Protetto dai servizi segreti americani, il capitano delle SS Klaus Barbie capo della sezione IV della Gestapo di Lione dal 1942 al 1944, condannato in contumacia nel 1952 e nel 1954 per crimini di guerra, era riparato in Bolivia dove, nel 1971, era finalmente scoperto da Beate Klarsfeld che premette affinché le autorità francesi, che conoscevano il nascondiglio dell’ex nazista fin dal 1963, ne domandassero l’estradizione. Fu solo nel 1983, grazie al cambiamento politico boliviano che aveva portato la sinistra al potere nel 1981, che la Bolivia acconsentì alla richiesta della Francia dove l’affaire Barbie, con la sua carica emotiva e cerimoniale, entrava subito nel registro del simbolico col trasferimento dell’imputato a Lione nella prigione di Montluc, luogo in cui erano avvenuti i crimini di cui era accusato.
Con l’elezione di François Mitterrand, il Paese aveva infatti conosciuto una nuova impennata della tradizione resistenziale che si esprimeva anche con il desiderio manifesto di un potere politico di offrire alla memoria collettiva un momento eccezionale come il giudizio che di lì a poco sarebbe stato portato contro Klaus Barbie, simbolo della barbarie nazista e della morte di Jean Moulin. <866 Lo Stato francese intendeva dunque, in nome di un impossibile oblio, offrire alle nuove generazioni una vera lezione di storia, sulla scia di quanto era avvenuto in Israele negli anni Sessanta con il processo Eichmann.
Questo l’avviso di numerosi ex resistenti e deportati che, con Simone Veil, condividevano il desiderio di un processo pedagogico, <867 senza intravedere gli effetti incontrollabili che si sarebbero presto manifestati e il cui innesco si trovava al cuore stesso dell’evento: gli otto capi di imputazione ritenuti contro Barbie riguardavano l’arresto, la tortura o la deportazione di civili, in particolare ebrei, mentre le imputazioni per i delitti commessi contro i resistenti, dunque combattenti volontari, erano interpretati, in osservanza a quanto decretato dal tribunale di Norimberga, come crimini di guerra e pertanto caduti in prescrizione.
La giustizia francese non considerava quindi la morte di Jean Moulin come parte del dibattito giudiziario e l’eventuale condanna di colui che aveva assassinato il martire nazionale sarebbe stata pronunciata nel nome di una memoria che si stava allora risvegliando e che a lungo era rimasta nell’ombra di quella resistenziale: la memoria della Shoah. <868 Ed è proprio in questa fase che la strategia di rottura <869 ideata dall’avvocato Vergès nel corso della sua carriera fa esplodere un conflitto tra giustizia e storia che sarebbe anche potuto rimanere latente. Qualche giorno dopo aver assunto la difesa di Barbie, Vergès dichiarava, infatti, che l’ex ufficiale nazista era entrato nella storia della Francia per aver arrestato Jean Moulin rigettando l’esclusione dell’«affaire Moulin» dal dibattimento a causa della definizione di crimine contro l’umanità che, per l’avvocato, poteva benissimo essere applicata anche per questo delitto che chiamava in causa il modo in cui Moulin era stato consegnato ai tedeschi, ovvero in virtù del tradimento dei compagni di lotta. <870
Vergès portava così il suo attacco alla memoria della Resistenza che non solo era stata esclusa dal processo, ma doveva anche cedere il terreno a un avvocato provocatore che utilizzava, con una modalità scandalistica, un argomento sensibile nell’opinione pubblica riacutizzando vecchie polemiche sulla compattezza del movimento. E lo faceva pubblicando "Pour en finir avec Ponce Pilate", millantando l’esistenza di documenti segreti che avrebbero confermato il tradimento ai danni di Jean Moulin. <871 Non si trattava certo di una rivelazione. Da più di quarant’anni si sapeva, infatti, che Moulin era stato tradito, ma i sospetti erano stati rivolti principalmente contro René Hardy, considerato da numerosi resistenti, malgrado i non-luoghi a procedere della giustizia, l’«uomo che aveva tradito». <872
Di fatto, negli anni precedenti il processo, la memoria della Resistenza era stata oggetto di attacchi sistematici in cui il fattore ideologico, determinato da una condanna senza sfumature del comunismo, aveva avuto un ruolo decisivo. <873 I resistenti reagirono alle provocazioni di Barbie con dichiarazioni, testimonianze e pubblicazioni. Anche René Hardy, l’«uomo che aveva tradito», prese la parola per mettere in discussione, nelle sue memorie, Raymond Aubrac. <874 Accuse che rinnovava nel film di Claude Bal Que la vérité est amère, offrendo a Vergès l’occasione di indirizzare i sospetti verso gli Aubrac che ottennero una condanna per diffamazione. <875 È a questo punto che Lucie Aubrac decise di reagire pubblicando un testo che sarebbe presto divenuto un elemento importante della controversia. La stessa esigenza di ristabilire la verità storica minacciata da Vergès portò Henri Noguère, che si sentiva chiamato in causa in quanto resistente e in quanto storico, a intervenire nel dibattito. Ciò che maggiormente lo avevo turbato non erano però le manovre diversive dell’avvocato di Barbie, che da sole non avrebbero giustificato una discussione storica, quanto la complicità di Hardy nella costruzione delle menzogne di Vergès con la sua partecipazione al film di Bal e la pubblicazione delle sue memorie. <876
Frattanto una decisione storica rivedeva, nel 1985, il concetto di crimini contro l’umanità e stabiliva che Barbie dovesse rispondere, oltre che delle precedenti imputazioni, di altri tre capi d’accusa, tra i sei di cui si era macchiato contro i resistenti, che per la particolare natura finivano col rientrare non più nei “semplici” crimini di guerra, ma nel quadro di una politica di egemonia ideologica di cui Barbie era stato un esecutore. Decisione che, se da un lato soddisfaceva alcuni, lasciava completamente scontenti altri.
Mentre Henri Noguère si felicitava per la possibilità che Barbie fosse giudicato anche per i crimini commessi contro i resistenti, <877 Serge Klarsfeld intravedeva invece nell’estensione del concetto di crimine contro l’umanità solo un modo per attenuare la specificità dei delitti compiuti contro gli ebrei così com’era delineata dai redattori della carta di Norimberga. <878 Vergès era perciò stato particolarmente abile nell’insinuarsi tra le incrinature della memoria collettiva dei francesi riuscendo a dar vita a un conflitto che avrebbe avuto inevitabilmente delle ricadute sulla portata pedagogica del processo. <879 Un processo che si prestava a divenire la scena in cui i conflitti del passato tornavano ad affrontarsi condizionando la lettura del presente. Da parte sua, Vergès desiderava processare Francia per crimini, specie quelli coloniali, che non gli sembravano meno gravi di quelli nazisti. <880 Lo stesso Barbie era solo una pedina in una battaglia in cui la posta in gioco non era, per l’avvocato, la condanna del nazismo e la memoria della Shoah, ma la dimostrazione della scarsa moralità di un intero Paese e in particolar modo di una Repubblica fondata su un mito, quello resistenziale, che si era rivelato corrotto. Ecco che allora l’accusato si trasformava in accusatore. <881
L’11 maggio 1987 aveva inizio la prima delle trentasette udienze che si conclusero il 3 luglio, dopo otto settimane, con un verdetto di colpevolezza per diciassette capi di imputazione. <882 Le tanto attese rivelazioni sul tradimento di Jean Moulin restarono insoddisfatte e riemersero solo negli anni Novanta. Il 4 luglio 1990, Vergès consegnava infatti al giudice Hamy, che avrebbe dovuto istruire un altro processo contro Barbie per l’assassinio di Bruno Larat, arrestato con Jean Moulin a Caluire, un memorandum di sessantatré pagine, in seguito ribattezzate testamento di Klaus Barbie. L’istruzione non ebbe luogo a causa della morte dell’imputato il 25 settembre 1991, ma il testamento cominciò a circolare nelle sale di redazione diffondendo l’ultima infamante accusa dell’ex ufficiale nazista: Raymond Aubrac, con l’aiuto della moglie Lucie, era il diretto responsabile dell’arresto di Jean Moulin. <883
Barbie, che non si era mai pentito per i suoi delitti, aveva tre buoni motivi per odiare gli Aubrac. Prima di tutto, il ruolo avuto da Raymond nella sua identificazione in un filmato realizzato dal giornalista Ladislas de Hoyos quando Beate Klarsfeld lo scovò in Bolivia nel 1972 e poi il fatto che la sua più cocente sconfitta gli era stata inflitta da una donna, Lucie Aubrac, che gli aveva sottratto non solo un nemico politico, ma soprattutto un ebreo (il vero cognome è Samuel, mentre Aubrac è una delle identità utilizzate durante la Resistenza e mantenuta anche dopo la guerra). <884
Fu in quel momento che Aubrac domandò per la prima volta la costituzione di una commissione di storici, specialisti della Seconda Guerra Mondiale, che avrebbe dovuto far chiarezza sulle insinuazioni di Barbie/Vergès mettendo fine alle calunnie. <885
[NOTE]
866 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., pp.229-231.
867 Dominique Gerbaud, Simone Veil: Faire le procès de l’idéologie plus que de l’homme, «La Croix», 8 février 1983.
868 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., pp.234-235.
869 Jacques Vergès, Strategia del processo politico, Einaudi, Torino, 1969. Per Vergès, la distinzione fondamentale che determina lo stile del processo penale è l’atteggiamento dell’accusato di fronte all’ordine pubblico. Se lo accetta, il processo è possibile e l’accusato spiega il proprio comportamento; se lo rifiuta l’apparato giudiziario si disintegra (Ibidem, p.15) ed è ciò che ha cercato di fare con il processo a Klaus Barbie il quale si dichiarava ostaggio non riconoscendo alla corte francese il diritto di giudicarlo. Barbie, nella strategia di Vergès, era un cittadino boliviano illegalmente detenuto in Francia e giudicato, grazie a una legge retroattiva inesistente al momento dei fatti contestati, per crimini risalenti a quarant’anni prima e dunque prescritti. In uno Stato di diritto, il processo Barbie sarebbe stato perciò impossibile. Cfr. Jacques Vergès, Je défends Barbie, Jean Picollel, Paris, 1988, pp.11-12. Per Claude Lanzmann, il vero accusato del processo è Jacques Vergès e non Klaus Barbie il quale, nella difesa di rottura del suo avvocato finisce per essere lui stesso una pedina nello spettacolare processo nel quale Vergès chiama in causa la Francia per crimini, ai suoi occhi, paragonabili a quelli del nazismo. Vergès, che ha scelto Barbie e non è stato scelto da Barbie che all’inizio della vicenda giudiziaria aveva un altro avvocato, non sarebbe per Lanzmann un difensore senza accusato, ma un accusato senza difensore. Cfr. Entretien avec Claude Lanzmann, Le masochisme de Vergès, in Bernard-Henri Lévy (a cura di), Archives d’un procès. Klaus Barbie, Globe, 1986, p.189.
870 Jacques Vergès, Étienne Bloch, La face cachée du procès Barbie, Samuel Tastet éditeur, 1983, p.16. 871 Jacques Vergès, Pour en finir avec Ponce Pilate, Le Pré aux clercs, Paris, 1983.
872 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., p.239.
873 Alexandre Adler, L’histoire à l’estomac, «Le Monde», 15 novembre 1996.
874 René Hardy, Derniers mots, Fayard, Paris, 1984.
875 Laurent Douzou, Lucie Aubrac, Perrin, Paris, 2012, p.249.
876 Henri Noguère, La vérité aura le dernier mot, Seuil, Paris, 1985, pp.11-13.
877 Henri Noguère, Les victimes et les bourreaux, «Le Monde», 3 janvier 1986.
878 Serge Klarsfeld, L’affaire Barbie. Serge Klarsfeld répond à Henri Noguères, «Le Monde», 15 janvier 1986.
879 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., pp.240-241.
880 Jean Edern Hallier, prefazione a J. Vergès, Je défends Barbie, op. cit., pp.VII-VIII.
881 Donald Reid, Resistance and Its Discontents: Affairs, Archives, Avowal, and the Aubracs, «The Journal of Modern History», n°77, March 2005, pp.97-137, p.106.
882 B. H. Lévy, Archives d’un procès. Klaus Barbie, op. cit., p.375.
883 L. Douzou, Lucie Aubrac, op. cit., pp.252-254.
884 François Delpla, Aubrac, les faits et la calomnie, Le temps des Cerises, 1997, p.27.
885 Pascal Convert, Raymond Aubrac. Résister, reconstruire, transmettre, Seuil, Paris, 2011, pp.625-626.
Frida Bertolini, Il ruolo e la funzione del falso nella storia della Shoah. Storici, affaires e opinione pubblica, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, in cotutela con l'Università Parigi X Nanterre, 2012
Con l’elezione di François Mitterrand, il Paese aveva infatti conosciuto una nuova impennata della tradizione resistenziale che si esprimeva anche con il desiderio manifesto di un potere politico di offrire alla memoria collettiva un momento eccezionale come il giudizio che di lì a poco sarebbe stato portato contro Klaus Barbie, simbolo della barbarie nazista e della morte di Jean Moulin. <866 Lo Stato francese intendeva dunque, in nome di un impossibile oblio, offrire alle nuove generazioni una vera lezione di storia, sulla scia di quanto era avvenuto in Israele negli anni Sessanta con il processo Eichmann.
Questo l’avviso di numerosi ex resistenti e deportati che, con Simone Veil, condividevano il desiderio di un processo pedagogico, <867 senza intravedere gli effetti incontrollabili che si sarebbero presto manifestati e il cui innesco si trovava al cuore stesso dell’evento: gli otto capi di imputazione ritenuti contro Barbie riguardavano l’arresto, la tortura o la deportazione di civili, in particolare ebrei, mentre le imputazioni per i delitti commessi contro i resistenti, dunque combattenti volontari, erano interpretati, in osservanza a quanto decretato dal tribunale di Norimberga, come crimini di guerra e pertanto caduti in prescrizione.
La giustizia francese non considerava quindi la morte di Jean Moulin come parte del dibattito giudiziario e l’eventuale condanna di colui che aveva assassinato il martire nazionale sarebbe stata pronunciata nel nome di una memoria che si stava allora risvegliando e che a lungo era rimasta nell’ombra di quella resistenziale: la memoria della Shoah. <868 Ed è proprio in questa fase che la strategia di rottura <869 ideata dall’avvocato Vergès nel corso della sua carriera fa esplodere un conflitto tra giustizia e storia che sarebbe anche potuto rimanere latente. Qualche giorno dopo aver assunto la difesa di Barbie, Vergès dichiarava, infatti, che l’ex ufficiale nazista era entrato nella storia della Francia per aver arrestato Jean Moulin rigettando l’esclusione dell’«affaire Moulin» dal dibattimento a causa della definizione di crimine contro l’umanità che, per l’avvocato, poteva benissimo essere applicata anche per questo delitto che chiamava in causa il modo in cui Moulin era stato consegnato ai tedeschi, ovvero in virtù del tradimento dei compagni di lotta. <870
Vergès portava così il suo attacco alla memoria della Resistenza che non solo era stata esclusa dal processo, ma doveva anche cedere il terreno a un avvocato provocatore che utilizzava, con una modalità scandalistica, un argomento sensibile nell’opinione pubblica riacutizzando vecchie polemiche sulla compattezza del movimento. E lo faceva pubblicando "Pour en finir avec Ponce Pilate", millantando l’esistenza di documenti segreti che avrebbero confermato il tradimento ai danni di Jean Moulin. <871 Non si trattava certo di una rivelazione. Da più di quarant’anni si sapeva, infatti, che Moulin era stato tradito, ma i sospetti erano stati rivolti principalmente contro René Hardy, considerato da numerosi resistenti, malgrado i non-luoghi a procedere della giustizia, l’«uomo che aveva tradito». <872
Di fatto, negli anni precedenti il processo, la memoria della Resistenza era stata oggetto di attacchi sistematici in cui il fattore ideologico, determinato da una condanna senza sfumature del comunismo, aveva avuto un ruolo decisivo. <873 I resistenti reagirono alle provocazioni di Barbie con dichiarazioni, testimonianze e pubblicazioni. Anche René Hardy, l’«uomo che aveva tradito», prese la parola per mettere in discussione, nelle sue memorie, Raymond Aubrac. <874 Accuse che rinnovava nel film di Claude Bal Que la vérité est amère, offrendo a Vergès l’occasione di indirizzare i sospetti verso gli Aubrac che ottennero una condanna per diffamazione. <875 È a questo punto che Lucie Aubrac decise di reagire pubblicando un testo che sarebbe presto divenuto un elemento importante della controversia. La stessa esigenza di ristabilire la verità storica minacciata da Vergès portò Henri Noguère, che si sentiva chiamato in causa in quanto resistente e in quanto storico, a intervenire nel dibattito. Ciò che maggiormente lo avevo turbato non erano però le manovre diversive dell’avvocato di Barbie, che da sole non avrebbero giustificato una discussione storica, quanto la complicità di Hardy nella costruzione delle menzogne di Vergès con la sua partecipazione al film di Bal e la pubblicazione delle sue memorie. <876
Frattanto una decisione storica rivedeva, nel 1985, il concetto di crimini contro l’umanità e stabiliva che Barbie dovesse rispondere, oltre che delle precedenti imputazioni, di altri tre capi d’accusa, tra i sei di cui si era macchiato contro i resistenti, che per la particolare natura finivano col rientrare non più nei “semplici” crimini di guerra, ma nel quadro di una politica di egemonia ideologica di cui Barbie era stato un esecutore. Decisione che, se da un lato soddisfaceva alcuni, lasciava completamente scontenti altri.
Mentre Henri Noguère si felicitava per la possibilità che Barbie fosse giudicato anche per i crimini commessi contro i resistenti, <877 Serge Klarsfeld intravedeva invece nell’estensione del concetto di crimine contro l’umanità solo un modo per attenuare la specificità dei delitti compiuti contro gli ebrei così com’era delineata dai redattori della carta di Norimberga. <878 Vergès era perciò stato particolarmente abile nell’insinuarsi tra le incrinature della memoria collettiva dei francesi riuscendo a dar vita a un conflitto che avrebbe avuto inevitabilmente delle ricadute sulla portata pedagogica del processo. <879 Un processo che si prestava a divenire la scena in cui i conflitti del passato tornavano ad affrontarsi condizionando la lettura del presente. Da parte sua, Vergès desiderava processare Francia per crimini, specie quelli coloniali, che non gli sembravano meno gravi di quelli nazisti. <880 Lo stesso Barbie era solo una pedina in una battaglia in cui la posta in gioco non era, per l’avvocato, la condanna del nazismo e la memoria della Shoah, ma la dimostrazione della scarsa moralità di un intero Paese e in particolar modo di una Repubblica fondata su un mito, quello resistenziale, che si era rivelato corrotto. Ecco che allora l’accusato si trasformava in accusatore. <881
L’11 maggio 1987 aveva inizio la prima delle trentasette udienze che si conclusero il 3 luglio, dopo otto settimane, con un verdetto di colpevolezza per diciassette capi di imputazione. <882 Le tanto attese rivelazioni sul tradimento di Jean Moulin restarono insoddisfatte e riemersero solo negli anni Novanta. Il 4 luglio 1990, Vergès consegnava infatti al giudice Hamy, che avrebbe dovuto istruire un altro processo contro Barbie per l’assassinio di Bruno Larat, arrestato con Jean Moulin a Caluire, un memorandum di sessantatré pagine, in seguito ribattezzate testamento di Klaus Barbie. L’istruzione non ebbe luogo a causa della morte dell’imputato il 25 settembre 1991, ma il testamento cominciò a circolare nelle sale di redazione diffondendo l’ultima infamante accusa dell’ex ufficiale nazista: Raymond Aubrac, con l’aiuto della moglie Lucie, era il diretto responsabile dell’arresto di Jean Moulin. <883
Barbie, che non si era mai pentito per i suoi delitti, aveva tre buoni motivi per odiare gli Aubrac. Prima di tutto, il ruolo avuto da Raymond nella sua identificazione in un filmato realizzato dal giornalista Ladislas de Hoyos quando Beate Klarsfeld lo scovò in Bolivia nel 1972 e poi il fatto che la sua più cocente sconfitta gli era stata inflitta da una donna, Lucie Aubrac, che gli aveva sottratto non solo un nemico politico, ma soprattutto un ebreo (il vero cognome è Samuel, mentre Aubrac è una delle identità utilizzate durante la Resistenza e mantenuta anche dopo la guerra). <884
Fu in quel momento che Aubrac domandò per la prima volta la costituzione di una commissione di storici, specialisti della Seconda Guerra Mondiale, che avrebbe dovuto far chiarezza sulle insinuazioni di Barbie/Vergès mettendo fine alle calunnie. <885
[NOTE]
866 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., pp.229-231.
867 Dominique Gerbaud, Simone Veil: Faire le procès de l’idéologie plus que de l’homme, «La Croix», 8 février 1983.
868 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., pp.234-235.
869 Jacques Vergès, Strategia del processo politico, Einaudi, Torino, 1969. Per Vergès, la distinzione fondamentale che determina lo stile del processo penale è l’atteggiamento dell’accusato di fronte all’ordine pubblico. Se lo accetta, il processo è possibile e l’accusato spiega il proprio comportamento; se lo rifiuta l’apparato giudiziario si disintegra (Ibidem, p.15) ed è ciò che ha cercato di fare con il processo a Klaus Barbie il quale si dichiarava ostaggio non riconoscendo alla corte francese il diritto di giudicarlo. Barbie, nella strategia di Vergès, era un cittadino boliviano illegalmente detenuto in Francia e giudicato, grazie a una legge retroattiva inesistente al momento dei fatti contestati, per crimini risalenti a quarant’anni prima e dunque prescritti. In uno Stato di diritto, il processo Barbie sarebbe stato perciò impossibile. Cfr. Jacques Vergès, Je défends Barbie, Jean Picollel, Paris, 1988, pp.11-12. Per Claude Lanzmann, il vero accusato del processo è Jacques Vergès e non Klaus Barbie il quale, nella difesa di rottura del suo avvocato finisce per essere lui stesso una pedina nello spettacolare processo nel quale Vergès chiama in causa la Francia per crimini, ai suoi occhi, paragonabili a quelli del nazismo. Vergès, che ha scelto Barbie e non è stato scelto da Barbie che all’inizio della vicenda giudiziaria aveva un altro avvocato, non sarebbe per Lanzmann un difensore senza accusato, ma un accusato senza difensore. Cfr. Entretien avec Claude Lanzmann, Le masochisme de Vergès, in Bernard-Henri Lévy (a cura di), Archives d’un procès. Klaus Barbie, Globe, 1986, p.189.
870 Jacques Vergès, Étienne Bloch, La face cachée du procès Barbie, Samuel Tastet éditeur, 1983, p.16. 871 Jacques Vergès, Pour en finir avec Ponce Pilate, Le Pré aux clercs, Paris, 1983.
872 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., p.239.
873 Alexandre Adler, L’histoire à l’estomac, «Le Monde», 15 novembre 1996.
874 René Hardy, Derniers mots, Fayard, Paris, 1984.
875 Laurent Douzou, Lucie Aubrac, Perrin, Paris, 2012, p.249.
876 Henri Noguère, La vérité aura le dernier mot, Seuil, Paris, 1985, pp.11-13.
877 Henri Noguère, Les victimes et les bourreaux, «Le Monde», 3 janvier 1986.
878 Serge Klarsfeld, L’affaire Barbie. Serge Klarsfeld répond à Henri Noguères, «Le Monde», 15 janvier 1986.
879 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., pp.240-241.
880 Jean Edern Hallier, prefazione a J. Vergès, Je défends Barbie, op. cit., pp.VII-VIII.
881 Donald Reid, Resistance and Its Discontents: Affairs, Archives, Avowal, and the Aubracs, «The Journal of Modern History», n°77, March 2005, pp.97-137, p.106.
882 B. H. Lévy, Archives d’un procès. Klaus Barbie, op. cit., p.375.
883 L. Douzou, Lucie Aubrac, op. cit., pp.252-254.
884 François Delpla, Aubrac, les faits et la calomnie, Le temps des Cerises, 1997, p.27.
885 Pascal Convert, Raymond Aubrac. Résister, reconstruire, transmettre, Seuil, Paris, 2011, pp.625-626.
Frida Bertolini, Il ruolo e la funzione del falso nella storia della Shoah. Storici, affaires e opinione pubblica, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, in cotutela con l'Università Parigi X Nanterre, 2012