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lunedì 9 maggio 2022

I partigiani imperiesi se ne andarono, ma “Tigre” restò prendendo il comando del Rebagliati

La zona di Calice Ligure (SV) - Fonte: Mapio.net

Verso metà luglio 1944 una serie di eventi negativi mise a rischio lo schieramento garibaldino. In risposta allo scacco subito con l’attacco al presidio di Calice Ligure, i tedeschi organizzarono un rastrellamento contro il distaccamento “Calcagno”, attestato nei pressi di Monte Alto <70. Presi alla sprovvista, i garibaldini arretrarono in preda al panico (molti erano dei “novellini”) in una nebbia impenetrabile, tra continue raffiche di mitra. Miracolosamente non vi furono né vittime né prigionieri, ma la frattura prodottasi nel bel mezzo del rastrellamento tra il “Calcagno” ed il Comando Brigata - che a detto distaccamento si appoggiava - costituiva un fatto assai grave. Più in generale in quei giorni si dispiegò un rastrellamento generale contro tutta l’area dal Carmo alla Val Bormida; anche i garibaldini del “Rebagliati” di stanza alla Baltera se la cavarono per il rotto della cuffia <71. In più gli imperiesi del 10° distaccamento, rendendosi forse conto di essere diventati una presenza “scomoda”, chiesero ed ottennero di poter tornare in I^ Zona. Il loro arrivo era stato determinato essenzialmente dalla caccia mortale che i fascisti imperiesi davano al comandante Rosolino Genesio “Tigre”, che aveva ucciso un carceriere con una testata allo stomaco (!) <72. I garibaldini imperiesi se ne andarono, ma “Tigre” restò prendendo il comando del “Rebagliati” e facendosi fama di estrema risolutezza.
Si imponeva una riflessione. Il servizio informazioni non si era mostrato pronto di fronte alla minaccia nemica, che solo per una fortunata circostanza fortunata non si era tradotta in un disastro irreparabile tipo Benedicta o Val Casotto: una di quelle disfatte totali che il movimento partigiano impiegava mesi per assorbire. Molti partigiani, specie le reclute appena salite in montagna dai centri rivieraschi, si erano mostrate pavide: a questo avrebbero dovuto provvedere i commissari politici con un’appropriata opera di sostegno psicologico e di motivazione al combattimento.
Prudentemente il distaccamento “Calcagno” si trasferì a Pian dei Corsi, riorganizzando i servizi di guardia e i turni delle pattuglie in perlustrazione. Il Comando Brigata ritenne invece opportuno stabilirsi ad Osiglia, paese che il distaccamento “Astengo” aveva lasciato la sera dell’11 luglio per dirigersi su Monte Carmo, sopra Loano. Passando per la cascina Catalana, non lontana da Bardineto e abitata dalla famiglia Goso che da tempo aiutava i partigiani, gli uomini dell’”Astengo” raggiunsero la meta il giorno seguente perdendo tuttavia per strada il carro con i viveri, inopinatamente abbandonato dalla guida. Trovandosi in una zona apparentemente tranquilla ma a stomaco vuoto, i partigiani inviarono cinque volontari a procurarsi cibarie e pentolame presso i contadini della zona, che dai tempi della “Brigata Tom” collaboravano attivamente con la Resistenza. Ne tornò solo uno, “Sambuco”, perché, stracarica di viveri, la pattuglia era incappata presso Bric Aguzzo in un’imboscata in piena regola compiuta da tedeschi e fascisti della “Muti” che stavano rastrellando i dintorni. Il capo pattuglia Pierino Secchi, il cassiere Luigi Moroni e i volontari Agide Maccari e Dante Bonaguro erano rimasti uccisi <73. Il distaccamento, per evitare di essere individuato e massacrato sul terreno brullo e aperto di Monte Carmo, batté in ritirata verso il Bric dell’Agnellino, più a nord, passando per la cascina Catalana <74.
Un ulteriore elemento negativo fu il fallimento del tentativo, peraltro velleitario e abortito ancora in fase di progetto, di costituire una XXIa Brigata che fungesse da cuscinetto fra la XXa e le robuste formazioni che dominavano le montagne intorno al passo del Turchino, quelle, per intenderci, che avrebbero dato vita alla Divisione unificata Ligure - Alessandrina e in seguito alla “Mingo” <75.   
[...] Il fascismo repubblicano, con la creazione delle Brigate Nere, aveva ormai perso l’afflato “ecumenico” dei primi tempi e si era reso conto di essere in netta minoranza. La paura e il senso di impotenza spingevano i brigatisti neri a reazioni sempre meno ponderate. Un esempio tipico. Unità della Brigata Nera “Briatore” erano state sconfitte in combattimento a Colle San Bernardo, presso Garessio, dai partigiani imperiesi, lasciando sul terreno il tenente Libero Aicardi: la loro rappresaglia si sfogò a decine di chilometri di distanza, a Voze, frazioncina a monte di Noli posta nella zona operativa del distaccamento “Calcagno”. A tarda sera tre brigatisti neri, fingendosi partigiani, si presentarono dal parroco don Carretta chiedendogli da mangiare. Uno scrisse una lettera pregandolo di farla avere ai suoi familiari. Quindi, usciti dalla canonica, i tre infiltrati ebbero modo di incontrare ed identificare molti giovani del posto, alcuni dei quali armati, anche se qualcuno già sospettava dei nuovi venuti; quindi operarono alcuni arresti. Tornati in forze a notte fonda, i fascisti arrestarono anche il parroco, poi portarono tutti a Savona, alla Federazione del PFR. Il parroco si offrì al posto dei giovani che i fascisti volevano fucilare, ma il federale lo invitò bruscamente a non fare il martire. Così il 14 luglio vennero fucilati i cinque renitenti alla leva Guglielmo Avena, Alfonso Mellogno, Carlo Ardissone, Eugenio Manlio e Giuseppe Calcagno. Un sesto giovane, Domenico Caviglione “Mingo”, partigiano del “Calcagno” catturato giorni prima presso Voze e rimasto ferito in un tentativo di fuga, avrebbe dovuto essere fucilato quel giorno. Ma alcuni suoi colleghi della Scarpa & Magnano, con l’aiuto di una suora, riuscirono a liberarlo dall’Ospedale San Paolo dove era piantonato dal brigadiere di Pubblica Sicurezza Cardurani con due agenti <80.
[NOTE]
70 M. Calvo, op. cit., p. 51.
71 M. Savoini “Benzolo”, op. cit., pp. 82-84.
72 Ibidem, p. 86.
73 M. Calvo, op. cit., p. 52. Luigi Moroni era uno dei garibaldini del gruppo di Gottasecca catturati a San Giacomo di Roburent e consegnati ai tedeschi; arruolato a forza nell’esercito della RSI, era stato spedito in Germania per l’addestramento, ma in giugno, appena tornato a Savona, aveva subito disertato per tornare con i compagni: vedi F. Sasso, Folgore...cit., p. 27. Il fatto che uno come lui fosse stato cooptato nei corpi armati della RSI nonostante la comprovata militanza tra i ribelli comunisti è sintomatico del quadro disastroso del reclutamento per l’Esercito fascista repubblicano.
74 R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 110. A questo proposito, gli autori sostengono che la famiglia Goso, che risiedeva nella cascina, sarebbe stata arrestata e deportata in Germania in tale occasione; ma ciò contrasta con quanto lo stesso De Vincenzi narra in E. De Vincenzi, O bella ciao...cit., pp. 93-96, e cioè che i Goso sarebbero stati catturati ai primi di dicembre del 1944.
75 M. Calvo, op.cit., pp. 47-49.
80 G. Gimelli, vol. II, pp. 223-224 e R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., pp. 103-104.
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000

giovedì 16 dicembre 2021

Il triangolo Finale - Melogno - Monte Alto divenne così uno dei punti focali della guerra civile nel Savonese

Una vista dal Colle del Melogno - Fonte: Luca Magini su Mapio.net

Ai primi di settembre del 1944 sembrò per qualche tempo che la liberazione potesse essere vicina. Gli Alleati erano sbarcati in Provenza il 15 agosto, provocando un rapido crollo delle posizioni tedesche in tutta la Francia meridionale. Sembrava ora ragionevole attendersi un’offensiva generale degli americani attraverso i passi alpini, approfittando della stagione ancora clemente e dell’appoggio delle forti formazioni partigiane piemontesi e liguri, che certo non sarebbe mancato. Ma gli strateghi angloamericani avevano altri progetti: ritenendo prioritario l’attacco allo schieramento nemico tra i Vosgi e i Paesi Bassi, fermarono le loro truppe su una linea che lasciava il confine franco-italiano e l’intera valle del Roia saldamente in mani tedesche. Siffatta scelta, forse opportuna dal punto di vista militare, condannò tutto il Nord Italia ad un nuovo inverno di occupazione, ma, probabilmente, gli evitò le immani distruzioni causate dai combattimenti nel resto del Paese.
Nel clima di fibrillazione di quei giorni, alimentato ad arte dalla trionfalistica propaganda di Radio Londra, i partigiani imperiesi della Prima Zona ligure, credendo fosse giunta l’”ora x”, abbozzarono una calata insurrezionale sui centri della costa che venne stroncata sul nascere da un vasto rastrellamento tedesco talmente tempista da risultare sospetto <1.
I savonesi, meno numerosi ed organizzati oltre che più distanti dal fronte, continuarono la loro attività di guerriglia con il consueto vigore, ma senza esporsi in arrischiate azioni su grande scala. Dopotutto, lo stesso Comando Generale delle Brigate Garibaldi avrebbe rammentato pochi giorni dopo che “L’ora x è già suonata” <2 e che pertanto l’obiettivo principale dei partigiani non doveva consistere solo nel prepararsi ad una futura insurrezione, bensì nell’attaccare giorno per giorno il nemico senza mai concedergli tregua <3.
A Savona come altrove, questa direttiva giunse a conforto di una linea d’azione ormai perseguita da mesi.
La tarda estate vide un contemporaneo fenomeno di rafforzamento quantitativo e qualitativo delle unità partigiane di montagna e di città e un serio indebolimento dei corpi armati della RSI: in particolare la divisione “San Marco” continuava ad essere falcidiata dalle diserzioni, come rilevavano le scarne note informative della GNR <4. Molti “marò” erano spinti a “tagliare la corda” dalle insistenti voci di un prossimo ritorno in Germania della divisione, tanto che il 14 settembre il generale Farina dovette intervenire di persona con un ordine del giorno rivolto ai suoi uomini che recitava testualmente: ”Le voci messe in giro sono false ed hanno l’unico scopo di far perdere la fiducia a quelli fra noi che sono più deboli. Io so che qualcuno ha perso la testa e, lasciandosi ingannare dalla propaganda avversaria, si è messo in condizioni di pagare con la propria vita il disonore e la stupidaggine di aver creduto ai traditori. La propaganda nemica e i traditori interni hanno ora di nuovo fatto subdolamente circolare la voce che i reparti italiani ritornerebbero oltr’Alpe, in Germania. Io sono uomo di parola e sono gran signore del mio onore e di quello della divisione “San Marco”. Malgrado tutte le debolezze già dimostrate, io do fiducia a tutti e assicuro che noi abbiamo il diritto e il dovere di rimanere tutti al nostro posto di combattimento. Nessuno dubiti. Nel territorio di guerra italiano noi continueremo fino all’ultimo a combattere” <5.
Le rassicurazioni di Farina trovarono tuttavia orecchie sorde a qualsiasi richiamo, mentre le paure e le lamentele dei “sammarchini” erano oggetto della più sentita (ed interessata) comprensione da parte degli uomini e delle donne della Resistenza savonese. Un quadro realistico ed impressionante dello sbandamento attraversato dalla grande unità comandata da Farina è dato dal furibondo rapporto stilato dal generale tedesco Ott, ispettore dei gruppi di addestramento della Wehrmacht presso le divisioni dell’esercito della RSI, che il 16 settembre aveva fatto visita alla “San Marco”, riportandone un’impressione terribile. A detta di Ott, entro la metà del mese i disertori della “San Marco” erano già qualcosa come 1400 (il 10% dell’intera divisione!). Più in dettaglio, Ott notava come le diserzioni raggiungessero punte impressionanti (20%!) nelle truppe addette ai rifornimenti e nelle piccole pattuglie, mentre i reparti regolari parevano tenere in misura accettabile. Per ovviare a tale disastro, Ott avanzava una serie di proposte quali la sorveglianza di militari tedeschi su tutte le operazioni di rifornimento, fucilazioni, presa di ostaggi e invio di civili in lager per stroncare l’istigazione a disertare, un controllo meticoloso degli uomini che portasse all’eliminazione degli ”elementi cattivi” in particolare tra gli ufficiali e i nuovi arrivati, l’impiego del controspionaggio divisionale (sezione Ic) per la sorveglianza degli ufficiali e dei rapporti della truppa con i civili, un deciso attivismo nella lotta antiribelli per incoraggiare gli uomini, che dovevano comunque essere tenuti sempre impegnati, il ristabilimento di una disciplina ferrea e un attento esame del comportamento degli ex Carabinieri impiegati come polizia militare <6.
Tanta attenzione era pienamente giustificata dalle abnormi dimensioni del fenomeno e dalla crescente aggressività delle formazioni partigiane, che si erano ormai scrollate di dosso qualsiasi atteggiamento di tipo attendista. E se tra le aspre montagne liguri il pericolo era sempre in agguato, nel capoluogo e negli altri centri della costa la sicurezza era un fattore di giorno in giorno più aleatorio a causa dell’inarrestabile crescita organizzativa delle SAP, che aveva consentito il sorgere di nuovi distaccamenti e il rafforzamento di quelli esistenti, nonché l’estensione dell’area di attività dei gruppi sapisti.
Le zone che videro svilupparsi nuovi nuclei SAP furono quelle ad occidente di Savona. A Quiliano, sede sorvegliatissima di ben due comandi reggimentali della “San Marco”, e nella frazione di Valleggia, sorsero a fine agosto i distaccamenti “Rocca” e “Baldo”, forti di un pugno di uomini ciascuno, ma validamente appoggiati dai civili. La zona di Quiliano era nevralgica per i garibaldini, perché da essa e dalla Valle di Vado passava la gran parte dei rifornimenti di armi e volontari destinati alla Seconda Brigata <7. Pullulante di spie, doppiogiochisti, disertori, staffette e delatori, il Quilianese divenne rapidamente un fulcro della guerra civile, e il clima di violenza che vi si instaurò a partire dall’estate permase ancora a lungo dopo la Liberazione. Nella confinante area di Vado i sapisti, non ancora organizzati in brigata, ottennero in agosto e settembre notevoli successi nell’opera di reclutamento di “sammarchini” da inviare in montagna con armi e munizioni. A Porto Vado, a Sant’Ermete e nella Valle di Vado interi presidi, forti di decine di uomini, si squagliarono per le diserzioni e i continui attacchi dei sapisti finalizzati al recupero degli uomini <8. Come avveniva regolarmente in questi casi, una buona metà dei “marò” che disertavano si unì ai partigiani della Seconda Brigata; i restanti, dopo breve tempo, venivano lasciati andare sulla parola, e prendevano la strada di casa. In seguito al controllo sempre più stretto esercitato sulla zona a dispetto dei rabbiosi rastrellamenti, i sapisti furono poi in grado di creare addirittura un ospedaletto da campo per i garibaldini feriti, alloggiato in una stalla del paese di Segno <9. Se a Spotorno, sede del Comando generale tedesco per la Riviera di Ponente, l’attività dei piccoli nuclei ancora non formalizzati si espletava nell’accompagnamento dei disertori della “San Marco” al distaccamento “Calcagno”, a Finale e a Pietra Ligure operavano i distaccamenti SAP “Simini” e “Volpe” (poi “Fofi”), che il 28 agosto formarono la brigata “Perotti”. Questa unità nacque per coordinare i gruppi fondati da “Basilio” (Orso Pino), precedentemente organizzati come GAP, e poté subito fare affidamento sul personale dell’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure, attivo centro nevralgico della resistenza al fascismo repubblicano <10.
Per la Seconda Brigata il mese di settembre significò una lieve diminuzione dell’attività <11 accompagnata da una rapida espansione degli organici. Infatti, stando ai documenti, non meno di 553 uomini risultano essere entrati a far parte dei vari distaccamenti garibaldini durante il mese in questione (e si trattò del dato mensile più elevato in assoluto) <12, anche se bisogna tener conto dei passaggi di volontari da un’unità all’altra. Almeno la metà erano disertori della “San Marco” <13, che andarono a formare il grosso dell’organico di tre distaccamenti, il “Minetto”, poi trasferito nelle Langhe alle dipendenze della 16a Brigata Garibaldi a metà ottobre <14, il “Bruzzone” ed il “Maccari”. Significativa è la quasi totale assenza di disertori della “San Marco” nei ranghi del distaccamento “Calcagno” in questo periodo: da un lato il “distaccamento modello” era già sufficientemente fornito di uomini atti al combattimento, dall’altro il suo accampamento fungeva sovente da centro di smistamento delle nuove reclute verso le altre unità garibaldine. In tal modo la “purezza” ideologica ed etnica (i volontari erano pressoché tutti di Savona, Vado e Quiliano) della “punta di diamante” del partigianato garibaldino savonese si manteneva intatta.
Nel complicato e a tratti oscuro quadro della formazione dei nuovi distaccamenti riveste un certo interesse il caso del “Moroni”, che viene citato a partire dall’8 settembre 1944. Questo distaccamento si trasformò ben presto in un’autentica succursale ligure dell’Armata Rossa perché tra il 15 ed il 20 del mese vi furono incorporati ben 22 cittadini sovietici <15, soldati non più giovanissimi che con tutta probabilità servivano controvoglia nella Wehrmacht come Hiwis (Hilfswillige, ossia “volontari” reclutati nei lager in cui a milioni morivano di fame i prigionieri di guerra sovietici). Non si trattava dell’unico distaccamento “internazionalista”: anche il “Revetria” era ben fornito di russi, polacchi e perfino tedeschi ed austriaci antinazisti o più semplicemente stanchi di battersi per qualcosa in cui non credevano <16.
L’attività armata dei garibaldini, pur meno intensa che nel mese precedente a causa dei problemi organizzativi accennati sopra, si mantenne su livelli tali da perpetuare lo stato d’emergenza in tutta la provincia. In più, come vedremo in dettaglio, il raggio d’azione della Seconda Brigata si allargò a raggiera fin verso l’Albenganese, l’Alta Val Tanaro e le Langhe. I primi ad attaccare furono i volontari del neonato distaccamento “Minetto”, che il giorno 2 prelevarono il presidio “San Marco” di Pietra Ligure (19 uomini) con tutte le armi in dotazione <17, e i veterani del “Calcagno”, che ai primi del mese <18 piombarono di sorpresa con quattro squadre sul Semaforo di Capo Noli, ottenendo la resa di sedici “marò” e recuperando un ingente quantitativo di materiale.
Tre giorni dopo il Comando Brigata corse un rischio gravissimo in seguito ad un’improvvisa puntata nemica. In piena notte un forte contingente misto (forse 200 uomini, probabilmente di meno) composto da SS e Feldgrau (polizia militare tedesca) con cani poliziotto scese furtivamente dalla cima del Settepani nel tentativo di sorprendere il Comando acquartierato presso la base del distaccamento “Maccari”, nelle vicinanze del paese di Osiglia, ma non riuscì ad eliminare le due sentinelle senza far uso delle armi da fuoco, e ciò consentì ai garibaldini di battere rapidamente in ritirata senza ulteriori perdite, ripiegando sul campo del “Nino Bori” dopo una lunga marcia di trasferimento <19.
Anche il “Revetria” sfuggì ad un rastrellamento compiuto dagli “Arditi” della “San Marco”, che ne incendiarono l’accampamento; poco dopo, rinforzato dalla squadra GAP del Comando Brigata, il distaccamento passò al contrattacco infliggendo serie perdite al nemico in ritirata <20.
Entrambe le puntate nazifasciste erano ispirate ad una nuova dottrina della controguerriglia che prevedeva attacchi limitati ma improvvisi e frequenti in luogo di grandi rastrellamenti condotti con forze preponderanti ma poco mobili <21. In realtà la lotta antipartigiana fu poi condotta applicando di volta in volta il sistema più adatto in relazione all’importanza dell’obiettivo e alle forze a disposizione dei rastrellatori. Il 10 agosto un importante successo fu riportato dal “Giacosa”, che si impadronì di una polveriera tra Millesimo e Cengio catturando ben 43 “marò” e rastrellando armi e munizioni in quantità <22. Il giorno successivo vide all’attacco il distaccamento “Bruzzone”, che guidato da “Ernesto” (Gino De Marco) e “Gelo” (Angelo Miniati) assaltò una postazione tedesca a Nucetto, in Val Tanaro, uccidendo due soldati <23. Il 14 fallì un attacco portato dal distaccamento “Rebagliati” contro il presidio di Calice Ligure <24: rimase sul terreno il partigiano “Falco” (Franco Leonardi, romano, classe 1925 <25).
Proprio a Calice era acquartierata la Controbanda della “San Marco”, un reparto specializzato nella repressione antipartigiana alle dipendenze del III° Battaglione del VI° Reggimento. Si trattava inizialmente di un centinaio di “marò”, scelti tra i più decisi e fanatici e comandati dal tenente Costanzo Lunardini coadiuvato dal sottotenente Fracassi <26. Armati ed addestrati in modo eccellente, gli uomini della Controbanda di Calice iniziarono subito un serrato duello con i garibaldini locali e in particolar modo con il distaccamento “Rebagliati”, che a più riprese pagò a caro prezzo la ferocia e l’astuzia di questi commandos, usi ad ogni atrocità e più volte travestiti da partigiani per ingannare i civili.
Il triangolo Finale - Melogno - Monte Alto divenne così uno dei punti focali della guerra civile nel Savonese.
[NOTE]
1.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 161.
2.    Ibidem.
3.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 77.
4.    Cfr. ibidem, pp. 77 - 78 e G. Gimelli, op.cit., vol. I, p. 162.
5.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit, p. 78.
6.    Ibidem, p. 74.
7.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 165.
8.    Ibidem, vol. I, pp. 74 - 75.
9.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 106.
10.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 75.
11.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 165.
12.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 76.
13.    E. Caviglia, op. cit., p. 490.
14.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 107.
15.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
16.    Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, INSMLI - Istituto Gramsci - Feltrinelli, Milano, 1979, vol. I, p. 281.
17.    Ibidem, vol. I, pp. 293 - 295.
18.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
19.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 165 - 166.
20.    G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Mondatori, Milano, 1995, p. 261.
21.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
22.    Ibidem, p. 81.
23.    Per lo sciopero del 1° marzo 1944 vedi in ibidem, pp. 84 - 90; cfr. G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 188 - 191.
24.    Addirittura, pochi giorni prima, tutti i questori delle province interessate dallo sciopero si erano riuniti a Valdagno.
25.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 108.
26.    Per la strage di Valloria, vedi R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., pp. 90 - 92.
Stefano d’Adamo, "Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45)", Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000
 
La Controbanda! Storia e operazioni del III Gruppo Esplorante Arditi e della Controbanda di Calice Ligure ‐ Divisione F.M. San Marco - Edito da ITALIA Storica, Genova 2014 - Formato 17x24, 300 pagine, più di 150 illustrazioni b/n e colori e riproduzioni di documenti e due mappe...
Sadici torturatori di partigiani e rastrellatori di civili inermi, o una delle migliori unità per la controguerriglia delle forze italo-tedesche in Italia nel 1943-1945? Il III Gruppo Esplorante della Divisione Fanteria di Marina “San Marco” dell’Esercito Nazionale Repubblicano, derivante dal 10° Reggimento Arditi e comandato dal Tenente Colonnello Vito Marcianò, contese con successo l’entroterra ligure e le Langhe ai partigiani dal 1944 al 1945, non subendo le tattiche partigiane, con il loro stillicidio di imboscate e colpi di mano, ma rivoltando verso le bande queste stesse tattiche, affinate e messe in pratica con la spietata efficienza militare tipica dei reparti Arditi. Il Gruppo operò prima in Liguria alle dipendenze della 34. Infanterie-Division del Generale Theobald Lieb, che seppe per primo sfruttarne appieno le capacità offensive, e poi rientrò alla Divisione “San Marco”, mantenendo però sempre, dato l’altissimo spirito di corpo e rendimento degli Arditi e il carisma del loro comandante, una netta indipendenza d’azione dalla Grande Unità. Gli Arditi del Comandante Marcianò divennero presto un vero incubo per le formazioni partigiane, costantemente individuate e braccate dalle pattuglie a lungo raggio del Gruppo Esplorante, capaci di penetrare sin nei rifugi ritenuti più sicuri dalle bande. Le operazioni del Reparto sono qui ricostruite in dettaglio attraverso un bilanciato confronto di spesso contrastanti fonti edite e d'archivio, tra le quali il verbale del processo al Comandante Marcianò e a diversi membri dell'Esplorante tenuto ad Asti nel 1947, qui riprodotto per la prima volta, integrate dalle voci relative al Gruppo del Diario di guerra della Divisione e da un resoconto sulle sue azioni scritto nel dopoguerra dal Generale Comandante della “San Marco” Amilcare Farina. Un capitolo tratta poi il secondo reparto specializzato nella controguerriglia della Divisione “San Marco”, ossia la “Controbanda” del Tenente Costanzo Lunardini del III Battaglione del 6° Reggimento Fanteria di Marina, accasermata a Calice Ligure nel 1944-1945. Altre sezioni del libro includono le uniformi, i distintivi e l'equipaggiamento dei reparti in oggetto, le decorazioni al Valor Militare concesse, le tenute da controinterdizione nei conflitti contemporanei e una vasta iconografia, spesso inedita.
a cura di Andrea Lombardi, Zimmerit Forum

giovedì 26 novembre 2020

L’Imelde del km 12 della linea Savona Altare


L’Imelde abitava al casello al km 12 della linea Savona Altare. Vi abitava con suo fratello. Erano figli di un operaio venuto a costruire quella linea e poi assunto dalle FS negli anni '30.
Erano di Marzabotto. Mi diceva che i suoi parenti erano stati trucidati dai nazisti e che erano rimasti lì perché non avevano più parenti laggiù.
Era una donna silenziosa, timorosa; risaliva sulla sede ferroviaria i quasi due chilometri che separavano i nostri due caselli e veniva a fare la spesa a Cadibona.
La prima volta che la vidi mi colpì quel suo fare dignitoso, quasi schivo: mi passò accanto ed io la salutai, lei si fermò e mi chiese se ero nuovo di lì; allora le raccontai a mio modo chi ero e da dove venivo. Le chiesi se viveva sola. Lei, stringendo la sua borsa della spesa, mi disse che viveva lì al casello con suo fratello. Mi sorrise l’Imelde e volle che l’andassi a trovare: cosa che feci nei giorni a venire.
Non avevano acqua corrente né luce elettrica in casa; illuminava le stanze con il gas del carburo - allora se ne trovava in grande quantità -; fuori nel cortile avevano una pompa manuale per l’acqua con sottostante interrato serbatoio, con la quale riempivano i secchi. La casa era una grande cucina con un grande caminetto: si vedeva che la loro vita si svolgeva tutta lì in quella grande cucina.
Mi venne in mente che quello era sicuramente un retaggio di una cultura del mondo della mezz’aria e bracciantato, grandi cucine condivise e piccole stanze anguste per dormire.
Suo fratello mi guardò con attenzione - avevo 21 anni - volle sapere da dove venivo ed io fui prolifico di racconti ed aneddoti sulla mia terra. Lui la domenica scendeva alla Società di Mutuo Soccorso a Montemoro.
Credo che la loro vita si svolgesse tutta lì.
E questo mi mise tristezza.
Seppi poi dopo della loro storia da un ferroviere, anche lui emiliano: erano persone buone e la barbara uccisione dei loro parenti li confinò per sempre al km 12 della linea Savona Altare.
L’Imelde morì prima del suo amato fratello e mi dispiacque non so se qualcuno si fosse ricordato di lei credo che in pochi le fecero visita.
Imelde e suo fratello erano figli di un altro tempo ancora di un tempo che non lasciava molto spazio ai sentimenti.
I loro volti erano quelli rassegnati di uomini e donne nati poveri nei primi anni del Novecento.

Roberto Trutalli, ottobre 2018