella collezione permanente del Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce e, nello stesso anno e sempre a Genova, la Fondazione Novaro gli ha conferito il premio per la cultura con la rondine in ceramica (oltre ad avergli dedicato per intero il quaderno numero 35 de «La Riviera Ligure»).
Maiolino, per limitarsi a qualche esempio emblematico, ha pubblicato testimonianze inedite e rare su Amedeo Modigliani (2), ma anche una raccolta di racconti di Giacomo Natta (3), ha impreziosito con i suoi disegni diverse sillogi poetiche (soprattutto per Vanni Scheiwiller) e ha rilasciato una lunga intervista su se stesso, eloquente sin dal titolo Non sono un pittore che urla (4).
Il sapere del poliedrico pittore si poggiava saldamente su una memoria fatta di mille cassetti dove tutto era stato messo gelosamente al sicuro e ordinato con paziente perizia, mentre la sua curiosità e la sua generosità rendevano d’impiccio chiavi e combinazioni: era sempre pronto ad archiviare un nuovo documento, ad aggiornare una vecchia bibliografia, ad attentare all’intrico di una questione complicatissima, e con forza uguale e teneramente contraria ti concedeva di guardare da vicino, ti coinvolgeva nella gioia di una scoperta, ti chiedeva di ripartire daccapo e insieme per una ricerca fin lì infruttuosa (quella relativa a Natta e Zambrano ci ha appassionato particolarmente).
Alessandro Ferraro, La memoria di Enzo Maiolino, «La Riviera Ligure», quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, XXVIII, 83, maggio/settembre 2017
 
1 Walter Vitt, Enzo Maiolino 1950-2000. Das druckgrafische Werk. Opera incisa e serigrafica, Nördlingen, Steinmeier Verlag, 2000. Segnalo anche il catalogo a colori Geometrie in gioco. Enzo Maiolino. Opere 2000-2007 (Genova, De Ferrari, 2007), curato da Leo Lecci e Paola Valenti che tante attenzioni hanno dedicato all’artista “ligure”. 
2 Modigliani vivo. Testimonianze inedite e rare, a cura di Enzo Maiolino, con una presentazione di Vanni Scheiwiller, Torino, Fogola, 1981. Dopo 35 anni l’importante volume è pronto ed è tornato in circolazione grazie a una nuova edizione: Modigliani, dal vero: testimonianze inedite e rare raccolte e annotate da Enzo Maiolino, a cura di Leo Lecci, De Ferrari, Genova, 2016.
3 Giacomo Natta, Questo finirà banchiere. Racconti. Un ricordo di Giacomo Natta, a cura di Enzo Maiolino, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1984.
4 Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, con uno scritto introduttivo di Leo Lecci, Ventimiglia, Philobiblon, 2014. 


 

domenica 13 dicembre 2020

I Bassi di ebrei ne hanno fatti sconfinare molti verso Francia

Ventimiglia (IM), Largo Ettore e Marco Bassi,  a fianco del negozio che era stato della famiglia

Con gli anni si dorme di meno e Pierin ne ha ottantasette e la sera da un po’ di tempo fa fatica a prendere sonno.
E poi c’è quella scena che gli viene in mente tutte le sere.
Sono a cena da Tornaghi, il commissario Pavone è passato con la scusa di bere una volta; ha avvertito Marco Bassi che il giorno dopo passerà a prenderlo, arrestarlo, lui e suo padre Ettore.
Li avvisa per dar loro l’ultima occasione per fuggire, in un certo senso sono tutti amici, compagni di ribotte.

I Bassi di ebrei ne hanno fatti sconfinare molti verso Francia e stavolta dovrebbero scappare loro.

Pierin ha capito al volo ed ha subito pensato alle valli di Cuneo, già in mano ai partigiani ed ai contrabbandieri, alla possibile salvezza a Caraglio, a Castelmagno dove conosce molti amici.
E’ pronto col tassista Cavallotti per portarli via, padre e figlio.
Anche Marco ha capito, ma il padre è già anziano e non vuole lasciarlo solo; la mamma l’hanno già sistemata con l’aiuto dei Notari alla clinica Moro, sulla via Romana.
Sono lì e si guardano indecisi; Marco si toglie dal polso l’orologio d’oro di marca e lo offre in ricordo a Pierin che tentenna, vuole ancora convincerlo a scappare.
Così l’orologio lo prende la Giretto, che gestiva il negozio dei Bassi.
Quell’orologio gli manca da più di sessant’anni e quel gesto è l’ultimo che gli viene in mente ogni sera prima di addormentarsi. E prendere sonno è sempre più difficile.

Arturo Viale (3), ViteParallele, 2009

(1)  [ristorante in Ventimiglia (IM), vicino alla stazione ferroviaria]

(2) [I commercianti ebrei Bassi, Ettore, il padre, e Marco, il figlio, benefattori non solo degli ebrei stranieri in fuga, a causa delle Leggi Razziali del 1938, tramite Ventimiglia e zona verso la Francia nel periodo 1938-1939, ma anche benemeriti della città e del comprensorio, i Bassi, arrestati a Ventimiglia il 26 novembre 1943, incarcerati a Milano e deportati ad Auschwitz, da dove non fecero più ritorno. In proposito degli ebrei stranieri: Paolo Veziano, Ombre al confine. L’espatrio clandestino degli Ebrei dalla Riviera dei Fiori alla Costa Azzurra 1938-1940, ed. Fusta, 2014].

(3) [  Arturo Viale, La Merica...non c'era ancora, Edizioni Zem, 2020; Arturo Viale, Oltrepassare. Storie di passaggi tra Ponente Ligure e Provenza, Edizioni Zem, 2019; Arturo Viale, L'ombra di mio padre, 2017; Arturo Viale, Quaranta e mezzo; Arturo Viale, Viaggi; Arturo Viale, Mezz'agosto; Arturo Viale, Storie&fandonie; Arturo Viale, Ho radici e ali  ] 

 

lunedì 7 dicembre 2020

Non me la sentivo più di far la parte del poeta del posto

Enzo Maiolino, Ritratto di Luciano De Giovanni (particolare di un disegno del 1957) - Fonte: La Riviera..., Op. cit. infra

Volevo tanto bene a Natta da essermi prefisso di assistere ad ogni costo ai suoi prestigiosi “Lunedì Letterari”, malgrado che si svolgessero nel Teatro dell’Opera del Casinò Municipale [di Sanremo (IM)].
E non soltanto, si capisce, perché sapevo di dargli un piacere - quelle conferenze, alle quali intervenivano valenti scrittori e autorevoli critici non potevano non interessarmi - ma bisogna anche sapere che a quei tempi - si era nel 1958 - io facevo l’idraulico e poteva succedere che proprio durante uno di quegli attesi pomeriggi culturali mi toccasse, per esempio, di dover andare a pulire le stufe di qualche albergo, per cui, scappando poi a casa per lavarmi alla meglio e cambiarmi d’abito, pur giungendo col fiato in gola a occupare una poltroncina in fondo alla sala, non mi trovassi nello stato d’animo ideale per conformarmi di punto in bianco alla sontuosità dell’ambiente, ancora impregnato come mi pareva d’essere di fuliggine e di sudore.
Ma ero giovane e testardo e in quella breve parentesi di brusii e andirivieni che prevedevano l’inizio della conferenza riusciva quasi sempre a rinfrancarmi.
All’apparire sul palco di Natta al fianco del suo illustre ospite, io mi sentivo, ormai, a mio agio; tiravo un sospiro di sollievo e partecipavo allegro ai battimani del pubblico.
Ma Natta, decisamente, insisteva nel chiedermi troppo.
Pretendeva addirittura che, conclusosi il discorso, io lo raggiungessi dietro le quinte e mi facessi coraggiosamente avanti per stringere la mano al celebre personaggio di turno, mentre intanto, Natta, mi presentava.
L’ospite, messo alle strette, doveva pur rivolgermi qualche imbarazzato complimento…
Queste non volute intrusioni in un mondo che non mi toccava finivano con l’opprimermi e me ne tornavo a casa scontento e umiliato, tanto più se m’ero visto costretto a partecipare al rinfresco che concludeva la cerimonia.
[…] Quando ci ritrovammo soli implorai Natta di aver compassione dei miei limiti. Non me la sentivo più di far la parte del poeta del posto, e rinunciavo volentieri ai privilegi che ne derivavano.
[…] Da allora mi godetti il piacere dell’incognito nella mia poltroncina d’angolo, vicina all’uscita, e Natta, quando riusciva ad avvistarmi, mi salutava dal palco con un impercettibile gesto. 

Un lungo ricordo dei “lunedì letterari” apre Il vino schietto dello scrittore Giacomo Natta, omaggio firmato da Luciano De Giovanni per la rivista «Provincia d’Imperia» (14, 1991, pp. 14-15)

Alessandro Ferraro, Aprii, cauto, la porta. L’incontro di Luciano De Giovanni con Camillo Sbarbaro, in La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro,  XXVIII, n° 84, settembre/dicembre 2017

Enzo Maiolino, Ritratto di Luciano [Luciano De Giovanni], 1956 - Fonte: Comune di Diano Marina (IM) cit. infra

Di Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1921 e morto a Montichiari (Brescia) nel 2001, amici e biografi ci hanno consegnato l’immagine “esterna” di uomo schivo e riservato, costretto a intraprendere diversi mestieri e a seguire infine il mestiere del padre idraulico per provvedere ai bisogni della famiglia.
Autodidatta di moltissime letture, negli anni ’50 ebbe presto accoglienza in un cenacolo di poeti e pittori che fiorì a Bordighera, tra i quali Enzo Maiolino e Carlo Betocchi. Fu quest’ultimo a cogliere l’originalità delle sue prime prove e ad avviarlo alla collaborazione con importanti riviste letterarie nazionali. Avvenimento assai importante degli anni successivi è la corrispondenza intensa con due grandi personalità della poesia ligure, Angelo Barile e Camillo Sbarbaro, ch’egli considerò sempre amici e maestri. Con Barile, soprattutto, il rapporto si rivelerà particolarmente affettuoso e continuo data l’affinità -non l’identità- del sentimento religioso che legava entrambi.
L’attività poetica di De Giovanni si estende, con alcune interruzioni, per tutta la seconda metà del secolo scorso. Ma l’interesse esclusivo dell’autore per l’atto creativo in sé, come partecipazione al progetto di vita piuttosto che al successo della sua produzione, ha fatto mancare la cura per il ricupero e l’organica collocazione dei testi in raccolte. Ciò spiega perché ai riconoscimenti sempre lusinghieri della critica non sia seguita la conoscenza e l’apprezzamento del grande pubblico.
Pertanto la pubblicazione delle poesie di De Giovanni, promossa da amici ed estimatori, non colma tutte le lacune e riesce oggi, in parte quasi introvabile. Spetterà ai figli del poeta, Giorgio e Anna Maria trovare mezzi ed energie per dare avvio al recupero e di riordinamento dei materiali esistenti. Solo allora potrà essere avviata un’attività critica da cui attendersi la soluzione dei problemi ancora aperti. Anzitutto quello delle fonti, non ancora esaurientemente esplorate [...]
Mario Carletto, La condizione di precarietà della vicenda umana nell’opera poetica del sanremese Luciano De Giovanni, Incontri in Biblioteca, "L’infanzia, il passato, il presente. Tre stagioni, tre autori del Ponente ligure", Comune di Diano Marina, Biblioteca "A. S. Novaro", 2007

"Ehi, sorellina!". Quasi stupito, appena addolorato, la sgrida come a dirle "Cosa stai facendo? Svegliati! È inverno, fa freddo, ma c'è il sole e il cielo è limpido. Perché sei morta, allora?"
Un minimo e preziosissimo Cantico delle creature, di francescana umiltà e letizia: come tutte le poesie che ci ha lasciato Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari nel 2001.
De Giovanni per tutta la vita ha svolto lavori umili, portalettere dapprima, poi idraulico; abitava con la moglie e due figli in un piccolo appartamento sulle colline della Pigna, nella Sanremo vecchia, vicino al Santuario dell'Assunta. Amando in modo ingenuo e appassionato la poesia, appena poteva si ritagliava uno scampolo di tempo per studiare Lao Tzu, Bashô, Emily Dickinson, Rilke, Eliot, i Vangeli, i grandi del nostro '900. Tra di loro, anche Carlo Betocchi (altro maestro dimenticato… ), che fu il primo ad accorgersi di lui, presentando alcuni suoi versi sulla rivista Letteratura nel 1956.
Alida Airaghi in La poesia e lo spirito

Nella foto d'epoca, da sinistra, Enzo Maiolino e Luciano  De Giovanni

L’esistenza, oggi, di un Fondo De Giovanni lo si deve alla determinazione ma anche al caso. Era il febbraio del 2011, al Museo civico Borea d’Olmo di Sanremo Giuseppe Conte presentava il suo Viaggio sentimentale in Liguria (Philobiblon, 2010) ed eravamo giunti io da Ventimiglia, Enzo Maiolino da Bordighera e Stefano Verdino da Genova. Cogliendo l’occasione e utilizzando come pretesto la recente pubblicazione di un mio contributo - frondoso, barocco e, ahimè, pure acerbo - su Le case vicino al torrente di De Giovanni (Philobiblon, 2009) Verdino mi presentò Maiolino e poi Giorgio, avvicinatosi dall’angolo dove aveva assistito all’evento: ho conosciuto, così, il figlio e l’amico più fedele del poeta grazie al suo più assiduo studioso [...] Le riviste e il raccoglitore hanno costituito una base molto solida su cui ricostruire la bibliografia degli scritti di e su De Giovanni che si trova in chiusura del quaderno [...] l’autore rimane da decenni introvabile, come gli scrisse il 21 settembre 1984 un lettore d’eccezione, Fredi Chiappelli (da Los Angeles di passaggio a Genova): Gentile signore,leggo su «Resine» le sue Nove Poesie (2). Il profondo interesse di cui mi hanno colpito (e per ragioni che vanno dalla raffinatezza pressoché incredibile nella forma alla percezione degli scandagli nelle più austere aree dell’esperienza) mi spingono all’indiscrezione di scriverle direttamente.Non che non abbia, prima, tentato di rintracciare in varie librerie genovesi qualche Sua pubblicazione; e persino scomodato amici che si occupano di letteratura ligure per essere avviato su una pista bibliografica. Ma sono stati tentativi sfortunati, e anche da [Domenico] Astengo ho avuto il consiglio di scriverle.Non ho mai fatto niente di simile; ed ho tutto l’imbarazzo che potevo avere avvicinandomi alla letteratura quasi cinquanta anni fa. Persino la domanda mi pare cruda e impertinente.Ma vorrei leggere altre sue cose. Dunque: Come devo fare? Come posso procurarmi i suoi scritti?Ora dovrebbe venire un paragrafo di scusa. Me ne voglia esentare: e credermi invece con ammirazione il suo Fredi Chiappelli Sullo scaffale centrale [...]  una geografia in gran parte ligure (con edizioni e dedicatari di Bordighera, Sanremo, Imperia, Albenga, Savona, Genova, Recco e Sarzana) ma qualche libro gli giunse da Milano, Firenze e d’oltreoceano, tramite lo stesso Verdicchio. Oltre al Fuochi fatui con dedica di Camillo Sbarbaro nell’edizione All’Insegna del Pesce d’Oro (Milano 1958) di Scheiwiller [...] spiccano, anche per ricorrenza, i nomi di Elio Andriuoli, Fredi Chiappelli, Franco D’Imporzano, Sergio Ferrero (che attende giudizi e s’augura di non deludere De Giovanni), Roberto Rebora, Lalla Romano (che definisce De Giovanni «poeta del mare», 4 gennaio 1995), Bruno Rombi, Giovanni Testori («a Luciano De Giovanni di cui ho amato le bellissime poesie con affetto», 25 marzo 1971), Renato Turci e Guido Zavanone [...]  È la fedeltà di De Giovanni alla sua terra (nativa o d’adozione che sia), e che ben lo apparenta ai maggiori poeti della «Riviera Ligure», vero com’è ancora una volta che in Liguria non si nasce o non si vive (e soprattutto non si scrive) senza avere almeno un debito verso quel paesaggio, e il suo singolare alfabeto (6).

1 Alessandro Ferraro, Memoria di Enzo Maiolino, «La Riviera Ligure», XXVIII, 83, maggio-settembre 2017, pp. 73-77. 
2 Luciano De Giovanni, Nove poesie, «Resine», seconda serie, VI, 19, gennaio-marzo 1984, pp. 45-47 (con nota di Domenico Astengo, p. 48).
6 Giorgio Caproni, Luciano De Giovanni per i tipi di Rebellato: Viaggio che non finisce, «La Fiera Letteraria», 9 marzo 1958, p. 3. Ora in Giorgio Caproni, Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, prefazione di Gian Luigi Beccaria, Aragno, Torino 2012, vol. 2, pp. 1003-1007 (1005-1007).
 
Alessandro Ferraro, Partendo dal Fondo in La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, n° 87-88, settembre 2018 - aprile 2019, Anno XXX  

martedì 1 dicembre 2020

Due lettere da Zanzibar a Camporosso (IM) nell'estate del 1888

Archivio: Silvana Maccario di Camporosso (IM)

ZANZIBAR, 26 luglio 1888

Amatissimi Genitori,
Eccoci Carissimi Genitori ora che siamo noi giunti al luogo destinato;
noi giungemmo il 21 Luglio alle 2 pomeridiane tutti sani e salvi;
non posso dire di aver fatto un cattivo viaggio, ma nemmeno buono; ma
basta; finché ci campiamo la vitta va sempre bene; ora per tanto
Voglio narrarvi qualche cosa che ho vedutto durante il mio viaggio.
Già voi sapete Caris. Genit. Che partimmo da Spezia il 10 giugno
E giungemmo a Porto Saïd, Egitto il 16 dello stesso mese.
Questa città e piantata sulla sabbia e vi è tutta pianura; la gente nativa di questa, sono nere; perché il calore comincia ad alterarsi.
In questa città vi e qualche Italiano, e parechi francesi, in questa città
Per quanto abbia veduto non ha nessun prodotto perché vi e tutta
sabbia. Poi partimmo da Porto Saïd il 19 , ed entrammo subito nel canale di Suez, e vi abbiamo impiegato 22 ore, perché bisogna andare adaggio,
oltre di questo bisogna fermarsi alle stazioni
per lasciar passare altri bastimenti che anch’essi sono in canale,
perche fuori delle stazioni, più di un bastimento non può
passare atteso che il canale è stretto, e ogni distanza vi sono
le machine che lavoravano ad ingrandirlo.
Poi finito il canale giungemmo subito a Suez, e colá non
si siamo nemmeno affermati, perché il console ne ha fatto
preparare la carne, e quando passammo vi era già il battello pronto
che l’ abbiamo imbarcato senza fermarci. Di li abbiamo avutto
ancora 5 giorni di traversata, che giungemmo poi a Aden il 26 di giugno
e lá cosa posso dirvi che vi faceva un caldo che non si poteva resistere.
Di questa città non posso dirvi niente perché resta dietro a una montagna
alla riva del mare vi e un mucchio di case come Camporosso;
la gente son neri e portano uno straccio davanti, il rimanente
son nudi; qui a Aden facciamo carbone e partimmo il
1 luglio imbarcando il Signor ( ?) Console Generale di
Aden. Di la partiti che noi siamo, colpi di mare a più non
posso ; e dopo 2 giorni siamo andati appoggiare in un isola chiamata…….( Raz Filuch ? ) per riparare la macchina, e ci restammo 24 ore. Dopo siamo partiti e al vedere galleggiare la povera Archimede; in fini partiti che noi siamo da
Raz Filuch alla sera, all’ indomani a mezzogiorno abbiamo dovuto dare
fondo in un’altra isola chiamata Tamrida, non potendo andare
avanti dai colpi di mare che si prendeva da prora per temanza che
non sfasciassero il bastimento. Dunque dopo altre 24 ore siamo partiti
e di lí ; vi lascio che dire in coperta non si poteva abitare, dai colpi di mare
che s’imbarcava, giù sotto si è privi dell’aria si patisce; infine che alla
meglio giungemmo all’isola di ….?secce? Il giorno 12 luglio.
Giunti li che noi siamo, facciamo carbone e qualche provista e ci rinfrancammo
4 giorni; e a dirvi la verità questa città e piccolissima ma è bella, e la
sua bellezza dipende dalla grande e bella veggetazione che essa contiene,
le colline son tutte adornate d’alberi di frutta buona a mangiare,
e varie quantità di fiori, poi colà il calore comincia già a diminuire
perché in queste parti ora siamo di marzo, dunque partiti di lì
Il 16, e giungemmo a Zanzibar il 21.
Di questa città non posso dirvi altro che d’intorno ha essa pure una
bella veggettazione ma poi d’entro e brutta, per le contrade vi è un odore
che vi leva il respiro, la gente son Neri quello si sa e vanno vestiti ancora a uso Cristiano, non come a Aden che metteva schifo a guardarli e qui vi e rischio a prendere le febbri. Il Comandante il giorno 22 ha letto l’ordine del giorno e disse di prendere ogni mattina il chinino, di guardarsi di non mangiare frutta guasta o acerba, e di andare a terra prima o dopo il tramonto del sole, di non bere acqua
della città e di guardarsi dal mangiare a terra, perché sono vivande
che possono attribuire le malattie non essendoci noi
abituati.
Ora in qualità agli affari del Console per alzar la bandiera
di questo non si è ancora deciso niente, e nemmeno si sa qiuando si
décidera, e quando sarà il nostro ritorno.
La salutte al presente é ottima sia di me, che del mio padrone
A. B. come spero che ringraziando Iddio sarà lo stesso di voi
tutti; mi saluterette i fratelli del mio padrone specialmente il
S. Domenico, B. e tutta la sua famiglia, e i miei parenti ed
amici e i miei compagni, mio cognato sorella e un baccio alle
nipoti e un baccio a a tutta la famiglia passo a dichiararmi
il vostro
Amatissimo figlio Gio:Batta

È già la terza lettera che vi scrivo da che son partito da
Spezia e non ho ancora ricevutto nessuna risposta.
Dattemi nuova di tutto ciò che avviene in Camporosso.

La mia direzione eccola qui

Al Ministero della Reggia Marina
A Roma
Per il Signor Raimondo Gio:Batta
Imbarcato sull’Archimede
Adio Adio

 

Archivio: Silvana Maccario di Camporosso (IM)

ZANZIBAR, 28 agosto 1888

Amatissimi Genitori

Già stavo pensando che cosa ne sarà della mia famiglia;
ma finalmente ricevetti notizzie che mi sollevarono il cuore.
Non sapete miei cari genitori la gioia e contentezza ch’io nutro, quando
ricevo notizzie da voi, e del paese sebenché siano pocche ; pare che
si ripresentino d’avanti quell’anime ch’io lasciai alla casa
paterna; e anche lontano lontano io sia da voi; il mio cuore e il
pensiero è sempre da viccino, mi duole assai non poterci essere fra noi
un più continuo scambio di notizzie motivo di cui è la lontananza che ci divide
e perciò v’invio una presente credo che possa in certo modo darvi una
prossima idea del paese di Zanzibar e suoi contorni.
Zanzibar stato ancora indipendente è governato da un
Pasciá comunemente chiamato Sultano; è compreso nella
Zona Torrida ed in numero di latitudine Sud entrando in
porto di notte e specialmente esse quando sono direste
in un piccolo Parigi tanto che echeggia la luce in vari punti
del paese, e sopratutto nel palazzo del Sultano; ma questa
beltà vi rende ben tosto illusi allo spuntar dell’ Aurora
in cui l’occhio in lungo d’aspetarvi quello che figuravi, gli si
présenta din’anzi le tracce di un paese selvaggio ove la civiltà sta
ancora sepolta.
A pochi passi dal mare sorge nel mezzo di una piccola
Piazza il palazzo Reale a 3 piani sporgenti .........
e terrazze e sorrette da colonne sovraposte l’una
dall’altra. Dinanzi al medesimo si eleva un ‘altra torre
la quale compie gli uffici di orologgi publici e di semaforo.
Semaforo s’intende un punto in cui rende avviso anticipato
di provenienze di bastimenti.
A destra e a sinistra è circondato da case che man
mano che si allontanano dal palazzo del Sultano, si fanno
sempre più rozze, finché terminano di ampie Capanne
ricoperte di foglie di palme. Le strade strettissime
e piene d’ogni mondizia e salano un puzzo talmente
nauseante da subito rendervi nausea la discesa a terra.
Nessun negozio è alquanto Cristiano se nonché due o tre
piccole betole apartenenti ai Turchi sono i mezzi di passatem-
po di alcune ore. Alla sinistra del palazzo del Sultano
sono messe in comunicazione per mezzo di anditi altre case
più piccole di proprietà del medesimo in cui trovarsi rinchiuse
una gran quantità di giovanette a disposizione del Sultano
e queste case sono chiamate Serraglio. Nessun può avere
comunicazione colle donne del Serraglio, ad eccezione della
servitù ivi destinata; ritenuto che esso è considerato come
un tempio di schiave, o un vero monastero di Monache.
Davanti a queste case per un lungo spazzio di terreno
è costruito un giardino fiancheggiato dalla parte del mare
da un vapore materiale, e dalle cui parti laterali sorgono moltissime
fontane. Molte gabbie di ferro contenute da varie razze
D’animaliers ferroci fanno seguito al giardino, ed in vicinanza al
mare. Queste sono le uniche bellezze di Zanzibar, il resto
vastissime pianure e verdeggianti abitate d’infinità di
bestie ferroci. Di ogni speccie di frutta è abbondantissima fra
i quali è da notarsi, gli Ananas, Dateri, Banane,
Cacchi, Aranci ecc ed altri infiniti squisiti son il loro
sapore.  Zanzibar è atraversato in lontananza da un fiume
il nome non lo so; pieno di Cocodrilli e frequentato da Leoni, Tigri,
Pantere Leopardi, Scimie ecc
Il Venerdì giorno riconoscente dai Turchi, più che la
Domenica dagli Europei, e si rapresenta d’inanzi una giornata
di Carnavale. Al colpo di un cannone alle ore 4
Antemeridiane, è il segnale dell’alzata della loro Bandiera;
a quell’ora in poi gran parte di gente nere, incomincia a
percorere i vicoli seguiti da rintocchi di tamburi e da pifferi,
finché cerca di riunirsi sulla piazza de Sultano.
Poi l’esercito del Sultano schierato sul d’avanti del palazzo
composti di circa un migliaio, senza l’aggiunta del popolo che
attende con impazienza l’arrivo del loro Sovrano.
É inutile descrivere le loro armi da fuoco, perché da voi
medesimi potrete bene immaginarvi, notando però essere la
grande abilità e divertimenti il maneggio di bastoni e delle
frecce. Allo spuntar del Sultano è subito
intonato da alcuni indigeni composti in una specie di
fanfara, Le marce che dai medesimi vengono suonate
sono molto lontane dalle nostre, ma che quantunque
diaboliche, si sente un’agradevole piacere nelle varie specie
di strumenti che noi altri non conosciamo.
Quindi il Sultano seguito da alcuni Individui suoi Sudditi,
Prende a passare in visita la trupa ; compiuta in pochi
minuti la visita tra le acclamazioni e gli aplausi
Rientrando in casa, pago della sua funzione per la
sua riconoscenza della festa si fa entrare nel
Serraglio. Scopo della visita al così detto monastero, è di
togliervi dal medesimo una fra le quali più simpatiche;
la quale viene condotta dalle madamigelle nelle sale
del palazzo e resta a disposizione di lui finché
giunga il venerdì seguente: viene ricondotta
la scambiata come una simile e così di seguito.
Le donne esistenti nel Serraglio ammontano
per quando ho potuto sapere ad una Cinquantina.
Durante il giorno continuano le feste con accompagnamenti
di musica e pifferi nella piazza del Sultano e vanno consecutivamente
perdendosi all’inoltrarsi della notte. Il clima
considerato la posizione Geografica e la stagione in cui
siamo, è da notarsi una gran parte depresione di
temperatura nel percorso della notte, però il Caldo
s’avvicina sensibilmente.
Continuando a descrivervi non voglio trala-
sciare di dirvi due parole intorno agli usi e
Costumi degli abitanti. I ricchi distinguon-
si dai poveri , perché questi ricoprono solo in parte
le loro Carni nere con lunghe Camice
e di tutti i colori. Mentre i ricchi alla grande
diferenza della finezza degli Abiti, aggiungono ;
non solo avere completamente la persona ricoperta,
ma anche calzano una qualità di stivallini
chiamati sandalie.
Nessuna bellezza distinguesi sia negli uomini che
nelle donne essi son tutti di colore nero, ed hanno i capeli
nerissimi e ricciuti. Non tutte ma in gran parte le donne
hanno il naso atraversato da un perno di metallo lucente
terminante ad una estremità di anello e dall’altro in una
piccola palla. Quantunque mi sia affaticato a
domandarne spiegazzione non rimasi contento; ma
però non ho ancora finito la mia descrizione, per ora
mi arresto e vi spiegherò meglio il rimanente al ritorno
Se iddio ........
Ricevetti il giorno 8 di agosto notizie di voi inviatemi
il 27 giugno , ma già io aveva una mia lettera in
cammino dandovi notizie del mio viaggio.
Non credette miei cari genitori che la lontananza che
passa tra le mie notizie sia per mia trascuratezza,
ma è soltanto perché la posta non parte che una volta
al mese, perché tutti i postali che partono da Zanzibar
spedisco le mie notizie benché si paghino 75 cent.mi
ogni lettera.
Ora per quanto posso dirvi che la salutte sia di me
del S. comandante non dico che sia perfettamente buona
ma c’è la passiamo ancora discretamente. Il nostro ritorno
non sappiamo quando sarà, può essere fin da domani ma
non si sa. Tanti salutti alla famiglia dell’amico Cavaré
a tutti i miei parenti ed Amici ed un bacio ed un
abbraccio a tutta la famiglia e passo a dichiararmi il
Vostro Amatissimo ed Obbed. mo Figlio GIO:BATTA
UN bacio al nonno 

Archivio di Silvana Maccario di Camporosso (IM)

[ Nella riproduzione delle due lettere, di cui qui sopra vengono pubblicate le prime pagine, non sono state apportate, a parte errori di comprensione, modifiche ai testi. L’estensore fu Sebastiano Raimondo, vulgo Gio.Batta (di Agostino e Celestina Piombo), nato a Camporosso (IM) … e morto a Genova il 25 luglio 1959. I suoi fratelli furono: Rosa (nata nel 1855), Teresa (nata nel 1857), Paolina (nata nel 1858), Giovanna (nata nel 1862), Costanza (nata nel 1871), Carlo (1867-1940)Per la nave Archimede si veda a questo link. Il Console Generale d’Italia a Zanzibar alla data richiamata era Antonio Cecchi, di cui a questo collegamento é tracciato un breve profilo ]