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giovedì 19 novembre 2020

Nelle pause della brezza il silenzio si posava sul silenzio

Ennio Morlotti, Francesco Biamonti e Joffre Truzzi nel 1960 davanti all'atelier di Cezanne - Fonte: Joffre Truzzi

“Il vento largo è un vento che non soffia mai nella stessa direzione e di conseguenza disorienta molto….E’ come il vento della vita che ti sospinge prima da una parte , poi da un’altra…” Francesco Biamonti

“Nelle pause della brezza il silenzio si posava sul silenzio”. Come fossero lì ad aspettare il loro lettore nella prima pagina di “Vento largo” appaiono queste parole, quasi volessero, da subito, introdurre e portare quel loro lettore dentro quel silenzio. E’ un istintivo pudore quello che si prova verso quelle parole, come se esse invitassero ad abbandonare la smania di dire e inducessero a ritirarsi in quel silenzio, rispettosi della sua intimità e ammirati dalla sua grandezza. Perché nell’intimità e nella grandezza di quel silenzio è la misura di “Vento largo”. Una misura in cui convivono quell’ intimità fatta di accenni sommessi e di intermittenze con se stessi e quella grandezza fatta di immersioni negli spazi e di sguardi che abbracciano vastità, le quali nel silenzio e del silenzio si nutrono.

Come ebbe a dire Calvino dell’ ”Angelo di Avrigue”, che fu il primo dei romanzi di Biamonti il quale, secondo Calvino, era “fatto soprattutto di cose non dette e di silenzi” anche di “Vento largo” che fu il secondo dei romanzi di Biamonti si può dire lo stesso. Perché l’arte di Biamonti sta proprio in quei silenzi eloquenti più delle parole con cui egli evoca l’interiorità delle cose e degli uomini e il mutevole succedersi che nei luoghi in cui quegli uomini vivono hanno l’aria, il cielo, la terra e il mare. Biamonti dialoga e fa dialogare i suoi personaggi come se egli, se essi, fossero in una continua e muta contemplazione e al tempo stesso interazione con ciò che vi è dentro e con ciò che vi è fuori di loro. “I personaggi scambiano frasi brevi, dialoghi enigmatici e sospesi – formule che evocano i ritmi antichi della vita e rispondono allusivamente alle interrogazioni che li tormentano” (Jacqueline Risset - “Biamonti una voce fuori dal tempo che leggeva il presente” - ne “Il Corriere della Sera” del 17.12.2004)

Perché quei personaggi se pur profondamente radicati in quei luoghi che sono i luoghi di Biamonti, i luoghi di quell’estremo Ponente Ligure in cui egli visse e che narrò, non sono per questo immuni dal “vento della vita” che come “il vento largo… disorienta molto”. Se pur di quei luoghi ne amino la selvaggia bellezza e ad essi si aggrappino, sebbene essi siano inesorabilmente destinati all’estinzione, tuttavia ciò non li affranca da un’ inquietudine a cui sono destinati a non sfuggire. In Biamonti non vi sono angosciose e laceranti disperazioni ma non vi sono neanche facili speranze. La sua è una poetica dell’instabilità e dello spaesamento che rimanda ad un universo esistenziale che non ha consolazioni o verità in cui rifugiarsi. Vi è caso mai una segreta saggezza incline al distacco dalle cose proprio per proteggersi e stemperare quell’amarezza che i personaggi di Biamonti sperimentano.

A un certo punto Vari, il protagonista di “Vento largo” dice: “C’è chi si rintana e c’è chi fugge”. Ed è in queste duplici condizioni della separatezza che sono infatti i personaggi di “Vento largo”, mossi, in quel loro rintanarsi e in quel loro fuggire, verso una ricerca che è ricerca in se stessi e di se stessi, ma mossi anche da una forza che è la forza che si prova verso le persone e le cose che si amano. Il rintanarsi è il rintanarsi di Vari che “ultimo testimone di una vita che se ne andava” vive da solo in quello sperduto borgo di Aurno ormai abbandonato. E nonostante che tutto intorno a lui stia morendo egli non lascerà quella terra e quel luogo e resterà a vivere lì, incapace di andarsene.

E’ un radicamento affettivo il suo che parla di legami forti con un passato che è già Memoria e di cui Vari è parte. Ma è anche un bisogno di stare con se stessi che ha in sé l’intimità propria delle nature solitarie ed è insieme l’attaccamento ad una bellezza che ha in sé quel senso di grandezza di cui si diceva: Aurno era “luminosa per via dell’altura, delle rocce e del sole”. Il fuggire è il fuggire di Sabel di cui Vari è innamorato, una figura femminile di una bellezza enigmatica e tormentata che, a un certo punto, scompare come avvolta nel mistero preda, come ella sarà, dei suoi segreti e delle sue ombre. E Vari ne sentirà tutta l’assenza e proverà il vuoto dato dalla mancanza di quel sorriso dolente di Sabel che dava senso e significato alla sua vita. Egli la cercherà e l’attenderà con paziente ostinazione ma invano.

E se pure a noi ci verrà detto dove Sabel è, a cosa è intenta e cosa la tormenta, per Vari Sabel si farà Sogno, fatto di premuroso desiderio: “Purchè torni! – si ripeteva…Mi dirà lei cosa devo fare” e di tenue ricordo: “Gli veniva in mente che Sabel si metteva qualcosa sulle labbra, un velo, un lembo di lenzuolo e dormiva. Misterioso mantello”. Ma “Vento largo” è anche un romanzo sul senso della libertà e Vari che è il primo ad averlo quel senso di libertà sa che la libertà di restare o andare, di esserci o non esserci è troppo privata e grande per cercare di mutarla e quindi si adatterà a convivere con quell’assenza: “<<Ha sempre amato chi vive e muore nascosto, – pensava, – su lei non devo più indagare. C’è una grandezza in quel silenzio>>”.

“Vento largo” è una storia di solitudini nonostante che tutti in quella piccola comunità che orbita intorno a quei luoghi siano parte di un tessuto di reciproche e mutue attenzioni. Perché tutti, anche i personaggi di contorno, hanno un loro tasso di enigmaticità che resta insondato, un non risolto che ne fa chi un rintanato, chi un fuggitivo, un senso di mistero che li fa soli con se stessi. Ed è proprio questo senso di enigma della vita che Biamonti esplora e racconta e quel suo tipico stile con cui egli dice senza dire, rende ed esalta la profondità di quell’enigma.

Perché il linguaggio, la lingua, i toni, le atmosfere in Biamonti sono forma che si fa sostanza, hanno un’espressività e un timbro che crea senso e dà senso più di quanto ne abbiano l’intreccio narrativo e le vicende narrate, tanto che “Vento largo” è un romanzo che in sé non ha una fine. Biamonti ebbe a dire: “ Sto cercando di affrontare la realtà del nostro tempo, senza più consolazioni, soltanto facendo la musica delle parole stesse…Voglio andare nel cuore dell’uomo, nel suo inferno, musicalmente” (J. Risset cit.) Ed è attraverso questo orchestrare e far uscire i suoni delle parole che egli evoca le cose, proteso verso il loro ascolto e la trascrizione di quell’ascolto.

Ma come è noto Biamonti è anche uno scrittore di immagini e per immagini, di “romanzi – paesaggio” lo definì Calvino e anche “Vento largo” in questo senso lo è. Ma anche qui attingere al paesaggio rimanda ad altro e si fa stile. Il paesaggio non è una cornice ma ad esso Biamonti attinge per nutrire la sua visione e per rendere i paesaggi interiori delle cose. Il paesaggio in Biamonti è fisico e metafisico, è poesia ma è anche realtà, rivela metamorfosi e cambiamenti. In questo senso Biamonti non è solo un cantore della Memoria e del Sogno, ma è anche un lettore della Realtà delle cose, dei cambiamenti sia fisici che epocali e quelle sue descrizioni dei paesaggi, dei luoghi, delle vite lo testimoniano, così come queste sue parole che ne rivelano, in questo senso, tutte le sue profonde consapevolezze: “Nei miei romanzi la natura è metamorfica, lo spazio è inficiato, il tempo è malato e il mondo è su un abisso” (J. Risset cit.).

Sergio Ciacio Biancheri, Francesco Biamonti

Ma in Biamonti resta comunque alta quella consapevolezza e capacità di sollevarsi sulle cose e coglierne la segreta grandezza al cui mistero abbandonarsi silenziosi, come nelle ultime righe di “Vento largo” che ci lasciano un’immagine forte e aerea di composta e calma pacatezza: “Veniva scuro, tornavano già i gabbiani dalle rumentiere; sorvolavano rocce. Intonacati d’aria andavano al mare ancora marmoreo come a un letto di pace.”

Il collezionista di letture