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martedì 16 novembre 2021

I due film hanno in comune un tipo di linguaggio cinematografico sontuoso e barocco

Foto di amici di Gian-Maria Lojacono

Federico Fellini è uno dei registi italiani più conosciuti a livello internazionale. Con le sue pellicole ha portato il nome del cinema italiano in giro per il mondo. Ha iniziato come disegnatore, per poi divenire sceneggiatore e infine regista. Ha diretto, per trenta anni, più di venti film di grande successo. Nelle sue pellicole costruisce un ipertrofico parco delle meraviglie e la sua macchina da presa fa muovere i personaggi come nelle montagne russe, dando sensazioni di esaltazione e vuoto improvviso <1. Tra i film da lui diretti Luci del varietà, I vitelloni, La strada, La dolce vita, Otto e mezzo, Roma. Tutti lungometraggi che raccontano storie e posti vissuti dal regista. I suoi lavori vogliono far conoscere l’Italia e gli italiani. Una delle caratteristiche delle sue pellicole, è quella di forzare le immagini fotografiche nella direzione che porta dal caricaturale al visionario <2. Il lavoro di Fellini non era solo raccontare ciò che vedeva o lo circondava, ma andare oltre, scoprire il lato introspettivo della società di quel tempo. La svolta nel suo lavoro, e forse anche la consapevolezza di ciò che poteva fare nei suoi set, avviene con La dolce vita. Uno dei suoi film che ha vinto premi importanti, descrivendo gli ambienti caratteristici della bella vita romana. Qui, Fellini, parte dal boom economico mostrando un Paese pieno di speranze e di attese. Questa pellicola non rappresenta più, solo, la semplice evoluzione cinematografica del regista, ma è anche il sunto di un intero periodo della storia italiana del secondo dopoguerra. Il film è un ritratto agrodolce della società “in” di quel tempo. Il successo de La dolce vita e arrivato in maniera insolita. Infatti, la pellicola all’interno del nostro Paese ha fatto discutere tanto, dividendo il mondo della critica in due. Nonostante i pesanti giudizi, il film ha registrato grandi incassi. Molte le disapprovazioni che sono state rivolte al film, in particolare l’opinione pubblica si è mostrata molto contrariata per delle scene che andavano, a loro parere, contro il buon costume. Federico Fellini in questo lavoro va oltre il neorealismo che si era sviluppato solo qualche anno prima, con registi di grande fama come Luchino Visconti e Roberto Rossellini, raccontando di un paese che guarda avanti nonostante restava ancora ancorato al passato.
[...] La dolce vita. Con quest’opera il nome di Fellini diventò celebre in tutto il mondo. La dolce vita racconta i pensieri, i sentimenti, e quello che vede intorno il regista in quel periodo. La sua “poetica” in quaranta anni di esperienza si è evoluta, ma in tutti i suoi set si accostò sempre con la semplicità di autodidatta <14. Un elemento caratteristico e fondamentale nei film di Fellini, ma anche di altri registi di quel periodo è la riflessione sulla realtà sui comportamenti e sull’indole umana, affidata, con toni critici alle donne che sono le sole capaci di autentici sentimenti e vere passioni <15. Ed è proprio il personaggio femminile che acquista nelle opere di Fellini una peculiare importanza, senza tralasciare l’aspetto seducente. <16
[NOTE]
1  G. P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, 19052003, Bologna, Piccola Biblioteca Einaudi, 2003, p. 325.
2  I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in F. Fellini (a cura di), Fare un film, Torino, Einaudi, 1980, p. XXII.
14 G. P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, 1905-2003, Bologna, Piccola Biblioteca Einaudi, 2003, p. 189.
15 L. Miccichè, S. Bernardi (a cura di), Storia del cinema italiano 19541959, Roma, Marsilio Edizioni di Bianco & Nero, 2001, vol. IX, p. 166.
16 Ivi, p. 245.
Paolo Sorrentino a soli quarantasette anni è uno dei registi più giovani, e di maggior successo nell’ambito del panorama internazionale contemporaneo. Scoprì il suo amore per il cinema all’età di 19 anni, con i film di Sergio Leone e Bernardo Bertolucci, ma a folgorarlo furono le pellicole di Federico Fellini, autore che da sempre ha considerato uno dei maggiori maestri per la sua carriera di regista. Il suo approccio con la settima arte avvenne contro il parere di chiunque <1, ma fin da subito si è fatto notare per le sue doti nello scrivere sceneggiature <2.
[...] La grande bellezza, uno dei film che ha ottenuto maggiori riconoscimenti. In un cinema atrofizzato come il nostro, Sorrentino è uno dei pochi registi di questa generazione che racconta il brutto come se fosse bello <4. Il suo stile narrativo si compone di frammenti e simboli che si rivelano le funzionali allo svolgimento del film <5. Nei suoi film mette in scena una società deformata da ciò che la circonda. Il regista, più che enfatizzare un passaggio particolare della storia, tende a epicizzare un frangente apparentemente banale e quotidiano, imponendo all’evento trattato, un’inaspettata etichetta di visione. In questo modo cerca di evidenziare la dimensione simbolica di un certo evento e nasce la necessità di guardare la scena oltre la superficie della sua temporalità fenomenica, riuscendo a scolpire gli spazi, iconizzare le figure, caricando tutte le immagini di una tensione fuori dal comune <6. Appare difficile incasellare Sorrentino nel contesto del cinema italiano <7. Di sicuro il suo è un cinema, per molti, di cui non se ne può fare a meno <8.
[NOTE]
1  P. Sorrentino, La grande bellezza. Diario del film, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 9.
2  P. De Sanctis, D. Monetti e L. Pallanch, Divi & Antidivi. Il cinema di Paolo Sorrentino, Roma, Laboratorio Gutenberg, 2010, p. 7.
4  Ivi, p. 125.
5  Ivi, p. 126.
6  Ivi, p. 35-36.
7  F. De Bernardinis, La poetica della solitudine e dei rapporti di forza, in P. De Sanctis, D. Monetti e L. Pallanch (a cura di), Divi & Antidivi. Il cinema di Paolo Sorrentino, Roma, Laboratorio Gutenberg, 2010, p. 15.
[...] Uno dei maggiori “oratori” dagli anni Cinquanta è stato Federico Fellini, che con i suoi film ha rappresentato meccanismi e dinamiche delle tappe dell’evoluzione del paese concentrando lo sguardo soprattutto sulla capitale, divenuta la sua città adottiva. Una città che è stata più volte scelta, da molti registi, come luogo in cui ambientare le proprie pellicole. Fellini, nello specifico, ha raffigurato nei suoi lavori, non solo i momenti di ricostruzione, industrializzazione ed esplosione delle periferie urbane, ma anche associato la condizione della società e del singolo, in una situazione di stallo per tutti gli italiani. Spesso questi mutamenti sono divenuti topoi classici dell’immaginario comune, grazie alla potenza dei suoi film. Il cinema del regista riminese si definisce modernista, riaffermando le prerogative di controllo e manipolazione dell’attenzione e dello spettatore, senza però tralasciare la sottile prospettiva postmoderna che sembra volere mettere in luce come lo spettatore è capace di divenire “editor” di sè stesso. In questo modo il regista fornisce sia una creazione artistica, che una critica al valore di tale operazione. Le sue opere hanno tratti autobiografici, raccontano la storia del nostro paese, attraverso eventi che il regista, molte volte, ha sentito, visto o, addirittura, vissuto. Sono storie che vogliono porre l’accento sulla diversità apparente dei vari stati sociali, che coesistono nello stesso luogo e non possono fare a meno l’uno dell’altro.
Forse proprio perché affascinati da questa idea di fare cinema, alcuni giovani artisti contemporanei hanno deciso di intraprendere la settima arte e raccontare l’uomo dei nostri giorni e la realtà circostante. Tra questi spicca Paolo Sorrentino che con le sue pellicole ha dato testimonianza della società logorata e decadente dei nostri giorni, attirato a sè il mondo della critica.
3.1 Un maestro chiamato Fellini
Diversi i termini di paragone che più volte sono stati utilizzati tra l’opera di Paolo Sorrentino La grande bellezza, e quelle di Federico Fellini. Quest’ultimo è spesso preso a modello soprattutto per le idee che riguardano il suo sviluppo nel campo della cinematografia, una svolta che non si sofferma solo al suo modo di fare cinema, ma che influenza tutta l’industria cinematografica italiana. Infatti, il regista riminese, con La dolce vita segna un cambio nel suo modo di fare cinema che approfondisce con le pellicole successive. Roma, 8 ½ e Intervista, sono di sicuro alcuni dei film che indubbiamente hanno influenzato e ispirato Sorrentino e il suo lavoro. Lavoro, che è considerato innovativo dai i critici contemporanei.
Il film di Sorrentino, spesso, fa ritornare alla mente, in diversi momenti, le pellicole di Fellini, ma questo non vuol dire che sia un remake, o la brutta copia dei suoi film, come spesso è stato definito. Di seguito, è riportata l’analisi del confronto tra l’opera di Sorrentino e quelle di Fellini. Uno studio basato sulle analogie riscontrate tra le opere prese in esame, prendendo come punto di riferimento l’influenza cui è stata soggetta La grande bellezza e non in base alla loro prima proiezione nelle sale cinematografiche.
3.1.1 La dolce vita VS La grande bellezza
Uno tra i film, di Fellini, in cui si trova maggiore assonanza, indubbiamente è La dolce vita. Un film che ha segnato un cambiamento nel cinema del regista riminese. Una pellicola che è divenuta un nuovo punto di partenza per tutto il cinema italiano. I due cineasti condividono, nonostante la distanza di sessant’anni, un’idea di cinema come territorio di esplorazione visionaria e surreale. Sia ne La dolce vita che ne La grande bellezza ogni singolo particolare è significativo. Federico Fellini e Paolo Sorrentino non hanno lasciato nulla al caso durante la stesura delle loro opere, né tanto meno durante la loro messa in scena. Due registi che prima di cimentarsi nelle loro rispettive pellicole, si sono “spogliati” di tutto quello che li poteva coinvolgere nella composizione dell’opera cinematografica, così da immedesimarsi nello spettatore facendogli scoprire nuovi ambiti dell’animo umano. Entrambi hanno deciso di ritrarre Roma, la coprotagonista delle pellicole, sotto un profilo nuovo insolito, osservando non solo la città, ma soprattutto chi la vive. Roma è vista come da un turista ammaliato dalla città eterna. Un luogo in cui convivono la borghesia, il clero e la nobiltà, che si lascia trascinare dagli eventi, e dalla moda. I due cineasti mettono in scena la loro realtà contemporanea, una visione non così distante, nonostante La dolce vita ritrae la Roma del boom economico, mentre La grande bellezza quella decadente del nostro periodo. Una società che mescola il sacro con il profano che si perde e non riesce più a trovare la strada del ritorno. In entrambe le pellicole emerge una Roma di straripante grandiosità e malinconia, antica ma moderna, nobile ma volgare, solenne ma miseranda <2. Ne La dolce vita il regista rileva l’impossibilità e il fallimento dei propri personaggi di sperimentare una conversione. In questa pellicola si mette in scena uno spettacolo multiplo, l’espressione di una cultura onnivora con una grande fame arretrata di esperienze negate <3. Mentre Sorrentino si focalizza su un ambiente caratterizzato da scorci di personaggi e una babele di linguaggi diversi, in cui Jep si fa osservatore distaccato. Fellini nella sua opera mette in scena come un “diario notturno”, di un personaggio qualunque di mezza strada tra il gusto e il disgusto per l’ambiente in cui vive <4. I due protagonisti sono simili ma allo stesso tempo molto diversi. Poiché Marcello rappresenta un personaggio che fin da subito si mostra sensibile, e aspira ad una vita diversa. Si scorge già dalle prime scene il suo sentirsi inadatto alla realtà che lo circonda. Marcello cerca di attorniarsi da persone importanti della società “in” di Roma, alle quali vorrebbe cercare un aiuto che non possono dargli, finendo così a mescolarsi in un turbinio di gente cercando di capire chi è lui, e la strada da intraprendere. Ben diversa è la descrizione di Jep, fin dalle scene iniziali, è raffigurato come un cinico, come il re dei mondani.
Io non volevo essere, semplicemente, un mondano. Volevo diventare il re dei mondani. E ci sono riuscito. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire <5.
Il suo personaggio appare sicuro di sé, solo durante il film si scopre il lato sensibile e i dubbi che lo assalgono. I due film sono molto simili nella trama, ma anche nella concatenazione delle scene. Sia La dolce vita che La grande bellezza sono caratterizzati da un montaggio complesso, episodi a tratti frammentari che si alternano ad altri completi che balenano solitari e splendenti durante la pellicola. I diversi episodi hanno una funzione simbolica, che per Marcello rappresentano le vie offertegli per arrivare alla pace con sè stesso e con il mondo: ma sono tutte strade da cui non trova via di uscita. Differente per Jep che si ritrova a far i conti con il passato, riuscendo a riflettere e a ritrovare la sua sensibilità, che sembrava perduta.
Sono forti gli echi che richiamano al capolavoro degli anni Sessanta, anche in alcune scene. Rappresentativa la sequenza che inquadra la scala a chiocciola, in entrambe le pellicole, intimando nello spettatore un senso di vuoto e in ambedue i casi sono preludio di morte. Ne La dolce vita è ripresa poco prima della scoperta del suicidio di Steiner. Marcello sale di corsa questa scala tortuosa fino ad arrivare davanti alla porta di casa dell’amico di vecchia data. Una scena che segna una svolta nell’animo del protagonista che ritorna a smarrirsi. Anche ne La grande bellezza lo spettatore si trova di fronte alla stessa inquadratura, la scala ripresa dal basso, ma non c’è quella tensione che si percepisce nell’opera di Fellini. Anche in questo caso l’inquadratura segue una brutta notizia: la morte di Elisa, il grande amore di Jep Gambardella. Una scena inaspettata che vede il protagonista piangere come un bambino e lascia nello spettatore sbigottito e con un senso di vuoto interiore. Proprio da questa sequenza cambia la visione del pubblico nei confronti del protagonista, riemerge il suo lato umano, quello debole che ha cercato sempre di nascondere. Altre scene sembrano rifarsi alla pellicola di Fellini come ad esempio il circolo d’intellettuali a casa di Steiner, in cui erano presenti letterari, musicisti, gente che voleva cambiare il mondo stando comodamente seduti a discutere nei salotti. Così anche Sorrentino propone il suo “cenacolo”, ma non più formato da letterari, ma dalla gente mondana di Roma che discute del più e del meno, finendo a parlare di cose vacue, pettegolezzi, sciocchezzuole <6, consapevoli delle loro fragilità e debolezze. Punti in comune che non si limitano solo ai temi delle scene, ma anche nella realizzazione delle inquadrature. Infatti, sia nell’opera di Fellini che quella di Sorrentino, sono presenti dei quadri molto simili. Tra tutte, la falsa soggettiva è forse quella più significativa. Infatti, tutti e due i registi, hanno deciso di utilizzare questa inquadratura, per sottolineare un momento clou del film. Ne La dolce vita è adoperata nel momento in cui Marcello con Emma entra per la prima volta a casa Steiner. Un episodio che immette il protagonista in un ambiente da lui sempre ammirato, ma che ben presto scoprirà pieno di vacuità. Mentre Sorrentino si avvale della scelta di una falsa soggettiva, per rendere più efficace l’azione introspettiva nei confronti del protagonista. La scena si svolge all’interno del Chiostro del Bramante, in cui si sente la voce di una bambina che domanda a Jep chi è, e la sua stessa risposta che gli dice che è nessuno. Un episodio che colpisce l’animo del protagonista.
I due film hanno in comune un tipo di linguaggio cinematografico sontuoso e barocco. Una scelta che evidenza ancora di più tutte le bellezze di Roma, i luoghi principali visitati dai turisti, ma anche Via Veneto, una delle vie maggiormente frequentate dalla società mondana. Un’ambientazione questa, che, più volte, ha posto i due colossi del cinema italiano come il primo continuazione dell’altro. In realtà, nei due film sembrano due vie completamente diverse. Ne La dolce vita è raffigurata una strada piena di gente importante, dove da un lato sono presenti i vip e dall’altro i giornalisti e i fotografi pronti a immortalare una rissa, o un bacio rubato. Uno scenario che non combacia con quello presente ne La grande bellezza. La scena riprende Jep mentre cammina solo con le mani dietro la schiena osservando le vetrine dei locali e una limousine con gente altolocata della società romana, accompagnata da delle escort.
Una sostanziale differenza tra i due registi sta nell’idea di realizzazione dell’opera. Fellini basa i suoi racconti per lo più su eventi realmente accaduti che danno vera testimonianza del mondo che lo circonda, di un’Italia a volte soprafatta dal boom economico. Mentre con La grande bellezza ci troviamo di fronte a un’opera del tutto immaginata dove ogni singolo personaggi, ogni episodio è stato studiato nei dettagli, arrivando quasi a esasperare la situazione e la realtà che lo circonda. È evidente come ambedue i registi hanno deciso di dare un ritratto agrodolce, ma essenzialmente comicheggiante della vita “in” del loro tempo. Non hanno tralasciato nulla al caso e ciò si nota anche nella cura dei dettagli, dalla stravaganza e dalla particolarità degli abiti indossati dalle protagoniste femminili. Basti pensare all’abito talare di Anita Ekberg e al soprabito di Sabrina Ferilli con un ampio rivolto che le fascia il collo e avvolge parte della testa.
In conclusione si può affermare che La dolce vita è il manifesto di quella che si potrebbe chiamare “la seconda liberazione”, contrassegnata agli inizi degli anni Sessanta, che rifiuta ogni schema moralistico nel giudicare eventi e personaggi. Una scelta simile viene sviluppata da Sorrentino, poiché anche lui volge lo sguardo alla vuotezza su cui si basa la società borghese di oggi.
[NOTE]
2 F. Vigni, La maschera, il potere, la solitudine. Il cinema di Paolo Sorrentino, Firenze, Aska, 2014, p. 204.
3 T. Kezich, Federico Fellini, la vita e i film, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 202.
4 Ivi, p. 200.
5 P. Sorrentino, U. Contarello, La grande bellezza, Milano, Skira, 2013, p. 60.
6 Ivi, p. 78.
Melania Abbate, Dalla Roma di Fellini a quella de La grande bellezza di Paolo Sorrentino, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, 2018