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martedì 25 aprile 2023

Gli ultimi scontri armati e le ritorsioni naziste sui civili nell’area ovest della Val di Nievole

Pescia (PT). Fonte: mapio.net

Dopo aver colpito il 23 agosto del '44 nell'area del padule di Fucecchio, le operazioni dell'esercito tedesco, temendo, da quando l'armata britannica si era sganciata per dirigersi a Pesaro, una imminente avanzata degli americani nel territorio della Val di Nievole, si concentrarono a nord-ovest della piana tra Pescia e Collodi e lungo la via di fuga nell'area collinare da Vellano a Pietrabuona, San Quirico, Medicina, Sorana, Malocchio e Prunetta.
Nella zona di Malocchio nel Comune di Buggiano il 24 novembre del '43 vi era stato un grande rastrellamento tedesco con diversi civili trasferiti temporaneamente alle carceri di Pistoia a seguito dell'uccisione, in date diverse, di due noti fascisti. Si trattava del pesciatino Romolo Del Sole fucilato da ignoti antifascisti in località Le Carde, di Orlandi Gherardo detto 'Crispino' ritenuto complice dell'uccisione di due giovani avvenuta a Malocchio ai tempi del primo squadrismo nel lontano 29 settembre 1922.
Come viene rievocato da Amleto Spicciani <71, accadde che il 5 settembre '44, mentre la città di Pescia veniva devastata dai genieri tedeschi in ritirata e si vedevano le brutali impiccagioni di civili lungo il fiume, una pattuglia di tedeschi e di militi repubblichini si mosse verso Malocchio per attuare una operazione di rappresaglia e di cattura dei soldati angloamericani che da mesi avevano trovato rifugio e protezione in quella zona. Si trattava di alcuni prigionieri inglesi fuggiti dai campi di concentramento di Lucca e di due piloti americani di un aereo alleato precipitato in località La Serra.
Dopo aver catturato Gino Ricciarelli e aver trovato nella casa di Stefano Lavorini un fucile dimenticato dai partigiani, i tedeschi uccisero sul colpo Mazzino Gigli che usciva dal bosco scambiato, solo per questo, per un partigiano. Uccisero poi, fuori della loro casa, Lida Menni e Laura Lavorini che aveva in bracco il figlio Aldo rimasto ferito al pari di Gina Papini e dell'anziana Bruna Lavorini. La generosa accoglienza ai prigionieri alleati portò la piccola frazione collinare a subire questa ultima violenza.
Ad ovest di Borgo a Buggiano, nella zona di Pescia, sporadici scontri fin dal mese di luglio avevano acuito la tensione delle truppe tedesche dopo l'uccisione di un loro soldato, avvenuta il giorno 21 a Vellano, ad opera di un partigiano. Il giorno 24 sulla via per Pietrabuona, a seguito di un lancio di bombe a mano all'interno di una cartiera che i tedeschi stavano perlustrando, un altro soldato tedesco era rimasto ucciso ed un terzo, gravemente ferito, all'indomani era morto all'ospedale di Pescia.
Questo stillicidio di assalti partigiani e di vittime tra le proprie file, come era prevedibile, acuì il desiderio di ritorsioni da parte dei tedeschi che intensificarono le loro perlustrazioni nell'intera area collinare della cosiddetta 'Svizzera pesciatina' per cui il 17 agosto a Vellano si ebbero altri due morti per parte nel corso di un violento scontro a fuoco tra tedeschi e partigiani. Il vescovo diocesano monsignor Simonetti, che aveva chiesto clemenza verso la popolazione civile direttamente presso Kesselring, nei giorni in cui, fino a metà luglio, questi stava a Monsummano, si rivolse ai parroci della Val di Nievole.
Il suo messaggio invitava i sacerdoti a capo delle varie parrocchie affinché dicessero a “quei ragazzi dei boschi”, cioè ai partigiani, di stare molto attenti a quello che facevano dal momento che i manifesti affissi dal Comando tedesco avvertivano che per ogni soldato tedesco ucciso dieci italiani sarebbero a loro volta stati fucilati. Ma ormai si era giunti alla resa dei conti tra l'ansia di cacciare i tedeschi e la ferocia con la quale questi difendevano palmo a palmo la loro ritirata. La via di fuga verso La Lima e l'Abetone per attestarsi sulla Linea Gotica era divenuto il più tormentato passaggio e obiettivo da dover raggiungere.
Tra il 17 e il 19 agosto era poi accaduto il caso di San Quirico. Due ufficiali tedeschi in località La Piana, mentre accompagnavano a casa un fascista che, sapendosi ricercato dai partigiani, aveva chiesto protezione a quegli ufficiali germanici, vennero uccisi da un gruppo di disertori tedeschi. Questo episodio avrebbe dato luogo ad una sanguinosa ritorsione che di seguito riferiamo nella testimonianza del sacerdote Vincenzo Del Chiaro costretto a presenziare alla fucilazione di venti persone.
«La sera del 17 agosto '44 in casa degli eredi di Eufisio Quilici di Pariana, casa posta in San Quirico, località La Piana, abitata da Salvatore Altiero sfollato da Livorno, si teneva una cena tra i dirigenti della Todt alla quale prendevano parte anche gli ufficiali tedeschi Flozet Iacchin, Fopp Fleinz e Cinbet Wichert, dei quali i primi due rimarranno uccisi nelle circostanze di cui appresso.
Nel frattempo, persone dal fare sospetto si aggiravano nei pressi della casa di Edoardo Consani nella quale, sfollato da Pescia, abitava Nello Scoti, repubblichino inviso ai partigiani e sospetto di possedere una radio trasmittente al servizio dei tedeschi della quale i partigiani volevano impossessarsi. Due ufficiali tedeschi si dissero disposti ad accompagnarlo fino a casa.
Lungo la strada che conduce ad Aramo, giunti nei pressi della casa del Consani, incontrarono sei tedeschi che, pur vestendo ancora la divisa militare, avevano disertato e si erano uniti ai partigiani che stavano nel paese di Medicina. Erano accompagnati da Roberto Darini e da un francese; il gruppo era invece capitanato dal ben noto Franz. Gli ufficiali tedeschi intimarono l'alt e dissero: 'Voi essere partigiani'. No, rispose Franz, 'noi camerati'.
Alla richiesta di documenti, Franz estrasse una pistola, mentre teneva quella d'ordinanza nella fodera, e fece fuoco contro i due ufficiali che non fecero in tempo a difendersi dal fulmineo gesto. Uno dei due morì sul colpo e l'altro appena raggiunto l'ospedale di Pescia. La mattina del 19 agosto il paese di San Quirico fu raggiunto da un reparto tedesco che lo circondò affinché nessun uomo tra quegli validi, che comunque si erano allontanati fin dal giorno precedente, ne uscisse fuori.
Il paese venne saccheggiato e poi messo a ferro e fuoco; 50 furono le case distrutte, 19 quelle incendiate, le altre danneggiate. Contemporaneamente l'ufficiale ordinò al pievano di far preparare nel cimitero una fossa capace di contenere 20 cadaveri mentre un altro reparto in prossimità di Pietrabuona fermava sulla via Mammianese un gruppo di 47 persone che, dopo essere state rastrellate e condotte alla Lima per eseguire fortificazioni sulla Linea Gotica, erano state mandate indietro perché risultate non idonee a quel lavoro. Tra queste vi era un solo residente del posto. Ne vennero scelti a caso 20 e avviati a San Quirico dove vennero fucilati in quattro gruppi davanti alla fossa comune». <72
Questo episodio si distingue per la sua tragicità che vede soldati tedeschi (disertori) che uccidono altri soldati tedeschi e quella di una rappresaglia nella quale morirono ben due decine di civili - tra i quali di abitanti della zona di Pescia, dove erano stati uccisi in località La Piana due ufficiali, ve ne era uno solo - civili che erano da poco tornati liberi dato che gli stessi tedeschi li avevano rimandati a casa, perché non più necessari al lavoro in corso sulla Linea Gotica.
Un assassinio a sangue freddo, perché fuori da ogni logica di rappresaglia per precedenti attacchi subiti dai tedeschi, fu invece quello compiuto il 14 settembre nel cimitero di Vellano dove una donna, Giuseppina Sansoni, venne uccisa da soldati tedeschi di passaggio mentre era china a pregare sulla tomba del figlio Vittorio, partigiano ammazzato giorni prima al ponte di Sorana. Brutale assassinio fu anche quello di due giovani donne livornesi, Iris Stiavelli e Miriam Cardini, mutilate e gettate in una fogna a Pietrabuona da un manipolo di soldati tedeschi “senza onore” mentre stavano risalendo la collina verso settentrione.
Nella sua rievocazione, Giorgio Calamari ricorda molti altri episodi accaduti nell'area pesciatina che portarono al sacrificio di cento e più vittime civili molte delle quali nell'imminenza della ritirata dei tedeschi, ma anche altri episodi precedenti come quella di impiccati, nella zona centrale del paese, appesi ai rami degli alberi lungo il fiume Pescia. Vittime di pattuglie tedesche in transito verso la Lima erano state il 5 settembre anche due donne a Malocchio e altri tre giovani alla Serra.
Il 6 settembre molte case di Pescia vennero minate da genieri tedeschi per ostacolare l'imminente avanzata degli Alleati. Nella circostanza rimasero uccisi i coniugi Orsucci e le vedove Magnani con le loro giovani figlie. Il 7 settembre a Collodi vennero giustiziati tre partigiani livornesi che operavano nella zona di Villa Basilica. Persino l'8 settembre, mentre Pescia veniva liberata dagli Alleati, una pattuglia tedesca tra Ponte di Sorana e Ponte a Coscia fucilava due giovani partigiani sorpresi armati mentre tornavano da una missione.
Nello stesso giorno altri soldati tedeschi sparavano e uccidevano tre uomini mentre cercavano di sottrarsi alla cattura. Infine in località Medicina venivano ammazzati due partigiani, Elio Mari e Foro Lenci. L'8 settembre Pescia fu finalmente liberata, ma i tedeschi, annidati sulla collina e non paghi del sangue che avevano fatto versare a decine di innocenti, nei giorni 12 e 13 continuarono a cannoneggiare il centro di Pescia causando ulteriori 14 vittime. <73
[NOTE]
71 Amleto Spicciani (don), Il 5 settembre 1944 a Malocchio di Buggiano, Stampria Vannini, Buggiano, 2008.
72 Vincenzo Del Chiaro, (don) Le tragiche giornate di San Quirico in Valleriana, in Memorie di guerra, Stamperia Benedetti, Pescia, 1944, trascitto in www. digilander/sanquiricoinvalleriana/eccidio.
73 Giuseppe Calamari, In memoria delle vittime pesciatine della barbaria nazifascista, Stamperia Benedetti, Pescia, 1945. Dino Birindelli, Pescia 1944. Tre giorni di settembre, Stamperia Benedetti, Pescia, 1984.
Vasco Ferretti, La resistenza nel pistoiese e nell'area tosco-emiliana (1943-1945). Rivisitazione e compendio di una terribile guerra di liberazione, guerra civile e guerra ai civili, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, giugno 2018

domenica 16 aprile 2023

Cenni sulla Resistenza in provincia di Parma

Fornovo di Taro (PR). Fonte: Wikipedia

Nei concitati giorni della proclamazione dell’Armistizio anche il Comitato d’azione antifascista parmense intensifica gli sforzi. In una riunione tenutasi a Mariano il 9 settembre, nella villa del professor Angelo Braga, viene presa la decisione di coordinare gli sforzi degli esili gruppi antifascisti presenti sul territorio e cominciare ad organizzare una concreta opposizione agli occupanti <8. Da subito il nascente CLN si impegna per offrire aiuto e sostegno logistico ai militari alleati in fuga dai campi di prigionia, cercare armi, imbastire una rete di contatti. Il 15 ottobre, nello studio dell’avvocato Francesco Micheli, dirigente del Partito Popolare ed esponente di spicco dell’antifascismo parmense, si costituisce formalmente il Comitato di Liberazione Nazionale di Parma, struttura provinciale di organizzazione e coordinamento della nascente lotta antifascista. Ne fanno parte comunisti, socialisti, cattolici, repubblicani, liberali, azionisti <9.
Il CLN così costituito deve preoccuparsi di imbastire un’efficiente rete di comunicazioni con i centri del movimento partigiano. Ad attendere a questi compiti sarà un esercito di staffette, che costituiranno, per tutti i mesi della lotta partigiana, i nodi fondamentali di una rete clandestina di comunicazione e informazione. Le staffette sono tradizionalmente, nella memorialistica sulla Resistenza, donne. Per loro era forse più semplice muoversi liberamente sul territorio, destando minori sospetti dei colleghi maschi. Un compito importante che però non esaurisce la varietà dei ruoli ricoperti dalle circa 460 resistenti riconosciute in Provincia di Parma che, per tutti i mesi della lotta partigiana, cureranno feriti, faranno opera di propaganda, consegneranno stampa clandestina, organizzeranno manifestazioni pubbliche, prenderanno parte a combattimenti <10.
All’indomani dell’Armistizio si pongono anche le basi per la formazione delle squadre SAP (Squadre di Azione Patriottica) e GAP (Gruppi d’Azione Patriottica), vere e proprie cellule partigiane clandestine dislocate in città, composte da persone che, anziché abbandonare le proprie case e unirsi alle bande della montagna, continuano a vivere nella propria dimora e mantenere un normale impiego, dietro cui mascherano l’attività di guerriglia, sabotaggio e spionaggio.
Al progressivo consolidamento delle forze antifasciste si accompagna la rapida stabilizzazione del potere tedesco in città: tra settembre ed ottobre il controllo militare e amministrativo della provincia di Parma passa nelle mani del Militärkommandatur 1008, l’amministrazione militare tedesca, stabilitasi a ridosso della Cittadella, tranquillo quartiere residenziale lontano dai possibili obiettivi dei bombardamenti alleati <11.
[NOTE]
8 Gorreri D., Parma ’43. Un popolo in armi per conquistarsi la libertà, Parma, Step, 1975.
9 Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, I caduti della Resistenza di Parma 1921-1945, Parma, Step, 1970, p. 159.
10 Pieroni Bortolotti F., Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia Romagna: 1943-1945, Milano, Vangelista, 1978.
11 Klinkhammer L., Una città sotto l’occupazione tedesca: il caso di Parma, in «Storia e documenti», 5, 1999.
Iara Meloni, Occupazione tedesca e lotta di Liberazione a Parma: una breve introduzione storica in Stefano Rotta, Partigiano Carbonaro. Un ragazzo nella Prima Julia, Parma, Graphital, 2015

In questo capitolo ci si vuole soffermare e analizzare in che modo era strutturato il movimento partigiano parmense e che tipo di rapporti intercorrevano tra i comandi (e organismi) provinciali e quelli regionali o nazionali. Non vuole essere questa la sede per analizzare le caratteristiche e le criticità dei Comitati Nazionali come il CLN o il CLNAI, che sono invece stati ampiamente ed egregiamente trattati da storici come Roberto Battaglia, Claudio Pavone o Santo Peli. <46 Al di là quindi degli organi nazionali, ciò che interessa è focalizzarsi su quelli locali, cercando di dipanare la complicata rete di rapporti interni alla provincia di Parma ed esterni ad essa.
Nel precedente capitolo si è visto come il movimento resistenziale, sin dal suo esordio, sia stato guidato da un organizzazione a carattere nazionale, il CLN <47 appunto, che rappresentava quindi il vertice delle gerarchie di comando. Da questo organo si diramavano e si collegavano tutti i vari Comitati Nazionali sorti nelle città; nel caso di Parma, ricordiamo, questo si formò il 15 ottobre 1944. La fitta rete di collegamenti, non passava direttamente dal CLN nazionale a quelli locali, ma si rapportava anche con organi intermedi, a carattere regionale; per l’Emilia Romagna, era il caso del CUMER (Comando Unico Militare Emilia Romagna). La costituzione dei Comandi regionali si deve all’iniziativa comunista che propose, scrive Battaglia, “di trasformare le vecchie giunte militari in Comandi veri e propri, dotati della necessaria autonomia” <48. I Comandi regionali erano modellati sulla base del Comando Centrale, alle dipendenze del CLNAI, che nacque il 9 giugno 1944 con la costituzione del “Comando Generale per l’Alta Italia occupata del Corpo volontari della libertà” <49.
Alla costituzione del CVL, corrispose una spartizione delle competenze: sommariamente, le attribuzioni del CLNAI erano principalmente di natura politica, quelle del CVL, di carattere militare <50. Al pari di quello centrale, anche i Comitati di Liberazione provinciali e i Comandi locali si basavano su questa divisione. Nel caso parmense, si è visto come nel marzo del 1944, per motivi organizzativi, dal CUMER si formò la Delegazione Nord Emilia, con competenza sulle province di Parma, Reggio e Piacenza <51.  I contatti con il Comando Delegato avvenivano grazie alla costituzione a Fornovo, un paese della provincia parmense, di un Centro Collegamenti del Comando Nord Emilia, nel giugno 1944, affidato ai partigiani Bertini (Bruno Tanzi), Ferrarini (Enzo Costa) e Sergio (Alceste Bucci).
Per completare, sommariamente, il quadro dei rapporti tra la provincia parmense e gli altri organismi presenti sul territorio, è doveroso accennare anche alla presenza del Comando Alleato. Nonostante la scarna documentazione a riguardo, Leonardo Tarantini ci informa del fatto che i primi abboccamenti con gli Alleati risalivano al Natale del 1943. <52
I principali contatti con il Comando angloamericano avvennero per gli accordi relativi agli aviolanci; solo negli ultimi mesi prima della Liberazione, il Comando Alleato interverrà in una questione politica interna al Comando Militare parmense, questione che verrà analizzata successivamente, nel presente capitolo.
La gerarchia di comando non riguardava solo l’assetto nazionale, ma si riproponeva anche a livello provinciale. Nel caso di Parma, al pari delle altre città, il movimento era al suo interno rigidamente suddiviso. All’ultimo gradino della scala piramidale si collocavano le Brigate, gerarchicamente divise in Battaglioni, a loro volta suddivisi in Distaccamenti. Ogni reparto, ricordiamo, aveva il suo Comando composto dal Comandante, il Commissario, i rispettivi vice, l’Intendente e il Capo di Stato Maggiore. Salendo nella scala, al gradino intermedio, si posizionavano le Divisioni. Si tratta di raggruppamenti composti da diverse brigate, che si formarono nel parmense a partire dal febbraio 1945. Una relazione dell’ Ispettore del Nord Emilia, Umberto (Umberto Pestarini), ci informa sui motivi della riorganizzazione in Divisioni: “questo ultimo provvedimento, quello delle Divisioni, fa parte di un piano organico di riforma disciplinare e di dislocazione delle nostre forze […]”. <53 Naturalmente anche le Divisioni avevano il loro Comando. Infine al gradino più alto si trovava il Comando Unico Operativo, che coordinava le Brigate dipendenti e interagiva con i Comandi superiori. A differenza che per le vicine Piacenza e Reggio, a Parma si costituì la Delegazione del Comando Unico, operante nella zona ad Est della Cisa; in teoria essa era subordinata al Comando Unico, ma di fatto operava come autonoma. Sulle mansioni e le questioni inerenti al Comando Unico verrà dedicato un ampio paragrafo del capitolo.
[NOTE]
46 Cfr. R. Battaglia, Storia della resistenza Italiana, S. Peli, Storia della resistenza in Italia, C. Pavone, Una guerra civile.
47 sarebbe più preciso dire il CLNAI dal momento che a partire dal maggio 1944, “si considera a tutti gli effetti rappresentante del governo legittimo” cfr. R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, p. 333.
48 R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, cit. p. 339.
49 Ibidem
50 Per un approfondimento cfr. R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, p. 439.
51 Il Comando Nord Emilia era così composto: Comandante: Mario Roveda (Bertola), Commissario: Emilio Suardi (Rinaldi), Vice Comandanti: Amerigo Clocchiatti (Lamberti) e Giovanni Vignali (Bellini), Ispettori: Enzo Costa (Ferrarini) e Bruno Tanzi (Bertini). Cfr. Fernando Cipriani, Guerra partigiana: operazioni nelle provincie di Piacenza, Parma e Reggio Emilia, p.7.
52 Cfr. L. Tarantini, Resistenza armata nel parmense, p. 67.
53 Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma (d’ora in poi AISRECP), Fondo Lotta di Liberazione, busta RI, fasc. QC, f. 19.

Costanza Guidetti, La struttura del comando nel movimento resistenziale a Parma, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2017-2018

A Parma l'attività militare cittadina fu pressoché inesistente fino al 24 febbraio 1944, quando in centro venne ucciso un milite della GNR. Queste difficoltà di azione trovano conferma da quanto riportato nella Relazione della 12ª Brigata Garibaldi, che attribuiva ai GAP unicamente un'azione di recupero di armi per la montagna nel febbraio 1944. Eugenio Copelli “Gianni”, catturato dalla polizia in un'osteria del quartiere Oltretorrente nella serata del 9 marzo 1944 e ucciso subito dopo, veniva indicato quale comandante dei GAP di Parma da un volantino che lo descriveva come un eroico gappista, ma alla prova delle carte d'archivio risulta che dal colpo di febbraio fino al 10 aprile - quando sulla strada Parma-Colorno venne ferito gravemente da un ciclista un milite della Gnr - non si verificò più nessun attentato. Un ultimo colpo di coda del gappismo parmense si ebbe tra i mesi di maggio e luglio 1944, quando vennero segnalate dai Notiziari della GNR alcune sparatorie compiute da ignoti in bicicletta contro militi della RSI.
Maria Grazia Conti, Gruppi di azione patriottica (GAP) in Comando Militare Nord Emilia. Dizionario della Resistenza nell’Emilia Occidentale, Progetto e coordinamento scientifico: Fabrizio Achilli, Marco Minardi, Massimo Storchi, Progetto di ricerca curato dagli Istituti storici della Resistenza di Parma, Piacenza e Reggio Emilia in Rete e realizzato grazie al contributo disposto dalla legge regionale n. 3/2016 “Memoria del Novecento. Promozione e sostegno alle attività di valorizzazione della storia del Novecento”

Nella provincia di Parma le SAP si organizzarono a partire dall'estate del 1944 nella zona della bassa parmense limitrofa ai paesi di Colorno, Roccabianca, San Secondo e Mezzano di Sotto. Durante l'estate esse disarmarono alcune caserme, effettuarono frequenti sabotaggi alla rete telefonica, alle linee ferroviarie e ai cartelli stradali e sparsero sulle principali vie di comunicazione chiodi antipneumatici per bloccare i mezzi nemici, senza però riuscire ad innescare un movimento di massa nelle campagne circostanti. Queste problematiche furono denunciate nel novembre 1944 proprio dal Comando Terza zona che, in una nota al Comando generale delle brigate Garibaldi, lamentava «l'attendismo» delle comunità locali e la sconnessione esistente tra lotta militare e lotta politica. Sempre nel primo autunno del 1944 cominciò ad esserci traccia di nuclei sappisti anche nella zona a sud della via Emilia, ai bordi della città, ma le azioni, anche in questo caso, non andavano oltre qualche disarmo. Come è noto, i grandi rastrellamenti dell'inverno del 1945 costrinsero le SAP a ritirarsi in montagna per impedire gravose perdite di uomini, lasciando la pianura sotto il controllo dei nazifascisti.
Maria Grazia Conti, Squadre di azione patriottica (SAP) in Comando Militare Nord Emilia. Dizionario della Resistenza... op. cit.

sabato 8 aprile 2023

La ‘risposta flessibile’ al contempo rappresentava una “magnifica opportunità” per l’industria bellica


Sin dai primi giorni del suo insediamento l’amministrazione democratica presieduta da Kennedy lavorò ad un’ampia ed articolata revisione della foreign policy e della strategia nucleare. Gli anni di Eisenhower, specialmente gli ultimi, erano stati caratterizzati da una crisi di fiducia nel contesto della Nato, favorendo quelle spinte centrifughe che avevano provocato, tra l’altro, l’iniziativa tripartita (Italia, Francia, Germania) intesa a realizzare un’autonomia atomica continentale. L’impressione suscitata dal lancio dello Sputnik e la politica ‘aggressiva’ condotta da Khrushev avevano alimentato timori e preoccupazioni in partibus Occidentis. L’URSS aveva conseguito significativi progressi in campo nucleare mettendo a repentaglio quell’egemonia balistica statunitense apparsa, per decenni, incontrastabile. L’elezione di Kennedy, coadiuvato da un brain trust di intellettuali efficiente e determinato, venne interpretata come un’iniezione di dinamismo e di rinnovamento. Per i nuovi inquilini della Casa Bianca apparve prioritario ripristinare un clima di fiducia con gli alleati atlantici per reagire con maggior vigore ed ‘apertura di orizzonti’ alla sfida sovietica. Tale atteggiamento implicava il superamento della dottrina nota come ‘massive retaliation’, ritenuta ormai obsoleta e poco credibile6. Prodromicamente, nel corso della sua campagna elettorale, Kennedy aveva attaccato con acredine la politica del containment, denunciando un incremento del ‘potere d’iniziativa’ sovietico in tutte le ‘zone fluide’ -inclusa la ‘sfera d’influenza’ statunitense- per “seminarvi elementi di discordia e di indebolimento”. L’America vacilla, in particolare, sull’immenso fronte dei Paesi emergenti, gradualmente affrancatisi dal colonialismo-, perché il principio militare che è fatalmente legato a quello del containment non solo non allinea tali Paesi alla leading policy degli USA, ma contribuisce molto ad avvicinarli all’URSS. Kennedy riteneva che fosse possibile ‘traghettare’ i due blocchi verso un’epoca di ‘coesistenza competitiva’, se non altro perché entrambi condividevano l’interesse vitale a impedire uno scontro senza vincitori. Tuttavia, era consapevole che la sua ‘agenda’ aveva maggiori opportunità di attuazione a condizione che il concerto delle potenze occidentali mettesse in campo tutte le risorse mature: “Non si può vincere l’antagonista, che per sua natura tende a presentarsi come compatto, se il mondo libero non salvaguarda la propria unità: è da questa esigenza che deriva la politica kennediana nei confronti dell’Europa occidentale e dell’alleanza atlantica. Da un lato egli vuol mantenere la leadership americana - perché è la condizione di tutta la sua foreign policy - e, dall’altro, vuole che questa leadership sia democratica, perché solo a questa condizione può essere preservata l’unità del mondo libero” <7. In realtà, nonostante insistesse sulla novitas temporum -implicante l’esplorazione di altri criteri per ‘pugnare non bellando’- la strategia kennediana fu lungi dall’essere inedita rispetto alla consolidata tradizione della reazione indiscriminata: “According to folklore, the Eisenhower administration held stubbornly throughout its tenure to the strategy of ‘massive retaliation’- the intent to vaporize the whole Warsaw Pact as soon as Soviet tanks poured into West Germany. Conversely, folklore holds that Kennedy moved decisively to promote flexible response and stronger conventional defense options. In reality there was less difference than commonly assumed. Eisenhower supported the impression of staunch commitment to nuclear escalation in his rhetoric and decisions, but the commitment originally enshrined in NATO’s 1954 document MC 48 was modified in official development of strategy three years later in MC 14/2.37 Leaders of the Kennedy administration promoted improvement in conventional forces and revision of strategy, but action in these directions was inconsistent and changes in war plans were small and delayed. In Kennedy’s first year Secretary of Defense McNamara actually budgeted a reduction of conventional forces, and Kennedy later threatened withdrawals of U.S. forces from Europe to cope with the balance of payments deficit. Ten years after 14/2 the official adoption of flexible response as NATO doctrine in MC 14/3 occurred ironically just when capacity for conventional defense was falling, as France withdrew from the integrated command, London moved to withdraw forces from the British Army of the Rhine, and the war in Vietnam hollowed out U.S. units in Europe. MC 14/3 was a compromise in principle between conventional and nuclear emphasis in war plans, but produced little change in practice” <8. L’esperienza bellica nello scacchiere sud-est asiatico (Corea e Indocina) aveva dimostrato l’impossibilità di impiegare ordigni a fissione ‘tattici’, minacciati in una prova di forza convenzionale. Una pari inefficacia veniva imputata alla strategia della ‘graduated deterrence’ che, a partire dal 1956, -mediante installazione di missili Jupiter e Thor in Italia, Turchia e Gran Bretagna- aveva reso meno automatica la risposta occidentale al first strike sovietico. Il two keys system subordinava l’eventuale uso dei missili al consenso tra il comando generale della Nato e il governo del Paese ospitante. Tale procedura -si rilevava criticamente- appariva complessa, di difficile attuazione in contingenze legate ad un improvviso attacco del nemico. Tra problemi tecnici e diffidenze politiche l’azione dell’amministrazione Kennedy nei confronti degli interlocutori europei si mosse, agli esordi, lungo direttrici incerte ed equivoche come attesta la sua decisione di affidare al ‘comitato Acheson’ l’incarico di formulare un’ipotesi alternativa alle strategie nucleari condivise con la partnership atlantica. La relativa analisi prospettò due istanze: a) ridurre il peso del ‘fattore atomico’ nella NATO, favorendone l’incremento dell’armamento convenzionale al fine di innalzare la ‘soglia nucleare’; b) affidare agli Stati Uniti la responsabilità di controllo esclusivo sull’arsenale nucleare. La direttiva di Acheson venne adottata col memorandum del Consiglio di Sicurezza Nazionale (NSAM 40) nell’aprile 1961. Alcuni dettagli non vennero divulgati prevedendo possibili tensioni in seno all’Alleanza. Questa situazione di stallo si protrasse sino alla primavera del 1962 quando acquistò credito l’ ‘agenda McNamara’ i cui profili operativi vennero delineati dal generale Maxwell D. Taylor. “I nostri mezzi - sostenne il Segretario della Difesa - possono essere utilizzati in vari e diversi modi. Possiamo reagire all’aggressione con un unico attacco massiccio o possiamo riuscire a usare le nostre forze di rappresaglia in modo da limitare il danno di un conflitto nucleare per noi stessi e per i nostri alleati, distruggendo le basi del nemico prima che abbia avuto modo di lanciare la seconda salva o cercando di porre termine alla guerra a condizioni favorevoli”. Il concepimento di una strategia ‘proattiva’ in grado di fronteggiare le ‘variabili’ di uno schema congetturale bellico su scala planetaria costituì una ‘novità’ per gli Alleati, condizionati da una visione difensiva ‘radicale’, innestata cioè sul criterio di all-or-nothing: alle prime avvisaglie di pericolo, colpire il ‘nemico’ diffusamente e in profondità, con la certezza di annullare una sua replica nucleare. Una visione ‘sclerotizzata’ che impose agli Stati Uniti una strategia di politica estera basata sul compromesso tra ‘interdipendenza’ e leading mission. “La presidenza Kennedy è stata valorizzata come un momento di profonda intesa ‘universale’ da quanti avevano scorto nella ferrea logica di Guerra Fredda, fino ad allora vigente, una condizione soffocante. Le maglie del confronto, in realtà, si allargano, ma ciò non significa né un miglioramento dei rapporti transatlantici né tanto meno un aumento di ‘potere contrattuale’ a vantaggio dell’Europa. Con Kennedy si accentua la tendenza a dislocare il conflitto fuori dai confini del Vecchio Continente. In tal senso, il passaggio, nella strategia difensiva americana per l’Europa, dalla rappresaglia massiccia alla risposta flessibile acquisisce un valore emblematico. Anche perché, su questo sfondo, dopo gli accordi di Nassau del 1962, di determina la definitiva autonomizzazione della forza nucleare francese. L’intuizione aroniana del decennio precedente, per la quale i tentativi di espansionismo si sarebbero rivolti verso l’Asia e, quindi, lontani dalla centralità, anche mediatica, del territorio europeo, s’invera definitivamente: alla propensione sovietica a questa dislocazione giunge la risposta americana. Si potrebbe affermare, in tal senso, che la costruzione del Muro di Berlino nell’agosto del 1961 rappresenti il ‘congelamento possibile’ della questione tedesca e, con essa, della competizione sul suolo europeo, segnando la sua trasmigrazione in altri scenari” <9. La ‘dottrina’ della ‘flexible response’ eliminava gli automatismi insiti nella massive retaliation, prevedendo un range di opzioni ‘calibrabili’ su specifiche situazioni e ‘teatri’. La premessa che fece da sfondo a tale impostazione ‘geo-politica’ fu la consapevolezza che, in caso di scontro, l’equivalenza offensiva dispiegata simultaneamente non avrebbe lasciato vincitori risolvendosi, invece, in un mutuo annichilimento. L’escalation <10 avrebbe condotto, inesorabilmente, all’Armageddon, l’ennesima e, forse definitiva, ‘apocalisse della modernità’. Il punctum dolens del progetto era costituito dai rapporti con i membri del Patto Atlantico che esigevano concrete garanzie circa l’impegno statunitense nella difesa del Vecchio Continente, avamposto della libertà nel cuore dell’ ‘imperialismo rosso’. Si trattava di trovare una ‘regola aurea’ che rendesse “il protettorato americano più convincente per i Sovietici e gli Europei e meno pericoloso per gli Americani”.
Sarà su questo versante che Kennedy giocò una delle ‘partite diplomatiche’ più appassionanti e controverse, mescolando ‘retorica’ e ‘realismo’ in un mondo ancora vulnerato dal ‘passato trauma’ ed assuefatto alla ‘pax armata’ della Guerra Fredda <11. La ‘risposta flessibile’ prevedeva un gradiente di applicazione della forza tale da aggirare l’aut aut tra il compromesso con l’avversario e l’ecpirosi nucleare. Questo crescendo di risposta ostile mirava ad incrementare il calcolo dei costi/svantaggi presso i ‘centri decisionali’ della catena di comando, scongiurando, per quanto possibile, errori irreversibili. Ciò implicava la codificazione di procedure non più influenzate da meccanismi di elementare, istintiva difesa ma in grado di adattarsi, ragionevolmente, alle situazioni; il ‘fattore umorale’, ideologicamente mediato, non poteva costituire il fulcro intenzionale di eventi destinati a essere ‘fuori controllo’, in grado di spiazzare entrambi i contendenti. Logistica, risorse finanziarie, assetti economici, stabilità di consenso erano variabili da integrare al ‘metodo’ della ‘scuola militare’ e degli ‘apparati di sicurezza’. Lo stesso Kennedy, in un discorso radiofonico del 1961, aveva posto drammaticamente la questione, sostenendo l’esigenza di “avere una scelta più ampia di quella tra l’umiliazione e un’iniziativa nucleare generale”. In quel milieu la retorica copriva un’area materiata di ambiguità e problemi aperti. La dottrina della ‘risposta flessibile’ indubbiamente appariva più ‘umana’ rispetto alla terrificante prospettiva di una conflagrazione scatenata per fedeltà alla propria ortodossia e come ritorsione vendicativa. Al contempo essa rappresentava una “magnifica opportunità” per l’industria bellica.
Oggettivamente, infatti, tale blocco di interessi stava sperimentando l’impatto negativo di una ‘tesaurizzazione’, quantitativamente illimitata, di ordigni atomici (la cui produzione, su larga scala, si mostrava per di più poco suscettibile di assorbire, in risorse produttive diffuse e attività indotte, una dose d’investimenti veramente cospicua). Inoltre, se lo schema della risposta flessibile suggeriva una proporzione sensata, congrua, tra la posta in gioco e i mezzi impiegati, la valutazione dei ‘benefici’ poteva facilmente variare secondo le pressioni prevalenti nell’establishment governativo. La ‘soglia nucleare’, certamente, veniva innalzata, ma il limen della militarizzazione dei conflitti non lo era altrettanto. Vi erano ulteriori difficoltà da considerare. Per funzionare l’approccio del soft power aveva bisogno di un’unità di direzione strategica con i partner della NATO; inoltre occorreva assumere, ragionevolmente, che l’avversario giocasse secondo le stesse regole. Quest’ultima condizione non era minimamente soddisfatta né dalla politica generale di Khruscev né dalla prevalente dottrina militare sovietica. La prima mirava ad una spending review del budget per spesa militare che la focalizzazione sulla tecnologia balistica, non elaborata né eccessiva, sembrava permettere. La seconda era ancora basata sulla nozione ottocentesca di ‘bombardamento ad oltranza’, adattato dai sovietici alla teoria degli ordigni nucleari. Il mutamento di strategia caldeggiato da Kennedy dopo il fallimento della MLF e l’istituzione del Nuclear Planning Group - iniziativa finalizzata a “contenere il nervosismo e il risentimento degli alleati nei confronti del controllo delle forze di teatro da parte dei soli Stati Uniti” (Jordan, Taylor) - non risolse i problemi sul tappeto ma, anzi, ne creò altri. “Poiché essa è una strategia che include l’opzione di contrastare un attacco convenzionale sovietico, almeno inizialmente, opponendo una difesa convenzionale con un vasto schieramento di forze, essa era vista con grande preoccupazione dai paesi europei sul cui territorio avrebbero potuto svolgersi i combattimenti. Inoltre accentuando la capacità di difesa convenzionale si mostrava minore disponibilità ad usare le armi strategiche, determinando una diminuita fiducia nella deterrenza nucleare. Per gli europei, la deterrenza di ogni attacco è la sola strategia in grado di garantire la sicurezza nazionale e la sopravvivenza in termini accettabili” (Jordan, Taylor). La ‘linea McNamara’, enunciata ad Atene nel 1962, era inequivocabile: le armi atomiche non potevano decidere le sorti di un conflitto a favore di una parte considerando l’equivalenza e la simmetria della dotazione nucleare. Tale approccio infliggeva un ulteriore duro colpo alla già vacillante credibilità dell’impegno americano; inoltre implicava l’esigenza di incrementare l’armamento convenzionale col relativo onere finanziario. Il ‘sistema continentale’ reclamava una ‘parità’ nella codificazione di un paradigma strategico che non lasciasse adito a pretese dirigistiche del ‘socio maggioritario’; dubbi e resistenze sulle ‘chiare intenzioni’ degli Stati Uniti a non dipendere criticamente dagli apparati della deterrenza continuarono ad agitare governi e diplomazie. Il sospetto di ‘reticenze’ circa la gestione del ‘patrimonio nucleare’ si coniugava all’insofferente percezione di una crescente egemonia americana nel contesto internazionale <12; pertanto, la ‘dottrina della risposta flessibile’ rimase controversa e ‘sincopata’ almeno fino al 1967 quando l’Europa si emancipò dal complesso del ‘feudalesimo nucleare’. “Il determinismo atomico teme la prospettiva di un mondo diviso fra le superpotenze, con ‘vassalli’, ‘castelli’, ‘borghi fortificati’ e remote province ribelli. Il neo-nazionalismo tedesco, francese o cinese s’innesta in questo timore di un foedus iniquum…La controversia sul contenuto di questo fenomeno riguarda le condizioni effettive della sovranità nucleare, distinta dallo status nucleare simbolico…La vera sovranità presuppone una gigantesca economia e, dunque, dimensioni imponenti e, in genere, alta industrializzazione d’ogni Stato che intenda tutelare davvero la sua sovranità per l’avvenire. La disputa si fonda su analisi complesse, che hanno dato vita a formule e concetti del tutto nuovi: teoria del ‘detonatore’, teoria della risposta proporzionata’ (Gallois) e relative anti-teorie (Kahn, Wohlstetter, Aron). Sul tema della sovranità nucleare s’è già aperta la crisi dei due grandi sistemi di alleanze: la secessione cinese dal mondo sovietico e quella francese dalla NATO. Lo sviluppo dei missili ha segnato l’inizio formale del processo…Se un numero sempre maggiori di governi giungesse a possedere simili armi, ancorché senza adeguati mezzi vettori, il rischio della distruzione totale verrebbe affidato a calcoli probabilistici su un numero sempre maggiore di variabili riguardo agli errori di calcolo politico, militare o semplicemente tecnico, e alla moltiplicazione delle possibili cause di conflitto. Il Presidente Kennedy temeva il giorno in cui «potranno esistere dieci potenze nucleari al posto di quattro…Considero questo come il massimo pericolo… Quando Pandora aprì il suo vaso e tutti i mali si riversarono fuori, non restò che la speranza. Ma la diffusione nucleare potrà annullare anche la speranza»” <13.
[NOTE]
6 Secondo John Forster Dulles, Segretario di Stato sotto la presidenza di Eisenhower, gli Stati Uniti dovevano dissuadere ‘muscolarmente’ il nemico, mediante una poderosa esibizione di forza, facendo ricorso “innanzitutto alla capacità di rappresaglia istantanea con i mezzi e nei luoghi che ci riserviamo di scegliere”. Gli ‘analisti’ di Kennedy confutarono la validità di tale approccio sulla base di considerazioni ‘contabili’ (costi e investimenti), stime rischi/benefici, efficacia nel preservare l’ ‘equilibrio del terrore’ attraverso il ‘contenimento’/inibizione del blocco sovietico. Come si evince dal seguente documento la strategia del ‘soft power’ si proponeva, nelle intenzioni dei suoi fautori, di impedire un collasso (economico, politico, civile) a seguito di un confronto nucleare globale: “The gratuated deterrence and the flexible response resulting therefrom are the main pillars of a strategic concept for the entire NATO area. The threat of a massive retaliation by means of automatic employment of nuclear weapons in any aggression is no longer credible. The Secretary said that the U.S. fully agrees that the West cannot make a credible deterrent out of an incredible action, i. e., the inevitable destruction of Central Europe, the U.S. and the Soviet Union. Massive retaliation is not a credible response to a small enemy action in Central Europe. The Secretary said that the political and strategic directives of NATO must be changed. However, other national view are not consistent with those of the U.S. and FRG . Von Hassell agreed that political directive must be changed. The Secretary added that timing of the change presented a problem. Von Freitag explained that the flexible response must be tailored to the requirements prevailing within the areas of conflict. The NATO response to aggression in the Mediterranean area of the Atlantic region would differ from the response in Central Europe. Central Europe offers limited strategic freedom of action because the entire territory of the FRG forms the combat zone and the bulk of the population of Western Europe as well as its economic capability lie in a zone having a width of about 625 miles. Densely populated areas, major industrial centers and the high population density in general will restrict the operational freedom of the NATO forces in war” Memorandum of conversation McNamara-von Hassell, November 1964
7 M. Albertini, La coscienza della nuova situazione degli USA: la politica estera dell’amministrazione Kennedy, in Tutti gli scritti, IV. 1962-1964, Società editrice il Mulino, pag. 431
8 Richard K. Betts, From Bumper Sticker to Driver’s Manual: The Case of NATO’s Flexible Response Doctrine, in U.S. NATIONAL SECURITY STRATEGY: LENSES AND LANDMARKS, Princeton University Press, 2004, pag. 20
9 T. Bonazzi (a cura di), Il grande freddo (1960-1969), in Quale Occidente, Occidente perché, Rubbettino Editore, 2005
10 Il termine escalation indica “una trasformazione qualitativa del carattere di un conflitto verso una crescita in ampiezza e in intensità…Si riferisce a qualcosa di più del semplice allargamento di un conflitto ed implica, piuttosto, il superamento di un limite accettato in precedenza da entrambe le parti” (Lawrence Freedman). Negli anni ’60 Herman Kahn e Thomas Schelling fecero dell’escalation il fulcro della loro riflessione teorica sulla strategia nucleare. Kahn elaborò un gradiente costituito da 44 livelli, sostenendo che fosse possibile, da parte dei vertici politici e militari, controllare, in ogni momento e a qualsiasi stadio, l’evoluzione di un conflitto potenzialmente distruttivo che egli definiva ‘spasm war’ (guerra spasmodica o insensata). Schelling, invece, si focalizzava sull’incertezza e indeterminazione del confronto nucleare: una volta che la deterrenza avesse fallito nel suo compito di evitare il conflitto, una accorta gestione di questi due fattori avrebbe potuto consentire di sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Si trattava della “minaccia che lascia qualcosa al caso…La chiave di questa minaccia è che, indipendentemente dalla sua eventuale messa in atto, la decisione finale non è pienamente sotto il controllo di chi esercita la minaccia stessa”
11 L’‘astro nascente’ della ribalta internazionale ereditò dall’amministrazione Eisenhower l’impervio compito di ‘aggiornare’ il significato e il ruolo dell’Alleanza Atlantica, rilanciando, al contempo, la leadership statunitense. Kennedy ‘costruì’ un carisma intorno a topoi sensibili tanto allo ‘spirito americano’ che a quello europeo, sostenuto da un team di esperti di alta competenza e formazione accademica. Inaugurò una politica emancipatasi dall’egida dei ‘quadri militari’ e, in linea di massima, più proclive ad esperimenti di ‘distensione’ e di ‘dialettica aperta’. “La politica europeo-atlantica dell’amministrazione Kennedy fu influenzata da spinte e tendenze molto diverse, talora palesemente contrapposte, e oscillò ripetutamente in varie direzioni; né esisteva una soluzione immediata che permettesse di conciliare le aspirazioni nucleari francesi col mantenimento degli equilibri all’interno della NATO e con la ricerca di una strategia in grado di innalzare la soglia del conflitto atomico. Di fronte ai marcati contrasti esistenti all’interno della sua amministrazione e alla diversità di opinioni riscontrata tra gli alleati europei, lo stesso Kennedy esitò a prendere decisioni definitive e ritornò spesso sui propri passi; e mentre all’interno dell’amministrazione una forte componente europeista presente nel Dipartimento di Stato cercava di utilizzare la leva nucleare per spingere gli alleati a riprendere il percorso dell’integrazione europea, Kennedy adottò al riguardo un atteggiamento sufficientemente pragmatico e mantenne sempre una posizione molto duttile sulle politiche europee della sua amministrazione. Solo dopo gli eventi del dicembre 1962-gennaio 1963 sembrò che la politica euro-atlantica degli Stati Uniti cominciasse ad orientarsi in una direzione precisa, e anche allora non mancarono, comunque, ripensamenti ed incertezze” L. Nuti, Trow in the MLF, in Atlantismo ed europeismo, pag. 563
12 “The problem was that the Europeans felt we were secretive in our nuclear strategy. We had put thousands of nuclear warheads on their soil; NATO had officially adopted a nuclear strategy; we had war plans and tactics to carry out that strategy; but we had refused to disclose to the Europeans the numbers, the characteristics of the warheads, the tactics and the war plans under which they would be applied. Our allies were, in effect, totally ignorant of our plans for utilizing nuclear weapons in defense of Europe. For two decades we had withheld all such information from the Europeans. At that time there was no intention to change the policy, so those who favored the MLF did so because it was a means of introducing the allies into a limited participation in nuclear strategy in support of the alliance. That failed. Then I proposed to the President that we reverse our policy completely and fully inform the Europeans on all aspects of nuclear weapons and strategy. That led to the formation of Nuclear Planning Group” McNamara G. S., Interview, 22 of May, 1986
13 A. Ronchey, Clausewitz H (il determinismo atomico), in Atlante ideologico, Aldo Garzanti Editore, 1973, pp. 144-146 passim
Giulia Altimari, Quale risposta flessibile? La dottrina strategica americana nell'era Kennedy, Tesi di laurea, Università LUISS "Guido Carli", Anno accademico 2015-2016

sabato 1 aprile 2023

Le storie di Nico vivono dell’aria che scende dal Grammondo e del salino di baia Begliamin

Mortola, Frazione di Ventimiglia (IM): uno scorcio

Nico [Orengo] è nato nel 1944 ed è morto nel 2009 a Torino. Ma la tomba è nella sua Mortola dove è interrato in un cimitero luminoso, senza cipressi nel quale anch’io vorrei un posto per il mio ultimo riposo.
All’ombra di un grande pino il suo tumulo è segnato da quattro ciappe di ardesia messe di costa a contorno e da una lapide in verticale con scolpite le due date, il nome preceduto dal titolo di marchese e in fondo l’indicazione di poeta.
Di fronte, poco lontano all’ombra dello stesso albero, riposa il padre marchese Vladi che suo nonno materno chiamava Volodja. Sua mamma Valentina faceva infatti di cognome Tallevich, era figlia di un ufficiale russo che nella seconda metà dell'Ottocento si era trasferito a Sanremo. Nel 1912 su un terreno situato all'inizio della passeggiata già dedicata alla imperatrice russa, ed acquistato da un comitato appositamente costituito a nome del Tallevich, venne posata la prima pietra della chiesa russa ortodossa di Sanremo.
Già nel 1864 la zarina Maria Aleksandrovna per prima scelse Sanremo per "svernare", aprendo la strada al turismo della nobiltà russa, attratta dal clima mite e dai posti incantevoli.
Prima della chiesa di Sanremo gli ortodossi frequentavano la chiesa di Mentone che esisteva dal 1892. Racconta Vladi che in quel periodo la sua famiglia festeggiava i due Natali, quello cattolico a Sanremo il venticinque dicembre e quello ortodosso a Mentone il sette gennaio, basandosi sul calendario Giuliano. Arrivavano per le feste Vittorio e Momò da Ginevra, Cirillo e Pepino da Parigi, Sergio da Oxford, Olga dal collegio di Dresda.
Finché Valentina abbracciò il cattolicesimo ad insaputa del padre e i rapporti si raffreddarono. Solo molti anni dopo, quando il piccolo Vladi fu presentato al grande nonno, ci fu la riconciliazione. Ma fu l'unica volta che nonno e nipotino si incontrarono.
Al cimitero della foce di Sanremo, a ridosso del muro di cinta, c'è ancora la tomba del numeroso ramo russo della famiglia.
Tra le prime cose Nico Orengo pubblicò Miramare edito da Marsilio, la casa editrice fondata pochi anni prima da Toni Negri. Luigi Malerba ne scrisse la prefazione. Poi seguirono oltre cinquanta libri tra poesie e romanzi, forse qualcuno di troppo.
Le storie di Nico vivono dell’aria che scende dal Grammondo e del salino di baia Begliamin. In un biglietto che mi aveva scritto mi racconta della pianta di giuggiole che c'è a Latte all'inizio della via Romana vicino alla casa del Vescovo e ricorda che all'osteria da Bataglia c'era il più buon condiglione che avesse mai mangiato; e poi mi spiega che becìciùre* chiede due accenti, sulla prima i e poi sulla u.  Io a casa Bataglia ci sono nato, sono cresciuto a condiglione e coniglio e conosco tutte le piante di carrubo e giuggiole e i cespugli di lavanda che ci sono in zona e so dove a Pasqua fioriscono le becìciùre. Quest'estate sono passato da quelle giuggiole e le ho rubate con gusto per Nico. Il legno di giuggiolo, più duro del bosso, si presta molto bene a lavori di scultura. Raccontava mio padre di quel paesano che, inginocchiato davanti ad un Cristo scolpito nel legno di giuggiolo, dopo averlo supplicato in silenzio esclamava: "… pensare che ti ho conosciuto quando eri ancora Zizura".
*muscari [La muscari è una bulbosa perenne che fiorisce in primavera con fiori azzurri. Di facile coltivazione. La specie lampascione è commestibile. Da tuttogreen.it]
Arturo Viale, 1. Nico e Vladi in Oltrepassare. Storie di passaggi tra Ponente Ligure e Provenza, Edizioni Zem, 2018 

Altri libri di Arturo Viale: Punti Cardinali, Edizioni Zem, 2022; La Merica...non c'era ancora, Edizioni Zem, 2020; L'ombra di mio padre, 2017; ViteParallele, 2009; Quaranta e mezzo; Viaggi; Mezz'agosto; Storie&fandonie; Ho radici e ali.
Adriano Maini