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sabato 8 aprile 2023

La ‘risposta flessibile’ al contempo rappresentava una “magnifica opportunità” per l’industria bellica


Sin dai primi giorni del suo insediamento l’amministrazione democratica presieduta da Kennedy lavorò ad un’ampia ed articolata revisione della foreign policy e della strategia nucleare. Gli anni di Eisenhower, specialmente gli ultimi, erano stati caratterizzati da una crisi di fiducia nel contesto della Nato, favorendo quelle spinte centrifughe che avevano provocato, tra l’altro, l’iniziativa tripartita (Italia, Francia, Germania) intesa a realizzare un’autonomia atomica continentale. L’impressione suscitata dal lancio dello Sputnik e la politica ‘aggressiva’ condotta da Khrushev avevano alimentato timori e preoccupazioni in partibus Occidentis. L’URSS aveva conseguito significativi progressi in campo nucleare mettendo a repentaglio quell’egemonia balistica statunitense apparsa, per decenni, incontrastabile. L’elezione di Kennedy, coadiuvato da un brain trust di intellettuali efficiente e determinato, venne interpretata come un’iniezione di dinamismo e di rinnovamento. Per i nuovi inquilini della Casa Bianca apparve prioritario ripristinare un clima di fiducia con gli alleati atlantici per reagire con maggior vigore ed ‘apertura di orizzonti’ alla sfida sovietica. Tale atteggiamento implicava il superamento della dottrina nota come ‘massive retaliation’, ritenuta ormai obsoleta e poco credibile6. Prodromicamente, nel corso della sua campagna elettorale, Kennedy aveva attaccato con acredine la politica del containment, denunciando un incremento del ‘potere d’iniziativa’ sovietico in tutte le ‘zone fluide’ -inclusa la ‘sfera d’influenza’ statunitense- per “seminarvi elementi di discordia e di indebolimento”. L’America vacilla, in particolare, sull’immenso fronte dei Paesi emergenti, gradualmente affrancatisi dal colonialismo-, perché il principio militare che è fatalmente legato a quello del containment non solo non allinea tali Paesi alla leading policy degli USA, ma contribuisce molto ad avvicinarli all’URSS. Kennedy riteneva che fosse possibile ‘traghettare’ i due blocchi verso un’epoca di ‘coesistenza competitiva’, se non altro perché entrambi condividevano l’interesse vitale a impedire uno scontro senza vincitori. Tuttavia, era consapevole che la sua ‘agenda’ aveva maggiori opportunità di attuazione a condizione che il concerto delle potenze occidentali mettesse in campo tutte le risorse mature: “Non si può vincere l’antagonista, che per sua natura tende a presentarsi come compatto, se il mondo libero non salvaguarda la propria unità: è da questa esigenza che deriva la politica kennediana nei confronti dell’Europa occidentale e dell’alleanza atlantica. Da un lato egli vuol mantenere la leadership americana - perché è la condizione di tutta la sua foreign policy - e, dall’altro, vuole che questa leadership sia democratica, perché solo a questa condizione può essere preservata l’unità del mondo libero” <7. In realtà, nonostante insistesse sulla novitas temporum -implicante l’esplorazione di altri criteri per ‘pugnare non bellando’- la strategia kennediana fu lungi dall’essere inedita rispetto alla consolidata tradizione della reazione indiscriminata: “According to folklore, the Eisenhower administration held stubbornly throughout its tenure to the strategy of ‘massive retaliation’- the intent to vaporize the whole Warsaw Pact as soon as Soviet tanks poured into West Germany. Conversely, folklore holds that Kennedy moved decisively to promote flexible response and stronger conventional defense options. In reality there was less difference than commonly assumed. Eisenhower supported the impression of staunch commitment to nuclear escalation in his rhetoric and decisions, but the commitment originally enshrined in NATO’s 1954 document MC 48 was modified in official development of strategy three years later in MC 14/2.37 Leaders of the Kennedy administration promoted improvement in conventional forces and revision of strategy, but action in these directions was inconsistent and changes in war plans were small and delayed. In Kennedy’s first year Secretary of Defense McNamara actually budgeted a reduction of conventional forces, and Kennedy later threatened withdrawals of U.S. forces from Europe to cope with the balance of payments deficit. Ten years after 14/2 the official adoption of flexible response as NATO doctrine in MC 14/3 occurred ironically just when capacity for conventional defense was falling, as France withdrew from the integrated command, London moved to withdraw forces from the British Army of the Rhine, and the war in Vietnam hollowed out U.S. units in Europe. MC 14/3 was a compromise in principle between conventional and nuclear emphasis in war plans, but produced little change in practice” <8. L’esperienza bellica nello scacchiere sud-est asiatico (Corea e Indocina) aveva dimostrato l’impossibilità di impiegare ordigni a fissione ‘tattici’, minacciati in una prova di forza convenzionale. Una pari inefficacia veniva imputata alla strategia della ‘graduated deterrence’ che, a partire dal 1956, -mediante installazione di missili Jupiter e Thor in Italia, Turchia e Gran Bretagna- aveva reso meno automatica la risposta occidentale al first strike sovietico. Il two keys system subordinava l’eventuale uso dei missili al consenso tra il comando generale della Nato e il governo del Paese ospitante. Tale procedura -si rilevava criticamente- appariva complessa, di difficile attuazione in contingenze legate ad un improvviso attacco del nemico. Tra problemi tecnici e diffidenze politiche l’azione dell’amministrazione Kennedy nei confronti degli interlocutori europei si mosse, agli esordi, lungo direttrici incerte ed equivoche come attesta la sua decisione di affidare al ‘comitato Acheson’ l’incarico di formulare un’ipotesi alternativa alle strategie nucleari condivise con la partnership atlantica. La relativa analisi prospettò due istanze: a) ridurre il peso del ‘fattore atomico’ nella NATO, favorendone l’incremento dell’armamento convenzionale al fine di innalzare la ‘soglia nucleare’; b) affidare agli Stati Uniti la responsabilità di controllo esclusivo sull’arsenale nucleare. La direttiva di Acheson venne adottata col memorandum del Consiglio di Sicurezza Nazionale (NSAM 40) nell’aprile 1961. Alcuni dettagli non vennero divulgati prevedendo possibili tensioni in seno all’Alleanza. Questa situazione di stallo si protrasse sino alla primavera del 1962 quando acquistò credito l’ ‘agenda McNamara’ i cui profili operativi vennero delineati dal generale Maxwell D. Taylor. “I nostri mezzi - sostenne il Segretario della Difesa - possono essere utilizzati in vari e diversi modi. Possiamo reagire all’aggressione con un unico attacco massiccio o possiamo riuscire a usare le nostre forze di rappresaglia in modo da limitare il danno di un conflitto nucleare per noi stessi e per i nostri alleati, distruggendo le basi del nemico prima che abbia avuto modo di lanciare la seconda salva o cercando di porre termine alla guerra a condizioni favorevoli”. Il concepimento di una strategia ‘proattiva’ in grado di fronteggiare le ‘variabili’ di uno schema congetturale bellico su scala planetaria costituì una ‘novità’ per gli Alleati, condizionati da una visione difensiva ‘radicale’, innestata cioè sul criterio di all-or-nothing: alle prime avvisaglie di pericolo, colpire il ‘nemico’ diffusamente e in profondità, con la certezza di annullare una sua replica nucleare. Una visione ‘sclerotizzata’ che impose agli Stati Uniti una strategia di politica estera basata sul compromesso tra ‘interdipendenza’ e leading mission. “La presidenza Kennedy è stata valorizzata come un momento di profonda intesa ‘universale’ da quanti avevano scorto nella ferrea logica di Guerra Fredda, fino ad allora vigente, una condizione soffocante. Le maglie del confronto, in realtà, si allargano, ma ciò non significa né un miglioramento dei rapporti transatlantici né tanto meno un aumento di ‘potere contrattuale’ a vantaggio dell’Europa. Con Kennedy si accentua la tendenza a dislocare il conflitto fuori dai confini del Vecchio Continente. In tal senso, il passaggio, nella strategia difensiva americana per l’Europa, dalla rappresaglia massiccia alla risposta flessibile acquisisce un valore emblematico. Anche perché, su questo sfondo, dopo gli accordi di Nassau del 1962, di determina la definitiva autonomizzazione della forza nucleare francese. L’intuizione aroniana del decennio precedente, per la quale i tentativi di espansionismo si sarebbero rivolti verso l’Asia e, quindi, lontani dalla centralità, anche mediatica, del territorio europeo, s’invera definitivamente: alla propensione sovietica a questa dislocazione giunge la risposta americana. Si potrebbe affermare, in tal senso, che la costruzione del Muro di Berlino nell’agosto del 1961 rappresenti il ‘congelamento possibile’ della questione tedesca e, con essa, della competizione sul suolo europeo, segnando la sua trasmigrazione in altri scenari” <9. La ‘dottrina’ della ‘flexible response’ eliminava gli automatismi insiti nella massive retaliation, prevedendo un range di opzioni ‘calibrabili’ su specifiche situazioni e ‘teatri’. La premessa che fece da sfondo a tale impostazione ‘geo-politica’ fu la consapevolezza che, in caso di scontro, l’equivalenza offensiva dispiegata simultaneamente non avrebbe lasciato vincitori risolvendosi, invece, in un mutuo annichilimento. L’escalation <10 avrebbe condotto, inesorabilmente, all’Armageddon, l’ennesima e, forse definitiva, ‘apocalisse della modernità’. Il punctum dolens del progetto era costituito dai rapporti con i membri del Patto Atlantico che esigevano concrete garanzie circa l’impegno statunitense nella difesa del Vecchio Continente, avamposto della libertà nel cuore dell’ ‘imperialismo rosso’. Si trattava di trovare una ‘regola aurea’ che rendesse “il protettorato americano più convincente per i Sovietici e gli Europei e meno pericoloso per gli Americani”.
Sarà su questo versante che Kennedy giocò una delle ‘partite diplomatiche’ più appassionanti e controverse, mescolando ‘retorica’ e ‘realismo’ in un mondo ancora vulnerato dal ‘passato trauma’ ed assuefatto alla ‘pax armata’ della Guerra Fredda <11. La ‘risposta flessibile’ prevedeva un gradiente di applicazione della forza tale da aggirare l’aut aut tra il compromesso con l’avversario e l’ecpirosi nucleare. Questo crescendo di risposta ostile mirava ad incrementare il calcolo dei costi/svantaggi presso i ‘centri decisionali’ della catena di comando, scongiurando, per quanto possibile, errori irreversibili. Ciò implicava la codificazione di procedure non più influenzate da meccanismi di elementare, istintiva difesa ma in grado di adattarsi, ragionevolmente, alle situazioni; il ‘fattore umorale’, ideologicamente mediato, non poteva costituire il fulcro intenzionale di eventi destinati a essere ‘fuori controllo’, in grado di spiazzare entrambi i contendenti. Logistica, risorse finanziarie, assetti economici, stabilità di consenso erano variabili da integrare al ‘metodo’ della ‘scuola militare’ e degli ‘apparati di sicurezza’. Lo stesso Kennedy, in un discorso radiofonico del 1961, aveva posto drammaticamente la questione, sostenendo l’esigenza di “avere una scelta più ampia di quella tra l’umiliazione e un’iniziativa nucleare generale”. In quel milieu la retorica copriva un’area materiata di ambiguità e problemi aperti. La dottrina della ‘risposta flessibile’ indubbiamente appariva più ‘umana’ rispetto alla terrificante prospettiva di una conflagrazione scatenata per fedeltà alla propria ortodossia e come ritorsione vendicativa. Al contempo essa rappresentava una “magnifica opportunità” per l’industria bellica.
Oggettivamente, infatti, tale blocco di interessi stava sperimentando l’impatto negativo di una ‘tesaurizzazione’, quantitativamente illimitata, di ordigni atomici (la cui produzione, su larga scala, si mostrava per di più poco suscettibile di assorbire, in risorse produttive diffuse e attività indotte, una dose d’investimenti veramente cospicua). Inoltre, se lo schema della risposta flessibile suggeriva una proporzione sensata, congrua, tra la posta in gioco e i mezzi impiegati, la valutazione dei ‘benefici’ poteva facilmente variare secondo le pressioni prevalenti nell’establishment governativo. La ‘soglia nucleare’, certamente, veniva innalzata, ma il limen della militarizzazione dei conflitti non lo era altrettanto. Vi erano ulteriori difficoltà da considerare. Per funzionare l’approccio del soft power aveva bisogno di un’unità di direzione strategica con i partner della NATO; inoltre occorreva assumere, ragionevolmente, che l’avversario giocasse secondo le stesse regole. Quest’ultima condizione non era minimamente soddisfatta né dalla politica generale di Khruscev né dalla prevalente dottrina militare sovietica. La prima mirava ad una spending review del budget per spesa militare che la focalizzazione sulla tecnologia balistica, non elaborata né eccessiva, sembrava permettere. La seconda era ancora basata sulla nozione ottocentesca di ‘bombardamento ad oltranza’, adattato dai sovietici alla teoria degli ordigni nucleari. Il mutamento di strategia caldeggiato da Kennedy dopo il fallimento della MLF e l’istituzione del Nuclear Planning Group - iniziativa finalizzata a “contenere il nervosismo e il risentimento degli alleati nei confronti del controllo delle forze di teatro da parte dei soli Stati Uniti” (Jordan, Taylor) - non risolse i problemi sul tappeto ma, anzi, ne creò altri. “Poiché essa è una strategia che include l’opzione di contrastare un attacco convenzionale sovietico, almeno inizialmente, opponendo una difesa convenzionale con un vasto schieramento di forze, essa era vista con grande preoccupazione dai paesi europei sul cui territorio avrebbero potuto svolgersi i combattimenti. Inoltre accentuando la capacità di difesa convenzionale si mostrava minore disponibilità ad usare le armi strategiche, determinando una diminuita fiducia nella deterrenza nucleare. Per gli europei, la deterrenza di ogni attacco è la sola strategia in grado di garantire la sicurezza nazionale e la sopravvivenza in termini accettabili” (Jordan, Taylor). La ‘linea McNamara’, enunciata ad Atene nel 1962, era inequivocabile: le armi atomiche non potevano decidere le sorti di un conflitto a favore di una parte considerando l’equivalenza e la simmetria della dotazione nucleare. Tale approccio infliggeva un ulteriore duro colpo alla già vacillante credibilità dell’impegno americano; inoltre implicava l’esigenza di incrementare l’armamento convenzionale col relativo onere finanziario. Il ‘sistema continentale’ reclamava una ‘parità’ nella codificazione di un paradigma strategico che non lasciasse adito a pretese dirigistiche del ‘socio maggioritario’; dubbi e resistenze sulle ‘chiare intenzioni’ degli Stati Uniti a non dipendere criticamente dagli apparati della deterrenza continuarono ad agitare governi e diplomazie. Il sospetto di ‘reticenze’ circa la gestione del ‘patrimonio nucleare’ si coniugava all’insofferente percezione di una crescente egemonia americana nel contesto internazionale <12; pertanto, la ‘dottrina della risposta flessibile’ rimase controversa e ‘sincopata’ almeno fino al 1967 quando l’Europa si emancipò dal complesso del ‘feudalesimo nucleare’. “Il determinismo atomico teme la prospettiva di un mondo diviso fra le superpotenze, con ‘vassalli’, ‘castelli’, ‘borghi fortificati’ e remote province ribelli. Il neo-nazionalismo tedesco, francese o cinese s’innesta in questo timore di un foedus iniquum…La controversia sul contenuto di questo fenomeno riguarda le condizioni effettive della sovranità nucleare, distinta dallo status nucleare simbolico…La vera sovranità presuppone una gigantesca economia e, dunque, dimensioni imponenti e, in genere, alta industrializzazione d’ogni Stato che intenda tutelare davvero la sua sovranità per l’avvenire. La disputa si fonda su analisi complesse, che hanno dato vita a formule e concetti del tutto nuovi: teoria del ‘detonatore’, teoria della risposta proporzionata’ (Gallois) e relative anti-teorie (Kahn, Wohlstetter, Aron). Sul tema della sovranità nucleare s’è già aperta la crisi dei due grandi sistemi di alleanze: la secessione cinese dal mondo sovietico e quella francese dalla NATO. Lo sviluppo dei missili ha segnato l’inizio formale del processo…Se un numero sempre maggiori di governi giungesse a possedere simili armi, ancorché senza adeguati mezzi vettori, il rischio della distruzione totale verrebbe affidato a calcoli probabilistici su un numero sempre maggiore di variabili riguardo agli errori di calcolo politico, militare o semplicemente tecnico, e alla moltiplicazione delle possibili cause di conflitto. Il Presidente Kennedy temeva il giorno in cui «potranno esistere dieci potenze nucleari al posto di quattro…Considero questo come il massimo pericolo… Quando Pandora aprì il suo vaso e tutti i mali si riversarono fuori, non restò che la speranza. Ma la diffusione nucleare potrà annullare anche la speranza»” <13.
[NOTE]
6 Secondo John Forster Dulles, Segretario di Stato sotto la presidenza di Eisenhower, gli Stati Uniti dovevano dissuadere ‘muscolarmente’ il nemico, mediante una poderosa esibizione di forza, facendo ricorso “innanzitutto alla capacità di rappresaglia istantanea con i mezzi e nei luoghi che ci riserviamo di scegliere”. Gli ‘analisti’ di Kennedy confutarono la validità di tale approccio sulla base di considerazioni ‘contabili’ (costi e investimenti), stime rischi/benefici, efficacia nel preservare l’ ‘equilibrio del terrore’ attraverso il ‘contenimento’/inibizione del blocco sovietico. Come si evince dal seguente documento la strategia del ‘soft power’ si proponeva, nelle intenzioni dei suoi fautori, di impedire un collasso (economico, politico, civile) a seguito di un confronto nucleare globale: “The gratuated deterrence and the flexible response resulting therefrom are the main pillars of a strategic concept for the entire NATO area. The threat of a massive retaliation by means of automatic employment of nuclear weapons in any aggression is no longer credible. The Secretary said that the U.S. fully agrees that the West cannot make a credible deterrent out of an incredible action, i. e., the inevitable destruction of Central Europe, the U.S. and the Soviet Union. Massive retaliation is not a credible response to a small enemy action in Central Europe. The Secretary said that the political and strategic directives of NATO must be changed. However, other national view are not consistent with those of the U.S. and FRG . Von Hassell agreed that political directive must be changed. The Secretary added that timing of the change presented a problem. Von Freitag explained that the flexible response must be tailored to the requirements prevailing within the areas of conflict. The NATO response to aggression in the Mediterranean area of the Atlantic region would differ from the response in Central Europe. Central Europe offers limited strategic freedom of action because the entire territory of the FRG forms the combat zone and the bulk of the population of Western Europe as well as its economic capability lie in a zone having a width of about 625 miles. Densely populated areas, major industrial centers and the high population density in general will restrict the operational freedom of the NATO forces in war” Memorandum of conversation McNamara-von Hassell, November 1964
7 M. Albertini, La coscienza della nuova situazione degli USA: la politica estera dell’amministrazione Kennedy, in Tutti gli scritti, IV. 1962-1964, Società editrice il Mulino, pag. 431
8 Richard K. Betts, From Bumper Sticker to Driver’s Manual: The Case of NATO’s Flexible Response Doctrine, in U.S. NATIONAL SECURITY STRATEGY: LENSES AND LANDMARKS, Princeton University Press, 2004, pag. 20
9 T. Bonazzi (a cura di), Il grande freddo (1960-1969), in Quale Occidente, Occidente perché, Rubbettino Editore, 2005
10 Il termine escalation indica “una trasformazione qualitativa del carattere di un conflitto verso una crescita in ampiezza e in intensità…Si riferisce a qualcosa di più del semplice allargamento di un conflitto ed implica, piuttosto, il superamento di un limite accettato in precedenza da entrambe le parti” (Lawrence Freedman). Negli anni ’60 Herman Kahn e Thomas Schelling fecero dell’escalation il fulcro della loro riflessione teorica sulla strategia nucleare. Kahn elaborò un gradiente costituito da 44 livelli, sostenendo che fosse possibile, da parte dei vertici politici e militari, controllare, in ogni momento e a qualsiasi stadio, l’evoluzione di un conflitto potenzialmente distruttivo che egli definiva ‘spasm war’ (guerra spasmodica o insensata). Schelling, invece, si focalizzava sull’incertezza e indeterminazione del confronto nucleare: una volta che la deterrenza avesse fallito nel suo compito di evitare il conflitto, una accorta gestione di questi due fattori avrebbe potuto consentire di sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Si trattava della “minaccia che lascia qualcosa al caso…La chiave di questa minaccia è che, indipendentemente dalla sua eventuale messa in atto, la decisione finale non è pienamente sotto il controllo di chi esercita la minaccia stessa”
11 L’‘astro nascente’ della ribalta internazionale ereditò dall’amministrazione Eisenhower l’impervio compito di ‘aggiornare’ il significato e il ruolo dell’Alleanza Atlantica, rilanciando, al contempo, la leadership statunitense. Kennedy ‘costruì’ un carisma intorno a topoi sensibili tanto allo ‘spirito americano’ che a quello europeo, sostenuto da un team di esperti di alta competenza e formazione accademica. Inaugurò una politica emancipatasi dall’egida dei ‘quadri militari’ e, in linea di massima, più proclive ad esperimenti di ‘distensione’ e di ‘dialettica aperta’. “La politica europeo-atlantica dell’amministrazione Kennedy fu influenzata da spinte e tendenze molto diverse, talora palesemente contrapposte, e oscillò ripetutamente in varie direzioni; né esisteva una soluzione immediata che permettesse di conciliare le aspirazioni nucleari francesi col mantenimento degli equilibri all’interno della NATO e con la ricerca di una strategia in grado di innalzare la soglia del conflitto atomico. Di fronte ai marcati contrasti esistenti all’interno della sua amministrazione e alla diversità di opinioni riscontrata tra gli alleati europei, lo stesso Kennedy esitò a prendere decisioni definitive e ritornò spesso sui propri passi; e mentre all’interno dell’amministrazione una forte componente europeista presente nel Dipartimento di Stato cercava di utilizzare la leva nucleare per spingere gli alleati a riprendere il percorso dell’integrazione europea, Kennedy adottò al riguardo un atteggiamento sufficientemente pragmatico e mantenne sempre una posizione molto duttile sulle politiche europee della sua amministrazione. Solo dopo gli eventi del dicembre 1962-gennaio 1963 sembrò che la politica euro-atlantica degli Stati Uniti cominciasse ad orientarsi in una direzione precisa, e anche allora non mancarono, comunque, ripensamenti ed incertezze” L. Nuti, Trow in the MLF, in Atlantismo ed europeismo, pag. 563
12 “The problem was that the Europeans felt we were secretive in our nuclear strategy. We had put thousands of nuclear warheads on their soil; NATO had officially adopted a nuclear strategy; we had war plans and tactics to carry out that strategy; but we had refused to disclose to the Europeans the numbers, the characteristics of the warheads, the tactics and the war plans under which they would be applied. Our allies were, in effect, totally ignorant of our plans for utilizing nuclear weapons in defense of Europe. For two decades we had withheld all such information from the Europeans. At that time there was no intention to change the policy, so those who favored the MLF did so because it was a means of introducing the allies into a limited participation in nuclear strategy in support of the alliance. That failed. Then I proposed to the President that we reverse our policy completely and fully inform the Europeans on all aspects of nuclear weapons and strategy. That led to the formation of Nuclear Planning Group” McNamara G. S., Interview, 22 of May, 1986
13 A. Ronchey, Clausewitz H (il determinismo atomico), in Atlante ideologico, Aldo Garzanti Editore, 1973, pp. 144-146 passim
Giulia Altimari, Quale risposta flessibile? La dottrina strategica americana nell'era Kennedy, Tesi di laurea, Università LUISS "Guido Carli", Anno accademico 2015-2016

lunedì 31 ottobre 2022

Ai primi anni Cinquanta risalgono molte delle operazioni clandestine più ambiziose messe in atto dalla Cia


Sull’argomento delle covert operations sarebbero successivamente tornate due direttive: la Nsc 5412/1 del 15 marzo 1954, e la Nsc 5412/2 del 28 dicembre 1955, che ampliavano le regole sulla base delle quali la Cia aveva agito sino ad allora <213. Questi ultimi due documenti arricchivano infatti la rosa degli obiettivi delle covert operations, che consistevano nel creare e sfruttare i problemi del comunismo internazionale; screditare il prestigio e l’ideologia del comunismo internazionale; limitare il controllo del comunismo su ogni area del mondo e rafforzare il consenso dell’opinione pubblica mondiale nei confronti degli Stati Uniti. Infine, alle covert operations veniva assegnato lo scopo di sviluppare un piano di resistenza efficace che, in caso di guerra, prevedesse la presenza di elementi civili di appoggio all’esercito, una base a partire dalla quale le forze militari potessero espandere le loro forze all’interno del territorio, e la presenza di facilities per eventuali fughe <214.
Nel quadro giuridico relativo alle covert operations rientra anche la direttiva Nsc 68 dell’aprile 1950, intitolata United States Objectives and Programs for National Security <215. Questo documento nasceva in un contesto profondamente mutato. Nel 1950, infatti, la nascita della Repubblica popolare cinese, la fine del monopolio nucleare statunitense e la guerra in Corea avevano aperto scenari cupi per la leadership americana e rendevano necessaria una revisione della strategia estera. L’Unione sovietica si stava infatti dimostrando un avversario ancor più temibile e tecnicamente competente di quanto previsto. La Nsc 68 rifletteva quindi l’esigenza di ristabilire la supremazia statunitense e di uscire dalla logica del contenimento, accusata di inerzia e passività. Era necessario reagire all’avanzata comunista in maniera più incisiva in quanto “una sconfitta in qualsiasi luogo” sarebbe stata percepita come “una sconfitta ovunque” <216. Nello specifico, il documento contiene gli strumenti necessari per garantire integrità e vitalità al sistema occidentale e per correggere le storture tipiche dei regimi democratici che l’Unione sovietica, spinta da una “fede fanatica” ed erede dell’imperialismo russo, avrebbe cercato di sfruttare per portare il continente euroasiatico sotto il proprio dominio. Nella realizzazione di questo disegno, gli Stati Uniti rappresentavano una minaccia permanente, in quanto l’idea di libertà di cui erano incarnazione era totalmente incompatibile con quella di schiavitù sovietica <217. La direttiva Nsc 68 contiene numerosi riferimenti al concetto di “credibilità”, una componente fondamentale per riaffermare la supremazia americana <218. Oltre alla reale distribuzione del potere, infatti, ciò che contava era il modo in cui l’immagine di forza e di fermezza degli Usa era percepita esternamente dal nemico sovietico, dagli alleati europei e dal resto del mondo. La direttiva ebbe tra i suoi principali effetti la “successiva militarizzazione della presenza americana in Europa, premessa per il riarmo della Germania e per la trasformazione del Patto Atlantico in North Atlantic Treaty Organization (Nato), una struttura militare che rendesse possibile la creazione di un esercito permanente in tempo di pace”. Inoltre, la Nsc 68 portò ad un incremento delle spese militari, che dai 22,3 miliardi di dollari (1951) salirono a 44 miliardi (1952) <219. “Ideologicamente e retoricamente sovraccarico”, il documento si inserisce nella serie di direttive volte ad imprimere un cambiamento alla politica estera e a integrare i mezzi tradizionali della politica, inadeguati nel contenere la crescita sovietica, attraverso il dispiegamento di mezzi dall’efficacia più diretta e immediata <220.
Un altro organismo che prese parte attiva nella guerra non ortodossa al comunismo fu, fin dalla sua creazione, la Nato stessa, che diede luogo ad una profonda revisione dei sistemi di sicurezza e di difesa statunitensi, con particolare riferimento alle operazioni clandestine condotte nei paesi dell’Europa occidentale <221. Attraverso protocolli segreti, la Nato assegnava ai servizi segreti dei paesi firmatari compiti di guerra non ortodossa contro il comunismo <222. Nel settembre 1951, ad Ottawa, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia crearono lo Standing Group, un comitato d’emergenza e direzione militare interno alla Nato, creato con lo scopo di dividere gli scacchieri militari in “gruppi regionali di operazioni”, e tra i cui compiti rientravano anche quelli relativi alla pianificazione di una strategia di guerra non convenzionale <223. Sempre a partire dal 1951, iniziò ad operare un altro organismo interno alla Nato nell’ambito della guerra non ortodossa: il Clandestine Planning Committee (Cpc), nato dall’approvazione di una direttiva del Saceur (Supreme Allied Commander in Europe) <224, da parte di Eisenhower, allora comandante delle forze Nato presso il Supreme Headquarters Allied Powers Europe (Shape) con sede a Bruxelles. Il Cpc aveva lo scopo di pianificare, preparare e dirigere guerre clandestine condotte da Forze speciali e dalla Stay Behind net in Europa <225. Quest’ultima rappresentò una rete clandestina operante in tutti i paesi del Patto Atlantico allo scopo di impedire l’espansione del comunsimo in Europa occidentale e, in caso di aggressione esterna, di organizzare la resistenza in ottemperanza della dottrina Nato della “difesa arretrata e manovra in ritirata” <226. In assenza di un attacco diretto, che effettivamente non avvenne mai, la rete servì principalmente ad organizzare una guerra occulta contro i Partiti comunisti dell’Europa occidentale, cui doveva essere impedito di ottenere il potere pena la compromissione della collocazione atlantica dei paesi stessi. Di fatto, le organizzazioni di Stay behind furono coinvolte, a partire dagli anni Cinquanta, in azioni sfuggite al controllo dei governi europei e non conformi alle loro costituzioni. Tali strutture avrebbero inoltre agito subordinatamente agli obiettivi di un più vasto e continuativo disegno atlantico, cui erano strettamente legati per mezzo di accordi militari e protocolli segreti. Rimasta a lungo occultata, dell’esistenza della Stay behind si sarebbero avuto le prime informazioni nell’ottobre 1990, grazie alle dichiarazioni dell’allora Presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti <227. Un’altra costola della guerra non ortodossa in Europa fu l’Allied Clandestine Committee (Acc), che a partire dal 1958 fu preposto al coordinamento delle varie reti di Stay behind europee e, come il Cpc, direttamente sottoposto al controllo degli Stati Uniti e collegato al Saceur <228.
La convinzione che le operazioni di tipo non convenzionale fossero lo strumento più efficace nella lotta al comunismo portò gli Stati Uniti ad impegnarsi in molte parti del mondo, attraverso una grande molteplicità di strumenti: l’elargizione di cospicui finanziamenti ai partiti di centro, il sostegno ai sindacati anticomunisti, la propaganda e l’infiltrazione di gruppi di resistenza armata. Oggi, le attività illegali della Cia sono note grazie ai lavori delle diverse commissioni di inchiesta statunitensi che si susseguirono in seguito allo scandalo Watergate, e che finirono per travolgere la reputazione dell’agenzia di intelligence <229. Le prime attività clandestine di carattere offensivo furono rivolte ai paesi dell’Europa dell’Est e ai paesi satelliti dell’Unione Sovietica, in particolare nei confronti dei paesi baltici e dell’Ucraina. In queste “denied areas” i servizi segreti americani operarono su due fronti: da un lato, misero in campo un’intensa attività di propaganda contro l’Unione sovietica, attraverso i canali ufficiali come The Voice of America, ma anche attraverso la creazione di apposite stazioni radiofoniche come Radio Liberty e Radio Free Europe <230. Gli Stati Uniti sfruttarono inoltre i contatti con le forze politiche antistaliniste, e l’infiltrazione di agenti locali. Le prime azioni di carattere difensivo furono invece destinate all’Europa occidentale, soprattutto a Francia e Italia, ove il peso del Partito e del sindacato comunista rischiava di consegnare i due paesi al blocco comunista. L’intervento più significativo ebbe luogo nei mesi che precedettero le elezioni italiane del 1948. In quell’occasione, gli Stati Uniti affiancarono a interventi di propaganda palese, volti alla costruzione di una immagine positiva di sé, covert operations come il finanziamento occulto alle forze politiche e ai sindacati anticomunisti <231.
A partire dagli anni Cinquanta, la stabilizzazione dell’Europa e il cambio ai vertici dell’amministrazione statunitense, con l’elezione di Eisenhower, portarono la Cia a rivolgere il proprio interesse verso scenari extra europei, ove il processo di decolonizzazione apriva nuovi contrasti con l’Urss <232. A questi anni risalgono molte delle operazioni clandestine più ambiziose messe in atto dalla Cia <233. Molte di queste si conclusero con clamorosi insuccessi, causati dalla superficialità e dalla scarsa lungimiranza con cui la componente operativa della Cia ne faceva un uso indiscriminato. Più che per gli effetti prodotti sul comunismo, queste operazioni sono ricordate per essersi tradotte in limitazioni “della libertà di espressione e di associazione”, in piani di detenzione d’emergenza per presunti “sovversivi”, in violazioni di diritti civili, e soprattutto in “liste nere”, “esecuzioni sommarie”, arresti per semplici “reati di opinione”, e nel “ricorso a dittature militari” <234. Nonostante ciò, le covert operations poterono godere sempre di una grande popolarità all’interno dell’establishment statunitense, divenendo uno strumento il cui ricorso fu costante per tutta la durata della guerra fredda <235. Questo fu principalmente dovuto alla “ubiquità strategica” delle covert operations, quindi alla loro flessibilità, “standardizzazione”, e alla facile applicabilità in contesti e situazioni diverse <236. Un’altra caratteristica che rese le covert operations uno strumento imprescindibile della politica estera americana fu la loro economicità, funzionale a contenere le spese militari senza compromettere la sicurezza e la difesa del blocco occidentale <237. In ultimo luogo, alla legittimazione delle covert operations concorse il ruolo svolto “dalla mentalità della guerra fredda ma anche dalla crescente frustrazione riguardo la passività della politica estera statunitense, che in quegli anni tendeva al “contenimento” dell’Unione sovietica. Alla crescente legittimazione della Cia corrispose così un costante potenziamento delle strutture e degli strumenti destinati alle covert operations” <238.
[NOTE]
213 L. Sebesta, L’Europa indifesa. Sistema di sicurezza atlantico e caso italiano. 1948-1955, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991, p. 215.
214 Frus, 1950-1955, The Intelligence Community, NSC 5412/1, Covert Operations, Washington, 12 marzo 1955, pp. 624-625, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1950-55Intel/pg_624; Frus, 1950-1955, The Intelligence Community, NSC 5412/2, Covert Operations, Washington, undated, pp. 746-747, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1950-55Intel/pg_746.
215 Nsc 68, United States Objectives and Programs for National Security, 14 aprile 1950, disponibile al link: https://www.trumanlibrary.org/whistlestop/study_collections/coldwar/documents/pdf/10-1.pdf.
216 Ibid. p. 8.
217 Ibid., p. 38.
218 M. Del Pero, Libertà e impero, cit. p. 301.
219 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, cit. p. 774.
220 M. Del Pero, Libertà e impero, cit. p. 302.
221 D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato. Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2008, p. 38.
222 P. Willan, I Burattinai. Stragi e complotti in Italia, Napoli, Tullio Pironti, 1993, p. 33.
223 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, cit. p. 788; G. Pacini, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991, Torino, Einaudi, 2014, p. 178.
224 Il Saceur nacque come il comando unificato supremo, con uno stato maggiore (lo Shape), che riuniva gli ufficiali dei diversi paesi alle dipendenze dell’autorità comune della Nato.
225 D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato, cit. p. 39.
226 Tale dottrina prevedeva che fosse lasciata, “all’inizio delle ostilità, una parte del territorio nazionale in mano all’avversario, per poi rallentarne l’avanzata e logorarlo”. Lo scopo era quello di far arretrare le proprie forze e sistemarle in posizioni più idonee da cui sarebbe partita la controffensiva. In estrema sintesi, quindi, tale dottrina comportava la nascita di determinate strutture paramiliari che, “anziché cercare di respingere sul nascere un’invasione e rischiare di essere decimati fin da subito, rimanessero “in sonno” per alcune ore, lasciando avanzare il nemico per poi prenderlo alle spalle”. G. Pacini, Le altre Gladio.p. 179.
227 D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato, cit. p. 7.
228 Ibid., cit. p. 39.
229 Verso la metà degli anni Settanta il Parlamento statunitense avviò tre indagini, le cui relazioni finali restano ancora oggi un punto di riferimento per ricostruire l’espansione dei poteri della Cia e del Pentagono al di fuori fuori del controllo democratico. Le tre Commissioni incaricate di condurre queste indagini furono la Pike Committee, la Church Committee, e la Murphy Committee. D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato, cit. p. 377.
230 J. Campbell, American Policy Toward Communist Eastern Europe: The Choices Ahead, Minneapolis, The University of Minnesota Press, 1965, p. 88; V. Marchetti, J. Marks, Cia, cit. p. 43.
231 A. Silj, Malpaese. Criminalità, corruzione e politica nell’Italia della prima Repubblica. 1943-1994, Roma, Donzelli, 1994, p. 31.
232 La questione coloniale fu centrale nella definizione dei rapporti tra le due potenze. Il modello socialista e l’Urss, per le loro posizioni notoriamente antiimperialiste e a favore dei paesi sottosviluppati, furono assurti a modello di riferimento delle forze nazionaliste locali, e Stalin strumentalizzò questa posizione, con conseguenze nefaste per il modello di sviluppo e di indipendenza dei Paesi del Terzo mondo, che finirono sotto una nuova forma di imperialismo. E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, cit. p. 924.
233 A. Colonna Vilasi, Storia della Cia, Roma, Sovera Edizioni, 2014, p.17.
234 Ibidem.
235 L. K. Johnson, American Secret Power, cit. p. 100.
236 M. Del Pero, Cia e covert operation nella politica estera americana, p. 709.
237 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit. pp. 225 e ss; L. Sebesta, L’europa indifesa, cit. pp. 213-215.
238 A. Colonna Vilasi, Storia della Cia, cit. p. 18.
Letizia Marini, Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020

giovedì 6 ottobre 2022

Il governo americano aveva già predisposto dei piani di possibile intervento militare in Italia


1.1 Il Sifar, il primo servizio segreto della Repubblica
Il primo servizio segreto della Repubblica, per i motivi sopracitati, poté nascere soltanto dopo l’esito delle elezioni dell’aprile del 1948, che sancì la sconfitta del Partito Comunista e aprì la strada alla Nato. Fino a quel momento, l’Oss (Office of Strategic Service) e successivamente la Cia (Central Intelligence Agency) avevano ritenuto opportuno operare sul territorio italiano in prima persona.
Il Sim, ossia il servizio segreto militare di epoca fascista, che stava cercando di far valere la propria identità antifascista all’insegna della discontinuità col vecchio regime (come gran parte degli apparati dello Stato), nel 1945 dovette affrontare il cosiddetto “scandalo Roatta” <7. L’ex capo del Sim negli anni Trenta, il generale Mario Roatta, il quale era sotto processo per la mancata difesa di Roma e per l’omicidio dei fratelli Rosselli oltre che accusato dal governo jugoslavo di crimini di guerra, era stato aiutato dal SIM a fuggire dal suo luogo di detenzione, per trovare asilo nella Spagna franchista. Lo scandalo scatenò un’ondata di sdegno pubblico, che sfociò in importanti moti di piazza animati dalla sinistra. Per placare gli animi, all’ufficio venne semplicemente cambiato nome (pratica che, come si vedrà, verrà riutilizzata in futuro) e, dopo un anno, venne ufficialmente sciolto. Rimase in piedi soltanto l’ufficio “I” (un modesto ufficio d’informazione militare che esisteva, tra scioglimenti e rifondazioni, dal 1865 <8), che si occupò principalmente di distribuire sussidi ai decorati di guerra. Fu soltanto nell’ottobre del 1948, sei mesi dopo le prime elezioni politiche, che il generale Giovanni Carlo Re venne messo a capo di questo ufficio; e fu soltanto il 30 marzo 1949 che Re venne incaricato, con una circolare del ministro repubblicano Pacciardi, di potenziare l’ufficio e riformarlo, ma sempre sulla linea del vecchio Sim. Infine, dopo la firma del patto Nato in aprile, il primo di settembre del 1949 nasceva ufficialmente il Sifar (Servizio Informazioni Forze Armate) <9. Alla stessa data vennero istituiti i Servizi informazioni operative e Situazioni (Sios), che “avrebbero dovuto operare esclusivamente nel campo tecnico-militare di ciascuna forza armata, ma sui quali peseranno, negli anni successivi, le stesse ombre e gli stessi sospetti che si addentreranno sul Sifar e sul Sid” <10.
La contiguità con la stipulazione del patto del Nord Atlantico (ratificato in parlamento il primo di agosto 1949) e la sua relativa Organizzazione è l’elemento da tenere in maggiore considerazione. All’interno della vasta rete di alleanze degli Stati Uniti (Nato, Cento, Seato, Patto di Colombo, ecc.), anche la Nato agiva per mantenere lo status quo politico nei paesi aderenti, ma scelse di tenere segreta questa finalità per le ovvie proteste che avrebbero presentato i partiti comunisti italiano e francese. <11
Il governo americano aveva già predisposto dei piani di possibile intervento militare in Italia. Nel documento 'Foreign Relations of the United States' (1948) del National Security Council, la sezione dedicate all’Italia prevedeva che, nell’ipotesi di una vittoria elettorale del Pci, bisognasse “iniziare una pianificazione militare congiunta con azioni selezionate” e che si dovesse “fornire ai clandestini anticomunisti italiani assistenza finanziaria e militare”; ancora più significativo il passo: “un efficace appoggio degli USA può incoraggiare elementi non comunisti in Italia a fare un ultimo vigoroso sforzo, anche a rischio di una guerra civile, per prevenire il consolidarsi del controllo comunista”. <12
“Per prevenire”: infatti, nonostante il risultato rassicurante delle elezioni, le direttive degli Usa sull’Italia non cambiarono affatto di orientamento; al contrario, le misure furono sempre più intensificate, dato il progressivo aumento dei consensi che il Pci registrò in ogni tornata elettorale per ancora trent’anni. In un’altra riunione del National Security Council, del 5 gennaio 1951, era stato previsto un piano per “dispiegare forze in Sicilia o Sardegna o in entrambe le isole, col consenso del governo italiano, in forze sufficienti a occupare queste isole contro l’opposizione comunista indigena”, direttiva approvata da Truman l’11 gennaio <13.
Si possono qui intravedere le origini del progetto Gladio <14. Il documento, consultabile dal 1985, è tuttavia coperto da omissis nelle parti più delicate; in un passo, che riteniamo significativo, si dice che: “[…] nel caso che [il governo italiano] cessi di mostrare determinazione a opporsi alle minacce comuniste interne ed esterne, gli USA dovrebbero iniziare misure [omissis] … progettate per impedire la dominazione comunista e per ravvivare la determinazione italiana di opporsi al comunismo”. <15
Il “ravvivare la determinazione”, con il senno di poi, ci può far ritenere che si potesse già trattare di iniziative in linea con quella che poi verrà chiamata “guerra psicologica” (v. cap. 3).
Per completare il quadro delle relazioni tra il Sifar e gli apparati di intelligence americani e la massima fedeltà dimostrata dal primo verso i secondi, menzioniamo la funzione dell’ente del dipartimento di difesa americano National Security Agency (NSA), un’agenzia specializzata nello spionaggio delle telecomunicazioni; questa struttura governativa allestì un “pool internazionale delle informazioni”, comprendente i servizi segreti di molti paesi alleati degli americani. La rete di collaborazione, che era sostanzialmente un insieme di patti firmati dai servizi segreti per conto dei governi, funzionava a senso unico, c’era in sostanza una gerarchia per la quale il cosiddetto primo firmatario (appunto, il Nsa) e i secondi firmatari (il GCHQ per la Gran Bretagna, il CBNRC per il Canada e il DSD per Australia e Nuova Zelanda) avevano l’obbligo di scambiarsi tutte le informazioni senza restrizioni; mentre i terzi firmatari (tra cui il Sifar per l’Italia) erano semplicemente tenuti a inviare materiale al primo e ai secondi, in un rapporto impari.
Un ex agente del NSA rivelò nel 1972 il funzionamento di questa catena: “I terzi firmatari non ricevono quasi nulla da noi, mentre noi riceviamo quasi tutto da loro. In pratica è un trattato a senso unico. Noi lo violiamo anche con i secondi firmatari, sorvegliando costantemente le loro vie di comunicazione.” <16
Dopo il generale Re, il Sifar passò per degli anni di gestione “apparentemente incolore”, sotto la guida del gen. Umberto Broccoli e del gen. Ettore Musco. Il salto di qualità nella attività del Sifar cominciò negli ultimi giorni del 1955, con la nomina a capo del servizio del generale Giovanni De Lorenzo, una personalità che diventerà di importanza centrale e che ritroveremo più avanti all’interno del presente studio. Il generale De Lorenzo ricevette questa nomina anche in virtù dei suoi meriti nella guerra resistenziale, probabilmente veritieri ma sicuramente molto gonfiati dal momento che gli vennero assegnate numerose decorazioni senza motivazioni esaustive <17. Il De Lutiis definisce questi meriti “assai presunti” <18. Di fatti, la sua nomina viene favorita piuttosto dal benestare dell’ambasciatrice statunitense in Italia Claire Booth Luce; gli americani ritenevano che un uomo come De Lorenzo avrebbe potuto sorvegliare l’operato del neoeletto presidente della Repubblica Gronchi, “in odore di sinistrismo”. A conferma della reputazione che il generale aveva in seno agli apparati di difesa statunitensi, c’è il fatto che il primo ordine che gli viene impartito, una volta alla guida del Sifar, dal comando generale delle forze armate statunitensi è quello di rispettare gli obiettivi del piano permanente di offensiva anticomunista chiamato 'Demagnetize', che aveva come obbiettivo prioritario quello di limitare “forze, risorse, influenza, nei governi e nei sindacati italiani e francesi” e del quale “i governi italiano e francese non devono essere a conoscenza, essendo evidente che esso può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale” <19.
Ad ogni modo, l’irresistibile scalata del generale ai vertici occulti dello Stato comincia proprio durante i suoi anni al Sifar, ma prenderà una svolta decisiva negli anni a seguire. L’argomento verrà approfondito nel cap. 2.3, I dossier di De Lorenzo.
[NOTE]
7 Cfr. Giuseppe De Lutiis, storia dei servizi segreti in Italia, Editori riuniti cap. Lo scandalo Sim
8 Cfr. Giuseppe De Lutiis, op. cit., cap. Gli esordi
9 Giuseppe De Lutiis, op. cit., pg. 38
10 Ibidem, pg. 39
11 Ibidem, pg. 40
12 Ibidem, pg. 41
13 Citata in G. De Lutiis, op. cit., pg. 41
14 Per Gladio, tra la vasta letteratura in proposito, rimandiamo a …
15 Citato in G. De Lutiis, op. cit., pg 42
16 Cfr. Marco Sassano, SID e partito americano, Padova, Marsilio, 1975, p. 47; Citato in G. De Lutiis, op. cit., pg .43
17 Cfr G. De Lutiis, op. cit., cap. De Lorenzo, la schedatura generalizzata
18 G. De Lutiis, op. cit., pg. 54
19 Joint Chief of Staff, Memorandum, 14 maggio 1952. documento citato in R. Faenza, Il Malaffare, p. 313
Claudio Molinari, I servizi segreti in Italia verso la strategia della tensione (1948-1969), Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2020/2021

giovedì 23 giugno 2022

Dall’ambasciata statunitense capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni»


Il rapporto Italia-Stati Uniti sulla crisi del ’60 è stato in gran parte trascurato dalla storiografia <85, tuttavia il comportamento di Tambroni, che tentò di rilanciare il condizionamento del conflitto bipolare sulla politica italiana, <86 impone un’attenzione ben maggiore. L’incarico, come ha ricordato Nuti, non fu accolto dall’ambasciata con particolare soddisfazione, soprattutto per la vicinanza di Tambroni a Gronchi <87. «Nel breve periodo - ha scritto Zellerbach - non c’era motivo di preoccuparsi, visto che la cooperazione con gli Usa e con la Nato non sarà molto diversa da quella di Segni». Addirittura le prospettive sulla politica estera italiana venivano definite «eccellenti». Tuttavia la scelta non era giudicata «una soluzione felice». Tra i maggiori pericoli legati al nuovo esecutivo c’erano la possibilità di altre «scorribande» neutraliste in politica estera e l’opportunismo del nuovo capo del Governo. Nello stesso tempo la solidarietà di Gronchi, a cui erano legati il futuro e la stabilità del governo, era tutt’altro che assicurata. <88 A fronte della nuova maggioranza, furono immediate le dimissioni dei ministri della sinistra democristiana Bo, Sullo e Pastore. Poi seguì un tentativo - fallito - di Fanfani, che rispecchiava lo stato di confusione in cui versava la Dc, più volte rilevata dagli osservatori statunitensi. Alla fine di aprile Gronchi invitò Tambroni a completare la procedura e presentarsi al Senato. La direzione Dc approvava e l’ampia maggioranza democristiana confermava il nuovo, tormentato governo. Commentando l’investitura, i funzionari di via Veneto non erano in grado di stimare le probabilità che l’esecutivo arrivasse all’estate. Il presidente del Consiglio, in una formula efficace e sintetica, veniva descritto come un uomo «temuto da molti, ma di cui nessuno si fidava». Tambroni, da par suo, considerava il plauso americano un fattore non secondario per la durata del suo governo. Fu Francesco Cosentino - segretario generale della Camera e consigliere legale di Gronchi - a “sponsorizzare” il governo, ma dall’ambasciata capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni».
[...] In varie città italiane salirono la tensione e il nervosismo <104. I comizi missini nelle città di Reggio Emilia, Parma e Messina furono impediti <105. A Bologna, invece, era stato il discorso di Pajetta, pronunciato in piazza Malpighi il 21 maggio, a provocare l’intervento della polizia <106. Gli scontri durarono quaranta minuti provocando numerosi feriti, tra cui Giovanni Bottonelli, deputato del Pci, che riportò gravi ferite <107.
L’episodio, secondo quanto annotava un funzionario del consolato, rifletteva ancora una volta la «prontezza comunista nello sfruttare gli scontri con le pubbliche autorità» <108. Era questo uno dei tratti maggiormente sottolineati dalle relazioni americane. In più, il giudizio sul partito era a dir poco lapidario. Il Pci non era più in grado di «cavalcare le agitazioni e la propaganda come faceva una volta». La sede dei disordini non poteva che dare credito all’intuizione. Dopotutto, si era trattato di uno scontro in una roccaforte del Pci dove un deputato comunista era stato arrestato e ferito. «Qualche anno fa - ha scritto il segretario d’ambasciata Lister - avremmo assistito a dimostrazioni di massa, scioperi e altre azioni contro il governo in tutta Italia» <109.
Altrettanto attivo era il partito neofascista, galvanizzato dall’appoggio esterno al governo. Il Msi aveva indetto il VI congresso nazionale a Genova, dal 2 al 4 luglio. In quell’occasione, avrebbe dovuto dichiarare fedeltà al metodo democratico e alla Costituzione, anche se la Carta non sarebbe stata accettata come documento intoccabile.
Com’è noto, la scelta di Genova, peraltro conosciuta da tempo <110, fu un’opzione poco felice.
Molti esponenti missini, negli anni successivi, avrebbero fatto autocritica sia sull’effettiva maturità del partito che sulla scelta della sede <111. A suscitare la protesta del fronte antifascista furono soprattutto due elementi. L’oltraggio di un congresso neofascista in una città medaglia d’oro della Resistenza e la presenza - più vociferata che accertata - dell’ex prefetto della città ai tempi di Salò, Carlo Emanuele Basile. Secondo alcuni avrebbe addirittura dovuto presiedere i lavori. Il nome di Basile bastava ad evocare lo spettro dei non lontani massacri di guerra, rendendo l’affronto missino insostenibile.
Sulla scelta di Genova e sulle voci che riguardavano Basile, però, rimangono forti perplessità. Il 15 maggio, quando vennero resi noti i giorni e la sede del congresso le reazioni furono piuttosto blande <112. Genova, inoltre, non era la prima città fortemente legata alla Resistenza in cui il Msi convocava il suo raduno nazionale. Quattro anni prima la sede prescelta era stata Milano. In più, dal 1956, la giunta comunale della città ligure era appoggiata dai voti missini. Certamente Genova era «più contaminata dal Msi con il voto determinante del governo cittadino che con un congresso di tre giorni» <113.
[...] Veniamo ai fatti. Una prima grande mobilitazione contro il Msi ebbe luogo il 25 giugno. Protagonisti - ed è una costante delle proteste anti-tambroniane - furono i movimenti giovanili dei partiti antifascisti e di altre associazioni <121. Il 28 giugno, poi, venne indetto un comizio in piazza della Vittoria a Genova, che si svolse senza problemi.
Per il 30, la Camera del Lavoro proclamava uno sciopero generale con una manifestazione autorizzata dal prefetto. Quel giorno, una volta giunti in via XX settembre al monumento ai partigiani caduti, i manifestanti andavano in piazza della Vittoria, dove avrebbe dovuto terminare il tutto. Qui, la processione tornò indietro al sacrario, con in testa comunisti e socialisti. Poi il grosso della folla si fermava in Piazza De Ferrari, dove cominciava la battaglia.
Gli ordini alla polizia e ai carabinieri e le misure che poteva aver indicato lo stesso Tambroni sono tuttora un punto oscuro. Per Baget Bozzo la polizia «non reagisce». <122 Citando i rapporti dei carabinieri, Garibaldi ha posto l’accento sul fatto che la polizia avesse le armi scariche, e fu maggiormente presa di mira dai manifestanti, che ne erano a conoscenza <123. Il tenente colonnello Gaetano Genco ha scritto che il comportamento della polizia fu molto diverso da quello dei carabinieri. Questi, infatti, non fecero uso delle armi «nemmeno a scopo intimidatorio» ed ebbero solo cinque feriti. E avrebbero addirittura fraternizzato con i manifestanti <124.
Secondo Adalberto Baldoni, l’unica spiegazione per l’atteggiamento così poco collaborativo dei carabinieri, risiederebbe in una «garanzia militare sull’apertura a sinistra». Tale strategia sarebbe stata ispirata dalla coppia Moro-De Lorenzo e dagli Stati Uniti. A Roma, Reggio Emilia e in Sicilia, sempre secondo Baldoni, si doveva esasperare lo scontro e i carabinieri parteciparono attivamente. Tuttavia, non è azzardato nutrire qualche dubbio sulle fonti utilizzate per avvalorare l’ipotesi del coinvolgimento statunitense nella vicenda <125.
Murgia e Del Boca hanno scritto invece di una polizia «in completo assetto da guerra» pronta a scagliarsi sulla folla, senza menzionare i comportamenti delle altre forze dell’ordine <126. Più equilibrate le posizioni di alcune opere di sintesi sulla storia della prima Repubblica, in cui emerge con una certa continuità la sorpresa degli agenti, almeno in un primo momento <127. Tale sorpresa, poi, era dovuta non tanto alla scarsa prevenzione delle autorità locali, quanto alla sottovalutazione delle autorità centrali, che non diedero il «dovuto peso» alle informazioni provenienti da Genova.
Non si negava, infine, «qualche sintomo di nervosismo» tra gli organi di polizia <128.
L’ambasciatore Zellerbach considerò le proteste «in buona parte giustificate». E definì «stupido» il prefetto Pianese per aver concesso l’autorizzazione ai missini <129. Comprensibilmente, però, prese corpo l’ipotesi di una maggiore irrequietezza della piazza rispetto alle forze dell’ordine, che, non a caso, subirono i danni maggiori <130.
[NOTE]
85 Se ne sono in parte occupati solo Nuti e Gentiloni Silveri, si vedano L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 285-299; U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centro-sinistra 1958-1965, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 49-58.
86 Si veda G. Formigoni, A. Guiso (a cura di), Tambroni e la crisi del 1960, cit., p. 368. Significativo è il fatto che Murgia, citando un editoriale del «New York Times», scrive che «sembra uscito dall’ufficio stampa di Tambroni», si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 139. Sfogliando «L’Unità» e «Il Secolo d’Italia» del luglio 1960 si trova una selezione degli editoriali di molti quotidiani stranieri. Naturalmente la stampa internazionale veniva usata per avvalorare la tesi dell’aggressione da parte delle forze dell’ordine o della provocazione di piazza. Era comunque indicativo dell’attenzione rivolta a quanto scrivevano all’estero per comprovare le proprie idee.
87 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
88 Si veda L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 288-289.
104 Sul generale inasprimento delle autorità pubbliche nei confronti dell’opposizione di sinistra si veda P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., pp. 365-367.
105 G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia, cit., p. 138. Per le reazioni sulla stampa missina si veda Preordinate provocazioni dei socialcomunisti a Parma, «Il Secolo d’Italia», 1 maggio 1960.
106 A. Barbato, Da Bologna il primo squillo di tromba, «L’Espresso», 29 maggio 1960, p. 6. Si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 62.
107 Si veda G. Fanti, G.C. Ferri, Cronache dall’Emilia rossa: l’impossibile riformismo del Pci, Pendragon, Bologna, 2001, pp. 67-68.
108 Police breakup of Bologna communist meeting arouses strong reaction, M. Cootes (American Consul General) to the Department of State, May 30, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/5-3060.
109 Communists provoke incidents in Chamber June 1 over clash with police in Bologna, G. Lister (First Secretary of Embassy) to the Department of State, June 10, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-1060. Tuttavia, proprio in relazione ai fatti di Bologna, il parlamentare democristiano Elkan parlò di una grande quantità di armi detenute nelle case di alcuni arrestati o in luoghi vicini. Erano tutti esponenti del Pci e le armi facevano parte, secondo Elkan, di «oscuri e gravi ricordi di guerra civile», si veda AP, CdD, III Legislatura, Discussioni, Seduta del 1° giugno 1960, p. 14423.
110 «L’autorizzazione era stata data da tempo, addirittura da Segni come ministro degli Interni del suo governo», si veda L. Radi, Tambroni trent’anni dopo, cit., p. 105. La notizia del congresso apparve sul quotidiano neofascista a metà maggio, si veda In difesa dello Stato e della nazione insostituibile la funzione del Msi, «Il Secolo d’Italia», 15 maggio 1960. La mozione congressuale fu pubblicata, sempre sul quotidiano neofascista, il 3 giugno.
111 A. Baldoni, La destra in Italia, cit., p. 553; Servello ha scritto di un partito «completamente impreparato», della «sottovalutazione delle capacità di mobilitazione delle sinistre» e della «sopravvalutazione della capacità del governo Tambroni di gestire la situazione». I tempi, comunque, non erano ancora giudicati maturi, F. Servello, 60 anni in fiamma. Dal Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006, pp. 63-68. Sull’autocritica di Almirante si veda A. Pitamitz (a cura di), Tre protagonisti 25 anni dopo, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 47. Particolarmente netto e amaro fu il giudizio di Anfuso, che nel 1962 arrivò a dire che il Msi avrebbe potuto anche sparire, se la Dc si fosse sforzata di comprendere le intenzioni del partito neofascista, A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 202. La questione delle intenzioni missine è peraltro molto dibattuta. Ne «Il Secolo d’Italia» del 30 giugno ’60 si legge «il Msi rappresenta dunque, e assume apertamente di voler rappresentare, la continuazione del Fascismo». Tarchi ha ricordato la «classica connotazione bicefala del Msi», alla luce della quale l’obiettivo ultimo restava la costruzione di «un regime destinato a richiamare - sia pure in forme che nessuno avrebbe saputo indicare con precisione - quello mussoliniano», M. Tarchi, Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Intervista di A. Carioti, Rizzoli, Milano, 1995, p. 66
112 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 39-41; F.M. Solo la Dc a Genova non protesta contro il congresso dei neofascisti, «L’Unità», 11 giugno 1960; Per le reazioni missine si veda La farsa rossa dell’indignazione popolare contro il Congresso nazionale del Msi a Genova, «Il Secolo d’Italia», 11 giugno 1960. Il console Joyce rimase colpito dalla durezza della campagna che poi iniziò. A tal proposito citò un manifesto con la scritta: «Msi uguale fascismo, fascismo uguale nazismo, nazismo uguale camere a gas», Growing opposition to planned Msi convention in Genoa, R. Joyce (American Consul General, Genoa) to the Department of State, June 27, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-2760.
113 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., pp. 287-288. Pombeni ha scritto che lo «scandalo» per il congresso a Genova «era credibile fino a un certo punto», P. Pombeni, L’eredità degli anni Sessanta, in F. Lussana, G. Marramao (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 46. Secondo Cooke le difficoltà sul nascere del governo Tambroni si erano subito riversate a livello locale. Genova fu una delle prime città in cui i missini votarono contro importanti provvedimenti, provocando così la crisi della giunta, si veda P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 26-27.
121 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
122 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, p. 288; P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., pp. 76-77.
123 Il rapporto è il n. 113 del 30 giugno 1960, L. Garibaldi, Due verità per una rivolta, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 49.
124 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 85-88.
125 A. Baldoni, Due volte Genova, cit., pp. 97-104. L’ipotesi del coinvolgimento dei carabinieri - voluto da Moro - nella caduta di Tambroni non pare priva di fondamento. Ma sembra ragionevole, stando a quanto reperito negli archivi statunitensi e alle più recenti indagini storiografiche, non dare credito a dietrologie un po’ azzardate. In particolare l’autore pone all’origine dell’accordo Sifar-Cia contro Tambroni il piano Demagnetize, in realtà esauritosi nel ’53 senza risultati apprezzabili, si veda M. Del Pero, Gli Stati Uniti e la «guerra psicologica» in Italia (1948-56), «Studi Storici», a. XXXIX, n. 4, ottobre-dicembre 1998, pp. 961-974. In più Baldoni si rifà a opere giornalistiche (R. Trionfera, Sifar Affair, Reporter, Roma, 1968 e R. Faenza, Il malaffare, Mondadori, Milano, 1978) smentite da successivi lavori scientifici.
126 A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”, cit., pp. 200-201; P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., pp. 81-82.
127 «La violenza dei dimostranti, diversi dei quali erano armati, fu tale che le forze di polizia si trovarono a mal partito e lamentarono diverse perdite in uomini feriti e materiale distrutto», G. Mammarella, L’Italia contemporanea, cit., p. 260.
128 File with subject file copy of Genoa’s D-2 (in italiano), July 11, 1960, RG 84, Italy, US Consulate, Genoa, Box 3, f.300/500 Polit/Econ reporting 1960. Nello stesso documento si parla di azioni condotte con molta decisione, forse perché «era stata diffusa la voce che da parte delle forze dell’ordine non si sarebbe fatto uso di armi». Sui timori dei poliziotti si veda S. Medici, Vite di poliziotti, Einaudi, Torino, 1979, pp. 55-57.
129 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 295.
130 L. Garibaldi, Due verità per una rivolta, cit., p. 50. Si veda «Il Secolo XIX», 1 luglio 1960, articolo molto ricco citato interamente in P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 91-95; Sul trattamento riservato ad alcuni agenti, in particolare sul tentativo di annegamento e sull’utilizzo di uncini si vedano G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 288; L. Fazi, Un comando rosso ha diretto l’insurrezione, «Il Secolo d’Italia», 2 luglio 1960.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009/2010

lunedì 14 marzo 2022

Dopo la guerra si scoprirà che tutti gli agenti inviati in Germania dalla Gran Bretagna si erano arresi o erano stati catturati


Durante la guerra non c’è un solo Stato che non ricorrerà in qualche modo ad agenti segreti, ogni grande potenza utilizzerà negli anni del conflitto, spie e doppiogiochisti; Alleati, Urss e forze dell’Asse si confronteranno a mano a mano con una serie di imprese eclatanti, degne dei romanzi di James Bond. A partire dalle informazioni sullo schieramento delle navi nella baia di Pearl Harbour il 7 dicembre del 1941, per passare all’infiltrazione di agenti sovietici nelle alte sfere dei servizi segreti inglesi, fino ad arrivare alle operazioni Alleate di deception, emergerà come: un ristretto numero di uomini contribuiranno a cambiare il destino e le sorti del Mondo intero.
Il Servizio segreto di intelligence (SIS), conosciuto comunemente come MI6, è il servizio di intelligence straniero del governo del Regno Unito, incaricato principalmente della raccolta e dell’analisi segreta a sostegno della sicurezza nazionale. Formato nel 1909 come sezione del Servizio segreto specializzato in intelligence straniera, la sezione sperimenta una crescita vertiginosa durante la Prima guerra mondiale, adottando ufficialmente il suo nome attuale intorno al 1920. Il nome MI6 (Military Intelligence section Six) nasce durante la Seconda guerra mondiale, quando il SIS è composto da molte sezioni; ancora oggi MI6 è la sigla comunemente usata per descrivere l’intelligence britannica; durante tutto il corso del conflitto il SIS sarà guidato da Stewart Menzies. <232
«The opening of hostilities in September 1939 is an appropriate moment to make a formal review of the Secret Intelligence Service and Britain’s other main intelligence gathering organizations.» <233
La caduta quasi simultanea delle potenze europee sotto il maglio nazista, rende l’Inghilterra l’unico Stato che si trova realmente a resistere contro la potenza germanica. La sconfitta di Dunkerque e la “battaglia d’Inghilterra” hanno chiarito definitivamente che la Gran Bretagna non può vincere la guerra solamente con i mezzi “classici”, ovvero la potenza bellica vera e propria, ma deve ricorrere, opinione anche dello stesso Churchill, alle tecniche che meglio sa utilizzare, quelle tipiche dello spionaggio e del controspionaggio. <234 L’esperienza britannica in questo campo è molto vasta, assai più di qualsiasi altra potenza. Per più di cinque secoli i suoi uomini di Stato e i suoi generali si sono avvalsi di questi “mezzi” per costruire prima un regno e poi un impero, e per difenderlo contro i suoi nemici. Sono riusciti a farla agli spagnoli, ai francesi e agli olandesi, nei secoli passati, e già una volta, nel secolo presente, sono stati costretti a battersi contro l’espansionismo tedesco. Sono passati poco più che vent’anni dalla fine della Grande guerra ed ecco che una nuova Germania risorge dalle sue rovine e, sotto la guida di Adolf Hitler, il mondo si ritrova ancora una volta coinvolto in un grande conflitto. <235
Uno dei primi provvedimenti presi a tale proposito è la costruzione del C. L’MI9 (Military Intelligence section Nine) è un dipartimento del Ministero della Guerra che sarà attivo tra il 1939 e il 1945. Durante la Seconda guerra mondiale sarà incaricato di sostenere le reti della Resistenza europea e di usarle per aiutare i piloti degli aerei Alleati abbattuti, soldati e molti prigionieri a tornare in Gran Bretagna, oltre che a un ingente numero di ebrei a fuggire dalla persecuzione nazista nei Paesi occupati. <236 L’MI9, oltre alle evasioni dai territori occupati, produrrà vari oggetti come aiuto alla fuga, specie basati sulle idee di Christopher Hutton. Quest’ultimo realizzerà bussole nascoste all’interno di penne o bottoni; stamperà mappe su fazzoletti di seta, in modo che non si stropiccino; progetterà speciali stivali con ghette staccabili che possono rapidamente essere convertite come scarpe civili e tacchi cavi contenenti pacchetti di cibo secco; una lama da rasoio magnetizzata indicante il nord se posta in acqua; uniformi che possono essere convertite in abiti civili.
L’Office of Strategic Services (OSS) è un servizio segreto statunitense operante nel periodo della Seconda guerra mondiale, precursore della Central Intelligence Agency (CIA). Cinque mesi prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbour e dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti, il Presidente Roosevelt aggiunge un ufficio particolare e misterioso alla burocrazia amministrativa statale, dal nome di COI (Coordinator Office of Information), alla guida di un certo Colonnello, poi Generale, William Joseph Donovan, un cattolico di origini irlandesi e di orientamento repubblicano, oltre che milionario. <237
La preoccupazione principale delle sfere militari e dirigenziali americane è il forte espansionismo giapponese nel Pacifico, preludio di una possibile guerra futura. L’ufficio nasce principalmente come centro di raccolta dati inerenti alla questione pacifica. L’ufficio, in seguito all’entrata in guerra, viene poi modificato e nominato OSS (Office of Strategic Service) con lo scopo di coordinare la gestione della raccolta di intelligence militare a livello centrale, assumendo in ciò un ruolo sovraordinato a ogni altra analoga struttura già esistente nelle forze armate americane. <238 Prima di ciò, la gestione dei servizi d’informazione era gestita da varie agenzie statali, di cui la maggior parte dei casi veniva trattata dall’ufficio preposto appartenente all’FBI. <239 L'Office of Strategic Services viene costituito con un decreto militare del Presidente Roosevelt il 13 giugno 1942, per raccogliere e analizzare le informazioni strategiche necessarie e per svolgere operazioni speciali non affidate ad altri organismi.
Il presidente è preoccupato per le carenze americane in tema di intelligence. Su consiglio di William Stephenson, responsabile britannico dell’intelligence per l’emisfero occidentale, Roosevelt chiede a Donovan di tracciare un piano per un servizio segreto ispirato a quelli britannici, quali il Secret Intelligence Service (MI6) e lo Special Operations Executive (SOE). <240 L’agenzia ora ha influenza su ogni operazione nel globo, in ogni singolo Paese partecipante al conflitto, agenti dell’OSS vengono mandati a reperire informazioni e infiltrati tra le forze nemiche in territorio ostile. Durante la Seconda guerra mondiale, l’OSS condurrà molteplici missioni e attività, tra cui l’acquisizione di informazioni per mezzo di spie, l’esecuzione di atti di sabotaggio, azioni di guerra attraverso la propaganda, creazione di reti di evasione per prigionieri di guerra e per ebrei, organizzazione e coordinamento di gruppi di resistenza anti-nazista in Europa, addestramento di guerriglieri anti-nipponici in Asia. Al culmine del suo sviluppo nell’ultimo conflitto mondiale, l’OSS impiegherà almeno 24 mila persone. Tra gli altri compiti, si occuperà di propaganda, sovversione e pianificazione del dopoguerra.
Le operazioni di spionaggio e sabotaggio rendono indispensabile un equipaggiamento altamente specializzato. Il Generale Donovan invita esperti, organizza seminari e finanzia laboratori che avrebbero formato il nucleo del futuro Research & Development Branch. Per tutta la durata della guerra, il Research & Development abilmente adatta armi ed equipaggiamento spionistico, producendo in proprio una gamma romanzesca di strumenti e arnesi da spia, tra cui: pistole silenziate, mitra alleggeriti, bombe a impatto, esplosivi camuffati da pezzi di carbone, micce all’acetone per le mine adesive, bussole nascoste in bottoni da uniforme, carte da gioco che occultano mappe, una fotocamera da 16 mm Kodak dissimulata da pacchetto di fiammiferi, tavolette di veleno senza aroma, sigarette rivestite di tetraidrocannabinolo acetato per indurre incontrollabile loquacità, e altri ritrovati ancora. Inoltre, viene sviluppato un equipaggiamento di comunicazione innovativo, come strumenti di intercettazione, segnalatori elettronici per localizzare gli agenti, e il sistema radio portatile che permette agli operatori a terra di stabilire un contatto sicuro con gli aerei che si preparassero ad atterrare o a deporre un carico. Il Research & Development dell’OSS stamperà anche false tessere identificative tedesche e giapponesi, vari lasciapassare, carte di razionamento e denaro contraffatto.
[...] Lo Special Operations Executive (SOE) è un’organizzazione britannica facente parte dei servizi segreti attiva durante la Seconda guerra mondiale, formata ufficialmente nel luglio 1940 col fine di condurre operazioni di spionaggio, sabotaggio e ricognizione nell’Europa occupata, e più tardi anche nelle zone del Sud-Est asiatico, contro le potenze dell’Asse, oltre che aiutare i movimenti di resistenza locale nella lotta contro le forze occupanti. <242
[...] Durante la guerra, solamente poche persone saranno a conoscenza dell’esistenza di SOE, coloro che ne faranno parte o che saranno in contatto con i suoi membri, verranno protette con la massima segretezza possibile, le sue varie filiali e talvolta l’organizzazione nel suo complesso rimarranno nascoste dietro a finti nomi o dietro agenzie fittizie. L’organizzazione impiegherà nel corso del conflitto poco più di 13 mila persone, di cui circa 3200 donne, specie nei servizi ausiliari.
[...] Il capo del SIS, Sir Stewart Menzies, dichiarerà ripetutamente nel corso della guerra, che i membri del SOE sono “dilettanti, pericolosi e fasulli” e si assumerà il compito di portare una massiccia pressione perché la nascente organizzazione venga il prima possibile smantellata. Secondo molte alte sfere, sia politiche sia militari, i vantaggi che le operazioni SOE comportano: non sono sufficienti per compensare i danni che invece creano. Della stessa idea è il Comando di bombardieri che si risente nel dover prestare i suoi mezzi per missioni clandestine, rinunciando alla possibilità di impiegare tali velivoli per continuare la campagna di bombardamento contro i Paesi nemici, per condurre la Germania in ginocchio.
L’organizzazione si evolve continuamente e cambia notevolmente durante la guerra. Inizialmente, consiste di tre grandi dipartimenti: SO1 che si occupa di propaganda, SO2 che invece è la sezione responsabile delle operazioni, e SO3 che infine si occupa della ricerca, e che successivamente sarà fuso a SO2. Nell’agosto del 1941, dopo le dispute tra sulle relative responsabilità, SO1 verrà rimosso dal SOE e diverrà un’organizzazione indipendente. SO2 ora gestisce le sezioni che operano in territorio nemico e talvolta neutrale, e la selezione e la formazione degli agenti; a fini di sicurezza, ciascuna sezione ha la propria sede e gli istituti di formazione in modo indipendente.
[...] A livello politico, le relazioni fra il SOE e i governi in esilio sono spesso difficili. Quest’ultimi protestano poiché molte operazioni si svolgono senza la loro approvazione e senza che ne siano al corrente, provocando rappresaglie contro la popolazione civile, oppure tendono ad appoggiare alcune fazioni non direttamente collegate a loro, basti vedere il caso francese. Verso la fine della guerra, quando le forze Alleate cominceranno a liberare territori occupati e in cui il SOE ha stabilito forze di resistenza, l’organizzazione cercherà di stabilire le basi politiche per i futuri governi, andando spesso a scontrarsi con la volontà dei governi precedenti alla scoppio del conflitto.
[...] La maggior parte delle reti di resistenza che il SOE forma, comunica principalmente via radio direttamente dalla Gran Bretagna o da sedi controllate dallo stesso SOE. Tutti i circuiti di resistenza contengono almeno un operatore radio. In un primo momento, il traffico radiofonico passa attraverso la stazione radio controllata dal SIS a Bletchley Park. Dal 1 giugno 1942 il SOE utilizzerà le proprie stazioni di trasmissione e ricezione a Grendon Underwood e a Poundon.
[...] Le prime radio di SOE sono fornite dal SIS: sono grandi, ingombranti e richiedono grandi abilità di utilizzo; successivamente verranno adottate macchine sempre più piccole e performanti. <251 Le procedure operative sono però insicure in un primo momento. Gli operatori sono costretti a trasmettere i messaggi su frequenze fisse e in tempi e intervalli fissi. Questo permette alla direzione anti-spionaggio tedesca di trovare tramite il metodo di triangolazione le loro posizioni. Dopo che diversi operatori verranno catturati o uccisi, le procedure saranno rese più flessibili e sicure, aumentando in modo sensibile l’efficacia delle operazioni e la possibilità di permanenza di un agente nel medesimo luogo, senza che quest’ultimo venga scoperto. <252
I messaggi vengono, come logico, sempre trasmessi codificati.
[...] Oltre che alle spie, ci sono anche i sabotatori. Uno dei loro compiti principali è quello di attuare continue azioni di disturbo a danno delle fortificazioni e delle difese tedesche. I metodi, senza analizzare quelli classici come la recisione dei fili del telefono, sono a volte veri e propri capolavori dell’ingegno.
[...] La prima breccia di Enigma è aperta in tutta segretezza dal servizio segreto polacco, che nel corso degli anni Trenta decifra i messaggi grazie all’ingegno del matematico e statista Marian Rejewski. Nel luglio del 1939, quando ormai appare chiaro che l’attacco tedesco sia solo questione di tempo e non ci sono illusioni sulla possibilità di respingerlo, gli esperti del controspionaggio francese e britannico sono convocati a Varsavia e viene loro consegnata una copia della cifrante Enigma, con allegata la spiegazione del suo funzionamento. <263
Gli inglesi, intuito lo straordinario potere di questo mezzo, iniziano a potenziare la Government Code and Cypher School (GC&CS), con sede in una località di campagna nel Buckinghamshire, un paese a circa settantacinque chilometri a nord-ovest di Londra, dal nome di Bletchley Park, anche nota come Stazione X, dove già affluiscono i messaggi intercettati via radio.
La scuola governativa per codici e crittografia entra in funzione ufficialmente nel 1939 col compito di decrittare i messaggi in codice; allo scoppio della guerra ottiene rilevanti finanziamenti che portano anche a un suo allargamento, con la possibilità di ingaggiare migliaia di esperti, a cui viene concesso l’utilizzo di una strumentazione elettronica d’avanguardia. La scuola chiuderà del 1946 e i suoi collaboratori resteranno vincolati dal giuramento di segretezza. <264
[...] Il Double Cross System o Sistema XX è una sezione del British Security Service addetto al controspionaggio e all’inganno attivo durante la Seconda guerra mondiale, indicata dal MI5, a titolo di copertura, come un’organizzazione civile responsabile della gestione logistica degli affari militari. Una buona parte dei suoi componenti sono agenti nazisti che si trovano in Gran Bretagna, che vengono usati dagli inglesi per trasmettere principalmente disinformazioni ai responsabili dell’intelligence tedesca. Le sue operazioni saranno supervisionate dal Comitato 20 sotto la presidenza di John Cecil Masterman; il nome del comitato deriva dal numero 20 in numeri romani: XX (ovvero una doppia croce). <276
[...] La politica dell’MI5 durante la guerra è inizialmente quella di usare il sistema a doppia croce per operazioni di controspionaggio. Sarà solo più tardi che il suo potenziale per scopi di inganno o meglio di deception verrà realizzato. Degli agenti dei servizi segreti tedeschi, alcuni saranno arrestati, mentre molti altri che raggiungeranno le coste britanniche si consegneranno di spontanea volontà alle autorità inglesi. Agenti successivi saranno incaricati di contattare agenti che, in realtà sono già controllati dagli inglesi. Dopo la guerra si scoprirà che tutti gli agenti inviati in Germania dalla Gran Bretagna si erano arresi o erano stati catturati. <278
[...] Il controllo dei nuovi doppi agenti cade su Thomas Argyll Robertson, un carismatico agente dell’MI5 di origine scozzese. Robertson crede che trasformare le spie tedesche avrebbe avuto numerosi vantaggi, rispetto a ucciderle, rivelando quali informazioni volesse l’Abwehr e potendo trasmettere informazioni false per attuare operazioni di deception. Viene di proposito creato un ufficio segreto direttamente dipendete dal Comitato XX, il cui nome è conosciuto con la sigla B1a, la sua funzione specifica è la gestione degli agenti-doppi.
[...] I primi agenti di Robertson non sono, però, un gran successo, Giraffe (George Graf) non sarà mai realmente usato e Gander (Kurt Goose) che era stato inviato in Gran Bretagna e che trasmetteva ancora con l’intelligence tedesca, viene rapidamente dismesso. <282 I successivi due tentativi saranno ancora più farseschi; Gösta Caroli e Wulf Schmidt, due veri nazisti nonché profondi amici, saranno costretti in un triste gioco di spie: Caroli viene costretto a diventare un doppiogiochista in cambio della vita di Schmidt, mentre a Schmidt viene detto di essere stato venduto dal suo amico, convincendolo così a diventare anch’esso un doppiogiochista. <283 Caroli diviene rapidamente un problema, giudicato troppo pericoloso per essere usato, viene presto fatto fuori. Schmidt ha più successo: col nome in codice "Tate", continuerà ad avere contatto con la Germania fino al maggio 1945. <284 Queste eccentriche spie fanno capire a Robertson che gestire i doppi agenti sarebbe stato un compito difficile.
La principale forma di comunicazione che gli agenti utilizzano è la scrittura criptata, più tardi nella guerra, le radio wireless saranno fornite dai tedeschi e faciliteranno molto la comunicazione. Un aspetto cruciale del sistema è la necessità di inviare informazioni autentiche insieme al materiale di inganno. Questa necessità causa problemi all’inizio della guerra, con coloro che sono riluttanti a fornire anche una piccola quantità di materiale genuino relativamente innocuo. Più tardi nella guerra, man mano che il sistema si organizzerà meglio, verranno integrate informazioni autentiche anche di notevole rilevanza nel sistema di inganno, ne è un esempio la comunicazione radio trasmessa da "Garbo" inerente all’imminente sbarco in Normandia. <285
Non è solo nel Regno Unito che questo grosso e delicato sistema viene gestito. Un certo numero di agenti collegati al sistema sono gestiti in Spagna e in Portogallo, entrambi Stati neutrali.
[NOTE]
232 West, MI6: British secret intelligence service operations, p. XV.
233 Ivi, Cit. p. 65.
234 Ivi, p. 89.
235 Brown, Una cortina di bugie, pp. 8-9.
236 West, MI6: British secret intelligence service operations, pp. 113-114.
237 Smith, OSS: The Secret History of America’s First Central Intelligence Agency, p. 1.
238 Brown, Una cortina di bugie, p. 81.
239 Andrew, The defence of the realm, p. 215.
240 Smith, OSS: The Secret History of America’s First Central Intelligence Agency, p. 28.
242 Foot, SOE, special operations executive, Cit. p. XVII
251 Foot, Resistance, Cit. p. 162.
252 Ivi, p. 158.
263 Franzinelli, Guerra di spie, p. 78.
264 Ivi, p. 201.
276 Winston Churchill sul Double Cross System. Macintyre, Double Cross, Cit. p. 4
282 Macintyre, Double Cross, p. 38.
283 Andrew, The defence of the realm, p. 251.
285 Vedi paragrafo dedicato 4.8 Garbo e la rete.
Alessandro Berti, Dalla poesia di Verlaine alla rete di Garbo: l’importanza delle operazioni di deception per la riuscita dello sbarco in Normandia, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2016-2017

lunedì 7 marzo 2022

La riluttanza di Franklin Delano Roosevelt a porsi in contrasto con le frange più conservatrici del partito democratico

La signora Mary McLeod Bethune e la signora Roosevelt

«L’idea che il miglioramento delle relazioni interrazziali sia uno dei compiti del governo risale alla nostra amministrazione […] La storia di quest’idea è la storia della nostra amministrazione» <2. Qualche mese prima delle elezioni del novembre 1944, Alfred E. Smith aveva scelto di cominciare così un suo intervento sul Journal of Negro Education, in cui gli era stato chiesto di fornire un giudizio di lungo periodo sui contributi delle agencies newdealiste all’emancipazione politica, civile, economica e sociale degli afroamericani. Smith, che tra il 1934 e il 1943 era stato Race Relation Officer all’interno prima della Federal Emergency Relief Administration (FERA) e poi della Works Progress Administration (WPA), riservò il cuore delle sue valutazioni positive all’esperimento istituzionale da lui ritenuto strategicamente più decisivo per «fornire consigli politici e suggerimenti pratici […] mirati al potenziamento dei programmi governativi sulle relazioni interrazziali» <3. Il riferimento era alla storia dell’attività del Federal Council on Negro Affairs (FCNA), un comitato «a maglie larghe […] che per poco più di cinque anni ebbe in mano il destino dei Negri» <4.
Fondato il 7 agosto 1936 da Mary McLeod Bethune, direttrice della Division of Negro Affairs della National Youth Administration (NYA), il Black Cabinet (BC) - denominazione con cui fu spesso identificato al di fuori dell’ambito istituzionale - era stato concepito come un comitato informale per raccogliere i racial advisers coinvolti a vario titolo all’interno delle strutture federali e delle agenzie newdealiste. Secondo i propositi della sua fondatrice, che ne sarebbe rimasta sempre alla guida, l’eccezionalità offerta dal contesto del Second New Deal aveva consegnato agli afroamericani opportunità ma anche responsabilità inedite ed esclusive, che richiedevano «un interesse comune per soddisfare le esigenze più urgenti dei Negri» e, dunque, di «dimenticare il particolare incarico di ciascuno, per scambiarsi personalmente informazioni [e per] capire in modo approfondito il lavoro dei numerosi dipartimenti» <5.
Già nel giugno dell’anno precedente, quando era divenuta la seconda donna a vedersi riconoscere dalla NAACP la Spingarn Meda <6, Bethune aveva individuato nel New Deal l’avvio di un passaggio storico. Uomini e donne nere stavano infatti cogliendo l’inedita disponibilità da parte del governo ad aprirsi a un confronto inclusivo che, d’altra parte, richiedeva l’impegno verso la realizzazione di «nuove forme di partecipazione politica» <7.
Il FCNA era stato dunque ideato proprio per costruire uno spazio di dibattito ampio e allargato, in grado di porsi come riferimento privilegiato delle istituzioni per favorire l’inclusione delle minoranze nell’agenda governativa. Volendo anche operare come gruppo di pressione sull’amministrazione, per correggere e raffinare l’approccio teorico e politico alla questione razziale, il FCNA «sviluppò le sue efficaci attività attorno a quattro ambiti: influenzare le politiche delle singole agencies, assicurare adeguate iniziative per garantire l’approvazione di buone pratiche, seguire le dinamiche istituzionali, informare e fare divulgazione» <8.
Questo ultimo punto rappresentò non solo una strategia collaterale ma anche una seconda e altrettanto vitale ragione alla base della fondazione del BC. Bethune, che nel 1935 era stata chiamata dall’amministrazione federale nel momento più alto della sua carriera di leader nei movimenti di emancipazione delle donne nere, fu intenzionata a rendere il gruppo un interlocutore politico di riferimento, non solo per i vertici ma anche per la società civile. Per questo, fin dalle prime riunioni, fu stabilito che ai progetti condotti da ogni singolo racial advisers all’interno di ciascuna agenzia fossero associate molteplici forme di scambio e di collaborazione con il mondo dell’associazionismo. Proprio la configurazione informale dell’organismo, rimasto senza un qualsivoglia riconoscimento ufficiale, costituì una scelta consapevole per coinvolgere in modo inclusivo i rappresentanti dei movimenti e per «ottenere migliori risultati […] ragionando e programmando insieme» <9. Secondo Bethune, superare i ristretti confini istituzionali e includere in modo partecipativo la leadership dei movimenti era vincolante «per pensare come un tutt’uno, per garantire il miglior servizio ai nostri concittadini [e per] mantenere sempre vivo il tema della discriminazione» <10. L’impegno del FCNA si innestò dunque attorno a due nodi in apparenza slegati ma che, invece, avevano caratterizzato l’esperienza di Bethune in modo strettamente connesso e interdipendente. La sua più che ventennale leadership nelle associazioni locali e nazionali di donne nere l’aveva portata a credere con forza che il FCNA avesse il dovere di pensare «a come poter, in modo cooperativo, chiarire alla collettività le cose fatte e le cose da fare per i Negri» <11.
Pur riuscendo a coinvolgere quasi cinquanta membri all’apice della sua attività nel 1939, il FCNA ha sofferto di una lunga disattenzione da parte della storiografia. Sebbene molti studi siano concordi nel definirlo un comitato singolare, senza precedenti e meritevole di una rinnovata attenzione scientifica, anche nelle maggiori ricostruzioni sul New Deal esso ha trovato poco spazio di approfondimento specifico. Il dibattito scientifico offre comunque un quadro ricco, all’interno del quale il passaggio tra la seconda metà degli anni Trenta e i primi anni Quaranta continua a essere oggetto di discussioni interdisciplinari e a rappresentare una delle fasi costantemente narrate e contronarrate dalla storiografia. I principali filoni di studi, coltivati fin dagli anni successivi al secondo conflitto mondiale e ormai consolidati, hanno riconosciuto il sostanziale fallimento delle politiche strutturali del New Deal di fronte agli afroamericani <12. Le interpretazioni di Alan Brinkley, Gary Gerstle e Raymond Wolters hanno giudicato la mancata approvazione di politiche razziali incisive soffermandosi soprattutto sul timore e sulla riluttanza di FDR [n.d.r.: Franklin Delano Roosevelt] a porsi in contrasto con le frange più conservatrici del partito democratico <13. Anche lo studio molto più recente di Ira Katznelson ha confermato che «l’amministrazione Roosevelt seguì una strategia di pragmatica dimenticanza sulle questioni razziali il più a lungo possibile» <14. Eppure, questa stessa storiografia ha riconosciuto che «una popolazione disperata […] vide Roosevelt salvarla dalla fame» <15 e che «il New Deal offrì agli afroamericani benefici materiali e riconoscimenti più di qualsiasi altra amministrazione» <16.
La storiografia si è dunque soffermata in vari modi sul contributo politico del New Deal all’emancipazione politica, civile, economica e sociale degli afroamericani. Impegnandosi a problematizzare la complessa tensione tra i risultati concreti delle riforme e l’ascendente simbolico della famiglia presidenziale, molti studi hanno individuato nel passaggio tra la seconda metà degli anni Trenta e i primi anni Quaranta un complesso e intricato turning point, «una fase di semina e non di raccolto» che portò innegabilmente a «una più completa partecipazione dei neri nella società americana» <17. Ad oggi, la letteratura offre una tradizione di lungo periodo e di ampio respiro in merito a questioni, approcci e metodologie sulle forme di inclusione della questione razziale nel più ampio progetto del New Deal. Eppure, alcune esperienze politiche innovative e singolari sono spesso state lasciate ai margini, concorrendo a sottostimare il protagonismo di uomini e donne nere come soggetti attivi e dirimenti sulla scena istituzionale.
[...] Nell’estate del 1941 Weaver strutturò più minuziosamente la sua divisione all’interno dell’OPM, occupandosi a sviluppare una concreta presenza sul territorio ad avviare strette forme di collaborazione con le organizzazioni locali, le associazioni di categoria e il mondo imprenditoriale. Pur occupandosi di promuovere le attività istituzionali, Weaver confermò la propria distanza dai movimenti, si trovò in conflitto con la NAACP e suscitò giudizi contrastanti anche all’interno del FCNA. La parziale rottura si coagulò attorno al caso della Brewster Aeronautical, una società newyorchese che aveva attirato forti accuse di discriminazione da parte della NAACP <46. Nel mese di luglio Weaver difese invece la compagnia, annunciando la recente assunzione di un gruppo di afroamericani. La NAACP lo ritenne un gesto strategico, unicamente teso a evitare proteste, tanto che Roy Wilkins e Walter F. White si definirono «letteralmente infuriati contro Robert C. Weaver per le dichiarazioni rilasciate dall’OPM» <47. Dopo un successivo scambio di comunicazioni, in cui Weaver difese il proprio operato mentre White gli intimò di «[stare] estremamente attento a prevenire report troppo ottimistici su pratiche di assunzione nell’industria bellica» <48, anche il FCNA si spaccò. Su National Grapevine, Alfred E. Smith si espresse con ostilità, asserendo che «sebbene Weaver [avesse] lavorato molto e raggiunto alcuni risultati definiti e storici per l’impiego dei Negri […] egli aveva comunque perso la faccia facendo dichiarazioni grandi e troppo ottimistiche sulla stampa» <49.
Al contrario, Smith continuò invece a celebrare la figura di Bethune e il lavoro da lei portato avanti all’interno del FCNA, nonostante il periodo di stasi per lo stato di salute piuttosto critico. Provando a coniugare l’impegno istituzionale a una presenza sempre più attiva e critica dei movimenti e delle donne nere nello sforzo bellico, l’attività politica e la leadership di Bethune raggiunsero esiti particolarmente significativi proprio nei primi anni Quaranta. Per Smith, in primo luogo, «la personale amicizia con Eleanor Roosevelt le [garantiva] libero accesso alla Casa Bianca» <50. In effetti, come è stato riconosciuto anche da Elaine M. Smith, Bethune e la first-lady coltivarono «una amicizia interrazziale rara, pubblica e privata» <51, caratterizzata da forme di cooperazione variegate. Nel 1941, Bethune era ormai particolarmente vicina a Eleanor Roosevelt, che fu coinvolta nel progetto educativo del Bethune-Cookman College e si dimostrò altrettanto presente per la NYA e per il NCNW. A nome del FCNA, Bethune aveva inoltre continuato a sollecitare il suo intervento e la sua mediazione per favorire l’inclusione degli afroamericani e contrastare la discriminazione nel programma di difesa. Molti report e memorandum venivano direttamente inoltrati alla Casa Bianca, chiedendo una diretta azione della first-lady per favorire «l’inclusione dei Negri nell’elaborazione e nell’organizzazione di nuove agenzie per la difesa» <52.
[...] già nel settembre 1939 Bethune era entrata a far parte del Committee to Defend America by Aiding the Allies, sostenendo fortemente la necessità di un imminente intervento da parte degli Stati Uniti per contrastare i totalitarismi europei, in linea con i precedenti impegni pubblici per richiedere condanne ufficiali o interventi mirati del presidente e del governo contro l’ascesa dei fascismi in Europa e le politiche razziste di Germania e Italia, le leggi di Norimberga, gli accordi di Monaco <64.
La NYA, ormai spostata dalla WPA alla FSA, fu particolarmente coinvolta nello sforzo bellico. Al suo interno, Bethune e il direttore Aubrey W. Williams si occuparono di promuovere le attività dell’agenzia e di coinvolgere la società civile nello sforzo internazionale. Come direttrice della Division for Negro Affairs, Bethune si ritagliò un ruolo attivo soprattutto nel sollecitare la mobilitazione femminile. Infatti, si attivò per la fondazione e la gestione del Negro Woman’s Committee for Democracy in National Defense. Credendo che «l’esclusione e la discriminazione nelle agenzie governative [mettesse] in serio pericolo la nazione» <65, il comitato fu fondato nel 1941 e riunì gruppi e associazioni femminili particolarmente interessate ad esercitare un ruolo attivo nel programma di difesa. Poiché «il mondo [era] impegnato in una lotta per il mantenimento della democrazia» <66, il movimento si impegnò a sottolineare il ruolo attivo che anche le donne nere avrebbero dovuto ricoprire all’interno della società. Il comitato cercò la collaborazione dei racial advisers attorno a una serie di temi specifici, chiedendo in particolare una «mobilitazione a livello nazionale per il lavoro nelle industrie di difesa […] la formazione e l’apprendistato per i giovani» <67, concentrandosi soprattutto sulla mobilitazione femminile poiché «le donne Negre [potevano] e [dovevano] partecipare allo sforzo comune per rendere la democrazia funzionante» <68.
[...] Sottolineando la mancanza di rispetto delle politiche contro la discriminazione e dell’Executive Order 8802 emanato nel luglio del 1941, Bethune chiese al direttore della NYA di «impegnarsi a dichiarare una politica chiara, con un linguaggio diretto e preciso, che [potesse] costituire il principio guida per dare direttive a seguito della riorganizzazione dell’agenzia» <81. La sempre più forte denuncia da parte dei movimenti aveva spinto Bethune ad assumere posizioni particolarmente critiche verso le istituzioni e a influire sull’avvicinamento sempre più significativo del FCNA ai movimenti, rivestendo un ruolo non secondario nella fase forse di più acuta crisi, generata dal MOWC di Randolph e dal rischio di una marcia di protesta sulla capitale.
[NOTE]
2 A.E. Smith, Educational Programs for the Improvement of Race Relations: Government Agencies, in The Journal of Negro Education, Vol. 13, No. 3 (Summer, 1944), p. 361.
3 Ibidem, p. 363.
4 Ibidem, p. 364.
5 Minutes of the First Meeting of the FCNA, 7 August 1936, MMB, RSC, p. 2, r. 7, 0693.
6 La prima donna a ricevere la Spingarn Medal della NAACP era stata Mary B. Talbert nel 1922. Dopo Bethune, nel 1939 il riconoscimento fu assegnato alla cantante Marian Anderson.
7 M. McLeod Bethune, Twenty-First Spingarn Medalist, MMB, ARC, b. 2, f. 1.
8 A.E. Smith, Educational Programs for the Improvement of Race Relations, cit., p. 365.
9 Minutes of the First Meeting of the FCNA, cit.
10 Ivi.
11 Ivi.
12 Alcuni tra i primi studi più d’impatto sul New Deal in rapporto all’emancipazione razziale: H. Garfinkel, When Negroes March. The March on Washington Movement in the Organizational Politics for FEPC, Glencoe, The Free Press, 1959; R.E. Sherwood, Roosevelt and Hopkins: an Intimate History, Harper & Brothers, New York, 1948.
13 Cfr. A. Brinkley, The End of Reform: New Deal Liberalism in Recession and War, New York, Vintage, 1995; G. Gerstle, The Crucial Decade: The 1940s and Beyond, in The Journal of American History, Vol. 92, No. 4 (Mar., 2006), pp. 1292-1299; Id., The Protean Character of American Liberalism, in American Historical Review, 99 (Oct. 1994), pp. 1043-73; R. Wolters, The New Deal and the Negro, in J. Braeman, R.H. Bremner, D. Brody (eds.), The New Deal, Columbus, Ohio State University Press, 1975, pp. 170-217.
14 I. Katznelson, Fear Itself: The New Deal and the Origins of Our Time, New York, W.W. Norton, 2013, p. 168.
15 Ibidem, p. 176.
16 R. Wolters, The New Deal and the Negro, cit., p. 170.
17 H. Sitkoff, A New Deal for Blacks. The Emergence of Civil Rights as a National Issue: the Depression Decade. 30th Anniversary Edition, New York, Oxford University Press, 2009, p. XX.
46 W.E. Pritchett, Robert Clifton Weaver and the American City, cit., p. 100.
47 W.F. White, R. Wilkins cit. in W.E. Pritchett, Robert Clifton Weaver and the American City, cit., p. 101.
48 W.E. Pritchett, Robert Clifton Weaver and the American City, cit., p. 102.
49 C. Cherokee, National Grapevine, 13 September 1941, AES, ARK, b. 5, f. 4.
50 C. Cherokee, National Grapevine, 9 August 1941, AES, ARK, b. 5, f. 4.
51 E.M. Smith, Pursuing a True and Unfettered Democracy, cit., p. 108.
52 M. McLeod Bethune to E. Roosevelt, 8 April 1941, ER, RSC, p. 1, r. 0863.
64 E.M. Smith, Pursuing a True and Unfettered Democracy, cit., p. 137.
65 Announcing a Nation-Wide Call to Negro Women of America, 28 June 1941, RG 119, NARA, b. 6, f. Broadcasts 1939.
66 Ivi.
67 Ivi.
68 Ivi.
81 M. McLeod Bethune to A.W. Williams, 20 May 1942, AW, FDRL, b. 7, f. 1942-43 Program.
Annalisa Mogorovich, Un comitato informale nell'amministrazione Roosevelt. Il Federal Council on Negro Affairs e la leadership di Mary McLeod Bethune (1936-1943), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno accademico 2015-2016