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giovedì 26 maggio 2022

Il comandante partigiano Renato

Otello Pighin sottotenente del 9° reggimento artiglieria Brennero (Arch. Pighin - Bortolin) - Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

La Resistenza padovana fu invece incentrata e organizzata soprattutto all'interno dell'università della città, o comunque da personalità legate al mondo accademico, tanto che all'università di Padova, unica in Italia, venne assegnata nel dopoguerra la medaglia d'oro al valore militare. Nei giorni seguenti l'armistizio Silvio Trentin, (già professore a Ca' Foscari), Concetto Marchesi e Egidio Meneghetti, rispettivamente rettore e prorettore dell'università patavina, organizzano il Cln Veneto (dotato anche di una sua propria pubblicazione, ”Fratelli d' Italia”) che aveva la sua sede a Padova nel palazzo Papafava.
Oltre all'università operano anche altri protagonisti. Il partito comunista aveva insediato a Padova la delegazione triveneta delle brigate “Garibaldi”; squadre di Giustizia e Libertà, guidate dall'ingegnere Otello Pighin, si dedicavano ad attentati e sabotaggi a fabbriche e mezzi di comunicazione. Arrivarono anche ad incendiare la sede, in uno studio dell'università, del giornale studentesco fascista “Il bò”.
A Padova operava anche la banda fascista chiamata “Carità“(dal nome di Mario Carità). Dopo un trascorso in Toscana, la banda scelse come sua sede il Palazzo Giusti, continuando nel tentativo di indebolire la Resistenza, tramite frequenti torture e uccisioni.
Francesco Corniani, Un marinaio in montagna. Storia di Bruno Viola e dell’eccidio di Malga Zonta, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari, Venezia, Anno accademico 2009-2010

Il prof. Egidio Meneghetti dopo la Liberazione (Arch. CASREC unipd) - Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

L'ingegnere Otello Pighin e don Giovanni Apolloni, professore di matematica al Seminario Maggiore e al Liceo Barbarigo di Padova, furono tra i primi organizzatori della Resistenza nel Veneto; fin dal gennaio 1944, Padova divenne teatro di azioni dinamitarde che, se non recavano danni sostanziali, infliggevano ai nazifascisti pesanti colpi sul piano psicologico. In particolare, durante la notte tra il 6 e il 7 febbraio 1944, in occasione dell'anniversario della rivoluzione studentesca antiaustriaca dell'8 febbraio 1848, Otello Pighin, Corrado Lubian, Guido Billanovich e lo studente Gianfranco De Bosio entrarono al Bò' con l'aiuto di un bidello, seminarono per tutte le aule migliaia di volantini inneggianti alla rivolta, posero una bomba ad orologeria nello studio del direttore del giornale universitario “Il Bo'”, di ispirazione fascista, ricoprirono le pareti di scale e segreteria di scritte “fuori i tedeschi! viva Marchesi! rivoltatevi! ricordatevi di Matteotti! per una università libera! ricordiamo don Minzoni!”. L'esplosione dell'ordigno, programmata per l'8 febbraio, venne tuttavia coperta dalle esplosioni dovute al pesante bombardamento che subì Padova; durato più ore, provocò 200 morti. Il 7 gennaio 1945, Otello Pighin cadde in una imboscata, ferito e catturato, sottoposto a torture, fu fucilato dalla banda Carità. Il 20 marzo anche Corrado Lubian, che l'aveva sostituito, cadde in un tranello e venne ucciso. Gianfranco De Bosio, successivamente affermato regista, traspose le vicende alle quali aveva partecipato in un film; “Il terrorista” del 1963. (cfr. Padova nel 1943. Dalla crisi del regime fascista alla Resistenza, a cura di Giuliano Lenci e Giorgio Segato, Il Poligrafo, Padova 1996, pag. 270 e Pierantonio Gios, Un vescovo tra nazifascisti e partigiani. Mons. Carlo Agostini vescovo di Padova (25 luglio 1943- 2 maggio 1945), Istituto per la storia ecclesiastica padovana, Padova 1986, pagg. 54 e 55).
(a cura di) Francesco Tessarolo, È questa l'ora … diario di Lino Camonico Martire bassanese della Resistenza (7 ottobre 1943 - agosto 1944), Attilio Fraccaro editore, 2011

Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

La mattina del 10 gennaio 1945 il custode del cimitero di Abano trovò, abbandonato presso il camposanto, un cadavere nudo e insanguinato. Dalle prime indagini e dal “Verbale di visita a cadavere di sconosciuto”, redatto nel pomeriggio dello stesso giorno dall’ufficiale di stato civile del comune, assistito dall’ufficiale sanitario, risultò che il cadavere era quello di una persona di sesso maschile “deceduta per ferite d’arma da fuoco all’Albergo Trieste, sede dell’Ospedale Germanico n° 12462”, “di corporatura media, statura sui 170 centimetri, capelli castani, barba rasa, baffi castani, completamente privo d’indumenti e di documenti di identificazione, dell’apparente età di anni 40”.
La notizia si diffuse rapidamente e presto si venne a sapere che il corpo che, restituito in modo così barbaro e pietosamente sepolto in una fossa senza nome, era quello dell’ingegner Otello Pighin, assistente alla facoltà di Ingegneria, ma soprattutto uno dei più audaci e abili comandanti partigiani, notissimo in tutto il Veneto col nome di battaglia di “Renato”. Pighin era stato gravemente ferito il 7 gennaio 1945 a Padova in un agguato organizzato dai fascisti della “banda Carità” con la collaborazione di un traditore, torturato mentre era in fin di vita e infine spirato il 9 gennaio nelle mani dei tedeschi.
A Pighin l’università di Padova deve una delle pagine più luminose dei suoi ottocento anni di storia. Nato a Lusia (Rovigo) nel 1912 e laureato in ingegneria meccanica a Padova nel 1939, come i migliori tra i giovani cresciuti nel ventennio della dittatura aveva maturato la sua coscienza politica grazie alla guerra, combattuta da sottotenente di complemento del 9° reggimento artiglieria Brennero. Partecipò nel giugno del 1940 alla breve e fallimentare campagna sul fronte occidentale contro la Francia, e pochi mesi dopo fu mandato a combattere sul fronte greco-albanese, dove soffrì le tragiche conseguenze dell’impreparazione dell’esercito italiano.
Pighin fu rimpatriato per malattia in agosto 1941 e dopo lunga degenza ospedaliera fu posto in congedo assoluto in aprile 1942 e iscritto nel ruolo d’onore degli ufficiali inabili al servizio per invalidità di guerra.
Il 16 agosto 1943 fu nominato assistente supplente presso l’Istituto di Macchine della Facoltà d’Ingegneria per l’anno accademico 1943-44. Nei pochi mesi in cui poté prestare servizio, prima di doversi allontanare precipitosamente dall’Istituto, il 30 dicembre 1943, per sfuggire all’arresto della Feldgendarmerie, si dimostrò “assistente capace e solerte”, come disse il prof. Egidio Meneghetti (1892-1961), principale animatore della Resistenza in Veneto, nell’orazione funebre tenuta il 29 maggio 1945 a Palazzo Bo.
Dopo l’8 settembre 1943 e la fuga del Re e degli inetti comandanti dell’esercito, a Padova il rettore dell’università Concetto Marchesi (1878-1957) e il pro-rettore Egidio Meneghetti dettero vita al Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto (C.L.N.R.V.), da cui derivò il C.L.N. provinciale di Padova. Il manifesto di Marchesi, largamente diffuso in tutto il Veneto, fu il primo documento della guerra dichiarata ai nazifascisti e l’invito a dare inizio alla lotta.
Nella sua decisione di aderire alla resistenza Pighin trovò ispirazione e appoggio in Adolfo Zamboni (1891-1960), grande decorato della guerra 1915-1918 e maggiore di complemento dell’esercito, avversario dichiarato del regime fin dal suo inizio e promotore a Padova del Partito d’Azione, cui anche Pighin aderì. Zamboni e Pighin, animati da grande amore per la patria e spinti da un forte senso del dovere di stampo mazziniano, fecero proprie le esortazioni del grande patriota ottocentesco, evidenziandole anche nella testata de “il Maglio”, il giornale dei giovani del Partito d’Azione di cui Pighin fu promotore, redattore e diffusore.
Essi sapevano di poter contare effettivamente su pochi uomini, ma “puri e decisi”, e solo successivamente, dopo aver sparso il seme, su una più larga adesione popolare. Perciò il tipo di lotta contro fascisti e tedeschi che Pighin condusse brillantemente per più di un anno a capo di piccoli gruppi mobilissimi di audaci patrioti si ispirò ai metodi mazziniani della “guerra d’insurrezione per bande”, la guerra del popolo “invincibile e indistruttibile”, che costringe il nemico a una guerra insolita, insidiosa e logorante, spingendolo senza scampo alla disfatta.
Come armi Pighin, da esperto ufficiale d’artiglieria e ingegnere, scelse gli esplosivi e le miscele incendiarie, preparate nei laboratori universitari o nelle cantine di case bombardate, che, “per salvare la Patria, dovevano lacerare le carni della Patria stessa”. Le prime ampolle di fosforo Pighin le provò nel lavandino della stanza dello studente Gianfranco de Bosio al Pensionato “Antonianum”. Poi andarono insieme a lanciarle nel retro dell’ultimo camion di una autocolonna militare tedesca mentre entrava nella grande autorimessa della Wermacht, facendo divampare un incendio che distrusse una quantità di veicoli.
L’altra arma prediletta da Pighin fu il ciclostile, con cui imprimeva su manifestini e giornali “le parole della ribellione, dell’incitamento, dello sdegno, della rivolta”, come disse Meneghetti al suo funerale.
Incurante dei rischi mortali e della allettante taglia di un milione di lire, enorme per quel tempo, messa dalle autorità sulla sua testa, “Renato” si muoveva impavido per la città, solo leggermente travisato con abiti dimessi e grandi occhiali cerchiati “che smorzavano la fredda audacia degli occhi azzurri”. Quando Lina Geremia, la sua eroica moglie, fu arrestata in aprile 1944, fu tanto audace da farle visita nel vecchio e tetro carcere dei Paolotti, spacciandosi per lontano parente.
Fin dall’inizio Pighin seppe affratellare nella lotta studenti e cittadini. Tre giovani di Voltabarozzo, due studenti e un operaio, già uniti idealmente, furono tra i primissimi ad unirsi a lui. I nuclei divennero squadre, che si moltiplicarono col passare dei mesi diventando battaglioni, alcuni con carattere di piccole formazioni militari permanenti, fino a costituire la famosa Brigata Guastatori Giustizia e Libertà, che fu intitolata a Silvio Trentin (1885-1944), il grande antifascista e federalista arrestato a Padova il 19 novembre 1943 e morto il 12 marzo 1944: la brigata “universitaria” prediletta dal prof. Meneghetti.
La Brigata contava tra i suoi componenti anche dei sacerdoti: don Giovanni Apolloni, insegnante del collegio Barbarigo, che per mesi fu carcerato e torturato dalla “Banda Carità”; don Francesco Frasson, amministratore del Seminario; i Benedettini del monastero di S. Giustina padre Angelo Marincich e padre Stefano Graiff. Altri religiosi resero generosi e preziosissimi servigi: il padre abate di S. Giustina Timoteo Campi, padre Carlo Messori, padre Mariano Girotto, don Pietro Costa, don Luigi Panarotto e tanti altri.
Padova era allora il cuore di una regione strategicamente importantissima: a Luvigliano aveva sede il comando della X Armata tedesca; ad Abano quello della Luftwaffe; a Recoaro a fine settembre 1944 il maresciallo Kesselring trasferì il comando supremo tedesco in Italia; a Montemerlo era installata la centrale telefonica per l’intera Alta Italia.
Una delle prime azioni di “Renato” ebbe luogo il 17 novembre 1943, requisendo a Padova, rivoltella alla mano e con un solo compagno, 450 cappotti militari, che servirono per equipaggiare i partigiani della costituenda Brigata Giustizia e Libertà “Italia Libera”, legata al Partito d’Azione, che Lodovico Todesco (1914-1944), laureando in Medicina, stava costituendo sul Grappa a Campocroce. Poco dopo organizzò a Noale il sequestro di 23 quintali di tritolo. Molte armi gli furono fornite da carabinieri simpatizzanti.
Nei primi mesi Pighin si occupò anche del salvataggio dei moltissimi militari britannici e del Commonwealth fuggiti dai campi di prigionia del Padovano dopo l’8 settembre 1943 e braccati dai nazifascisti. Alcuni di loro furono avviati in montagna, dove combatterono con i partigiani. Molti furono protetti, nutriti e avviati verso Sud; molti altri furono aiutati a raggiungere la salvezza in Svizzera, spesso supportati da un’organizzazione di giovani coraggiosi guidati da padre Placido Cortese e Armando Romani con le tre sorelle Martini. Con l’aiuto dei carabinieri che collaboravano con lui, Pighin fece mettere al sicuro in Valrovina, sopra Bassano, anche alcuni gli ebrei padovani.
Sul finire dell’anno all’Istituto di Macchine giunse voce che l’ing. Pighin esercitasse attività politica e fosse ricercato dalla polizia. La mattina del 30 dicembre 1943 Pighin scampò all’arresto allontanandosi dall’Istituto poco prima che due funzionari della Felgendarmerie si presentassero per cercarlo. Così i poliziotti arrestarono sua moglie Lina, che si trovava casualmente in Istituto, la fecero salire sulla loro vettura e si fecero accompagnare nella sua abitazione per ricercare delle armi che sospettavano vi fossero nascoste.
Nel gennaio 1944 “Renato” avviò azioni intimidatorie contro alcune fabbriche che producevano per i tedeschi. La sfida ai nazifascisti fu lanciata proprio nel cuore dell’Ateneo, alla vigilia dell’8 febbraio 1944: due squadre, composte per lo più da studenti, distrussero con una bomba la redazione del giornale Il Bò, organo del Gruppo Universitario Fascista (G.U.F.). Nei giorni seguenti furono lanciati nelle vie cittadine i volantini con l’appello alla rivolta del prof. Concetto Marchesi, il Rettore Magnifico costretto a rifugiarsi in Svizzera.
Nei mesi successivi Pighin e i suoi uomini si dedicarono con efficienza a una straordinaria campagna di attentati, sabotaggi alle linee ferroviarie e telefoniche e ai ponti stradali che misero seriamente in difficoltà gli occupanti nazifascisti. “Renato” però non volle mai che si facessero esecuzioni sommarie di nemici, ma si limitò a beffarli e a ridicolizzarli. In aprile 1944 grande effetto psicologico ebbe l’uso del fosforo in fialette con cui per parecchie sere furono spruzzate e incendiate le divise di una ventina di ufficiali fascisti, i quali agitandosi in preda al panico si coprirono di ridicolo davanti ai cittadini.
Parte del supporto logistico veniva della “Fra.Ma.”, l’organizzazione così denominata dalle iniziali dei cognomi dei professori Ezio Franceschini e Concetto Marchesi; con loro collaboravano l’industriale padovano Giorgio Diena (1897-1960), titolare della fabbrica Zedapa, che per la sua attività fu deportato a Dachau, e la sorella Wanda Diena Scimone.
Il 12 aprile 1944 Pighin, da tempo sospettato, fu arrestato e condotto alla caserma Mussolini, nel vecchio collegio Pratense di fronte al Santo, da cui riuscì subito a fuggire, rifugiandosi nel pensionato universitario “Antonianum”, retto dai Gesuiti.
Alle speranze dell’estate, quando la guerra di liberazione pareva ormai vicina alla vittoriosa conclusione, seguì la più amara delusione, quando l’offensiva sferrata a fine agosto 1944 dall’8a armata britannica e dalla 5a armata statunitense si infranse contro le fortificazioni della Linea Gotica che si stendevano da Massa a Pesaro. I tedeschi in ripiegamento dal Centro Italia e i fascisti al loro seguito si addensarono nel Veneto, scatenando “le più atroci furie della più atroce guerra”, come scrisse Meneghetti esortando i Veneti alla “prova suprema”.
Quando il C.L.N. venne in possesso dei piani segreti con cui i tedeschi intendevano devastare il Veneto con estese distruzioni e vasti allagamenti per fare della regione la loro estrema linea di resistenza all’avanzata delle forze angloamericane, l’ing. Pighin venne designato come comandante della piazza di Padova col compito di operare alle spalle dei tedeschi con un ridotto contingente di giovani audaci.
Intanto nei primi giorni di novembre 1944 giunse a Padova e si insediò a palazzo Giusti in via S. Francesco uno dei più feroci organi repressivi della R.S.I.: il Reparto Servizi Speciali, alle dipendenze delle SS-SD tedesche, comandato dal maggiore Mario Carità (1904-1945). Adottando senza alcuno scrupolo i metodi nazisti, in breve la famigerata “Banda Carità” causò perdite disastrose per il C.L.N., non per merito di abilità investigative particolari, ma per effetto del disprezzo di ogni legge, dell’impiego di spie, delatori e traditori e soprattutto dell’uso sistematico della tortura. Carità usava volentieri i suoi forti pugni da pugilatore, ma prediligeva il crudele supplizio dell’elettricità, che provocava dolori tremendi nelle parti più delicate del corpo senza sporcare le mani dei torturatori.
A Natale del 1944 l’ing. Pighin, sentendosi sempre più braccato, dovette ancora una volta cambiare abitazione e si trasferì in una casa dell’Arcella, il quartiere più bombardato. Calmo e instancabile come sempre, il comandante “Renato” lavorava nella stanza adibita a tipografia clandestina, tra molte armi e pacchi di sigarette sequestrate da distribuire ai suoi compagni. Nella stanza accanto la moglie Lina, laureata in Medicina, che non si era mai voluta allontanare dal marito, stirava serenamente e la figlioletta Elena giocava vivacissima.
l 7 gennaio 1945 fu il giorno più funesto per la Resistenza veneta. Quel giorno, alle ore 17.30, Pighin fu attirato sotto i portici di via Rogati, presso il ponte Barbarigo, da Mario Santoro, alias “Capitano Castelli” e poi “Leonida”: un partigiano azionista che, a seguito della cattura, aveva ceduto alle sevizie e si era trasformato in zelante traditore. Si trattava di un agguato: nel gelido imbrunire Pighin venne ferito a morte dal sergente Corradeschi del “Reparto speciale AK Padova”, il quale pochi giorni dopo ricevette in nome del Führer la Croce di ferro di seconda classe.
Contemporaneamente i principali membri del C.L.N. regionale, traditi anch’essi da Santoro, vennero arrestati nella clinica oculistica Palmieri, dove si erano riuniti, e trascinati nel covo della “Banda Carità”.
Giunto a Palazzo Giusti Meneghetti vide Pighin agonizzante con “intorno alla barella insanguinata, la turba oscena dei sicari che insultavano, torturavano, inquisivano”, mentre “la sola risposta del morente erano due dolci nomi [della moglie e della figlioletta, ndr], continuamente ripetuti: ‘Lina… Elena… Lina… Elena…’”.
Gli altri componenti della Brigata, prontamente avvertiti della retata, dovettero darsi alla fuga nella neve alta mezzo metro, disperdendosi per la città in cerca di rifugi sicuri. La Brigata “Trentin” si riorganizzò a stento, ma a febbraio riprese le attività e fu tra le formazioni protagoniste dell’insurrezione, che a Padova avvenne tra il 26 e il 28 aprile 1945. Di essa fecero parte 495 partigiani combattenti e 188 patrioti, tra i quali le donne erano una cinquantina. I caduti furono 21, i feriti 10, i prigionieri e gli internati 42. Entrambi i comandanti della Brigata che erano succeduti a Otello Pighin, Corrado Lubian e Sergio Fraccalanza, caddero anch’essi in azione.
[...] Alla memoria di Otello Pighin fu conferita la Medaglia d’oro al valor militare; la stessa altissima decorazione fu conferita all’università di Padova e da allora fregia il suo antico gonfalone, cui spetta l’onore, per questo motivo, di sfilare alla testa del corteo nelle cerimonie. Alla storia dell’ing. Pighin, che era stato il suo comandante, si ispirò nel 1963 il regista Gianfranco de Bosio per la sua sceneggiatura e regia del film intitolato provocatoriamente “Il Terrorista”, con Gian Maria Volontè nella parte di “Renato”. [...]
Adolfo Zamboni Jr, Il comandante «Renato», Il Bo Live - Università di Padova, 25 aprile 2020                     

Il maggiore Mario Carità (al centro), comandante del Reparto Servizi Speciali - Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

Le formazioni azioniste nella Resistenza veneta occupano, per quantità, il secondo posto dopo quelle guidate dal Partito comunista: a Padova si formano, con la direzione di Meneghetti e attraverso suoi fidati collaboratori, gruppi di sabotatori, guidati da Otello Pighin, il mitico “Renato”, che sarebbe stato ucciso nella grande retata del gennaio 1945
[...] La direzione azionista della Resistenza dura fino al gennaio 1945. Il ciclo di arresti iniziato in settembre con Giuseppe Calore e Elvio Del Piero, proseguito con la retata di novembre che decapita il Triumvirato insurrezionale, la Federazione provinciale e l’Intendenza regionale del Partito comunista culmina con gli arresti di gennaio, favoriti anche dalle rivelazioni di un azionista, Mario Santoro, fino a quel momento stretto collaboratore di Meneghetti <25. Pighin viene colpito a morte per strada, Meneghetti, Ponti e altri vengono presi nella clinica privata del professor Palmieri, e portati, con don Apolloni, Attilio Casilli, Adolfo Zamboni, Luigi Marziano, Gianni Dogo, Aldo Cestari a palazzo Giusti, nelle mani della “banda Carità” <26.
[NOTE]
25 Cfr. C. Saonara, Nelle mani del nemico. la caduta del Cln regionale veneto, in Istituto veneto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, Annale XXIIXXIV, cit., pp. 127-160.
26 Sulla “banda Carità” vedi R. Caporale, La “Banda carità”. Storia del Reparto Servizi Speciali (1943-45), Lucca 2005: sugli arresti padovani, cfr. C. Saonara, Egidio Meneghetti, cit., pp. 115 e ss.
Chiara Saonara, Meneghetti, Giuriolo e gli altri: il PdA nel Veneto in (a cura di) Renato Camurrri, Antonio Giuriolo e il «partito della democrazia», Istrevi, 2008

lunedì 23 maggio 2022

La Resistenza è iniziata proprio a Roma, subito dopo l'8 settembre


Il processo di liberazione dall’occupante nella Capitale presenta svariate caratteristiche che lo rendono anomalo rispetto a quello registrato su scala nazionale; in particolare in confronto alla lotta partigiana nei centri urbani del centro-nord, dove i partiti e le loro rispettive formazioni militari (le bande partigiane, tra cui è bene menzionare le più attive, ovvero le Brigate Garibaldi legate al PCI, le Brigate Giustizia e Libertà legate al Pd’A, le brigate azzurre, formalmente indipendenti ma politicamente di sentimenti monarchici e badogliani, le “Brigate del popolo” e le “Brigate Fiamme Verdi” legate alla Democrazia Cristiana) riuscirono a coinvolgere attivamente e con successo la popolazione, la lotta armata partigiana a Roma vide una scarsa partecipazione popolare e fu sostanzialmente lasciata nelle mani dei partiti ciellenisti di sinistra, il cui attivismo sorprese e mise in grande difficoltà i nazisti.
Un’altra peculiarità della Resistenza romana sta nell’estrazione socio-culturale dei suoi protagonisti; se nel nord-Italia le promesse di radicale mutamento politico e sociale portate avanti dagli intellettuali dei partiti antifascisti di sinistra raccolsero consensi e adesioni in quel proletariato operaio, storicamente legato alle organizzazioni sindacali socialiste e desideroso di vendicare le vessazioni subite dalle squadre fasciste vent’anni prima, lo stesso non si poteva dire per le masse delle borgate romane che, composte perlopiù da contadini inurbati provenienti dal Meridione o dalle campagne adiacenti alla città (lo sterminato Agro romano), erano totalmente prive - date debite eccezioni - di quella coscienza politica necessaria per impegnarsi in una guerra di liberazione così cruenta. Perciò la lotta partigiana fu condotta dagli esponenti della medio-alta borghesia romana che, animati da un forte senso della patria e desiderosi di riscattare l’immagine del paese travolta da vent’anni di dittatura, nel secondo dopoguerra saranno i protagonisti di quell’Assemblea costituente che regolò (e regola tuttora, a distanza di settant’anni) la vita politica del paese; era ad esempio questo il caso del nucleo più attivo dei Gap centrali, composto da uomini come Antonello Trombadori, Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei, Maria Teresa Regard, i quali erano stati educati culturalmente nei migliori licei della Capitale e avevano sin da giovanissimi sviluppato una profonda coscienza antifascista. Non mancarono comunque i casi di piccole formazioni partigiane operanti nelle periferie, soprattutto in quelle della parte meridionale della città, come le bande partigiane di Bandiera Rossa.
Un elemento che non si può non considerare quando si parla dell’anomalia della situazione di Roma negli anni della Liberazione è la forte presenza nella città della Chiesa cattolica. Il radicamento nella città di un’autorità morale e spirituale millenaria come il Papa ha esercitato senz’altro una funzione di dissuasore per i nazisti i quali, sotto l’impulso principalmente dei loro diplomatici, non intendevano scatenare nella città del “Vicario di Cristo” una guerra senza quartiere e nei fatti non spiegarono appieno tutta la loro forza repressiva contro il movimento partigiano. Al centro di un ampio dibattito storiografico, lo stesso ruolo della Chiesa fu in quegli anni molto ambivalente; se da un lato molti sottolinearono la mancata condanna ufficiale da parte di papa Pio XII degli abomini nazisti commessi nella città (come il rastrellamento del ghettoebraico il 16 ottobre 1943 o l’eccidio delle FosseArdeatine), è imprescindibile ricordare il fondamentale aiuto che gli uomini della Chiesa (vescovi, prelati, parroci ecc.) prestarono ai perseguitati, nascondendo nelle parrocchie e nei conventi ebrei, antifascisti di ogni schieramento, militari che erano sfuggiti al reclutamento nell’esercito della RSI ecc. Alcuni di essi pagarono con la vita il prezzo del loro coraggio e del loro impegno politico; è bene menzionare don Giuseppe Morosini, arrestato dalle SS a causa della delazione di un infiltrato e poi fucilato a Forte Bravetta il 3 aprile 1944, oppure don Pietro Pappagallo, il quale per aver nascosto molti perseguitati fu arrestato dalle SS (anche lui in seguito a delazione) e fu l’unico prete cattolico ad essere fucilato alle Ardeatine. Il loro sacrificio non risultò vano in quanto moltissimi ebrei e antifascisti (il più importante era probabilmente Alcide De Gasperi, leader indiscusso della Dc nel primissimo dopoguerra) riuscirono a sfuggire alle retate nazifasciste protetti negli edifici vaticani che godevano dello status di extraterritorialità, un particolare status giuridico riconosciuto dallo stato italiano alla Chiesa in base al quale essa esercitava (ed esercita tuttora) la propria esclusiva giurisdizione su alcune sue proprietà sul suolo romano. Tuttavia questo status giuridico di diritto internazionale non bastò a frenare la furia antipartigiana di alcuni solerti aguzzini, di cui il più emblematico e famoso è sicuramente Pietro Koch; questo ex-tenente dell’esercito italiano formò nei primi giorni del gennaio 1944 una banda - la cd. Banda Pietro Koch - il cui operato è famoso per due irruzioni commesse in edifici vaticani che avevano l’attributo giuridico dell’extraterritorialità (una serie di istituti religiosi collegati dal medesimo ingresso in piazza Santa Maria Maggiore nel primo caso, la basilica di San Paolo nel secondo) al fine di stanare gli oppositori politici che vi si nascondevano.
Si può quindi concludere che sia stata proprio l’importanza di una città come Roma - capitale d’Italia, storica sede della Chiesa cattolica, culla della società occidentale e ricca come nessun’altra città al mondo di monumenti di incommensurabile valore storico ed artistico - a conferire unicità allo sforzo per mantenere il suo controllo (da parte dei nazifascisti) e alla lotta per la sua liberazione dall’occupante (da parte del movimento partigiano). A tal proposito rinnovo anche qui quella che è stata la mia tesi introduttiva, e cioè che a Roma si è giocata la partita decisiva all’interno del più ampio contesto storico della lotta per la liberazione nazionale; di ciò ne erano consapevoli tutte le forze in campo (nazisti, fascisti, partiti antifascisti, Alleati ecc.) che a tal proposito impiegarono tutte le loro energie per poterla controllare.
Guglielmo Salimei, Roma negli anni della liberazione: occupazione nazista e lotta partigiana, Tesi di laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2020-2021
 
[n.d.r.: anche Giorgio Amendola, dirigente di spicco del PCI clandestino nella capitale e, pertanto, responsabile dei GAP romani, sosteneva la tesi di una non congrua partecipazione popolare agli eventi della Resistenza nella capitale, mentre il suo collaboratore nei Gruppi di Azione Patriottica, Rosario Bentivegna, sembra nei suoi scritti - vedere infra - di parere nettamente diverso]

Un "revisionismo" mistificatore e falso ha colpito soprattutto la Resistenza romana e la sua guerra di liberazione, e in particolare uno dei suoi episodi più drammatici, la strage delle Fosse Ardeatine, che i nazisti perpetrarono nella massima segretezza e con la massima fretta per paura delle reazioni preventive della cittadinanza, dei parenti dei prigionieri in mano nazista e della Resistenza. Qui la fantasia dei falsari e dei mistificatori ha raggiunto cime eccelse, e ne abbiamo colto significative manifestazioni perfino su "L’Unità" di Furio Colombo, dove il 24 marzo scorso, in memoria di quella strage, si riproponeva una tesi cara a tutti gli attendisti, e cioè che l’attacco partigiano di via Rasella, in cui fu annientata la 11° compagnia del terzo battaglione dell’SS Polizei Regiment Bozen "fu un atto di guerra, dettato da emotività più che da un preciso ragionamento, discutibile sul piano dell’opportunità e sbagliato se messo in relazione con le finalità che si volevano raggiungere" (a parte lo spazio dato nei mesi precedenti ad alcuni scritti del Vivarelli ove si ricordavano le benemerenze patriottiche della X Mas e del suo eroico comandante, il principe golpista Valerio Borghese, o le amene considerazioni sullo stato di "città aperta" di Roma, con un titolo, il 15 agosto 2001, addirittura esilarante).
La nostra gente, pur affamata e terrorizzata, e ben sapendo di correre rischi mortali, ci aiutava, checché ne dicano il De Felice, o il Montanelli, o il Lepre, ecc. ecc., che sopravvennero dopo i primi exploit dei giornalisti repubblichini Spampanato e Guglielmotti, o dello "storico" Giorgio Pisanò, cantore dell’epopea repubblichina, o, nel 1948, in piena "guerra fredda", dei Comitati Civici dell’Azione Cattolica di Pacelli e di Gedda.
Quella nostra gente ci nascondeva, ci sfamava quando poteva e ci curava se ammalati o feriti, rifiutava di denunciarci, così come del resto aiutava e non denunciava i giovani renitenti di leva, gli uomini che si sottraevano al lavoro forzato imposto dai nazisti, i soldati e gli ufficiali sbandati, gli ebrei, i carabinieri, i prigionieri alleati evasi, i ricercati politici antifascisti e i politici fascisti che non avevano aderito al P.F.R. (bisogna pur ricordarlo: dei quadri del fascismo, solo il 10% di quelli periferici e il 15% di quelli nazionali aderirono al governo collaborazionista della Repubblica Sociale; degli oltre quattro milioni di italiani iscritti al P.N.F., costretti ad avere quella "tessera del pane", solo 200.000 - il 5% - si iscrissero al P.F.R.).
I romani e la rete di solidarietà
I romani poi, dietro il loro menefreghismo ironico e apparentemente opportunista, seppero costruire spontaneamente una rete straordinaria di solidarietà attiva nei confronti delle centinaia di migliaia di ricercati e perseguitati che affollavano la loro città. Essi, pur temendo per la loro vita e imprecando a parole contro chi poteva turbare la loro sacrosanta voglia di quiete, non esitarono a schierarsi nei fatti dalla parte della libertà e contro la crudele presenza dei tedeschi e dei fascisti, isolati e "schizzati".
Da questa Resistenza, fatta di fame e di sofferenze, ha preso le mosse la Guerra di liberazione nazionale, che è iniziata proprio a Roma, subito dopo l'8 settembre, oltre che con una intensa attività diplomatica, politica, di agitazione, di "intelligence", anche con iniziative militari che hanno fatto della nostra città la capitale dell’Europa occupata che ha dato più filo da torcere agli eserciti tedeschi (Dollman), che ha fatto dire a Kappler che dei romani non ci si poteva fidare, che ha fatto raccontare a Mhulhausen la paura che lo stesso Kappler aveva dei partigiani e della gente di Roma.
Dice Renzo De Felice: ("Il Rosso e il Nero", pag. 60): "Roma fu la città col maggior numero di renitenti: un po’ per la sua configurazione sociologica, un po’ perché era stata l’unica città in cui si era tentata la resistenza armata contro i tedeschi dopo l’armistizio, un po’ per la presenza del Vaticano e del gran numero di luoghi ed edifici dove i renitenti potevano nascondersi. Al primo posto ci fù la "difesa di se stessi", sia da parte di chi rispose al bando, sia per chi riuscì a nascondersi, come per chi fu costretto a salire in montagna. Molti di questi divennero valorosi partigiani. Per molti altri pesò sempre il vizio di origine di una scelta opportunistica", che, aggiungo, ha aperto lo spazio a tutte le fantasie e le menzogne della vulgata antipartigiana.
In quei terribili nove mesi Roma - anche per ragioni geografiche (eravamo a poche diecine di chilometri dal fronte) - è stata all'avanguardia (politica e militare) di tutte le città italiane occupate: la sua gente, i partigiani che da essa provenivano, hanno reso impossibile il disegno strategico del nemico, che voleva fare di Roma, dei suoi nodi stradali e ferroviari, dei suoi servizi, un comodo transito e un rifugio per i mezzi e le truppe da e per il fronte di Cassino e di Anzio, una tranquilla base per i suoi alti comandi, il luogo dove permettere un piacevole ristoro ai suoi soldati impegnati sul fronte.
I romani, con i loro figli partigiani che colpivano e sabotavano il nemico ogni giorno e ogni notte in città, nelle campagne intorno Roma e nel Lazio, con la loro capacità di aiutarli, nasconderli, proteggerli, fecero di Roma "una città esplosiva", come dovette ammettere Kappler, il boia delle Ardeatine, nel processo che subì alla fine della guerra.
Questa era la strategia della Resistenza romana, che perfino il collaboratore de L’Unità mostra di non aver compreso.
Il Maresciallo Clark, comandante della V Armata americana, ebbe a dire personalmente a Boldrini che soltanto quando le truppe anglo-americane entrarono in Roma i Comandi Alleati capirono senza più alcun dubbio che l’Italia era con loro.
Il costo della lotta partigiana
Abbiamo pagato cara questa nostra Resistenza: 650 Caduti, tra il il 9 e il 10 settembee 1943, nella battaglia per Roma. Di essi 400 erano ufficiali o soldati, e dei civili ben 17 furono le donne.
Oltre 50 furono i bombardamenti Alleati, dovuti alla presenza in città di comandi, mezzi e truppe tedesche (altro che "città aperta"!); fame e miseria; deportazioni; rastrellamenti in tutti i quartieri, centrali e periferici; il coprifuoco alle 4 del pomeriggio; unica città in Italia, fu proibito a Roma l'uso delle biciclette (altri mezzi, oltre quelli pubblici, non erano consentiti ai civili); feroci esecuzioni e rappresaglie, le Ardeatine, Bravetta, La Storta, il Ghetto, il Quadraro, le razzie, gli arresti, le torture (via Tasso, Palazzo Braschi, la pensione Oltremare, la pensione Jaccarino, Regina Coeli, ecc.: operavano in Roma ben 18 "polizie", tedesche e italiane, pubbliche e "private"!), gli assassinii compiuti a freddo nel centro della città e nelle borgate.(10 fucilati a Pietralata, 6 renitenti fucilati a Ladispoli, 10 donne fucilate a Portuense, dieci donne fucilate a Tiburtino 3°, circa 80 fucilati a Bravetta, 14 fucilati alla Storta.....più la strage del Quadraro: su 700 cittadini deportati ne sono tornati solo 300!... più la strage degli ebrei , circa duemilacinquecento deportati, ne sono tornati circa 120...
I partigiani romani uccisi in combattimento, morti sotto la tortura o fucilati, nei nove mesi che vanno dal 9 settembre 1943 al 5 giugno del 1944 sono 1.735, oltre ad alcune migliaia di cittadini romani, ebrei e non, deportati nei campi di sterminio in Germania e che non sono tornati; ma in questi stessi nove mesi in Roma furono condotte azioni militari e di sabotaggio che in numero e in qualità non hanno pari, nei limiti di quel periodo, in nessun’altra città d'Italia.
Fu così che il nemico pagò cara la sua permanenza in città, e si vendicò manifestando la sua brutale ferocia.
Ma quando gli eserciti alleati incalzarono, i tedeschi e i fascisti abbandonarono Roma precipitosamente, contro gli ordini di Hittler e Mussolini, che volevano impegnare battaglia in città casa per casa e deportare tutti gli uomini validi per il lavoro coatto, secondo i piani già approntati dal generale delle SS Wolff.
Roma era una "città esplosiva", e la non lontana esperienza di Napoli convinse anche i più feroci tra i nostri nemici a non correre rischi già sperimentati.
La Resistenza romana ebbe caratteristiche di spontaneità e di diffusione capillare che è difficile trovare altrove. Sono diecine le formazioni impegnate, grandi come come quelle dei partiti del CLN, in particolare i tre partiti di sinistra, PCI, Pd’A e PSIUP, come Bandiera Rossa, o i Cattolici Comunisti, o come il Centro Militare Clandestino dei "badogliani", ma anche piccole o piccolissime, che, per non aver potuto o voluto trovare il collegamento con i partiti del CLN, operavano autonomamente contro i tedeschi e i collaborazionisti fascisti.
Sono noti episodi di iniziative solidaristiche, ma anche di sabotaggio e di guerriglia, condotti addirittura da famiglie o da singoli, fino all’ultimo giorno dell’occupazione tedesca.
Tutto ciò, e per molte ragioni, che ha esaminato di recente anche Alessandro Portelli nel suo splendido libro "L’Ordine è stato eseguito" ed. Donzelli, che ha ottenuto nel 1999, con il Premio Viareggio per la saggistica il più ambito riconoscimento letterario italiano, si è attenuato nella memoria storica della città perché ha prevalso la disinformazione attraverso l’uso ripetuto di falsi e mistificazioni, malgrado le smentite documentate e l’uniformità delle delibere di tutti i livelli della magistratura, fino alle Cassazioni civili, penali e militari [...]
Rosario Bentivegna, Sulla Resistenza romana e sulle vicende di via Rasella si sono dette troppe sciocchezze. Anche a sinistra, "la RINASCITA della sinistra", 18 ottobre 2002, pagg 28-29, art. qui ripreso da resistenzaitaliana.it

La parola segreta era "Elefante". Questa volta, a differenza dai tempi dell’invasione cartaginese, l’elefante non arrivava come nemico. Significava che gli alleati stavano per liberare Roma. L’elefante amico. La radio alleata trasmise la parola "elefante" alle 23,15 del 3 giugno 1944. Le retroguardie tedesche lasciarono Roma la mattina del 4 giugno, mentre gli ultimi prigionieri di via Tasso erano liberati dalla popolazione e la palazzina del boia Kappler veniva saccheggiata. L’esercito di Clark inondò Roma nelle prime ore del pomeriggio incontrando le prime folle festanti nelle periferie della via Prenestina, della via Casilina, della via Appia, e nelle borgate di Tor Pignattara e Centocelle, dove i fascisti e i tedeschi nelle ultime settimane non avevano osato più passare né di giorno né di notte per paura dei partigiani.
I sentimenti di un popolo che aveva vissuto una terribile notte durata nove mesi non erano molto diversi da quelli dei soldati che dall’inverno avevano sostenuto durissime battaglie sui fronti di Cassino e di Anzio. Solo negli ultimi 23 giorni, la quinta e la settima armata erano riuscite a scardinare la linea Gustav, si erano aperte, attraverso i monti Aurunci, la strada per i Castelli Romani, e unendosi alle truppe sbarcate quattro mesi prima ad Anzio, avevano dato l’ultima spallata al generale Kesserling, che, annidato nelle caverne del monte Soratte, inviava al macello i suoi battaglioni. Roma, la prima capitale europea liberata, era un simbolo per i soldati alleati come lo era per tutti gli italiani.
Redazione, La Liberazione di Roma (4 giugno 1944) in resistenzaitaliana.it

sabato 14 maggio 2022

Già nell’ottobre 1942 i comunisti italiani presero contatto con le formazioni slovene per concordare alcune forme di collaborazione

Lusevera (UD) nella Benecìa - Fonte: Mapio.net

La lotta armata nella Venezia Giulia e in Friuli ha caratteri specifici ed originali che la differenziano dalla Resistenza nel resto d’Italia.
Questa originalità deriva, innanzitutto, dalla posizione geografica della regione, sita com’era a cavaliere tra Austria e Jugoslavia in un punto chiave per i tedeschi, crocevia logistico-operativo fra il fronte italiano, la Germania e i Balcani.
A queste motivazioni d’ordine geografico-militare se ne accompagnano altre di tipo etnico: infatti abitavano la zona popolazioni slovene e croate che convivevano qui da secoli a fianco della componente italiana. L’oppressione scatenata dal fascismo contro sloveni e croati (allogeni e alloglotti) della Venezia Giulia e del Friuli, spinse costoro alla ribellione durante tutto il ventennio, coinvolgendo di conseguenza anche la popolazione italiana. Le radici della Resistenza friulana s’innestarono quindi nella forte tradizione dell’antifascismo clandestino regionale, uno dei più attivi e dei più perseguitati d’Italia <50: questo è il motivo principale del perché scaturì in regione un così precoce spirito resistenziale. Alla luce di ciò si comprende meglio perché nella Venezia Giulia e in Friuli la Resistenza assunse subito un carattere plurinazionale, con la nascita e lo sviluppo, sin dalla tarda estate del 1941, di formazioni partigiane slovene nelle province di Gorizia e Trieste; queste formazioni penetrarono anche nelle Valli del Natisone (Slavia veneta, altrimenti detta Benecìa <51). L’organizzata Resistenza slovena creò diversi punti di riferimento per l’antifascismo friulano e giuliano e costituì, agli inizi, uno stimolo ed un esempio per le sue iniziative. Questa vicinanza, in seguito, si ripercosse negativamente sulle vicende friulane: i fini ultimi della lotta dell’Esercito di Liberazione jugoslavo (lotta di liberazione nazionale e rivoluzione sociale) complicarono non poco i rapporti tra le formazioni e tra i partiti italiani; i rapporti da tenere con gli sloveni diventarono motivo di aspre discussioni e di paralisi per l’unificazione dei diversi comandi partigiani italiani, soprattutto nelle zone di confine. La prossimità con questo forte movimento di liberazione a direzione comunista fu la principale ragione del perché si formò proprio in Friuli la più robusta organizzazione partigiana non comunista, la Osoppo, che ha pochi eguali in Italia.
Il dualismo fra i reparti diretti dai comunisti (Garibaldi) e quelli sostenuti da altri partiti (Osoppo) non fu connotato tipico friulano, ma in questa regione assunse un valore particolare.
L’insorgere di una questione nazionale e di frontiera sollevata dal movimento jugoslavo è un altro degli aspetti caratterizzanti, dal punto di vista politico-militare, della Resistenza nel Friuli Venezia Giulia.
La Resistenza friulana si segnala, inoltre, per una serie di “primati”: fu in regione, infatti, che nacque l’unico distaccamento italiano sorto prima dell’armistizio dell’8 settembre; per primi, in Friuli, i reparti garibaldini si organizzarono in battaglioni e brigate (nelle altre regioni si combatteva ancora per bande, per piccoli nuclei); qui si costituì la prima brigata italiana, la Garibaldi “Friuli”, e si assistette alla prima grande battaglia contro i tedeschi (Gorizia 12-19 settembre 1943: probabilmente l’unico esempio in Friuli di insurrezione armata spontanea).
Non di minore rilevanza storico-politica sono i trattati stipulati dai garibaldini con il IX Korpus d’armata jugoslavo o la creazione di grandi zone libere, con il conseguente controllo di vasti territori (come la Zona Libera della Carnia) che videro il coinvolgimento diretto e l’intervento nella vita sociale e amministrativa delle popolazioni civili, con interessanti esperimenti di autogoverno e l’avvio di una Costituzione avanzata.
[...] Già nell’ottobre 1942 i comunisti italiani presero contatto con le formazioni slovene per concordare alcune forme di collaborazione <52. L’intesa (superando molte perplessità interne) fu raggiunta dalla federazione udinese: gli italiani s’impegnarono a passare informazioni sui movimenti tedeschi, a rifornire di armi, medicinali e viveri le formazioni slovene; gli sloveni, da parte loro, concessero la formazione di un reparto autonomo di partigiani italiani, con comando e simboli nazionali, riunendo quei combattenti che già stavano lottando disseminati nelle formazioni jugoslave. In seguito a tali accordi, nella primavera del 1943, nacque il primo nucleo partigiano: il Distaccamento “Garibaldi” <53, composto da una quindicina di volontari italiani, e operante sui monti della Slavia veneta. Questo distaccamento porta il nome di Garibaldi non per un caso: Garibaldi, infatti, era un eroe popolare; “garibaldini” erano i combattenti di Spagna nelle Brigate Internazionali contro il fascismo franchista e, soprattutto, il nome di Garibaldi richiamava forte l’immagine che voleva la resistenza al fascismo e ai tedeschi come continuazione del Risorgimento italiano.
Il Distaccamento, braccato di continuo dai nemici, si spostò continuamente e si sciolse.I superstiti, all’indomani dell’8 settembre, formarono sul Collio (in continuazione del vecchio distaccamento) il battaglione “Garibaldi”, costituito con l’apporto di antifascisti del cormonese, di partigiani italiani che militavano nelle file slovene, di soldati sbandati e di alcuni dispersi della brigata “Proletaria” dopo la sconfitta nella battaglia di Gorizia. Raggiunse in pochi giorni le 120 unità e, su pressante invito sloveno, si spostò nelle Valli del Natisone.
In seguito al forte afflusso di giovani e volontari dopo l’8 settembre, nacquero nuovi battaglioni partigiani nella zona orientale del Friuli.
Fra il 12 e il 20 settembre si costituì, sempre nelle valli del Natisone, il Battaglione “Friuli”, organizzato su tre compagnie, come il “Garibaldi”.
Ai primi di Ottobre risale anche la formazione del Battaglione “Pisacane”, composto in parte da membri degli altri due battaglioni e forte già di 70 uomini.
A questi si aggiunse il Battaglione “Mazzini”, costituitosi a fine ottobre sul Collio (l’unico reparto italiano accettato in zona dagli sloveni), e dal quale in futuro avrebbe avuto vita la Brigata “Natisone”. La storia di questo reparto è diversa dalle altre formazioni garibaldine: infatti, ebbe sempre una notevole autonomia decisionale conferitagli dal decentramento logistico cui fu costretto e dalla contiguità con i reparti sloveni.
Con la nascita e lo sviluppo di questi primi battaglioni si posero i presupposti per la costituzione di una brigata partigiana. Furono i comandi garibaldini a caldeggiare la formazione della brigata, unico mezzo per affermare in maniera decisa l’esistenza di formazioni italiane autonome nelle Prealpi Giulie. Inoltre incominciava a farsi pressante la necessità della presenza di una adeguata e congrua formazione militare italiana dato che, con la caduta del fascismo e a causa di rivendicazioni territoriali sempre più ufficiali e dettagliate da parte slovena, il problema dei confini orientali andava facendosi sempre più attuale.
Dall’unione di questi battaglioni (nati e operanti fra i fiumi Natisone, Judrio e Isonzo) nacque così alla fine del 1943, sulle Prealpi Giulie, la Brigata “Friuli”, la prima in Italia, composta da circa 450 uomini.
Volontari friulani, operai isontini (molto forte fu il numero di iscritti e sostenitori del partito comunista nei cantieri di Monfalcone) ed ex-militari, formarono il grosso di queste unità.
Il P.C.I. fu anche il principale organizzatore della lotta armata in pianura. Tra settembre e dicembre 1943 creò una robusta rete di organismi politici e militari che operarono a supporto dei reparti di montagna, concorrendo a mobilitare le masse e a suscitare la guerriglia.
Furono diretti dal P.C.I., infatti, i gruppi dell’Intendenza, i G.A.P. e la maggior parte delle S.A.P. Su iniziativa della Federazione comunista i primi nuclei di G.A.P. erano stati costituiti già ad ottobre in tutta la regione. Da principio erano piccoli gruppi di persone (tre, cinque al massimo) che vivevano in legalità; si riunivano solo per compiere sabotaggi, recuperare armi, munizioni e viveri <54, attaccare macchine nemiche isolate, eliminare spie.
Altri raggruppamenti di massa furono il Fronte della Gioventù, i Gruppi di Difesa della Donna, i Comitati operai e contadini in cui, in genere, erano comunque i comunisti a prevalere.
Le condizioni in cui operarono furono difficili e pericolose.
All’interno delle stesse forze di pianura si possono individuare due diverse tipologie di combattenti: c’erano quelli che vivevano alla macchia, in continuo spostamento, accampati tra la vegetazione per non essere scovati, simili per certi versi ai partigiani di montagna (nel 1943 non si hanno ancora notizie di questi gruppi che si svilupparono, verosimilmente, nella primavera-estate 1944). C’erano poi uomini che vivevano in legalità, a casa propria, svolgendo servizi di intendenza, stampa, propaganda, a volte di aiuto sanitario; erano i cosiddetti “territoriali” che occasionalmente si armavano per azioni di guerriglia (rientrano in questa categoria la maggior parte dei G.A.P., le S.A.P., gli appartenenti al F.d.G.).
[NOTE]
50 Centinaia furono gli arrestati e i condannati a pene detentive durissime, migliaia i confinati e gli internati (I. DOMENICALI, G. FOGAR, La Resistenza, in “Storia regionale contemporanea, guida alla ricerca”, edizioni Grillo, Udine, 1979, p. 48).
51 Per T. MANIACCO e F. MONTANARI (I Senza storia. Il Friuli dal 1866 al 25 Aprile 1945, Casamassima, 1978) è più corretto chiamare queste zone Slavia veneta piuttosto che friulana.
52 Si veda, per esempio, G. C. BERTUZZI, 1942-1943. “Esercito partigiano italiano” e “questione nazionale”: alle origini di una vicenda controversa in “Storia contemporanea in Friuli”, anno XII, n.13, I.F.S.M.L., Udine, 1982.
53 Probabilmente la dicitura “Distaccamento Garibaldi” fu successiva alla creazione del nucleo.
54 A. C., in un’intervista orale, ricorda l’assalto al deposito militare di Percoto da parte della popolazione locale per rifornirsi di scatolette di cibo. La sua testimonianza è confermata da F. MAUTINO (Guerra di popolo, Feltrinelli, Padova, 1981, p. 56).
Alessio Di Dio, Il Manzanese nella guerra di Liberazione. Partigiani, tedeschi, popolazione, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2002-2003

Il primo nucleo nacque come “distaccamento Garibaldi” nella Slavia Friulana (Benecìa) già nel marzo del 1943, per iniziativa del PCI e del movimento di liberazione sloveno. Fu la prima formazione militare della Resistenza italiana. Subito dopo l’8 settembre, in quella zona, si era formata una Brigata Garibaldi.
Nei mesi successivi, dopo la dispersione delle forze combattenti dovuta all’offensiva tedesca, il battaglione venne ricostruito dando vita a due formazioni distinte: il Btg. Garibaldi ed il Mazzini. Da questo sdoppiamento, nasceranno tre brigate: la Buozzi, la Picelli e la Gramsci, raggruppate nella Divisione Garibaldi Natisone, costituita ufficialmente il 17 agosto 1944 inquadrando 1.200 uomini che in settembre raggiungeranno circa 2 mila uomini. Alla fine del 1944, dopo la conclusione dell’esperienza della Zona libera della Carnia e dell’Alto Friuli, e quella del Friuli orientale, la Divisione si trasferì oltre l’Isonzo, passando alle dipendenze operative dell’Esercito di liberazione jugoslavo. Partecipò a diversi e sanguinosi combattimenti, rientrando a Trieste il 20 maggio del 1945. Lasciò in terra slovena ben 1.000 caduti. Di questa unità fece parte anche la Brigata Triestina, aggregatasi nei giorni della Liberazione.
Bibliografia:
G. Gallo, La Resistenza in Friuli 1943-1945, IFSML, Udine 1988;
L. Patat, Mario Fantini “Sasso”. Comandante della Divisione “Garibaldi Natisone”, IFSML, Udine 2000;
G. Padoan (Vanni), Abbiamo lottato insieme. Partigiani italiani e sloveni al confine orientale, Del Bianco Editore, Udine 1965;
A.a.V.v., La Repubblica partigiana della Carnia e dell’Alto Friuli, Il Mulino, Bologna 2013;
A. Buvoli-A. Zannini (a cura), Estate-autunno 1944. La Zona libera partigiana del Friuli orientale, Il Mulino, Bologna 2016;
E. Cernigoi, La Brigata d’Assalto ‘Triestina’ nella Zona di Operazioni Litorale Adriatico. Una storia militare 1943-1945, Ed. Tempora, 2017.
Redazione, Divisione Garibaldi Natisone, ANED (Associazione Nazionale ex Deportati nei campi nazisti) Brescia, 23 febbraio 2020

lunedì 9 maggio 2022

I partigiani imperiesi se ne andarono, ma “Tigre” restò prendendo il comando del Rebagliati

La zona di Calice Ligure (SV) - Fonte: Mapio.net

Verso metà luglio 1944 una serie di eventi negativi mise a rischio lo schieramento garibaldino. In risposta allo scacco subito con l’attacco al presidio di Calice Ligure, i tedeschi organizzarono un rastrellamento contro il distaccamento “Calcagno”, attestato nei pressi di Monte Alto <70. Presi alla sprovvista, i garibaldini arretrarono in preda al panico (molti erano dei “novellini”) in una nebbia impenetrabile, tra continue raffiche di mitra. Miracolosamente non vi furono né vittime né prigionieri, ma la frattura prodottasi nel bel mezzo del rastrellamento tra il “Calcagno” ed il Comando Brigata - che a detto distaccamento si appoggiava - costituiva un fatto assai grave. Più in generale in quei giorni si dispiegò un rastrellamento generale contro tutta l’area dal Carmo alla Val Bormida; anche i garibaldini del “Rebagliati” di stanza alla Baltera se la cavarono per il rotto della cuffia <71. In più gli imperiesi del 10° distaccamento, rendendosi forse conto di essere diventati una presenza “scomoda”, chiesero ed ottennero di poter tornare in I^ Zona. Il loro arrivo era stato determinato essenzialmente dalla caccia mortale che i fascisti imperiesi davano al comandante Rosolino Genesio “Tigre”, che aveva ucciso un carceriere con una testata allo stomaco (!) <72. I garibaldini imperiesi se ne andarono, ma “Tigre” restò prendendo il comando del “Rebagliati” e facendosi fama di estrema risolutezza.
Si imponeva una riflessione. Il servizio informazioni non si era mostrato pronto di fronte alla minaccia nemica, che solo per una fortunata circostanza fortunata non si era tradotta in un disastro irreparabile tipo Benedicta o Val Casotto: una di quelle disfatte totali che il movimento partigiano impiegava mesi per assorbire. Molti partigiani, specie le reclute appena salite in montagna dai centri rivieraschi, si erano mostrate pavide: a questo avrebbero dovuto provvedere i commissari politici con un’appropriata opera di sostegno psicologico e di motivazione al combattimento.
Prudentemente il distaccamento “Calcagno” si trasferì a Pian dei Corsi, riorganizzando i servizi di guardia e i turni delle pattuglie in perlustrazione. Il Comando Brigata ritenne invece opportuno stabilirsi ad Osiglia, paese che il distaccamento “Astengo” aveva lasciato la sera dell’11 luglio per dirigersi su Monte Carmo, sopra Loano. Passando per la cascina Catalana, non lontana da Bardineto e abitata dalla famiglia Goso che da tempo aiutava i partigiani, gli uomini dell’”Astengo” raggiunsero la meta il giorno seguente perdendo tuttavia per strada il carro con i viveri, inopinatamente abbandonato dalla guida. Trovandosi in una zona apparentemente tranquilla ma a stomaco vuoto, i partigiani inviarono cinque volontari a procurarsi cibarie e pentolame presso i contadini della zona, che dai tempi della “Brigata Tom” collaboravano attivamente con la Resistenza. Ne tornò solo uno, “Sambuco”, perché, stracarica di viveri, la pattuglia era incappata presso Bric Aguzzo in un’imboscata in piena regola compiuta da tedeschi e fascisti della “Muti” che stavano rastrellando i dintorni. Il capo pattuglia Pierino Secchi, il cassiere Luigi Moroni e i volontari Agide Maccari e Dante Bonaguro erano rimasti uccisi <73. Il distaccamento, per evitare di essere individuato e massacrato sul terreno brullo e aperto di Monte Carmo, batté in ritirata verso il Bric dell’Agnellino, più a nord, passando per la cascina Catalana <74.
Un ulteriore elemento negativo fu il fallimento del tentativo, peraltro velleitario e abortito ancora in fase di progetto, di costituire una XXIa Brigata che fungesse da cuscinetto fra la XXa e le robuste formazioni che dominavano le montagne intorno al passo del Turchino, quelle, per intenderci, che avrebbero dato vita alla Divisione unificata Ligure - Alessandrina e in seguito alla “Mingo” <75.   
[...] Il fascismo repubblicano, con la creazione delle Brigate Nere, aveva ormai perso l’afflato “ecumenico” dei primi tempi e si era reso conto di essere in netta minoranza. La paura e il senso di impotenza spingevano i brigatisti neri a reazioni sempre meno ponderate. Un esempio tipico. Unità della Brigata Nera “Briatore” erano state sconfitte in combattimento a Colle San Bernardo, presso Garessio, dai partigiani imperiesi, lasciando sul terreno il tenente Libero Aicardi: la loro rappresaglia si sfogò a decine di chilometri di distanza, a Voze, frazioncina a monte di Noli posta nella zona operativa del distaccamento “Calcagno”. A tarda sera tre brigatisti neri, fingendosi partigiani, si presentarono dal parroco don Carretta chiedendogli da mangiare. Uno scrisse una lettera pregandolo di farla avere ai suoi familiari. Quindi, usciti dalla canonica, i tre infiltrati ebbero modo di incontrare ed identificare molti giovani del posto, alcuni dei quali armati, anche se qualcuno già sospettava dei nuovi venuti; quindi operarono alcuni arresti. Tornati in forze a notte fonda, i fascisti arrestarono anche il parroco, poi portarono tutti a Savona, alla Federazione del PFR. Il parroco si offrì al posto dei giovani che i fascisti volevano fucilare, ma il federale lo invitò bruscamente a non fare il martire. Così il 14 luglio vennero fucilati i cinque renitenti alla leva Guglielmo Avena, Alfonso Mellogno, Carlo Ardissone, Eugenio Manlio e Giuseppe Calcagno. Un sesto giovane, Domenico Caviglione “Mingo”, partigiano del “Calcagno” catturato giorni prima presso Voze e rimasto ferito in un tentativo di fuga, avrebbe dovuto essere fucilato quel giorno. Ma alcuni suoi colleghi della Scarpa & Magnano, con l’aiuto di una suora, riuscirono a liberarlo dall’Ospedale San Paolo dove era piantonato dal brigadiere di Pubblica Sicurezza Cardurani con due agenti <80.
[NOTE]
70 M. Calvo, op. cit., p. 51.
71 M. Savoini “Benzolo”, op. cit., pp. 82-84.
72 Ibidem, p. 86.
73 M. Calvo, op. cit., p. 52. Luigi Moroni era uno dei garibaldini del gruppo di Gottasecca catturati a San Giacomo di Roburent e consegnati ai tedeschi; arruolato a forza nell’esercito della RSI, era stato spedito in Germania per l’addestramento, ma in giugno, appena tornato a Savona, aveva subito disertato per tornare con i compagni: vedi F. Sasso, Folgore...cit., p. 27. Il fatto che uno come lui fosse stato cooptato nei corpi armati della RSI nonostante la comprovata militanza tra i ribelli comunisti è sintomatico del quadro disastroso del reclutamento per l’Esercito fascista repubblicano.
74 R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 110. A questo proposito, gli autori sostengono che la famiglia Goso, che risiedeva nella cascina, sarebbe stata arrestata e deportata in Germania in tale occasione; ma ciò contrasta con quanto lo stesso De Vincenzi narra in E. De Vincenzi, O bella ciao...cit., pp. 93-96, e cioè che i Goso sarebbero stati catturati ai primi di dicembre del 1944.
75 M. Calvo, op.cit., pp. 47-49.
80 G. Gimelli, vol. II, pp. 223-224 e R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., pp. 103-104.
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000

mercoledì 4 maggio 2022

Buranello acconsente di fare il gappista «per disciplina»


Il Partito comunista era l’unico [a Genova], seguito in ciò dal Partito d’azione, ad essere riuscito a conservare una seppur embrionale struttura organizzativa; il tutto all’interno del mondo operaio che, agli occhi dei giovani e imprudenti cospiratori, appariva invece inerme e sfiduciato. Gli studenti non potevano credere che i pericolosissimi comunisti descritti dalla propaganda del regime fossero quegli stessi lavoratori spossati dalla fatica e obbedienti alla disciplina di fabbrica; non riuscivano del tutto a capacitarsi di questi militanti, che non conservavano nemmeno un elenco degli iscritti e che sembravano limitare ogni attività alla raccolta delle quote del soccorso rosso.
Così come per gli altri dissidenti, anche per i comunisti era ormai impossibile uscire dal chiuso delle cellule e delle amicizie fidate: a ogni tentativo, seppur minimo, di portare la lotta dal gruppetto clandestino all’azione di massa, rispondeva immediatamente la reazione poliziesca. Ogni movimento più esteso era stroncato sul nascere, colpendo quadri difficili da sostituire. Con un’organizzazione quasi interamente smantellata dalla polizia e con i dirigenti all’estero, in galera o al confino, i comunisti erano del tutto assenti dalla vita pubblica, con l’ovvia esclusione delle scritte sovversive, che mani anonime facevano in genere comparire negli ambienti frequentati da operai. Solo con il crollo del fascismo il partito avrebbe ripreso vitalità, sebbene in forme affatto clandestine.
Anima del gruppo degli studenti nonché loro principale ispiratore era Giacomo Buranello, all’epoca poco più che ventenne. Universitario iscritto al biennio di Ingegneria, in lui si incontravano un’intelligenza decisamente al di sopra della norma e una solida e vasta cultura. Gli erano peculiari uno spirito di sacrificio e una forza di volontà non comuni, senza alcun dubbio determinati dal contesto di provenienza, ossia dall’essere cresciuto in una famiglia operaia del ponente cittadino di disagiate condizioni economiche. Dopo una prima infatuazione per gli ideali del Risorgimento italiano, Buranello aveva aderito al Partito comunista <58.
Non bisogna inoltre dimenticare che il gruppo di ventenni in cui Buranello si sarebbe presto affermato come leader era andato formandosi al di fuori di qualsiasi contatto con la dirigenza del Partito, mentre solo in un secondo momento questi ragazzi avrebbero cercato tra i lavoratori dell’industria vecchi militanti e nuovi adepti. Il piccolo movimento capeggiato da Buranello, benché assolutamente degno di nota, era tuttavia solo uno tra le decine di raggruppamenti giovanili antifascisti che erano andati costituendosi nella prima metà del 1942 e che tendevano a ricreare dal basso un tipo di dissidenza che si richiamava direttamente al comunismo, al socialismo, al rivoluzionarismo socialista o liberale <59.
[NOTE]
58 Numerose e interessanti le notizie desumibili sulla breve vita di Giacomo Buranello che, dopo l’arresto dell’11 ottobre 1942 e la liberazione del 29 agosto 1943, sarebbe divenuto a Genova il comandante del primo nucleo dei Gruppi di azione patriottica (Gap). Catturato il 2 marzo 1944, venne fucilato il giorno seguente; gli venne conferita la Medaglia d’oro al Valor militare (N. Simonelli, Giacomo Buranello: primo comandante dei Gap di Genova, Ghiron, Genova, 1977; e inoltre Calegari, Comunisti e partigiani, op. cit., pp. 7-60; F. Gimelli, La Resistenza armata, in Tonizzi, Battifora, Genova 1943-1945, op. cit., pp. 111-142).
59 Per citare due tra gli esempi più significativi, tra il gennaio e il giugno 1942 venne fondato a Perugia il Movimento universitario rivoluzionario italiano (Muri), da parte di alcuni studenti universitari e medi; quasi contemporaneamente a Cesena una ventina di diciottenni diede vita alla Giovane internazionale. Cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. IV, La fine del fascismo dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi, Torino, 1976, pp. 84-91.
Paola Pesci, La famiglia Lazagna tra antifascismo e Resistenza, Storia e Memoria, n. 5, 2015, Ilsrec, Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea


Fonte: Patria Indipendente

Fonte: Patria Indipendente

L’esempio più efficace per descrivere questi primi gappisti è sicuramente Giacomo Buranello, studente in Ingegneria all’università di Genova, che, nonostante la giovane età, aveva già conosciuto le galere fasciste per la sua attività sovversiva durante il regime. Buranello venne scelto dai vertici del Pci proprio per la sua spregiudicatezza che si spingeva fino ai limiti dell’incoscienza. Per il suo atteggiamento audace generò tensioni tra i vecchi militanti genovesi che lo consideravano un “avventurista”, ma Buranello si dimostrò la persona adatta per dare il via alle azioni gappiste in un contesto dove mancava l’apporto logistico necessario: non si disponeva di armi - che andavano assolutamente strappate ai nemici -, di bombe e di uomini, ma al contempo era necessario che qualcuno si sacrificasse e desse il via alla lotta uccidendo fascisti, indipendentemente dal ruolo ricoperto, generando in loro la paura di un nemico invisibile. La prima azione militare di rilievo, organizzata dal primo gruppo di Gap comandato da Buranello, venne compiuta a Sampierdarena alle ore 18 del 28 ottobre 1943, quando fu colpito a morte il capo manipolo della Milizia fascista <29.
Quella che possiamo definire “prima generazione gappista” pagò un prezzo altissimo per la propria partecipazione alla guerra di Resistenza: i pochi che riuscirono a sfuggire alle torture e alle fucilazioni dovettero riparare in montagna da ricercati, con taglie pesanti sulle loro teste. Sulla testa di Buranello pendeva, già nel gennaio del 1944, una taglia da un milione di lire e, per questo, venne fatto allontanare da Genova, tornò poi in città alla fine di febbraio per partecipare allo sciopero generale ma fu catturato il 2 marzo: venne fucilato dopo aver subito pesanti torture all’alba del giorno successivo.
29 Cfr. N. Simonelli, Giacomo Buranello, primo comandante dei Gap di Genova, De Ferrari, Genova 2002.
Mariachiara Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune linee di ricerca in Fronte e fronte interno. Le guerre in età contemporanea. II. La seconda guerra mondiale e altri conflitti, Percorsi Storici - Rivista di storia contemporanea, 3 (2015)


A Genova, dopo il dissolvimento del primo nucleo di Giacomo Buranello, l’organizzazione gappista, agli ordini di Germano Jori <137, tra il maggio e il giugno 1944, realizza un numero consistente di azioni, tra cui la bomba esplosa al cinema Odeon con la quale, il 15 maggio, vengono eliminati 5 soldati tedeschi <138. Le catture e le cadute subite nel luglio 1944, che coinvolgono lo stesso Jori, conducono, però, al tracollo dell’intera struttura. In un rapporto del 14 agosto 1944, Remo Scappini afferma che l’organizzazione gappista genovese:
"È quasi inesistente come tale. A Genova dopo gli arresti l’organizzazione ha subito così duri colpi che ci ha indotto ad allontanare tutti i vecchi membri […] Siamo molto deboli in questo campo" <139.
La condizione dei GAP resta deficitaria anche nei mesi seguenti, dato che Scappini, in un’informativa del 19 marzo 1945, in riferimento alle operazioni compiute dalle varie strutture armate del PCI, non fa alcun accenno al gappismo:
"A questo elevamento morale e rinvigorimento dello spirito di lotta specialmente degli operai e impiegati industriali […] hanno molto contribuito le azioni partigiane, specialmente quelle effettuate nelle province di Genova e di Savona, le azioni delle Sap e l’intensa agitazione e propaganda delle organizzazioni del Partito" <140.
[...] Giacomo Buranello nasce nel comune veneziano di Meolo il 17 marzo 1921. La madre, Domenica Bondi, proviene da una famiglia toscana di condizione agiata, la qual cosa le permette di portare avanti gli studi fino alle scuole superiori. Una volta caduto in disgrazia, il nucleo familiare Bondi si sposta a Genova con la speranza di trovare una migliore sistemazione economica. È qui che Domenica conosce Giuseppe Buranello, un contadino di origine veneta che ha lasciato i luoghi natii al fine di cercare lavoro in una grande città industriale. I due si sposano e Domenica, rimasta incinta, in attesa che Giuseppe trovi un’occupazione a Genova, decide di affrontare la gravidanza dai parenti del marito a Meolo. Quando Giuseppe viene assunto alle fonderie dello stabilimento Ansaldo, la moglie e il neonato si trasferiscono con lui in un’abitazione sita in via Leone Pancaldo, nel quartiere di Sampierdarena. È in questo «piccolo mondo abitato esclusivamente da famiglie operaie e da poverissima gente» <290 che Giacomo trascorre la sua infanzia.
Egli, fin da piccolo, si dimostra dotato di intelligenza e predisposizione allo studio. Alle scuole elementari risulta sempre il migliore della classe, pur dovendo lasciare il primo posto al figlio del podestà <291 o della famiglia benestante di turno. Decisivo per la sua formazione è l’incontro, in quarta e quinta elementare, con l’insegnante Antonio Rossi, antifascista, il quale «fu soprattutto un maestro di vita» <292. Tra i due nasce un rapporto di stima reciproca, «proseguito durante l’adolescenza e la giovinezza di Buranello e sfociato in un sodalizio intellettuale e politico» <293. Giacomo assorbe con precocità e vivo interesse gli insegnamenti del maestro. Rossi propone a Buranello, divenuto suo ex scolaro, consigli di lettura e discussioni su varie tematiche. A testimonianza dell’impatto avuto negli anni da Rossi sul suo sviluppo culturale e umano, queste sono le parole scritte nell’agosto 1939 da Giacomo al vecchio docente:
"Lei è per me il Maestro per eccellenza: dai Suoi due anni di insegnamento, vorrei dire di apostolato, ho attinto quelle prime idee, soprattutto quei sentimenti fondamentali che non si mutano e che creano l’uomo e il cittadino. Dalle sue lezioni ardenti su Mazzini, che io ricordo come se fossero di ieri, ho appreso l’amore della libertà e il culto della dignità umana, quei sentimenti che danno uno scopo alla vita e moltiplicano le energie degli individui intenti a realizzarle. Non abbandonerò questi sentimenti, qualunque sia la strada che io seguirò in futuro" <294.
Terminate le scuole elementari nel 1931, Buranello viene iscritto all’istituto tecnico Vittorio Emanuele III. Anche qui Giacomo, malgrado la sua preparazione e gli ottimi risultati conseguiti, si vede scavalcato, per quel che concerne il merito scolastico, da compagni provenienti da famiglie abbienti. È l’inizio di un processo che lo porta ad acquisire una progressiva consapevolezza della sua condizione sociale di figlio di operaio e a sviluppare una «spiccata avversità nei confronti di chi aveva condizioni agiate e di conseguenza di privilegio» e un «forte senso critico nei confronti delle autorità» <295.
Buranello inizia a frequentare nell’autunno 1935 il liceo scientifico Gian Domenico Cassini. Malgrado questo genere di studi, propedeutico alle facoltà universitarie di medicina e ingegneria, sia solitamente precluso a ragazzi di bassa estrazione sociale, la madre Domenica, dotata di grande personalità e di una notevole influenza su Giacomo, «avendo perfettamente compreso le attitudini del figlio, non ebbe dubbi ad indirizzarlo verso uno studio che gli permettesse, accedendo poi all’Università, di far valere tutta la propria intelligenza» <296.
A partire dal terzo anno di liceo, la cucina di casa Buranello, con il favore di Domenica, diventa luogo di ritrovo di un gruppetto di giovani di Sampierdarena. Si tratta di amici di Giacomo di vecchia data, tra cui Walter Fillak, Giambattista Vignolo, Ottavio Galeazzo e Orfeo Lazzaretti, i quali sono mossi da un «comune interesse per la lettura, lo studio e per la conversazione» <297:
"Dalle iniziali discussioni letterarie e filosofiche, passeranno ben presto ad esprimersi con molta chiarezza e senso critico sugli avvenimenti politici. […] Da questi giovani studiosi verrà intentato, sul piano intellettuale, con un enorme sforzo, un lungo processo alle strutture del fascismo" <298.
Dal confronto tra i membri del gruppo emerge una «estraneità alle sollecitazioni e alla cultura del fascismo» <299:
"Non accettavamo i rituali. Ci si ribellava. Non andavamo alle riunioni. Trovavamo giustificazioni per non far parte di quello che allora era considerato l’atteggiamento giusto, confacente. Forse tutto ciò dipende dalla predisposizione di ciascuno di noi verso l’accettazione o meno. Per noi l’accettazione era il fascismo. Ribellarsi era rifiutare il fascismo <300. Tutto è stato quando sono cominciate le nostre letture; i libri che ci piacevano. Lì abbiamo capito che il fascismo era tutto il contrario. C’era anche una certa predisposizione all’indisciplina, a non accettare le adunate e una scuola che ti trattava come un bambino dell’asilo. C’era un rifiuto… Il rifiuto ci accomunava e nello stesso tempo ci apriva a cose diverse da quelle che ci proponeva il fascismo" <301.
Giacomo ritiene il fascismo «un’enorme macchina fondata sulla paura di “perdere il posto”», che «si frantumerà inevitabilmente» <302 una volta dato l’esempio. Dal suo diario, steso tra 1937 e 1939, per quanto condizionato dal «pensiero posteritatis» che induce chi scrive ad una «falsa sincerità caratteristica anche delle autobiografie ritenute più schiette» <303, emerge in lui una disposizione al sacrificio, di sapore risorgimentale e mazziniano:
"[…] ho concluso che occorre sacrificarsi; che il sangue dei martiri segna la strada più sicura alle Idee, che il nostro Risorgimento era fatto meritorio già dopo i primi tentativi falliti e soffocati nel sangue. Dissi che occorre mantenersi liberi da nuova famiglia perché la nostra eventuale morte debba lasciare il minor lutto possibile: niente moglie niente figli. Che occorre trasformare il pensiero e i sentimenti in azione: questo si fa sacrificandosi. Ma prima di giungere al sacrificio supremo bisogna prepararsi perché tale sacrificio possa effettuarsi ed abbia la maggior efficacia" <304.
Si tratta di «una visione eroica dell’impegno personale, che gli anni matureranno, attenuandone gli aspetti più letterari e i toni retorici, e che resterà sino alla fine un aspetto peculiare della sua milizia» <305.
Conseguita la maturità scientifica nell’estate del 1939, Giacomo inizia l’università. Insieme a Fillak e a Lazzaretti, frequenta il primo anno del biennio di ingegneria, comune al ramo di chimica industriale, scelto dagli amici, e a quello di elettrotecnica, selezionato da lui. Le nuove conoscenze strette in ambito universitario portano all’entrata nel gruppo, facente capo a Buranello, di nuovi studenti, quali Luciano Codignola, Arnaldo Minnicelli, Tommaso Catanzaro e Goffredo Villa <306.
In tutti gli appartenenti del raggruppamento vi è la necessità di dare una svolta organizzativa agli incontri, di «trasformare il proprio antifascismo teorico in attività pratica» <307. Giacomo sceglie di iniziare da semplici azioni di propaganda volte a «recuperare la classe operaia dal suo lungo sonno» <308. Nella classe operaia, infatti, egli vede il potenziale rivoluzionario in grado di abbattere il fascismo:
"Senza la lotta attiva delle masse lavoratrici, senza l’esperienza combattiva operaia, il fascismo non sarebbe mai caduto. Ma dovrà essere lo studioso […] a mettersi al servizio degli oppressi. L’intellettuale dovrà muoversi per primo. È il suo privilegio culturale che lo obbliga ad essere avanguardia. Egli, l’intellettuale, conoscendo meglio d’ogni altro l’efficacia contenuta nel movimento e nell’azione, dovrà agire pensando di compiere un atto pedagogico, educativo nei confronti delle masse" <309.
Sulla base di questa logica, l’attività viene avviata in direzione della classe operaia genovese nelle zone di Sampierdarena, Cornigliano, Sestri Ponente e Rivarolo. Attraverso queste iniziative propagandistiche, Buranello si propone «conseguenze politiche precise per una prossima organizzazione comunista» <310. Per il gruppo di studenti, il comunismo:
"[…] rappresentava il coronamento di storie familiari, locali. Gli studenti erano approdati al comunismo per una inquietudine frutto di una somma di fattori dove carattere, sensibilità, condizione familiare, un maestro elementare e un eccesso di letture avevano avuto, sia pure in dosi diverse per ognuno, il loro peso" <311.
Il primo contatto comunista per Buranello avviene all’inizio del 1940, attraverso un colloquio, preparatogli dal maestro Antonio Rossi, con Emilio Guerra <312, ferroviere di Sampierdarena. Ciò rappresenta per Giacomo l’inizio di una serie di incontri e collegamenti con militanti operai di varie fabbriche e del porto di Genova.
Il 1° marzo 1941 Buranello viene chiamato a prestare servizio militare. Destinato a Bologna, vi trascorre 5 mesi, ossia la durata del corso per specialisti marconisti. Conseguita la specializzazione, viene trasferito momentaneamente a Chiavari, in attesa di essere inviato a Pavia per partecipare ad un corso preparatorio per allievi ufficiali di completamento. Classificatosi tra i primi del corso, ha la possibilità di scegliere una sede che lo avvicini maggiormente a casa. Così, nel febbraio 1942, è nuovamente a Chiavari, sottotenente di completamento presso il 15° Reggimento Genio. Favorito dalla vicinanza con Genova, Giacomo riprende la sua attività politica alla testa della neonata organizzazione clandestina comunista, che continua ad espandersi a macchia d’olio, sviluppandosi, oltre che in Liguria, anche in direzione di Alessandria e Torino.
Nel maggio 1942 viene costituito un Comitato centrale di cui entrano a far parte Buranello, Walter Fillak, Giambattista Vignolo e Ottavio Galeazzo per il gruppo degli studenti, mentre tra gli operai vengono scelti Emilio Guerra, l’ex ferroviere Edgardo Pinetti per i suoi contatti con il centro della città e la val Bisagno, il falegname Cesare Bussoli per quelli con la Riviera di Levante e Raffaello Paoletti <313, in quanto responsabile del gruppo operante in val Polcevera. Scopo del Comitato è «formare un’organizzazione centralizzata che dia unità e forza al Partito nella Provincia di Genova e nelle zone contigue» <314.
[...] Questo organismo, che rappresenta a Genova «l’ultimo progetto cospirativo comunista vissuto in città prima della caduta del fascismo» <317, viene smembrato dagli arresti dell’11 ottobre 1942.
Nel giorno fissato da Buranello con l’architetto Giuseppe Bianchini <318, rappresentante di un altro gruppo comunista operante nel centro della città di Genova, per concludere le modalità di fusione dei due raggruppamenti, l’organizzazione di Giacomo, sotto indagine da diversi mesi, cade vittima di una vasta operazione di polizia che porta alla cattura della quasi totalità dei suoi membri dirigenti.
Buranello, essendo ancora in servizio militare, viene incarcerato nelle prigioni del 15° Reggimento di Chiavari, salvo poi essere trasferito nel carcere genovese di Marassi e, in seguito, in quello di Apuania. Trovatosi a Roma, nel carcere di Regina Coeli, in attesa di essere giudicato dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, al momento della destituzione di Mussolini, Giacomo viene rimesso in libertà il 29 agosto 1943.
Tornato a casa, egli viene inserito ufficialmente nell’organico del PCI genovese, di cui uomo forte è ora Raffaele Pieragostini <319. Quest’ultimo, «consapevole della singolarità delle loro posizioni e della difficoltà di controllarne politicamente l’azione» <320, decide di utilizzare Giacomo Buranello e Walter Fillak in ruoli operativi e non in «un impiego che valorizzasse le caratteristiche intellettuali o la loro collocazione universitaria» <321:
"[…] non ci si fermò ad interrogarsi sulla migliore collocazione di un quadro né sul ruolo che potevano assumere militanti della caratura di un Buranello o di un Fillak. […] si decise che Fillak e Buranello sarebbero andati a lanciare bombe. Specialmente non avrebbero assunto ruoli di direzione politica che restavano riservati al partito di Ventotene" <322.
Quando gli viene comunicata la scelta di impiegarlo, in virtù dei suoi trascorsi nell’esercito, come comandante dei futuri GAP, Giacomo non vuole accettare. Infine, acconsente di fare il gappista «per disciplina» <323, pur non riuscendo a tenere nascosta, nel corso dei mesi, «una ribellione intima (che rigettava in continuazione) al ruolo che si trovava a svolgere e che certo non identificava con l’indole del proprio essere» <324:
"Buranello avrebbe preferito fare, data l’attività svolta precedentemente, un lavoro di coordinamento politico specialmente in settori come l’Università, con gruppi di studiosi e studenti, mantenere contatti in ambienti in cui avrebbe potuto esprimere la sua personalità ed esplicare una funzione dirigente" <325.
Ciononostante, verso la metà di ottobre si forma a Genova il primo nucleo dei GAP, composto da Buranello, Fillak, Andrea Scano <326, Angelo Scala <327, Balilla Grillotti <328 e Germano Jori. La loro prima azione militare di rilievo viene compiuta il 28 ottobre 1943 a Sampierdarena, con l’uccisione del capo manipolo della MVSN Manlio Oddone.
A seguito della già accennata retata fascista del 31 dicembre 1943, che, anche nei giorni successivi, è causa di arresti e trasferimenti in montagna, gli unici gappisti rimasti attivi a Genova nel mese di gennaio sono Buranello e Scano, i quali portano a termine due iniziative: la prima, realizzata il 13, in via XX Settembre, riguarda l’abbattimento, tramite colpi di pistola da distanza ravvicinata, di due ufficiali tedeschi; la seconda consiste nel lancio di alcune bombe a mano contro la casa del fascio di Sampierdarena in data 15 gennaio.
Dopodiché, anche loro ricevono l’ordine di Remo Scappini, divenuto responsabile del PCI a Genova e in Liguria, di allontanarsi dalla città e di portarsi in montagna.
A Buranello viene assegnato il comando del 1° distaccamento della 3ª brigata Liguria, operante nella zona del monte Tobbio. Si tratta di un ruolo che ricopre per breve tempo, per il fatto che, in vista dello sciopero generale programmato per l’inizio di marzo 1944, egli viene richiamato a Genova, insieme a Walter Fillak, allo scopo di sostenere, attraverso azioni di sabotaggio, i manifestanti in lotta nelle fabbriche.
Così, Giacomo torna a Sampierdarena la sera del 28 febbraio. L’ampia mobilitazione di forze tedesche e fasciste in conseguenza del proclamato sciopero, unitamente al riscontro di un’assoluta mancanza di partecipazione della classe operaia ad esso, però, porta ad un immediato contrordine: Buranello viene intimato a non eseguire interventi armati in città e a fare ritorno al più presto alla sua formazione partigiana. Egli, tuttavia, malgrado la precarietà della situazione, decide di non tornare in montagna, bensì di «organizzare alcune azioni che avessero ridato fiducia agli operai per la lotta» <329:
"Quando mi dissero che Buranello, nella situazione in cui si trovava Genova, non voleva ritornare in montagna, pensai che egli rimaneva coerente con se stesso fino all’ultimo. Buranello aveva fretta di bruciare le tappe. Il suo entusiasmo nel perseguire una giusta causa gli fece perdere di vista anche le elementari norme di condotta dell’attività clandestina. Nel suo fervido pensiero […] forse ripudiava le lentezze, i compromessi in attesa che maturassero gli altri. Ed ancora, le raccomandazioni di compagni anziani alla prudenza. Per tutto questo penso fu spinto, in quel clima drammatico, ad agire" <330.
La mattina del 2 marzo, durante un appuntamento al bar Delucchi mirato ad ottenere documenti di identità falsi per la sua permanenza a Genova, Giacomo viene catturato e portato in questura, dove subisce interrogatori e torture. Su ordine del questore Arturo Bigoni, viene convocata per la sera stessa una riunione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato della RSI <331, i cui componenti decretano la pena di morte a Buranello mediante fucilazione alla schiena.
La sentenza viene eseguita, all’alba del 3 marzo 1944, sull’altura del Forte San Giuliano.
[NOTE]
137 Germano Jori (1904-1944). In carcere dal 1933 al 1937, fu comandante dei GAP genovesi dopo la morte di Giacomo Buranello. Il 13 luglio 1944, identificato in un bar di Sampierdarena, fu ucciso mentre tentava di sottrarsi alla
cattura, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 27-06-2019.
138 L’attentato fu seguito, il 19 maggio, dalla rappresaglia del passo del Turchino, con la fucilazione di 59 detenuti, prelevati dal carcere di Marassi.
139 Remo Scappini (Giovanni), Rapporto dalla Liguria del 14-08-1944, in Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945, cit., p. 481.
140 Remo Scappini (Giovanni), Informazioni dalla Liguria del 19-03-1945, in Ibid., p. 975.
290 Nicola Simonelli, Giacomo Buranello. Primo comandante dei GAP di Genova, De Ferrari, Genova 2002, p. 15.
291 Il podestà, nel corso del regime fascista, fu, con la soppressione della carica di sindaco, l’organo monocratico a capo del governo di un comune.
292 Testimonianza di Domenica Bondi, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 18.
293 Pietro Rossi, Giacomo Buranello, i Gap, la violenza e la moralità nella Resistenza: analisi e riflessioni, in «Storia e memoria», 2005, 2, pp. 212-213.
294 Lettera di Buranello ad Antonio Rossi del 12-08-1939, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., pp. 42-43.
295 Testimonianza di Orfeo Lazzaretti, in Ibid., p. 20.
296 Ibid., p. 26.
297 Ibid., p. 34.
298 Ivi.
299 Manlio Calegari, Comunisti e partigiani. Genova 1942-1945, Selene, Milano 2001, p. 22.
300 Testimonianza di Ottavio Galeazzo, in Ibid., p. 38.
301 Testimonianza di Orfeo Lazzaretti, in Ivi.
302 Mariella Del Lungo, Il diario di Giacomo Buranello, in «Storia e memoria», 1994, 2, p. 86.
303 Del Lungo, Il diario di Giacomo Buranello, in Ibid., p. 81.
304 Del Lungo, Il diario di Giacomo Buranello, in Ibid., p. 86.
305 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 33.
306 Goffredo Villa (1922-1944). Comunista, entrò a far parte del gruppo di studenti di Buranello e Fillak. Arrestato, riacquistò la libertà in seguito alla caduta del fascismo. Fu membro dei GAP genovesi e, in seguito, partigiano. Venne fucilato al Forte San Giuliano il 29 luglio 1944, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
307 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 49.
308 Ibid., p. 50.
309 Ivi.
310 Ibid., p. 52.
311 Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 31.
312 Emilio Guerra (1906-1944). Ferroviere comunista, fatto prigioniero nel corso della Resistenza, fu tra coloro che persero la vita, mediante fucilazione, nella strage del Turchino del 19 maggio 1944, in Simonelli, Giacomo Buranello,
cit., p. 58.
313 Raffaello Paoletti, nato nel 1910, comunista. Dichiaratosi contrario all’organizzazione centralizzata pensata da Buranello, il 27 settembre 1942 fu espulso dal Comitato centrale di cui faceva parte. Malgrado l’allontanamento,
anch’egli finì nell’elenco degli arrestati di ottobre, in Calegari, Comunisti e partigiani, cit., pp. 61-62.
314 Atto costitutivo dell’organizzazione, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 109.
317 Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 67.
318 Giuseppe Bianchini (1894-1951). Aderì al PCd’I dal 1921, fu tra i primi dirigenti della sezione genovese del partito. Nel corso della Resistenza divenne segretario del Triumvirato insurrezionale della Liguria, in Donne e Uomini della
Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
319 Raffaele Pieragostini (1899-1945). Aderì al PCd’I nel 1922. Fu arrestato nel 1927 e condannato a 5 anni. Scarcerato, lasciò l’Italia, in accordo con il partito, continuando a svolgere attività politica in Francia, Unione Sovietica e
Spagna. Fu arrestato in Francia nel 1942 e condotto in Italia, riottenendo la libertà dal carcere di San Gimignano nell’agosto 1943. Venne chiamato a dirigere il PCI a Genova. Fu vice comandante militare del CLN della Liguria, in
AA. VV., Ear, vol. IV, cit., p.587.
320 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 74.
321 Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 139.
322 Ivi. Con partito di Ventotene si intende il gruppo di dirigenti e quadri di partito che, a seguito della liberazione dall’isola omonima, assunse la guida dell’organizzazione comunista in Italia.
323 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 74.
324 Ibid., p. 78.
325 Ibid., p. 74.
326 Andrea Scano (1911-1980). Accorso volontario in Spagna per combattere nelle Brigate internazionali, nel 1939 finì nei campi di internamento francesi. Consegnato nel 1941 alle autorità fasciste italiane, fu confinato a Ventotene. Nel
corso della Resistenza, fu gappista a Genova e partigiano nell’alessandrino, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
327 Angelo Scala (1908-1974). Comunista, fece parte dei GAP genovesi. Con il nome di battaglia «Battista» nel novembre 1944 divenne comandante della Brigata Volante Balilla, squadra di punta dotata di grande mobilità, operante tra
Bolzaneto, la val Polcevera e Genova, in Wikipedia, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
328 Balilla Grillotti (1902-1944). Operaio comunista, operò nei GAP di Genova. Catturato il 19 luglio 1944 e processato dieci giorni dopo, fu condannato a morte e fucilato, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
329 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 94.
330 Testimonianza di Remo Scappini, in Ibid., p. 95.
331 Fu un tribunale straordinario della Repubblica Sociale Italiana, istituito nel dicembre 1943 ed erede del disciolto Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Gabriele Aggradevole, Biografie gappiste. Riflessioni sulla narrazione e sulla legittimazione della violenza resistenziale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2018-2019


Era uno studente bravissimo, Giacomo Buranello. Il capo dei Gap genovesi, fucilato il 3 marzo 1944 quando ancora non aveva compiuto 23 anni, ai ragazzi più giovani che avevano scelto di seguirlo dopo l’8 settembre, ripeteva sempre l’insegnamento mazziniano: “studiate, studiate sempre”, come ricorda Giordano Bruschi, il partigiano “Giotto” che, diciottenne, fu tra loro.
E a cent’anni dalla nascita - era nato il 27 marzo 1921 - decine di docenti della Scuola Politecnica dell’Università di Genova, insieme al centro di Documentazione Logos hanno infatti promosso una richiesta per il conferimento della Laurea alla Memoria a Buranello - a cui già negli anni 70 era stata intitolata l’Aula Magna della Facoltà di Ingegneria - e il Consiglio della Scuola Politecnica ha approvato all’unanimità la proposta, trasmettendola ora ai vertici dell’Ateneo a cui spetta la decisione di attribuire il titolo [...]
Donatella Alfonso, Giacomo Buranello, una laurea alla memoria, Patria Indipendente, 27 marzo 2021