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sabato 8 aprile 2023

La ‘risposta flessibile’ al contempo rappresentava una “magnifica opportunità” per l’industria bellica


Sin dai primi giorni del suo insediamento l’amministrazione democratica presieduta da Kennedy lavorò ad un’ampia ed articolata revisione della foreign policy e della strategia nucleare. Gli anni di Eisenhower, specialmente gli ultimi, erano stati caratterizzati da una crisi di fiducia nel contesto della Nato, favorendo quelle spinte centrifughe che avevano provocato, tra l’altro, l’iniziativa tripartita (Italia, Francia, Germania) intesa a realizzare un’autonomia atomica continentale. L’impressione suscitata dal lancio dello Sputnik e la politica ‘aggressiva’ condotta da Khrushev avevano alimentato timori e preoccupazioni in partibus Occidentis. L’URSS aveva conseguito significativi progressi in campo nucleare mettendo a repentaglio quell’egemonia balistica statunitense apparsa, per decenni, incontrastabile. L’elezione di Kennedy, coadiuvato da un brain trust di intellettuali efficiente e determinato, venne interpretata come un’iniezione di dinamismo e di rinnovamento. Per i nuovi inquilini della Casa Bianca apparve prioritario ripristinare un clima di fiducia con gli alleati atlantici per reagire con maggior vigore ed ‘apertura di orizzonti’ alla sfida sovietica. Tale atteggiamento implicava il superamento della dottrina nota come ‘massive retaliation’, ritenuta ormai obsoleta e poco credibile6. Prodromicamente, nel corso della sua campagna elettorale, Kennedy aveva attaccato con acredine la politica del containment, denunciando un incremento del ‘potere d’iniziativa’ sovietico in tutte le ‘zone fluide’ -inclusa la ‘sfera d’influenza’ statunitense- per “seminarvi elementi di discordia e di indebolimento”. L’America vacilla, in particolare, sull’immenso fronte dei Paesi emergenti, gradualmente affrancatisi dal colonialismo-, perché il principio militare che è fatalmente legato a quello del containment non solo non allinea tali Paesi alla leading policy degli USA, ma contribuisce molto ad avvicinarli all’URSS. Kennedy riteneva che fosse possibile ‘traghettare’ i due blocchi verso un’epoca di ‘coesistenza competitiva’, se non altro perché entrambi condividevano l’interesse vitale a impedire uno scontro senza vincitori. Tuttavia, era consapevole che la sua ‘agenda’ aveva maggiori opportunità di attuazione a condizione che il concerto delle potenze occidentali mettesse in campo tutte le risorse mature: “Non si può vincere l’antagonista, che per sua natura tende a presentarsi come compatto, se il mondo libero non salvaguarda la propria unità: è da questa esigenza che deriva la politica kennediana nei confronti dell’Europa occidentale e dell’alleanza atlantica. Da un lato egli vuol mantenere la leadership americana - perché è la condizione di tutta la sua foreign policy - e, dall’altro, vuole che questa leadership sia democratica, perché solo a questa condizione può essere preservata l’unità del mondo libero” <7. In realtà, nonostante insistesse sulla novitas temporum -implicante l’esplorazione di altri criteri per ‘pugnare non bellando’- la strategia kennediana fu lungi dall’essere inedita rispetto alla consolidata tradizione della reazione indiscriminata: “According to folklore, the Eisenhower administration held stubbornly throughout its tenure to the strategy of ‘massive retaliation’- the intent to vaporize the whole Warsaw Pact as soon as Soviet tanks poured into West Germany. Conversely, folklore holds that Kennedy moved decisively to promote flexible response and stronger conventional defense options. In reality there was less difference than commonly assumed. Eisenhower supported the impression of staunch commitment to nuclear escalation in his rhetoric and decisions, but the commitment originally enshrined in NATO’s 1954 document MC 48 was modified in official development of strategy three years later in MC 14/2.37 Leaders of the Kennedy administration promoted improvement in conventional forces and revision of strategy, but action in these directions was inconsistent and changes in war plans were small and delayed. In Kennedy’s first year Secretary of Defense McNamara actually budgeted a reduction of conventional forces, and Kennedy later threatened withdrawals of U.S. forces from Europe to cope with the balance of payments deficit. Ten years after 14/2 the official adoption of flexible response as NATO doctrine in MC 14/3 occurred ironically just when capacity for conventional defense was falling, as France withdrew from the integrated command, London moved to withdraw forces from the British Army of the Rhine, and the war in Vietnam hollowed out U.S. units in Europe. MC 14/3 was a compromise in principle between conventional and nuclear emphasis in war plans, but produced little change in practice” <8. L’esperienza bellica nello scacchiere sud-est asiatico (Corea e Indocina) aveva dimostrato l’impossibilità di impiegare ordigni a fissione ‘tattici’, minacciati in una prova di forza convenzionale. Una pari inefficacia veniva imputata alla strategia della ‘graduated deterrence’ che, a partire dal 1956, -mediante installazione di missili Jupiter e Thor in Italia, Turchia e Gran Bretagna- aveva reso meno automatica la risposta occidentale al first strike sovietico. Il two keys system subordinava l’eventuale uso dei missili al consenso tra il comando generale della Nato e il governo del Paese ospitante. Tale procedura -si rilevava criticamente- appariva complessa, di difficile attuazione in contingenze legate ad un improvviso attacco del nemico. Tra problemi tecnici e diffidenze politiche l’azione dell’amministrazione Kennedy nei confronti degli interlocutori europei si mosse, agli esordi, lungo direttrici incerte ed equivoche come attesta la sua decisione di affidare al ‘comitato Acheson’ l’incarico di formulare un’ipotesi alternativa alle strategie nucleari condivise con la partnership atlantica. La relativa analisi prospettò due istanze: a) ridurre il peso del ‘fattore atomico’ nella NATO, favorendone l’incremento dell’armamento convenzionale al fine di innalzare la ‘soglia nucleare’; b) affidare agli Stati Uniti la responsabilità di controllo esclusivo sull’arsenale nucleare. La direttiva di Acheson venne adottata col memorandum del Consiglio di Sicurezza Nazionale (NSAM 40) nell’aprile 1961. Alcuni dettagli non vennero divulgati prevedendo possibili tensioni in seno all’Alleanza. Questa situazione di stallo si protrasse sino alla primavera del 1962 quando acquistò credito l’ ‘agenda McNamara’ i cui profili operativi vennero delineati dal generale Maxwell D. Taylor. “I nostri mezzi - sostenne il Segretario della Difesa - possono essere utilizzati in vari e diversi modi. Possiamo reagire all’aggressione con un unico attacco massiccio o possiamo riuscire a usare le nostre forze di rappresaglia in modo da limitare il danno di un conflitto nucleare per noi stessi e per i nostri alleati, distruggendo le basi del nemico prima che abbia avuto modo di lanciare la seconda salva o cercando di porre termine alla guerra a condizioni favorevoli”. Il concepimento di una strategia ‘proattiva’ in grado di fronteggiare le ‘variabili’ di uno schema congetturale bellico su scala planetaria costituì una ‘novità’ per gli Alleati, condizionati da una visione difensiva ‘radicale’, innestata cioè sul criterio di all-or-nothing: alle prime avvisaglie di pericolo, colpire il ‘nemico’ diffusamente e in profondità, con la certezza di annullare una sua replica nucleare. Una visione ‘sclerotizzata’ che impose agli Stati Uniti una strategia di politica estera basata sul compromesso tra ‘interdipendenza’ e leading mission. “La presidenza Kennedy è stata valorizzata come un momento di profonda intesa ‘universale’ da quanti avevano scorto nella ferrea logica di Guerra Fredda, fino ad allora vigente, una condizione soffocante. Le maglie del confronto, in realtà, si allargano, ma ciò non significa né un miglioramento dei rapporti transatlantici né tanto meno un aumento di ‘potere contrattuale’ a vantaggio dell’Europa. Con Kennedy si accentua la tendenza a dislocare il conflitto fuori dai confini del Vecchio Continente. In tal senso, il passaggio, nella strategia difensiva americana per l’Europa, dalla rappresaglia massiccia alla risposta flessibile acquisisce un valore emblematico. Anche perché, su questo sfondo, dopo gli accordi di Nassau del 1962, di determina la definitiva autonomizzazione della forza nucleare francese. L’intuizione aroniana del decennio precedente, per la quale i tentativi di espansionismo si sarebbero rivolti verso l’Asia e, quindi, lontani dalla centralità, anche mediatica, del territorio europeo, s’invera definitivamente: alla propensione sovietica a questa dislocazione giunge la risposta americana. Si potrebbe affermare, in tal senso, che la costruzione del Muro di Berlino nell’agosto del 1961 rappresenti il ‘congelamento possibile’ della questione tedesca e, con essa, della competizione sul suolo europeo, segnando la sua trasmigrazione in altri scenari” <9. La ‘dottrina’ della ‘flexible response’ eliminava gli automatismi insiti nella massive retaliation, prevedendo un range di opzioni ‘calibrabili’ su specifiche situazioni e ‘teatri’. La premessa che fece da sfondo a tale impostazione ‘geo-politica’ fu la consapevolezza che, in caso di scontro, l’equivalenza offensiva dispiegata simultaneamente non avrebbe lasciato vincitori risolvendosi, invece, in un mutuo annichilimento. L’escalation <10 avrebbe condotto, inesorabilmente, all’Armageddon, l’ennesima e, forse definitiva, ‘apocalisse della modernità’. Il punctum dolens del progetto era costituito dai rapporti con i membri del Patto Atlantico che esigevano concrete garanzie circa l’impegno statunitense nella difesa del Vecchio Continente, avamposto della libertà nel cuore dell’ ‘imperialismo rosso’. Si trattava di trovare una ‘regola aurea’ che rendesse “il protettorato americano più convincente per i Sovietici e gli Europei e meno pericoloso per gli Americani”.
Sarà su questo versante che Kennedy giocò una delle ‘partite diplomatiche’ più appassionanti e controverse, mescolando ‘retorica’ e ‘realismo’ in un mondo ancora vulnerato dal ‘passato trauma’ ed assuefatto alla ‘pax armata’ della Guerra Fredda <11. La ‘risposta flessibile’ prevedeva un gradiente di applicazione della forza tale da aggirare l’aut aut tra il compromesso con l’avversario e l’ecpirosi nucleare. Questo crescendo di risposta ostile mirava ad incrementare il calcolo dei costi/svantaggi presso i ‘centri decisionali’ della catena di comando, scongiurando, per quanto possibile, errori irreversibili. Ciò implicava la codificazione di procedure non più influenzate da meccanismi di elementare, istintiva difesa ma in grado di adattarsi, ragionevolmente, alle situazioni; il ‘fattore umorale’, ideologicamente mediato, non poteva costituire il fulcro intenzionale di eventi destinati a essere ‘fuori controllo’, in grado di spiazzare entrambi i contendenti. Logistica, risorse finanziarie, assetti economici, stabilità di consenso erano variabili da integrare al ‘metodo’ della ‘scuola militare’ e degli ‘apparati di sicurezza’. Lo stesso Kennedy, in un discorso radiofonico del 1961, aveva posto drammaticamente la questione, sostenendo l’esigenza di “avere una scelta più ampia di quella tra l’umiliazione e un’iniziativa nucleare generale”. In quel milieu la retorica copriva un’area materiata di ambiguità e problemi aperti. La dottrina della ‘risposta flessibile’ indubbiamente appariva più ‘umana’ rispetto alla terrificante prospettiva di una conflagrazione scatenata per fedeltà alla propria ortodossia e come ritorsione vendicativa. Al contempo essa rappresentava una “magnifica opportunità” per l’industria bellica.
Oggettivamente, infatti, tale blocco di interessi stava sperimentando l’impatto negativo di una ‘tesaurizzazione’, quantitativamente illimitata, di ordigni atomici (la cui produzione, su larga scala, si mostrava per di più poco suscettibile di assorbire, in risorse produttive diffuse e attività indotte, una dose d’investimenti veramente cospicua). Inoltre, se lo schema della risposta flessibile suggeriva una proporzione sensata, congrua, tra la posta in gioco e i mezzi impiegati, la valutazione dei ‘benefici’ poteva facilmente variare secondo le pressioni prevalenti nell’establishment governativo. La ‘soglia nucleare’, certamente, veniva innalzata, ma il limen della militarizzazione dei conflitti non lo era altrettanto. Vi erano ulteriori difficoltà da considerare. Per funzionare l’approccio del soft power aveva bisogno di un’unità di direzione strategica con i partner della NATO; inoltre occorreva assumere, ragionevolmente, che l’avversario giocasse secondo le stesse regole. Quest’ultima condizione non era minimamente soddisfatta né dalla politica generale di Khruscev né dalla prevalente dottrina militare sovietica. La prima mirava ad una spending review del budget per spesa militare che la focalizzazione sulla tecnologia balistica, non elaborata né eccessiva, sembrava permettere. La seconda era ancora basata sulla nozione ottocentesca di ‘bombardamento ad oltranza’, adattato dai sovietici alla teoria degli ordigni nucleari. Il mutamento di strategia caldeggiato da Kennedy dopo il fallimento della MLF e l’istituzione del Nuclear Planning Group - iniziativa finalizzata a “contenere il nervosismo e il risentimento degli alleati nei confronti del controllo delle forze di teatro da parte dei soli Stati Uniti” (Jordan, Taylor) - non risolse i problemi sul tappeto ma, anzi, ne creò altri. “Poiché essa è una strategia che include l’opzione di contrastare un attacco convenzionale sovietico, almeno inizialmente, opponendo una difesa convenzionale con un vasto schieramento di forze, essa era vista con grande preoccupazione dai paesi europei sul cui territorio avrebbero potuto svolgersi i combattimenti. Inoltre accentuando la capacità di difesa convenzionale si mostrava minore disponibilità ad usare le armi strategiche, determinando una diminuita fiducia nella deterrenza nucleare. Per gli europei, la deterrenza di ogni attacco è la sola strategia in grado di garantire la sicurezza nazionale e la sopravvivenza in termini accettabili” (Jordan, Taylor). La ‘linea McNamara’, enunciata ad Atene nel 1962, era inequivocabile: le armi atomiche non potevano decidere le sorti di un conflitto a favore di una parte considerando l’equivalenza e la simmetria della dotazione nucleare. Tale approccio infliggeva un ulteriore duro colpo alla già vacillante credibilità dell’impegno americano; inoltre implicava l’esigenza di incrementare l’armamento convenzionale col relativo onere finanziario. Il ‘sistema continentale’ reclamava una ‘parità’ nella codificazione di un paradigma strategico che non lasciasse adito a pretese dirigistiche del ‘socio maggioritario’; dubbi e resistenze sulle ‘chiare intenzioni’ degli Stati Uniti a non dipendere criticamente dagli apparati della deterrenza continuarono ad agitare governi e diplomazie. Il sospetto di ‘reticenze’ circa la gestione del ‘patrimonio nucleare’ si coniugava all’insofferente percezione di una crescente egemonia americana nel contesto internazionale <12; pertanto, la ‘dottrina della risposta flessibile’ rimase controversa e ‘sincopata’ almeno fino al 1967 quando l’Europa si emancipò dal complesso del ‘feudalesimo nucleare’. “Il determinismo atomico teme la prospettiva di un mondo diviso fra le superpotenze, con ‘vassalli’, ‘castelli’, ‘borghi fortificati’ e remote province ribelli. Il neo-nazionalismo tedesco, francese o cinese s’innesta in questo timore di un foedus iniquum…La controversia sul contenuto di questo fenomeno riguarda le condizioni effettive della sovranità nucleare, distinta dallo status nucleare simbolico…La vera sovranità presuppone una gigantesca economia e, dunque, dimensioni imponenti e, in genere, alta industrializzazione d’ogni Stato che intenda tutelare davvero la sua sovranità per l’avvenire. La disputa si fonda su analisi complesse, che hanno dato vita a formule e concetti del tutto nuovi: teoria del ‘detonatore’, teoria della risposta proporzionata’ (Gallois) e relative anti-teorie (Kahn, Wohlstetter, Aron). Sul tema della sovranità nucleare s’è già aperta la crisi dei due grandi sistemi di alleanze: la secessione cinese dal mondo sovietico e quella francese dalla NATO. Lo sviluppo dei missili ha segnato l’inizio formale del processo…Se un numero sempre maggiori di governi giungesse a possedere simili armi, ancorché senza adeguati mezzi vettori, il rischio della distruzione totale verrebbe affidato a calcoli probabilistici su un numero sempre maggiore di variabili riguardo agli errori di calcolo politico, militare o semplicemente tecnico, e alla moltiplicazione delle possibili cause di conflitto. Il Presidente Kennedy temeva il giorno in cui «potranno esistere dieci potenze nucleari al posto di quattro…Considero questo come il massimo pericolo… Quando Pandora aprì il suo vaso e tutti i mali si riversarono fuori, non restò che la speranza. Ma la diffusione nucleare potrà annullare anche la speranza»” <13.
[NOTE]
6 Secondo John Forster Dulles, Segretario di Stato sotto la presidenza di Eisenhower, gli Stati Uniti dovevano dissuadere ‘muscolarmente’ il nemico, mediante una poderosa esibizione di forza, facendo ricorso “innanzitutto alla capacità di rappresaglia istantanea con i mezzi e nei luoghi che ci riserviamo di scegliere”. Gli ‘analisti’ di Kennedy confutarono la validità di tale approccio sulla base di considerazioni ‘contabili’ (costi e investimenti), stime rischi/benefici, efficacia nel preservare l’ ‘equilibrio del terrore’ attraverso il ‘contenimento’/inibizione del blocco sovietico. Come si evince dal seguente documento la strategia del ‘soft power’ si proponeva, nelle intenzioni dei suoi fautori, di impedire un collasso (economico, politico, civile) a seguito di un confronto nucleare globale: “The gratuated deterrence and the flexible response resulting therefrom are the main pillars of a strategic concept for the entire NATO area. The threat of a massive retaliation by means of automatic employment of nuclear weapons in any aggression is no longer credible. The Secretary said that the U.S. fully agrees that the West cannot make a credible deterrent out of an incredible action, i. e., the inevitable destruction of Central Europe, the U.S. and the Soviet Union. Massive retaliation is not a credible response to a small enemy action in Central Europe. The Secretary said that the political and strategic directives of NATO must be changed. However, other national view are not consistent with those of the U.S. and FRG . Von Hassell agreed that political directive must be changed. The Secretary added that timing of the change presented a problem. Von Freitag explained that the flexible response must be tailored to the requirements prevailing within the areas of conflict. The NATO response to aggression in the Mediterranean area of the Atlantic region would differ from the response in Central Europe. Central Europe offers limited strategic freedom of action because the entire territory of the FRG forms the combat zone and the bulk of the population of Western Europe as well as its economic capability lie in a zone having a width of about 625 miles. Densely populated areas, major industrial centers and the high population density in general will restrict the operational freedom of the NATO forces in war” Memorandum of conversation McNamara-von Hassell, November 1964
7 M. Albertini, La coscienza della nuova situazione degli USA: la politica estera dell’amministrazione Kennedy, in Tutti gli scritti, IV. 1962-1964, Società editrice il Mulino, pag. 431
8 Richard K. Betts, From Bumper Sticker to Driver’s Manual: The Case of NATO’s Flexible Response Doctrine, in U.S. NATIONAL SECURITY STRATEGY: LENSES AND LANDMARKS, Princeton University Press, 2004, pag. 20
9 T. Bonazzi (a cura di), Il grande freddo (1960-1969), in Quale Occidente, Occidente perché, Rubbettino Editore, 2005
10 Il termine escalation indica “una trasformazione qualitativa del carattere di un conflitto verso una crescita in ampiezza e in intensità…Si riferisce a qualcosa di più del semplice allargamento di un conflitto ed implica, piuttosto, il superamento di un limite accettato in precedenza da entrambe le parti” (Lawrence Freedman). Negli anni ’60 Herman Kahn e Thomas Schelling fecero dell’escalation il fulcro della loro riflessione teorica sulla strategia nucleare. Kahn elaborò un gradiente costituito da 44 livelli, sostenendo che fosse possibile, da parte dei vertici politici e militari, controllare, in ogni momento e a qualsiasi stadio, l’evoluzione di un conflitto potenzialmente distruttivo che egli definiva ‘spasm war’ (guerra spasmodica o insensata). Schelling, invece, si focalizzava sull’incertezza e indeterminazione del confronto nucleare: una volta che la deterrenza avesse fallito nel suo compito di evitare il conflitto, una accorta gestione di questi due fattori avrebbe potuto consentire di sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Si trattava della “minaccia che lascia qualcosa al caso…La chiave di questa minaccia è che, indipendentemente dalla sua eventuale messa in atto, la decisione finale non è pienamente sotto il controllo di chi esercita la minaccia stessa”
11 L’‘astro nascente’ della ribalta internazionale ereditò dall’amministrazione Eisenhower l’impervio compito di ‘aggiornare’ il significato e il ruolo dell’Alleanza Atlantica, rilanciando, al contempo, la leadership statunitense. Kennedy ‘costruì’ un carisma intorno a topoi sensibili tanto allo ‘spirito americano’ che a quello europeo, sostenuto da un team di esperti di alta competenza e formazione accademica. Inaugurò una politica emancipatasi dall’egida dei ‘quadri militari’ e, in linea di massima, più proclive ad esperimenti di ‘distensione’ e di ‘dialettica aperta’. “La politica europeo-atlantica dell’amministrazione Kennedy fu influenzata da spinte e tendenze molto diverse, talora palesemente contrapposte, e oscillò ripetutamente in varie direzioni; né esisteva una soluzione immediata che permettesse di conciliare le aspirazioni nucleari francesi col mantenimento degli equilibri all’interno della NATO e con la ricerca di una strategia in grado di innalzare la soglia del conflitto atomico. Di fronte ai marcati contrasti esistenti all’interno della sua amministrazione e alla diversità di opinioni riscontrata tra gli alleati europei, lo stesso Kennedy esitò a prendere decisioni definitive e ritornò spesso sui propri passi; e mentre all’interno dell’amministrazione una forte componente europeista presente nel Dipartimento di Stato cercava di utilizzare la leva nucleare per spingere gli alleati a riprendere il percorso dell’integrazione europea, Kennedy adottò al riguardo un atteggiamento sufficientemente pragmatico e mantenne sempre una posizione molto duttile sulle politiche europee della sua amministrazione. Solo dopo gli eventi del dicembre 1962-gennaio 1963 sembrò che la politica euro-atlantica degli Stati Uniti cominciasse ad orientarsi in una direzione precisa, e anche allora non mancarono, comunque, ripensamenti ed incertezze” L. Nuti, Trow in the MLF, in Atlantismo ed europeismo, pag. 563
12 “The problem was that the Europeans felt we were secretive in our nuclear strategy. We had put thousands of nuclear warheads on their soil; NATO had officially adopted a nuclear strategy; we had war plans and tactics to carry out that strategy; but we had refused to disclose to the Europeans the numbers, the characteristics of the warheads, the tactics and the war plans under which they would be applied. Our allies were, in effect, totally ignorant of our plans for utilizing nuclear weapons in defense of Europe. For two decades we had withheld all such information from the Europeans. At that time there was no intention to change the policy, so those who favored the MLF did so because it was a means of introducing the allies into a limited participation in nuclear strategy in support of the alliance. That failed. Then I proposed to the President that we reverse our policy completely and fully inform the Europeans on all aspects of nuclear weapons and strategy. That led to the formation of Nuclear Planning Group” McNamara G. S., Interview, 22 of May, 1986
13 A. Ronchey, Clausewitz H (il determinismo atomico), in Atlante ideologico, Aldo Garzanti Editore, 1973, pp. 144-146 passim
Giulia Altimari, Quale risposta flessibile? La dottrina strategica americana nell'era Kennedy, Tesi di laurea, Università LUISS "Guido Carli", Anno accademico 2015-2016