L’Imelde abitava al casello al km 12 della linea Savona Altare. Vi abitava con suo fratello. Erano figli di un operaio venuto a costruire quella linea e poi assunto dalle FS negli anni '30.
Erano di Marzabotto. Mi diceva che i suoi parenti erano stati trucidati dai nazisti e che erano rimasti lì perché non avevano più parenti laggiù.
Era una donna silenziosa, timorosa; risaliva sulla sede ferroviaria i quasi due chilometri che separavano i nostri due caselli e veniva a fare la spesa a Cadibona.
La prima volta che la vidi mi colpì quel suo fare dignitoso, quasi schivo: mi passò accanto ed io la salutai, lei si fermò e mi chiese se ero nuovo di lì; allora le raccontai a mio modo chi ero e da dove venivo. Le chiesi se viveva sola. Lei, stringendo la sua borsa della spesa, mi disse che viveva lì al casello con suo fratello. Mi sorrise l’Imelde e volle che l’andassi a trovare: cosa che feci nei giorni a venire.
Non avevano acqua corrente né luce elettrica in casa; illuminava le stanze con il gas del carburo - allora se ne trovava in grande quantità -; fuori nel cortile avevano una pompa manuale per l’acqua con sottostante interrato serbatoio, con la quale riempivano i secchi. La casa era una grande cucina con un grande caminetto: si vedeva che la loro vita si svolgeva tutta lì in quella grande cucina.
Mi venne in mente che quello era sicuramente un retaggio di una cultura del mondo della mezz’aria e bracciantato, grandi cucine condivise e piccole stanze anguste per dormire.
Suo fratello mi guardò con attenzione - avevo 21 anni - volle sapere da dove venivo ed io fui prolifico di racconti ed aneddoti sulla mia terra. Lui la domenica scendeva alla Società di Mutuo Soccorso a Montemoro.
Credo che la loro vita si svolgesse tutta lì.
E questo mi mise tristezza.
Seppi poi dopo della loro storia da un ferroviere, anche lui emiliano: erano persone buone e la barbara uccisione dei loro parenti li confinò per sempre al km 12 della linea Savona Altare.
L’Imelde morì prima del suo amato fratello e mi dispiacque non so se qualcuno si fosse ricordato di lei credo che in pochi le fecero visita.
Imelde e suo fratello erano figli di un altro tempo ancora di un tempo che non lasciava molto spazio ai sentimenti.
I loro volti erano quelli rassegnati di uomini e donne nati poveri nei primi anni del Novecento.
Erano di Marzabotto. Mi diceva che i suoi parenti erano stati trucidati dai nazisti e che erano rimasti lì perché non avevano più parenti laggiù.
Era una donna silenziosa, timorosa; risaliva sulla sede ferroviaria i quasi due chilometri che separavano i nostri due caselli e veniva a fare la spesa a Cadibona.
La prima volta che la vidi mi colpì quel suo fare dignitoso, quasi schivo: mi passò accanto ed io la salutai, lei si fermò e mi chiese se ero nuovo di lì; allora le raccontai a mio modo chi ero e da dove venivo. Le chiesi se viveva sola. Lei, stringendo la sua borsa della spesa, mi disse che viveva lì al casello con suo fratello. Mi sorrise l’Imelde e volle che l’andassi a trovare: cosa che feci nei giorni a venire.
Non avevano acqua corrente né luce elettrica in casa; illuminava le stanze con il gas del carburo - allora se ne trovava in grande quantità -; fuori nel cortile avevano una pompa manuale per l’acqua con sottostante interrato serbatoio, con la quale riempivano i secchi. La casa era una grande cucina con un grande caminetto: si vedeva che la loro vita si svolgeva tutta lì in quella grande cucina.
Mi venne in mente che quello era sicuramente un retaggio di una cultura del mondo della mezz’aria e bracciantato, grandi cucine condivise e piccole stanze anguste per dormire.
Suo fratello mi guardò con attenzione - avevo 21 anni - volle sapere da dove venivo ed io fui prolifico di racconti ed aneddoti sulla mia terra. Lui la domenica scendeva alla Società di Mutuo Soccorso a Montemoro.
Credo che la loro vita si svolgesse tutta lì.
E questo mi mise tristezza.
Seppi poi dopo della loro storia da un ferroviere, anche lui emiliano: erano persone buone e la barbara uccisione dei loro parenti li confinò per sempre al km 12 della linea Savona Altare.
L’Imelde morì prima del suo amato fratello e mi dispiacque non so se qualcuno si fosse ricordato di lei credo che in pochi le fecero visita.
Imelde e suo fratello erano figli di un altro tempo ancora di un tempo che non lasciava molto spazio ai sentimenti.
I loro volti erano quelli rassegnati di uomini e donne nati poveri nei primi anni del Novecento.
Roberto Trutalli, ottobre 2018