Questa mattina M., finalmente trovato di persona e da me interpellato in proposito del professore Raffaello Monti, mi racconta di un'importante assemblea pubblica sull'obiezione di coscienza, avvenuta a Bordighera nei primi anni '60 con l'intervento di Aldo Capitini, grande figura di cattolico pacifista. E con un lungo telegramma di Bertrand Russel, dispiaciuto di non poter intervenire. L'iniziativa ebbe luogo nella Chiesa Anglicana della Città delle Palme, allora aperta al culto. Con l'autorizzazione del Vescovo di Malta, da cui dipendeva quel luogo ancora sacro. Il meeting era stato organizzato dall'Unione Culturale Democratica, di cui era presidente il professore Monti, artefice, anche in virtù dei suoi profondi legami con Capitini, della sopradetta manifestazione. Di quest'ultimo, di cui ho già parlato, cercavo e cerco ulteriori notizie, perché per un caso straordinario e significativo a seguito di quel mio post sono entrato in contatto telefonico con la figlia, che mi ha esortato a parlare ancora di suo padre, soprattutto in riferimento alla sua frequentazione con Capitini: il che io traduco soprattutto nel sollecitare vecchi amici della famiglia Monti, in Bordighera e dintorni, a riunire memorie e documenti dell'attività svolta in questa zona, da ultimo anche nel pensare a qualcuno veramente esperto di penna per stendere note importanti in proposito.
In sostanza, qualcosa che ho scritto già qui sul blog ha avuto sviluppi, anche imprevisti, incrociando, inoltre, altre trame.
Un punto riassuntivo potrebbe essere il già da me citato Bar Irene di Ventimiglia dei primi anni '70, che di recente mi torna in ballo anche per aspetti banali, ma che molti collaboratori locali del professore Monti hanno conosciuto bene.
Come l'ha conosciuto bene N., da anni, come ne scrissi tempo fa, emigrato nelle vicinanze di Milano, con cui, finalmente, dopo due fugaci occasioni, ho potuto avere qualche giorno fa una lunga e proficua discussione, come quelle di una volta: sembrava proprio ci fossimo lasciati l'altro giorno, forse perché, come dice, esplicitandomi il senso di una battuta di un mio ex-compagno di scuola, il mio anonimo dotto eremita della collina, quando si cresce insieme rimane un elevato grado comune di confidenza.
N., che ritrovo come sempre colto ed acuto osservatore, in più temprato anche dalle importanti vicende culturali di una vecchia Milano, che ha avuto l'opportunità di vivere, quella della Casa della Cultura, per intenderci, ha di quel Bar Irene più in mente, o a cuore, in questo momento, se ho capito bene nell'enfasi di un cimento peripatetico interrotto da continui rimandi, persone anche dalla vita pittoresca, che credo di avere individuato anche in un pezzo di notevole pregio stilistico di un altro nostro conoscente, pezzo che prima o poi mi devo decidere a pubblicare qui.
Solo che a quel Bar era lui soprattutto, N., quello che faceva interminabili discussioni con Francesco Biamonti, come a suo tempo io devo aver messo in quella mia sintesi di quella storia, per noi ed altri, così importante. Non per niente una parte del tempo passato insieme l'altro giorno l'abbiamo speso a vedere a Bordighera la Mostra fotografica di Ario Calvini "Tra gli ulivi con Francesco Biamonti".
L'incontro con N. - che non ha conosciuto, tuttavia, il professore Monti - mi fa, dunque, da traccia per schemi di vecchie narrazioni che dovrei arricchire, ma, prima di proseguire almeno per una parte qui, aggiungo che altri spunti mi sono stati da lui forniti, soprattutto con alcune sue fotografie ed alcune impeccabili riflessioni consegnatemi subito dopo via email: mi auguro solo che vada ad aprire presto il blog di cui mi ha detto in termini ancora di vaga idea.
Avevo già saputo che il mio amico d'infanzia, cui sono debitore di tanti insegnamenti relativi alla storia, aveva presentato a Ventimiglia, verso il termine del lungo periodo in cui io mi ero trovato praticamente relegato a Sanremo, il bel romanzo di N., su cui l'autore mi ha pregato per il momento di tergiversare. Ma N., dalla robusta, differentemente dalla mia, memoria, mi viene a sottolineare l'esperienza per tutti noi giovanile di un Cineforum, condotto presso il Dopolavoro Ferrovieri di Ventimiglia, nel corso della quale, ad esempio, il nostro vecchio sodale, oggi ormai ben piazzato a Seborga (e che mi ha confermato la circostanza), procedette, con la sua sempreverde foga, a difendere le opinioni altrui, comunque espresse.
Di N. dovrò dire altro ancora, come preannunciato, non fosse altro che per ricordare altre persone, alcune veramente care, da ricondurre alle comuni trame, ma aggiungo due argomenti che in qualche modo lo collegano a mie pregresse storie. Di quanto pertinente a "Far West di Ponente" l'ho maggiormente informato io, non sapendo lui ad esempio del romanzo di Elio Lanteri, che bene conoscemmo da giovani, ma su alcuni aspetti, sempre via email, mi ha già fornito suoi giudizi critici. E non potevo dubitare che, avendo conosciuto Nico Orengo, N. rammentasse all'autore de "La curva del Latte" che, certo anni dopo quell’ambientazione storica, nella campagna condotta dal protagonista lui, prima di diventare a costo di grandi studi e di pesanti sacrifici un importante dirigente in due diversi comuni dell’hinterland milanese, ci avesse lavorato da bracciante, ricavandone anche il ritratto affettuoso del figlio reale di quel personaggio, figlio cui Orengo, particolare a me sfuggito, aveva dedicato un'altra opera.
Ma su Orengo, una cui recente parziale rilettura mi ha aperto altre strade da indagare, termino questa prolissa esposizione.