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giovedì 16 ottobre 2025

A cavallo del confine ligure con la Francia nel 1939

Ventimiglia (IM): la stazione ferroviaria

A lungo nel 1939 un uomo, nella bella stagione vestito con un abito di lino chiaro, sostava sull'ingresso dell'albergo dove alloggiava, posto davanti alla stazione ferroviaria di Ventimiglia.
La tradizione orale lo ha identificato con una delle persone che organizzavano a pagamento in quel periodo - ma costui con maggiore energia, perché per lo più con una piccola flottiglia di barche a motore appositamente allestita - viaggi clandestini verso la Francia di ebrei stranieri, cacciati dall'Italia dalle leggi "razziali" del regime fascista, il quale spesso tollerava tali fughe: questi fatti sono stati puntualmente rievocati da Paolo Veziano sia in "Ombre di confine: l'emigrazione clandestina degli ebrei stranieri dalla Riviera dei fiori verso la Costa Azzurra. 1938-1940 (Alzani, 2001) che in "Ombre al confine. L’espatrio clandestino degli Ebrei dalla Riviera dei Fiori alla Costa Azzurra. 1938-1940" (Fusta, 2014).

Nei primi mesi del 1939 Rachele Zitomirski, di famiglia ebrea russa, ricevette l'abilitazione ad esercitare la professione di farmacista, come il padre, che da tempo la farmacia l'aveva aperta in Vallecrosia.

Zitomirski padre, lo scienziato Serge Voronoff da Grimaldi e il commerciante Ettore Bassi da Ventimiglia centro, tutti ebrei, erano molto attivi, sostenendole anche con contributi in danaro, con le organizzazioni di soccorso ai profughi ebrei Delasem (Delegazione assistenza emigranti) ed il precedente Comasebit, poi sciolto d'autorità.

Francesco Biamonti, ancora bambino, se non vide, in quell'anno, sentì parlare di ebrei fuggiaschi in transito dalla zona intemelia, ma ne fece con i fratelli esperienza diretta in collina sopra San Biagio della Cima, il loro paese, negli anni ancora più tremendi della seconda guerra mondiale: avrebbe poi scolpito nei suoi romanzi quelle tragiche vicende con parole memorabili.

Nel 1939 continuavano a passare la frontiera di Ventimiglia con la Francia, in una direzione e nell'altra, anche esuli politici o loro familiari, seppure in numero ridotto rispetto agli anni precedenti. Non sempre in regola con i documenti, anche tra di loro furono numerosi i fermi e gli arresti. A prescindere - va da sé - dai clandestini per necessità.

Viene festeggiata l'elezione a deputato di Virgile Barel: Victoire du Front Populaire: défilé du Parti Communiste, section Nice-Saint-Roch. Laugier Charles. Reporter-Photographe, 8 avenue Félix-Faure, Nice (1936). Archives Nice Côte d’Azur, 3 Fi 9

L'8 ottobre 1939 veniva arrestato a Nizza nella sua abitazione di Piazza Saluzzo, in conseguenza - con lo scoppio della seconda guerra mondiale - della messa fuori legge del suo partito, il deputato comunista Virgile Barel, già impegnato nell'assistenza ai fuggiaschi ebrei riusciti ad arrivare nel dipartimento con la sezione locale del Comitato denominato in acronimo CAR (sulla cui ampiezza in territorio nazionale si potrebbe leggere, in francese, di Vicki Caron "Les politiques de la frustration: le renouveau de l’effort juif de secours. 1936-1940)": si ha contezza di questo per uno dei paradossi della storia, in base al quale una lettera di questo sodalizio datata 5 dicembre 1939, pubblicata dal citato "Ombre di confine" di Paolo Veziano, annoverava ancora Barel nel Comitato d'Onore allorquando era già incarcerato. Si può annotare brevemente a margine che Barel fu maestro elementare - che seguiva una pedagogia innovativa e progressista - del futuro comandante partigiano imperiese Giuseppe Vittorio Guglielmo (Vittò), che non ne dimenticò mai gli insegnamenti morali; che fu alla fine degli anni Venti diffusore de "La Riscossa", periodico in lingua italiana, che i nostri emigrati comunisti non distribuivano più per non incappare, loro stranieri, nei controlli di polizia; che il figlio Max Barel, cui è intestata una piazza a Nizza, quella d'arrivo dalla Moyenne Corniche, cadde da partigiano nel centro della Francia; che Barel tornò nel dopoguerra alcune volte all'Assemblea Nazionale, tanto da esserne definito il decano; che Barel già nel 1971 chiedeva nel massimo consesso l'attivazione per l'estradizione del criminale nazista Klaus Barbie.

Nel 1939 cospiravano contro il regime fascista a Bordighera Guido Seborga, che era in contatto con altri antifascisti a Torino, Renato Brunati, destinato ad essere fucilato nella strage del Turchino a maggio 1944, Lina Meiffret, che riuscì a tornare viva dalla deportazione in Germania e Giuseppe Porcheddu, che nella città delle palme era appena arrivato forse per essere più vicino al fratello avvocato. Altri antifascisti della cittadina non si erano ancora messi in contatto con i primi.

Nel 1939 vennero raggiunti dai genitori, sempre a Bordighera, i fratelli Asiani, torchiati, finita la guerra, da agenti del servizio segreto statunitense, probabilmente per essere indotti a diventare spie al loro seguito, non tanto per malefatte compiute, come in altri casi,  ma per la comprovata conoscenza del territorio a cavallo del confine ligure con la Francia.

Secondo il figlio, che oggi ricerca informazioni e documenti in merito, il padre, Nathan Schmierer, nato a Schaje Podowzyka il 13 ottobre 1907, si trovava già a Sanremo nel 1939. Il mentovato e la moglie Anny Riendl risultavano ebrei stranieri il 24 aprile 1940 per il Ministero degli Interni come da comunicazione che mandava alla Prefettura di Imperia: sussistono ancora sue tracce di internamento a Padova per l'arco aprile-agosto 1943.

A dicembre 1939 Dora Kellner, partita da Sanremo, incontrava in una stazione ferroviaria di Parigi l'ex marito Walter Benjamin. I due grandi intellettuali ebrei - lei, ingiustamente, molto meno nota - non si rividero più; loro figlio Stefan era già in salvo a Londra; la pensione nella città dei fiori, Villa Verde, da cui erano passati tanti loro parenti, amici e conoscenti, ormai gestita - data la normativa antiebraica - in modo surrettizio dalla donna, che se ne era occupata in quei tristi momenti di persecuzioni per meri motivi di sostentamento economico, era ormai in procinto di subire un fallimento, dopo il quale anche Dora passò oltre Manica abbandonando per sempre, a differenza del figlio che visitò la vecchia casa nel 1958, la Riviera.

Adriano Maini

martedì 26 settembre 2023

Da Novara ai campi di sterminio

Pietre d’inciampo in ricordo di Amadio Jona e Giacomo Diena posate a Novara nel 2022. Fonte: Anna Cardano, art. cit. infra

Una foto e una lettera
I nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona[1] sono noti da sempre a chi si è occupato delle persecuzioni antiebraiche sia in ambito novarese che vercellese. Insieme a Bertie Sara Kaatz[2], ebrea nata in Polonia e residente a Novara dal 1942, la cui storia è emersa più tardi e continua a essere poco conosciuta, sono i “sommersi” arrestati in città il 19 settembre 1943, spesso dati per assassinati nella stessa data. La loro sorte dopo quel giorno è ancora parzialmente ignota. Qui vorrei aggiungere qualche tassello a questa storia, nell’ambito di una più vasta ricerca in corso, avendo come riferimento soprattutto i fondi archivistici conservati all’Archivio di Stato di Novara, in particolare quelli della Prefettura (Divisione Gabinetto), quelli dell’Archivio storico del Comune di Novara, e in misura minore quelli relativi all’ospedale psichiatrico, e poi i registri del cimitero novarese, conservati negli uffici del cimitero stesso. Alcune notizie provengono dai fondi Egeli[3] e da quelli dell’Archivio di Stato di Torino e altre informazioni utilizzate si trovano in archivi privati[4] o provengono da testimonianze orali[5].
Nel 2014 stavo effettuando una ricerca all’Archivio di Stato di Novara sul comportamento delle amministrazioni pubbliche nell’applicazione della legislazione antiebraica, finalizzata anche a un possibile utilizzo didattico con i miei studenti, quando mi è arrivata una raccomandata postale da Alzano Lombardo contenente una fotografia in bianco e nero di Giacomo Diena, al quale si poteva dunque dare un volto, riportante in calce la dedica «Al mio unico amore», la firma Giacomino e la data del 2 agosto 1931. Sul retro era timbrato il nome di uno studio fotografico molto noto a Novara, quello dei fratelli Lavatelli, e una scritta successiva a matita «moroso zia Irene». La busta ricevuta conteneva anche un foglio ingiallito, scritto a matita in tre date diverse, l’11 ottobre 1943, il 20 ottobre 1943 e il 14 novembre 1943, e piegato tre volte fino a raggiungere la dimensione di un biglietto da visita. Riportava la firma di Giacomo Diena e un breve saluto dello zio materno Amadio Jona alle sorelle novaresi. È dunque evidente che né Diena né lo zio Jona erano morti lo stesso giorno dell’arresto. Diena segnalava come indirizzo del mittente «Carceri giudiziarie Torino». I due uomini erano quindi in carcere a Torino da quasi due mesi, dopo l’arresto del 19 settembre 1943, e dal 20 ottobre non erano più riusciti ad avere notizie dei loro familiari rimasti in città, Marianna Jona, madre di Diena, e sua zia materna Dolce, neppure tramite gli amici da cui speravano aiuto. Nel testo viene citata «la cara Irene», cioè Irene Cantoni (1897-1976), la donna novarese a cui la lettera era destinata e che l’avrebbe poi conservata per tutta la vita insieme alla foto. Dallo scambio di e-mail e telefonate con il nipote di Irene, Giuseppe Cantoni, oggi residente ad Alzano Lombardo ma di origini novaresi, ho appreso che la famiglia Cantoni voleva assicurarsi della futura conservazione a Novara di quei documenti.
Con le dovute cautele che occorrono quando si ha a che fare con memorie di bambini, ho saputo che suo nonno paterno Giuseppe, da cui aveva ereditato il nome, mediatore di risi e poi titolare di una trattoria in centro città, era appunto amico del Diena, che frequentava assiduamente la loro casa di corso della Vittoria, anche per far visita ad Irene. Diena è ricordato come un signore distinto, elegante e gioviale, con il distintivo degli invalidi della prima guerra mondiale portato sempre sulla giacca. La zia paterna del mio interlocutore, Irene, si era dedicata alla famiglia, al padre e agli altri fratelli, dopo aver perso la madre in giovane età, e lavorava in casa come ombrellaia. Uno dei suoi fratelli, Aldo, azionista, si era invece trasferito nel 1936 a Bergamo, con la famiglia, e lì avrebbe poi collaborato con la Resistenza come informatore. Il piccolo Giuseppe era cresciuto in una famiglia antifascista e ricorda che sia il nonno Giuseppe che il padre Aldo, tornando per questa ragione da Bergamo, dopo l’arresto del Diena avevano cercato sue notizie. Nel dopoguerra fu poi Irene, oltre ovviamente alla Comunità israelitica di Vercelli, a chiedere notizie di Giacomo e dello zio Amadio Jona al Comitato ricerche deportati ebrei, con sede a Roma, come risulta anche dalla documentazione conservata al Yad Vashem di Gerusalemme. Sarebbero dunque stati deportati in Germania, «presumibilmente», come riportano alcuni documenti degli anni cinquanta, ma senza alcuna indicazione certa sulla loro fine. Tornerò in seguito su questo punto.
In questi decenni la figura del Diena, considerato come uno di famiglia, è stata ricordata sia dal ramo della famiglia Cantoni rimasto a vivere a Novara, che in quello trasferitosi nel Bergamasco, nelle giornate del 2 novembre, del 25 aprile, e in seguito anche del 27 gennaio, Giorno della Memoria. Dopo la morte di Irene, la foto e la lettera erano state conservate da Giuseppe Cantoni.
La famiglia Diena-Jona e il suo radicamento a Novara
La ricerca di Liliana Picciotto sugli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah rileva che essi costituiscono l’81 per cento degli ebrei presenti allora sul territorio, senza sostanziali differenze tra ebrei italiani e stranieri[6]. Perché dunque Giacomo Diena non si salvò, nonostante fosse stato invitato a mettersi in salvo la sera del 18 settembre 1943? Diverse testimonianze, come quelle di Benvenuta Treves e di Ines Muggia, ebree novaresi che riuscirono a evitare l’arresto, riportate nella bibliografia già citata e in particolare in “Novara ebraica”, ci raccontano infatti dei messaggi che furono fatti pervenire agli ebrei novaresi grazie alla moglie del ragionier Celso Muggia, a sua volta av­visata da un ristoratore novarese che aveva raccolto l’informazione del previsto rastrellamento da un fun­zionario della Questura. Celso Muggia si era già allontanato da qualche giorno da Novara, era amico del Diena e certo il messaggio era attendibile. Riferisce la figlia Ines Muggia: «La cosa che ancor oggi mi rattrista è pensare che il povero ragionier Diena non cercò nemmeno di mettersi in salvo, convinto che il suo servizio alla Patria lo avrebbe in qualche modo tutelato»[7].
Sul suo passato militare il Diena contava dunque parecchio, tanto che aveva sperato di ottenere la discriminazione prevista per gli ebrei con meriti speciali, anche se questa non era mai arrivata. Probabilmente a influire sulla scelta fu anche la sua condizione familiare: mamma e zia anziane e malandate, così come lo zio Amadio Jona che, seppure residente a Torino[8], era spesso in casa con loro. Lui stesso inoltre era claudicante: uno spostamento del nucleo familiare non era affatto semplice e d’altra parte si sentiva integrato nella città in cui abitava da decenni. Il tono della lettera inviata a Irene Cantoni dalle carceri giudiziarie di Torino ci mostra così tutta la sua disperazione [...]:
Scrivete veloci notizie per carità
E pregate per noi e ricordateci
Torino 11/10/43 XXI
Carissime mamma e zia
Nell’inviarVi il Buono per la legna da ardere che presto ne avrete bisogno, mi raccomando di non lasciarlo scadere bisogna andare tutti i primi giorni del mese a pagarle e pregare che la portino a casa. Hai pagato l’affitto di casa? Nella mia del 1o corr vi domandavo se avete già ricevuto il carbone, vi domandavo notizie della vostra salute, e vi pregavo dei saluti della casa, ma fin’ora non ho ricevuto vostre care notizie. Scrivetemi presto.
La cara Irene credo che verrà da voi, pregatela a nome mio di aiutarvi e di scrivermi. /omissis/
Irene hai fatto quanto ti pregavo nella mia del 1o corr? Spero di sì e ti ringrazio il papà come sta? /…/ Scrivimi e ricordami bacioni tuo Giacomo”, /…/.
Carissime tutte
Tralascio perché sono disperato, non mi raccapezzo più, solo vi prego di avervi cura di farvi forza e di pregare per noi qui che il Buon Dio ci faccia ritornare tra di voi al più presto possibile. /…/.
Più avanti troviamo anche un la­conico saluto dello zio Amadio, allora set­tan­tanovenne, in data 14 novembre 1943:
Care Sorelle,
Oltremodo addolorato vi mando mie buone notizie e cari saluti a tutti e baci
aff. Amadio.
Per provare a capire lo sconcerto dei due uomini, occorre risalire a decenni prima e intravvedere le speranze di una famiglia con radici nell’Astigiano (gli Jona) e nel Torinese (i Diena), che a fine Ottocento decide di trasferirsi a Novara[9].
Il primo a giungere in città il 1 marzo 1891, dopo il trasferimento da Fossano, è Amadio Jona (registrato spesso come Amedeo), nato ad Asti il 4 dicembre 1864, che si stabilisce in via dell’Archivio, alla Casa Barabino dove viveva il negoziante Neemia Jona, con la moglie, la figlia, la madre (vedova del precedente capofamiglia Abramo Jona) e una cameriera. Il gruppo, arrivato da Milano, si sposterà poi a Mantova, conferma questa della frequente mobilità e intraprendenza di queste famiglie. Ritengo opportuno addentrarmi in questi particolari per segnalare che, come ben documentato in “Novara ebraica”, la presenza di ebrei a Novara non era residuale, anche se ostacolata per varie ragioni da diffidenze delle istituzioni e della cittadinanza.
Nel foglio di famiglia appena descritto il giovane Amadio è indicato come orefice e «congiunto» degli altri Jona. Amadio sceglie di fermarsi a Novara, la sua bottega da orefice è in pieno centro, in via Omar 2, dove nelle guide commerciali della città risulta un’attività di lucidatore di argenti e preziosi; probabilmente convince sorelle, cognato e nipoti a raggiungerlo a Novara nel 1899.
[...] Tra il 1939 e il 1943 non risultano altri documenti che spieghino la ragione della mancata conclusione del provvedimento di “discriminazione” a favore del Diena e nessuna annotazione relativa a iter in corso (presente invece per altri nominativi) risulta su tutti gli elenchi di ebrei visionati. E così, pensando ingenuamente di essere in salvo, quella domenica 19 settembre 1943, il cinquantaseienne Giacomo Diena di­venta una facile preda e viene arrestato dalle forze di occupazione tedesca da pochi giorni presenti a Novara, sulla base degli elenchi di ebrei residenti in città forniti dalla Questura. Prelevato dall’abitazione di piazza Sant’Agata con lo zio Amadio, che aveva allora quasi settantanove anni, e lasciando al loro destino la madre e la zia, viene portato insieme ad altri ebrei alle scuole Morandi.
Giorgio Hasenbohler, in una testimonianza del 1983[25], riferisce che suo padre, un industriale di origini svizzere trasferitosi a Novara da tempo, che si esprimeva bene in tedesco, aveva portato beni di conforto in carcere e cercato più volte di intercedere a suo favore presso il Comando germanico[26], venendo infine minacciato di fare la stessa fine degli arrestati. L’industriale conosceva bene i Diena-Jona perché abitava al terzo piano nello stesso edificio in cui loro abitavano al primo. Giorgio Hasenbohler ricorda che i fascisti, all’inizio del 1944, avevano messo nella loro casa una squadra di torturatori, fatto per cui erano seguite altre inutili proteste di suo padre.
Tre giorni dopo, mercoledì 22 settembre 1943, un ufficiale delle Ss si presenta alla Banca popolare di Novara chiedendo di aprire le cassette di sicurezza degli arrestati. Dissuaso, tornerà il giorno successivo, ma la direzione della Banca fa in modo che l’operazione di apertura forzata avvenga alla presenza del notaio Nicolitti, che ne redige verbale[27].
Sulla rapacità apparentemente disordinata di queste razzie (contemporanee alle note stragi sui laghi d’Orta e Maggiore del settembre 1943) e sulle modalità dell’occupazione in questi primi giorni non mi soffermo. Se è vero che sono le Ss i primi carnefici di questa particolare storia, la complicità degli uffici che avevano predisposto la rete di controlli sugli ebrei è tutta italiana. Dal 30 novembre del 1943, come è noto, sarà poi la polizia italiana a occuparsi di arresti e deportazioni. Il rastrellamento novarese avviene in tempi precoci, quando i diversi compiti tra autorità d’occupazione e autorità della Rsi non sono ancora bene stabiliti.
I decreti di confisca dei beni di Giacomo Diena e Amadio Jona sono stati effettuati alcuni mesi dopo, l’11 maggio 1944 (n. 01463) e il 19 maggio 1944 (n. 01498), come risulta dal Servizio Beni ebraici[28] nel suo accertamento eseguito il 31 lu­glio 1944 relativo ai sequestri effettuati in provincia fino a quel momento. Si segnala che al Diena viene confiscata la somma di 1.536,95 lire, competenze che la banca aveva assegnato all’ex dipendente alla fine del rapporto di lavoro, oltre a qualche titolo e ai mobili (la casa era stata utilizzata dagli occupanti come di consueto durante le requisizioni). Allo zio Jona, dichiarato “benestante”, vengono sequestrati titoli, azioni e un’importante rendita annua. I due non hanno proprietà immobiliari a Novara, ma a Torino, dove Jona risulta residente, la sua casa di via San Martino subisce analoga sorte. Sconcerta il carteggio, presente tra i documenti dell’Egeli, in cui l’amministratore del condominio torinese sollecita più volte le autorità competenti a effettuare quanto di dovere rispetto all’alloggio dell’ebreo Amadio Jona.
Dopo alcuni giorni di detenzione a Novara, Giacomo e Amadio vengono dunque trasferiti alle carceri giudiziarie di Torino nelle quali sono sicuramente presenti almeno dall’11 ottobre 1943 (prima data che risulta nella lettera citata all’inizio) al 1 dicembre 1943. Quest’ultima data è attestata da un altro elenco di ebrei[29] in cui compaiono i nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona, un passaggio di consegne che segna la loro uscita dal carcere di Torino e l’invio alla deportazione. Da controlli incrociati sulle altre persone in elenco con i nomi presenti ne “Il libro della memoria”[30], l’ipotesi più plausibile è che i due detenuti arrestati a Novara siano stati portati a Milano, a San Vittore, in attesa della partenza dal binario 21 per Auschwitz. Dei 19 nomi elencati nella lista, ben 13 risultano partiti col convoglio n. 5 formato a Milano e Verona il 6 dicembre 1943, giunto ad Auschwitz l’11 dicembre 1943. I prigionieri in partenza da Milano erano confluiti al carcere di San Vittore da Torino e da Genova. Un altro deportato della lista torinese risulta invece partito col convoglio n. 6, formato a Milano e Verona il 30 gennaio 1944, giunto ad Auschwitz il 6 febbraio 1944. Quest’ultimo convoglio aveva raccolto prigionieri provenienti da vari centri di raccolta provinciali e dalla frontiera italo-svizzera. Entrambi i convogli, sia il n. 5 che il n. 6, viaggiavano sotto sigla Rsha. Per altri tre deportati della lista torinese, nel volume citato si parla di immatricolazione dubbia e morte in data e luogo ignoti.
Per Diena e Jona, in assenza di documenti definitivi, possiamo quindi solo ragionare per probabilità. Morti in viaggio, oppure giunti a destinazione e poi subito eliminati? Alla Comunità ebraica di Vercelli risulta la lettera del Comitato di ricerche dei deportati ebrei (istituito dall’Unione delle Comunità israelitiche italiane) datata 25 ottobre 1945, nella quale si comunica che fino a quel momento nessuna notizia era giunta sui deportati Giacomo Diena e Amadio Jona. Come già visto, nemmeno Irene Cantoni era riuscita a sapere qualcosa di certo.
I nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona sono ora presenti su una targa scoperta il 17 gennaio 2019 a Novara a Palazzo Bellini, sede storica della Banca popolare di Novara dove il contabile lavorava[31].
 

Bertie Sara Kaatz. Fonte: Anna Cardano, art. cit. infra

Qualche notizia sulla più sommersa: Bertie Sara Kaatz
Bertie Sara Kaatz è la terza vittima della Shoah nella città di Novara, la meno conosciuta dei tre. A Novara non ci sono targhe o luoghi che ricordino la vicenda di questa giovane donna, ricostruita in “Novara ebraica”[32] qualche anno fa. Aggiungo solo qualche tassello che emerge dalle carte d’archivio, completandone i dati anagrafici nella speranza che anche Bertie sia presto ricordata a Novara. La famiglia Kaatz era arrivata a Novara da Milano, dove aveva presentato nel 1939 denuncia di appartenenza alla razza ebraica e si era stabilita in viale Roma, 8. Nei registri del Comune di Novara che aggiornano la situazione migratoria, nella settimana tra il 17 e il 24 giugno 1942 i nomi di Bertie Kaatz, nata a Breslavia (Polonia) il 26 febbraio 1912, e dei suoi genitori Ludwig Kaatz, nato a Schwerzen (Ger­mania) nel 1878, e Augusta Oppler, nata a Pleschen (Polonia) nel 1878, risultano tra i richiedenti residenza stabile a Novara. Ludwig è indicato come «senza occupazione». Per tutti e tre si precisa che sono di razza ebraica. Nella rubrica A[33] realizzata dalla Provincia di Novara sugli ebrei presenti in provincia, di cui si è detto sopra, risalente al luglio 1942, i componenti della famiglia Kaatz sono invece registrati come apolidi e benestanti. Evidentemente erano giunti in Italia per sfuggire alle persecuzioni in Polonia e forse con l’intenzione di emigrare negli Stati Uniti, dove viveva il fratello. Così sostiene Sandra Taccola[34], nipote di Margherita Rho, la portinaia del palazzo in cui abitavano. Sandra ricorda la madre di Bertie sulla sedia a rotelle, molto ammalata, e dalla nonna le furono negli anni seguenti raccontate le preoccupazioni di Bertie, che voleva trovarle una sistemazione e non partiva per questo. Essendo ebrei stranieri, avreb­bero potuto essere individuati per l’internamento e, anche se ciò non accadde, è evidente il clima di paura in cui la famiglia viveva. Tutti e tre erano iscritti alla Comunità israelitica di Vercelli.
Un’altra volta, prima dell’arresto, nel palazzo erano stati fatti dei sopralluoghi da parte dei fascisti, ma i Kaatz si erano nascosti in casa della portinaia ed erano sfuggiti ai controlli; il 19 settembre invece tutta la famiglia viene arrestata. Bertie non tornerà più.
Seguirà lo stesso percorso di Giacomo Diena e di Amadio Jona, prima alle carceri giudiziarie di Torino, dove è detenuta insieme ad altre undici donne ebree arrestate nel Torinese, nel Vercellese e a Genova nel settembre e ottobre 1943, poi trasferita al carcere di Milano, come risulta dall’elenco datato 1 dicembre 1943 predisposto per il passaggio di consegna delle detenute dal carcere giudiziario di Torino[35] a quello milanese di San Vittore. Anche in questo caso, dai controlli incrociati sulle altre donne in elenco (dieci su dodici erano cittadine italiane), con i nomi presenti ne “Il libro della memoria”[36] e con le banche dati già citate, si può concludere che molto probabilmente anche Bertie sia partita da Milano per Auschwitz il 6 dicembre 1943, col convoglio n. 5, giunto a destinazione l’11 dicembre 1943. Poi, la fine.
Di certo per i genitori la situazione precipita, nonostante trovino ospitalità presso la casa di cura dell’Ospedale mag­giore e alcune persone rimangano loro vicine. La portinaia Margherita sa­rà presente al seppellimento di Augusta Oppler il 10 dicembre 1943 al cimitero di Novara[37], insieme a Ludwig Kaatz, il quale morirà poi nell’ottobre successivo. I genitori di Bertie non furono comunque sepolti nel cimitero ebraico. Così come per Diena, il foglio di famiglia del Comune di Novara intestato ai Kaatz continuerà a rimanere attivo, come se Bertie fosse ancora viva anzi, dopo la morte di Ludwig e Augusta, è lei ad apparire intestataria del foglio stesso.
La triste vicenda di questa famiglia è emersa grazie a un carteggio postbellico tra Comunità israelitica di Vercelli e Istituto bancario San Paolo di Torino, che tentavano di prendere contatti col fratello di Bertie, Alexander Kaatz, che era stato in Italia al seguito delle truppe americane. Occorreva infatti restituirgli, in qualità di erede, i beni confiscati in precedenza alla famiglia. Il nome di Ludwig Kaatz risulta anche, appena dopo la Liberazione, in una nota[38] che il Comando dell’amministrazione alleata a Novara invia al prefetto Fornara il 21 maggio 1945, affinché vengano restituiti al più presto, agli ebrei elencati, i beni confiscati nel periodo nazifascista.
Come si vede, una lunga e terribile storia di elenchi.
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XL, n. s., n. 2, dicembre 2020
[NOTE]
[*] Devo ringraziare per la collaborazione a queste ricerche Rossella Bottini Treves, presidente della Comunità ebraica di Vercelli, Biella, Novara e Vco; Paolo Cirri, della Fondazione Bpn per il territorio; Chiara Mangione, Giuseppe Cantoni, Sandra Taccola, Gianni Galli, l’Archivio di Stato di Novara.
[1] Il nome di Giacomo Diena risulta sulla lapide commemorativa presente al cimitero ebraico di Vercelli; su quella del tempio ebraico appaiono i nomi di Amadio Jona e Giacomo Diena; solo recentemente (gennaio 2019) una targa con entrambi i nomi è stata apposta a Novara nel cortile interno della Banca popolare di Novara, nella sede storica di Palazzo Tornielli Bellini. I due nomi, presentati come vittime della Shoah in Italia, e dati come uccisi lo stesso giorno dell’arresto, compaiono in diverse fonti, tra cui Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), ricerca della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano, Mursia, 2a ed., 2002, e www.nomidellashoah.it, mentre l’ipotesi di una loro deportazione è già contemplata nella documentazione della Comunità ebraica di Vercelli, nelle ricerche di Gisa Magenes (“Fogli sensibili”, n. 3, ottobre-dicembre 1994), che data la morte del Diena in Germania al 1 novembre 1943, nella testimonianza di Giorgio Hasenbohler (“Corriere di Novara”, 13 ottobre 1983) e in www.ushmm.org. Le ricerche successive contemplano entrambe le ipotesi. In ambito vercellese, sono anche ricordati da Alberto Lovatto in Deportazione memoria comunità. Vercellesi, biellesi e valsesiani nei lager nazisti, Milano, Franco Angeli, 1998.
[2] La ricostruzione della vicenda di Bertie Sara Kaatz, iscritta alla Comunità israelitica di Vercelli, si trova in Rossella Bottini Treves - Lalla Negri, Novara ebraica. La presenza ebraica nel novarese dal Quattrocento all’età contemporanea, Novara, sn, 2005, pp. 86-93.
[3] I documenti dell’Ente di gestione e liquidazione immobiliare dei beni ebraici espropriati a seguito delle leggi antiebraiche del 1938 sono conservati nell’Archivio storico Intesa Sanpaolo.
[4] Archivio privato famiglia Cantoni, Alzano Lombardo (Bg), e Archivio privato famiglia Luca e Marcella Moia, Novara.
[5] Giuseppe Cantoni, conversazioni del 23 maggio 2014 e del 24 gennaio 2016; Sandra Taccola, conversazione del 21 febbraio 2019.
[6] L. Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah. 1943-1945, Torino, Einaudi, 2017, pp. 267-280.
[7] R. Bottini Treves - L. Negri, op. cit., pp. 94-97.
[8] Il motivo per cui Amadio Jona non si trova in nessun elenco di ebrei novaresi è dovuto al fatto che, dopo essere rimasto vedovo, aveva spostato la sua residenza da Novara a Torino, in una casa di proprietà in via San Martino, 10, come emerge dal fascicolo a lui intestato (Jona, Amadio, segnatura: 181 TO - GES 372 736) presente nel fondo Egeli già citato.
[9] Le notizie biografiche riportate provengono dai Fogli di famiglia intestati a Jona Amadio, Saulle Diena e poi Giacomo Diena, Archivio di Stato di Novara (d’ora in poi Asn), fondo Comune di Novara, parte III, Anagrafe, cassetta VIII, Foglio di famiglia n. 2120; fondo Comune di Novara parte antica, Reg. 64, Fogli di famiglia n. 9610; fondo Comune di Novara, bb. 1395 e 1396 sulla popolazione novarese, b. 1398, con i fascicoli nominativi degli ebrei residenti a Novara; fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 712.
[25] Si veda la nota 1, articolo ne “Il Corriere di Novara”, 13 ottobre 1983.
[26] Si vedano Carlo Gentile, Settembre 1943. Documenti sull’attività della Divisione Leibstandarte SS Adolf Hitler in Piemonte, in “Il presente e la storia”, n. 47, 1995, pp. 75-130, e i recenti studi dello studioso svizzero Raphael Rues.
[27] R.G.N.N. 24.016 del 1 ottobre 1943.
[28] Si veda la nota 16.
[29] Dell’elenco, proveniente dall’Archivio del carcere di Torino, sono venuta a conoscenza grazie a Rossella Bottini Treves.
[30] L. Picciotto, Il libro della memoria, cit. Oltre ai nomi dei deportati, il libro contiene l’elenco dei trasporti alle p. 44 e seguenti.
[31] La targa è nata dalla collaborazione tra Bpn, Cral e associazione “Noi della Bpn”, Comunità ebraica di Vercelli, Biella, Novara e Vco, Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola “Piero Fornara”.
[32] Si veda la nota 2.
[33] Si veda la nota 21.
[34] Si veda la nota 5.
[35] Anche di questo elenco di prigioniere, analogo a quello di Diena e Jona per i detenuti maschi, proveniente dall’Archivio del carcere di Torino, sono venuta a conoscenza grazie a Rossella Bottini Treves.
[36] Si veda la nota 30.
[37] Comune di Novara, Archivio del Cimitero, Registri dei seppellimenti, 1943 e 1944.
[38] Asn, fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 712.
Anna Cardano, I sommersi del 19 settembre 1943 a Novara. Giacomo Diena, Amadio Jona, Bertie Sara Kaatz, l'impegno - Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, 24 gennaio 2022

venerdì 22 luglio 2022

Da più di quarant’anni si sapeva, infatti, che Moulin era stato tradito


Protetto dai servizi segreti americani, il capitano delle SS Klaus Barbie capo della sezione IV della Gestapo di Lione dal 1942 al 1944, condannato in contumacia nel 1952 e nel 1954 per crimini di guerra, era riparato in Bolivia dove, nel 1971, era finalmente scoperto da Beate Klarsfeld che premette affinché le autorità francesi, che conoscevano il nascondiglio dell’ex nazista fin dal 1963, ne domandassero l’estradizione. Fu solo nel 1983, grazie al cambiamento politico boliviano che aveva portato la sinistra al potere nel 1981, che la Bolivia acconsentì alla richiesta della Francia dove l’affaire Barbie, con la sua carica emotiva e cerimoniale, entrava subito nel registro del simbolico col trasferimento dell’imputato a Lione nella prigione di Montluc, luogo in cui erano avvenuti i crimini di cui era accusato.
Con l’elezione di François Mitterrand, il Paese aveva infatti conosciuto una nuova impennata della tradizione resistenziale che si esprimeva anche con il desiderio manifesto di un potere politico di offrire alla memoria collettiva un momento eccezionale come il giudizio che di lì a poco sarebbe stato portato contro Klaus Barbie, simbolo della barbarie nazista e della morte di Jean Moulin. <866 Lo Stato francese intendeva dunque, in nome di un impossibile oblio, offrire alle nuove generazioni una vera lezione di storia, sulla scia di quanto era avvenuto in Israele negli anni Sessanta con il processo Eichmann.
Questo l’avviso di numerosi ex resistenti e deportati che, con Simone Veil, condividevano il desiderio di un processo pedagogico, <867 senza intravedere gli effetti incontrollabili che si sarebbero presto manifestati e il cui innesco si trovava al cuore stesso dell’evento: gli otto capi di imputazione ritenuti contro Barbie riguardavano l’arresto, la tortura o la deportazione di civili, in particolare ebrei, mentre le imputazioni per i delitti commessi contro i resistenti, dunque combattenti volontari, erano interpretati, in osservanza a quanto decretato dal tribunale di Norimberga, come crimini di guerra e pertanto caduti in prescrizione.
La giustizia francese non considerava quindi la morte di Jean Moulin come parte del dibattito giudiziario e l’eventuale condanna di colui che aveva assassinato il martire nazionale sarebbe stata pronunciata nel nome di una memoria che si stava allora risvegliando e che a lungo era rimasta nell’ombra di quella resistenziale: la memoria della Shoah. <868 Ed è proprio in questa fase che la strategia di rottura <869 ideata dall’avvocato Vergès nel corso della sua carriera fa esplodere un conflitto tra giustizia e storia che sarebbe anche potuto rimanere latente. Qualche giorno dopo aver assunto la difesa di Barbie, Vergès dichiarava, infatti, che l’ex ufficiale nazista era entrato nella storia della Francia per aver arrestato Jean Moulin rigettando l’esclusione dell’«affaire Moulin» dal dibattimento a causa della definizione di crimine contro l’umanità che, per l’avvocato, poteva benissimo essere applicata anche per questo delitto che chiamava in causa il modo in cui Moulin era stato consegnato ai tedeschi, ovvero in virtù del tradimento dei compagni di lotta. <870
Vergès portava così il suo attacco alla memoria della Resistenza che non solo era stata esclusa dal processo, ma doveva anche cedere il terreno a un avvocato provocatore che utilizzava, con una modalità scandalistica, un argomento sensibile nell’opinione pubblica riacutizzando vecchie polemiche sulla compattezza del movimento. E lo faceva pubblicando "Pour en finir avec Ponce Pilate", millantando l’esistenza di documenti segreti che avrebbero confermato il tradimento ai danni di Jean Moulin. <871 Non si trattava certo di una rivelazione. Da più di quarant’anni si sapeva, infatti, che Moulin era stato tradito, ma i sospetti erano stati rivolti principalmente contro René Hardy, considerato da numerosi resistenti, malgrado i non-luoghi a procedere della giustizia, l’«uomo che aveva tradito». <872
Di fatto, negli anni precedenti il processo, la memoria della Resistenza era stata oggetto di attacchi sistematici in cui il fattore ideologico, determinato da una condanna senza sfumature del comunismo, aveva avuto un ruolo decisivo. <873 I resistenti reagirono alle provocazioni di Barbie con dichiarazioni, testimonianze e pubblicazioni. Anche René Hardy, l’«uomo che aveva tradito», prese la parola per mettere in discussione, nelle sue memorie, Raymond Aubrac. <874 Accuse che rinnovava nel film di Claude Bal Que la vérité est amère, offrendo a Vergès l’occasione di indirizzare i sospetti verso gli Aubrac che ottennero una condanna per diffamazione. <875 È a questo punto che Lucie Aubrac decise di reagire pubblicando un testo che sarebbe presto divenuto un elemento importante della controversia. La stessa esigenza di ristabilire la verità storica minacciata da Vergès portò Henri Noguère, che si sentiva chiamato in causa in quanto resistente e in quanto storico, a intervenire nel dibattito. Ciò che maggiormente lo avevo turbato non erano però le manovre diversive dell’avvocato di Barbie, che da sole non avrebbero giustificato una discussione storica, quanto la complicità di Hardy nella costruzione delle menzogne di Vergès con la sua partecipazione al film di Bal e la pubblicazione delle sue memorie. <876
Frattanto una decisione storica rivedeva, nel 1985, il concetto di crimini contro l’umanità e stabiliva che Barbie dovesse rispondere, oltre che delle precedenti imputazioni, di altri tre capi d’accusa, tra i sei di cui si era macchiato contro i resistenti, che per la particolare natura finivano col rientrare non più nei “semplici” crimini di guerra, ma nel quadro di una politica di egemonia ideologica di cui Barbie era stato un esecutore. Decisione che, se da un lato soddisfaceva alcuni, lasciava completamente scontenti altri.
Mentre Henri Noguère si felicitava per la possibilità che Barbie fosse giudicato anche per i crimini commessi contro i resistenti, <877 Serge Klarsfeld intravedeva invece nell’estensione del concetto di crimine contro l’umanità solo un modo per attenuare la specificità dei delitti compiuti contro gli ebrei così com’era delineata dai redattori della carta di Norimberga. <878 Vergès era perciò stato particolarmente abile nell’insinuarsi tra le incrinature della memoria collettiva dei francesi riuscendo a dar vita a un conflitto che avrebbe avuto inevitabilmente delle ricadute sulla portata pedagogica del processo. <879 Un processo che si prestava a divenire la scena in cui i conflitti del passato tornavano ad affrontarsi condizionando la lettura del presente. Da parte sua, Vergès desiderava processare Francia per crimini, specie quelli coloniali, che non gli sembravano meno gravi di quelli nazisti. <880 Lo stesso Barbie era solo una pedina in una battaglia in cui la posta in gioco non era, per l’avvocato, la condanna del nazismo e la memoria della Shoah, ma la dimostrazione della scarsa moralità di un intero Paese e in particolar modo di una Repubblica fondata su un mito, quello resistenziale, che si era rivelato corrotto. Ecco che allora l’accusato si trasformava in accusatore. <881
L’11 maggio 1987 aveva inizio la prima delle trentasette udienze che si conclusero il 3 luglio, dopo otto settimane, con un verdetto di colpevolezza per diciassette capi di imputazione. <882 Le tanto attese rivelazioni sul tradimento di Jean Moulin restarono insoddisfatte e riemersero solo negli anni Novanta. Il 4 luglio 1990, Vergès consegnava infatti al giudice Hamy, che avrebbe dovuto istruire un altro processo contro Barbie per l’assassinio di Bruno Larat, arrestato con Jean Moulin a Caluire, un memorandum di sessantatré pagine, in seguito ribattezzate testamento di Klaus Barbie. L’istruzione non ebbe luogo a causa della morte dell’imputato il 25 settembre 1991, ma il testamento cominciò a circolare nelle sale di redazione diffondendo l’ultima infamante accusa dell’ex ufficiale nazista: Raymond Aubrac, con l’aiuto della moglie Lucie, era il diretto responsabile dell’arresto di Jean Moulin. <883
Barbie, che non si era mai pentito per i suoi delitti, aveva tre buoni motivi per odiare gli Aubrac. Prima di tutto, il ruolo avuto da Raymond nella sua identificazione in un filmato realizzato dal giornalista Ladislas de Hoyos quando Beate Klarsfeld lo scovò in Bolivia nel 1972 e poi il fatto che la sua più cocente sconfitta gli era stata inflitta da una donna, Lucie Aubrac, che gli aveva sottratto non solo un nemico politico, ma soprattutto un ebreo (il vero cognome è Samuel, mentre Aubrac è una delle identità utilizzate durante la Resistenza e mantenuta anche dopo la guerra). <884
Fu in quel momento che Aubrac domandò per la prima volta la costituzione di una commissione di storici, specialisti della Seconda Guerra Mondiale, che avrebbe dovuto far chiarezza sulle insinuazioni di Barbie/Vergès mettendo fine alle calunnie. <885
[NOTE]
866 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., pp.229-231.
867 Dominique Gerbaud, Simone Veil: Faire le procès de l’idéologie plus que de l’homme, «La Croix», 8 février 1983.
868 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., pp.234-235.
869 Jacques Vergès, Strategia del processo politico, Einaudi, Torino, 1969. Per Vergès, la distinzione fondamentale che determina lo stile del processo penale è l’atteggiamento dell’accusato di fronte all’ordine pubblico. Se lo accetta, il processo è possibile e l’accusato spiega il proprio comportamento; se lo rifiuta l’apparato giudiziario si disintegra (Ibidem, p.15) ed è ciò che ha cercato di fare con il processo a Klaus Barbie il quale si dichiarava ostaggio non riconoscendo alla corte francese il diritto di giudicarlo. Barbie, nella strategia di Vergès, era un cittadino boliviano illegalmente detenuto in Francia e giudicato, grazie a una legge retroattiva inesistente al momento dei fatti contestati, per crimini risalenti a quarant’anni prima e dunque prescritti. In uno Stato di diritto, il processo Barbie sarebbe stato perciò impossibile. Cfr. Jacques Vergès, Je défends Barbie, Jean Picollel, Paris, 1988, pp.11-12. Per Claude Lanzmann, il vero accusato del processo è Jacques Vergès e non Klaus Barbie il quale, nella difesa di rottura del suo avvocato finisce per essere lui stesso una pedina nello spettacolare processo nel quale Vergès chiama in causa la Francia per crimini, ai suoi occhi, paragonabili a quelli del nazismo. Vergès, che ha scelto Barbie e non è stato scelto da Barbie che all’inizio della vicenda giudiziaria aveva un altro avvocato, non sarebbe per Lanzmann un difensore senza accusato, ma un accusato senza difensore. Cfr. Entretien avec Claude Lanzmann, Le masochisme de Vergès, in Bernard-Henri Lévy (a cura di), Archives d’un procès. Klaus Barbie, Globe, 1986, p.189.
870 Jacques Vergès, Étienne Bloch, La face cachée du procès Barbie, Samuel Tastet éditeur, 1983, p.16. 871 Jacques Vergès, Pour en finir avec Ponce Pilate, Le Pré aux clercs, Paris, 1983.
872 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., p.239.
873 Alexandre Adler, L’histoire à l’estomac, «Le Monde», 15 novembre 1996.
874 René Hardy, Derniers mots, Fayard, Paris, 1984.
875 Laurent Douzou, Lucie Aubrac, Perrin, Paris, 2012, p.249.
876 Henri Noguère, La vérité aura le dernier mot, Seuil, Paris, 1985, pp.11-13.
877 Henri Noguère, Les victimes et les bourreaux, «Le Monde», 3 janvier 1986.
878 Serge Klarsfeld, L’affaire Barbie. Serge Klarsfeld répond à Henri Noguères, «Le Monde», 15 janvier 1986.
879 H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, op. cit., pp.240-241.
880 Jean Edern Hallier, prefazione a J. Vergès, Je défends Barbie, op. cit., pp.VII-VIII.
881 Donald Reid, Resistance and Its Discontents: Affairs, Archives, Avowal, and the Aubracs, «The Journal of Modern History», n°77, March 2005, pp.97-137, p.106.
882 B. H. Lévy, Archives d’un procès. Klaus Barbie, op. cit., p.375.
883 L. Douzou, Lucie Aubrac, op. cit., pp.252-254.
884 François Delpla, Aubrac, les faits et la calomnie, Le temps des Cerises, 1997, p.27.
885 Pascal Convert, Raymond Aubrac. Résister, reconstruire, transmettre, Seuil, Paris, 2011, pp.625-626.
Frida Bertolini, Il ruolo e la funzione del falso nella storia della Shoah. Storici, affaires e opinione pubblica, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, in cotutela con l'Università Parigi X Nanterre, 2012

lunedì 23 maggio 2022

La Resistenza è iniziata proprio a Roma, subito dopo l'8 settembre


Il processo di liberazione dall’occupante nella Capitale presenta svariate caratteristiche che lo rendono anomalo rispetto a quello registrato su scala nazionale; in particolare in confronto alla lotta partigiana nei centri urbani del centro-nord, dove i partiti e le loro rispettive formazioni militari (le bande partigiane, tra cui è bene menzionare le più attive, ovvero le Brigate Garibaldi legate al PCI, le Brigate Giustizia e Libertà legate al Pd’A, le brigate azzurre, formalmente indipendenti ma politicamente di sentimenti monarchici e badogliani, le “Brigate del popolo” e le “Brigate Fiamme Verdi” legate alla Democrazia Cristiana) riuscirono a coinvolgere attivamente e con successo la popolazione, la lotta armata partigiana a Roma vide una scarsa partecipazione popolare e fu sostanzialmente lasciata nelle mani dei partiti ciellenisti di sinistra, il cui attivismo sorprese e mise in grande difficoltà i nazisti.
Un’altra peculiarità della Resistenza romana sta nell’estrazione socio-culturale dei suoi protagonisti; se nel nord-Italia le promesse di radicale mutamento politico e sociale portate avanti dagli intellettuali dei partiti antifascisti di sinistra raccolsero consensi e adesioni in quel proletariato operaio, storicamente legato alle organizzazioni sindacali socialiste e desideroso di vendicare le vessazioni subite dalle squadre fasciste vent’anni prima, lo stesso non si poteva dire per le masse delle borgate romane che, composte perlopiù da contadini inurbati provenienti dal Meridione o dalle campagne adiacenti alla città (lo sterminato Agro romano), erano totalmente prive - date debite eccezioni - di quella coscienza politica necessaria per impegnarsi in una guerra di liberazione così cruenta. Perciò la lotta partigiana fu condotta dagli esponenti della medio-alta borghesia romana che, animati da un forte senso della patria e desiderosi di riscattare l’immagine del paese travolta da vent’anni di dittatura, nel secondo dopoguerra saranno i protagonisti di quell’Assemblea costituente che regolò (e regola tuttora, a distanza di settant’anni) la vita politica del paese; era ad esempio questo il caso del nucleo più attivo dei Gap centrali, composto da uomini come Antonello Trombadori, Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei, Maria Teresa Regard, i quali erano stati educati culturalmente nei migliori licei della Capitale e avevano sin da giovanissimi sviluppato una profonda coscienza antifascista. Non mancarono comunque i casi di piccole formazioni partigiane operanti nelle periferie, soprattutto in quelle della parte meridionale della città, come le bande partigiane di Bandiera Rossa.
Un elemento che non si può non considerare quando si parla dell’anomalia della situazione di Roma negli anni della Liberazione è la forte presenza nella città della Chiesa cattolica. Il radicamento nella città di un’autorità morale e spirituale millenaria come il Papa ha esercitato senz’altro una funzione di dissuasore per i nazisti i quali, sotto l’impulso principalmente dei loro diplomatici, non intendevano scatenare nella città del “Vicario di Cristo” una guerra senza quartiere e nei fatti non spiegarono appieno tutta la loro forza repressiva contro il movimento partigiano. Al centro di un ampio dibattito storiografico, lo stesso ruolo della Chiesa fu in quegli anni molto ambivalente; se da un lato molti sottolinearono la mancata condanna ufficiale da parte di papa Pio XII degli abomini nazisti commessi nella città (come il rastrellamento del ghettoebraico il 16 ottobre 1943 o l’eccidio delle FosseArdeatine), è imprescindibile ricordare il fondamentale aiuto che gli uomini della Chiesa (vescovi, prelati, parroci ecc.) prestarono ai perseguitati, nascondendo nelle parrocchie e nei conventi ebrei, antifascisti di ogni schieramento, militari che erano sfuggiti al reclutamento nell’esercito della RSI ecc. Alcuni di essi pagarono con la vita il prezzo del loro coraggio e del loro impegno politico; è bene menzionare don Giuseppe Morosini, arrestato dalle SS a causa della delazione di un infiltrato e poi fucilato a Forte Bravetta il 3 aprile 1944, oppure don Pietro Pappagallo, il quale per aver nascosto molti perseguitati fu arrestato dalle SS (anche lui in seguito a delazione) e fu l’unico prete cattolico ad essere fucilato alle Ardeatine. Il loro sacrificio non risultò vano in quanto moltissimi ebrei e antifascisti (il più importante era probabilmente Alcide De Gasperi, leader indiscusso della Dc nel primissimo dopoguerra) riuscirono a sfuggire alle retate nazifasciste protetti negli edifici vaticani che godevano dello status di extraterritorialità, un particolare status giuridico riconosciuto dallo stato italiano alla Chiesa in base al quale essa esercitava (ed esercita tuttora) la propria esclusiva giurisdizione su alcune sue proprietà sul suolo romano. Tuttavia questo status giuridico di diritto internazionale non bastò a frenare la furia antipartigiana di alcuni solerti aguzzini, di cui il più emblematico e famoso è sicuramente Pietro Koch; questo ex-tenente dell’esercito italiano formò nei primi giorni del gennaio 1944 una banda - la cd. Banda Pietro Koch - il cui operato è famoso per due irruzioni commesse in edifici vaticani che avevano l’attributo giuridico dell’extraterritorialità (una serie di istituti religiosi collegati dal medesimo ingresso in piazza Santa Maria Maggiore nel primo caso, la basilica di San Paolo nel secondo) al fine di stanare gli oppositori politici che vi si nascondevano.
Si può quindi concludere che sia stata proprio l’importanza di una città come Roma - capitale d’Italia, storica sede della Chiesa cattolica, culla della società occidentale e ricca come nessun’altra città al mondo di monumenti di incommensurabile valore storico ed artistico - a conferire unicità allo sforzo per mantenere il suo controllo (da parte dei nazifascisti) e alla lotta per la sua liberazione dall’occupante (da parte del movimento partigiano). A tal proposito rinnovo anche qui quella che è stata la mia tesi introduttiva, e cioè che a Roma si è giocata la partita decisiva all’interno del più ampio contesto storico della lotta per la liberazione nazionale; di ciò ne erano consapevoli tutte le forze in campo (nazisti, fascisti, partiti antifascisti, Alleati ecc.) che a tal proposito impiegarono tutte le loro energie per poterla controllare.
Guglielmo Salimei, Roma negli anni della liberazione: occupazione nazista e lotta partigiana, Tesi di laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2020-2021
 
[n.d.r.: anche Giorgio Amendola, dirigente di spicco del PCI clandestino nella capitale e, pertanto, responsabile dei GAP romani, sosteneva la tesi di una non congrua partecipazione popolare agli eventi della Resistenza nella capitale, mentre il suo collaboratore nei Gruppi di Azione Patriottica, Rosario Bentivegna, sembra nei suoi scritti - vedere infra - di parere nettamente diverso]

Un "revisionismo" mistificatore e falso ha colpito soprattutto la Resistenza romana e la sua guerra di liberazione, e in particolare uno dei suoi episodi più drammatici, la strage delle Fosse Ardeatine, che i nazisti perpetrarono nella massima segretezza e con la massima fretta per paura delle reazioni preventive della cittadinanza, dei parenti dei prigionieri in mano nazista e della Resistenza. Qui la fantasia dei falsari e dei mistificatori ha raggiunto cime eccelse, e ne abbiamo colto significative manifestazioni perfino su "L’Unità" di Furio Colombo, dove il 24 marzo scorso, in memoria di quella strage, si riproponeva una tesi cara a tutti gli attendisti, e cioè che l’attacco partigiano di via Rasella, in cui fu annientata la 11° compagnia del terzo battaglione dell’SS Polizei Regiment Bozen "fu un atto di guerra, dettato da emotività più che da un preciso ragionamento, discutibile sul piano dell’opportunità e sbagliato se messo in relazione con le finalità che si volevano raggiungere" (a parte lo spazio dato nei mesi precedenti ad alcuni scritti del Vivarelli ove si ricordavano le benemerenze patriottiche della X Mas e del suo eroico comandante, il principe golpista Valerio Borghese, o le amene considerazioni sullo stato di "città aperta" di Roma, con un titolo, il 15 agosto 2001, addirittura esilarante).
La nostra gente, pur affamata e terrorizzata, e ben sapendo di correre rischi mortali, ci aiutava, checché ne dicano il De Felice, o il Montanelli, o il Lepre, ecc. ecc., che sopravvennero dopo i primi exploit dei giornalisti repubblichini Spampanato e Guglielmotti, o dello "storico" Giorgio Pisanò, cantore dell’epopea repubblichina, o, nel 1948, in piena "guerra fredda", dei Comitati Civici dell’Azione Cattolica di Pacelli e di Gedda.
Quella nostra gente ci nascondeva, ci sfamava quando poteva e ci curava se ammalati o feriti, rifiutava di denunciarci, così come del resto aiutava e non denunciava i giovani renitenti di leva, gli uomini che si sottraevano al lavoro forzato imposto dai nazisti, i soldati e gli ufficiali sbandati, gli ebrei, i carabinieri, i prigionieri alleati evasi, i ricercati politici antifascisti e i politici fascisti che non avevano aderito al P.F.R. (bisogna pur ricordarlo: dei quadri del fascismo, solo il 10% di quelli periferici e il 15% di quelli nazionali aderirono al governo collaborazionista della Repubblica Sociale; degli oltre quattro milioni di italiani iscritti al P.N.F., costretti ad avere quella "tessera del pane", solo 200.000 - il 5% - si iscrissero al P.F.R.).
I romani e la rete di solidarietà
I romani poi, dietro il loro menefreghismo ironico e apparentemente opportunista, seppero costruire spontaneamente una rete straordinaria di solidarietà attiva nei confronti delle centinaia di migliaia di ricercati e perseguitati che affollavano la loro città. Essi, pur temendo per la loro vita e imprecando a parole contro chi poteva turbare la loro sacrosanta voglia di quiete, non esitarono a schierarsi nei fatti dalla parte della libertà e contro la crudele presenza dei tedeschi e dei fascisti, isolati e "schizzati".
Da questa Resistenza, fatta di fame e di sofferenze, ha preso le mosse la Guerra di liberazione nazionale, che è iniziata proprio a Roma, subito dopo l'8 settembre, oltre che con una intensa attività diplomatica, politica, di agitazione, di "intelligence", anche con iniziative militari che hanno fatto della nostra città la capitale dell’Europa occupata che ha dato più filo da torcere agli eserciti tedeschi (Dollman), che ha fatto dire a Kappler che dei romani non ci si poteva fidare, che ha fatto raccontare a Mhulhausen la paura che lo stesso Kappler aveva dei partigiani e della gente di Roma.
Dice Renzo De Felice: ("Il Rosso e il Nero", pag. 60): "Roma fu la città col maggior numero di renitenti: un po’ per la sua configurazione sociologica, un po’ perché era stata l’unica città in cui si era tentata la resistenza armata contro i tedeschi dopo l’armistizio, un po’ per la presenza del Vaticano e del gran numero di luoghi ed edifici dove i renitenti potevano nascondersi. Al primo posto ci fù la "difesa di se stessi", sia da parte di chi rispose al bando, sia per chi riuscì a nascondersi, come per chi fu costretto a salire in montagna. Molti di questi divennero valorosi partigiani. Per molti altri pesò sempre il vizio di origine di una scelta opportunistica", che, aggiungo, ha aperto lo spazio a tutte le fantasie e le menzogne della vulgata antipartigiana.
In quei terribili nove mesi Roma - anche per ragioni geografiche (eravamo a poche diecine di chilometri dal fronte) - è stata all'avanguardia (politica e militare) di tutte le città italiane occupate: la sua gente, i partigiani che da essa provenivano, hanno reso impossibile il disegno strategico del nemico, che voleva fare di Roma, dei suoi nodi stradali e ferroviari, dei suoi servizi, un comodo transito e un rifugio per i mezzi e le truppe da e per il fronte di Cassino e di Anzio, una tranquilla base per i suoi alti comandi, il luogo dove permettere un piacevole ristoro ai suoi soldati impegnati sul fronte.
I romani, con i loro figli partigiani che colpivano e sabotavano il nemico ogni giorno e ogni notte in città, nelle campagne intorno Roma e nel Lazio, con la loro capacità di aiutarli, nasconderli, proteggerli, fecero di Roma "una città esplosiva", come dovette ammettere Kappler, il boia delle Ardeatine, nel processo che subì alla fine della guerra.
Questa era la strategia della Resistenza romana, che perfino il collaboratore de L’Unità mostra di non aver compreso.
Il Maresciallo Clark, comandante della V Armata americana, ebbe a dire personalmente a Boldrini che soltanto quando le truppe anglo-americane entrarono in Roma i Comandi Alleati capirono senza più alcun dubbio che l’Italia era con loro.
Il costo della lotta partigiana
Abbiamo pagato cara questa nostra Resistenza: 650 Caduti, tra il il 9 e il 10 settembee 1943, nella battaglia per Roma. Di essi 400 erano ufficiali o soldati, e dei civili ben 17 furono le donne.
Oltre 50 furono i bombardamenti Alleati, dovuti alla presenza in città di comandi, mezzi e truppe tedesche (altro che "città aperta"!); fame e miseria; deportazioni; rastrellamenti in tutti i quartieri, centrali e periferici; il coprifuoco alle 4 del pomeriggio; unica città in Italia, fu proibito a Roma l'uso delle biciclette (altri mezzi, oltre quelli pubblici, non erano consentiti ai civili); feroci esecuzioni e rappresaglie, le Ardeatine, Bravetta, La Storta, il Ghetto, il Quadraro, le razzie, gli arresti, le torture (via Tasso, Palazzo Braschi, la pensione Oltremare, la pensione Jaccarino, Regina Coeli, ecc.: operavano in Roma ben 18 "polizie", tedesche e italiane, pubbliche e "private"!), gli assassinii compiuti a freddo nel centro della città e nelle borgate.(10 fucilati a Pietralata, 6 renitenti fucilati a Ladispoli, 10 donne fucilate a Portuense, dieci donne fucilate a Tiburtino 3°, circa 80 fucilati a Bravetta, 14 fucilati alla Storta.....più la strage del Quadraro: su 700 cittadini deportati ne sono tornati solo 300!... più la strage degli ebrei , circa duemilacinquecento deportati, ne sono tornati circa 120...
I partigiani romani uccisi in combattimento, morti sotto la tortura o fucilati, nei nove mesi che vanno dal 9 settembre 1943 al 5 giugno del 1944 sono 1.735, oltre ad alcune migliaia di cittadini romani, ebrei e non, deportati nei campi di sterminio in Germania e che non sono tornati; ma in questi stessi nove mesi in Roma furono condotte azioni militari e di sabotaggio che in numero e in qualità non hanno pari, nei limiti di quel periodo, in nessun’altra città d'Italia.
Fu così che il nemico pagò cara la sua permanenza in città, e si vendicò manifestando la sua brutale ferocia.
Ma quando gli eserciti alleati incalzarono, i tedeschi e i fascisti abbandonarono Roma precipitosamente, contro gli ordini di Hittler e Mussolini, che volevano impegnare battaglia in città casa per casa e deportare tutti gli uomini validi per il lavoro coatto, secondo i piani già approntati dal generale delle SS Wolff.
Roma era una "città esplosiva", e la non lontana esperienza di Napoli convinse anche i più feroci tra i nostri nemici a non correre rischi già sperimentati.
La Resistenza romana ebbe caratteristiche di spontaneità e di diffusione capillare che è difficile trovare altrove. Sono diecine le formazioni impegnate, grandi come come quelle dei partiti del CLN, in particolare i tre partiti di sinistra, PCI, Pd’A e PSIUP, come Bandiera Rossa, o i Cattolici Comunisti, o come il Centro Militare Clandestino dei "badogliani", ma anche piccole o piccolissime, che, per non aver potuto o voluto trovare il collegamento con i partiti del CLN, operavano autonomamente contro i tedeschi e i collaborazionisti fascisti.
Sono noti episodi di iniziative solidaristiche, ma anche di sabotaggio e di guerriglia, condotti addirittura da famiglie o da singoli, fino all’ultimo giorno dell’occupazione tedesca.
Tutto ciò, e per molte ragioni, che ha esaminato di recente anche Alessandro Portelli nel suo splendido libro "L’Ordine è stato eseguito" ed. Donzelli, che ha ottenuto nel 1999, con il Premio Viareggio per la saggistica il più ambito riconoscimento letterario italiano, si è attenuato nella memoria storica della città perché ha prevalso la disinformazione attraverso l’uso ripetuto di falsi e mistificazioni, malgrado le smentite documentate e l’uniformità delle delibere di tutti i livelli della magistratura, fino alle Cassazioni civili, penali e militari [...]
Rosario Bentivegna, Sulla Resistenza romana e sulle vicende di via Rasella si sono dette troppe sciocchezze. Anche a sinistra, "la RINASCITA della sinistra", 18 ottobre 2002, pagg 28-29, art. qui ripreso da resistenzaitaliana.it

La parola segreta era "Elefante". Questa volta, a differenza dai tempi dell’invasione cartaginese, l’elefante non arrivava come nemico. Significava che gli alleati stavano per liberare Roma. L’elefante amico. La radio alleata trasmise la parola "elefante" alle 23,15 del 3 giugno 1944. Le retroguardie tedesche lasciarono Roma la mattina del 4 giugno, mentre gli ultimi prigionieri di via Tasso erano liberati dalla popolazione e la palazzina del boia Kappler veniva saccheggiata. L’esercito di Clark inondò Roma nelle prime ore del pomeriggio incontrando le prime folle festanti nelle periferie della via Prenestina, della via Casilina, della via Appia, e nelle borgate di Tor Pignattara e Centocelle, dove i fascisti e i tedeschi nelle ultime settimane non avevano osato più passare né di giorno né di notte per paura dei partigiani.
I sentimenti di un popolo che aveva vissuto una terribile notte durata nove mesi non erano molto diversi da quelli dei soldati che dall’inverno avevano sostenuto durissime battaglie sui fronti di Cassino e di Anzio. Solo negli ultimi 23 giorni, la quinta e la settima armata erano riuscite a scardinare la linea Gustav, si erano aperte, attraverso i monti Aurunci, la strada per i Castelli Romani, e unendosi alle truppe sbarcate quattro mesi prima ad Anzio, avevano dato l’ultima spallata al generale Kesserling, che, annidato nelle caverne del monte Soratte, inviava al macello i suoi battaglioni. Roma, la prima capitale europea liberata, era un simbolo per i soldati alleati come lo era per tutti gli italiani.
Redazione, La Liberazione di Roma (4 giugno 1944) in resistenzaitaliana.it

mercoledì 26 gennaio 2022

Gli studi storici sull’antisemitismo e sulla Shoah in Francia, più precoci rispetto all’Italia

Fonte: Wikipedia

Tuttavia le precoci testimonianze sui campi francesi, come Drancy e Compiègne, suscitarono uno scarso interesse nella Francia del dopoguerra, più volta alla ricostruzione che al ricordo dei terribili anni dell’occupazione tedesca. L’attenzione del pubblico era per lo più rivolta ai resoconti dei campi di concentramento in Germania e di sterminio in Polonia, rispetto ai quali i campi francesi rivestivano per il momento un ruolo marginale nel racconto della storia della deportazione. <28 I campi di transito richiamavano infatti alla memoria una sensazione di precarietà ben diversa da quella dei Konzentrationslager dell’Est Europa: si avvertiva cioè un sentimento di futilità nel descrivere delle esperienze che apparivano a posteriori come sopportabili rispetto ai “lieux de cauchemar” conosciuti in seguito <29.
In Italia, diversamente dalla Francia, dove la narrativa resistenziale riusciva a coniugare vittoria e martirio, ricomprendendo vincitori e vinti, fu difficile includere i deportati, anche se partigiani, nelle file dei vincitori, poiché non erano stati tra i fautori attivi della ritrovata libertà <30. Non del tutto invisibile, ma neanche dirompente, fu poi la memoria della specifica sorte toccata agli ebrei, perseguitati e deportati in virtù di ciò che erano e non in funzione della loro appartenenza ad un partito <31, il cui percorso venne dunque compreso attraverso il filtro dell'esperienza dei deportati politici <32. Come ricorda Aline Sierp, oltre all’istituzionalizzazione di alcune ricorrenze che divennero nel dopoguerra commemorazioni pubbliche in memoria della caduta del Fascismo (tra cui il 25 aprile 1945), un’attenzione speciale era rivolta agli anniversari delle stragi compiute dai nazisti in Italia, come le Fosse Ardeatine, Cefalonia, Sant’Anna di Stazzema o Marzabotto, al fine di sottolineare “il tributo di sangue” pagato dall’Italia <33.
L’interesse degli alti vertici statali e dell’opinione pubblica nei confronti dei campi di concentramento e transito sorti in territorio italiano era invece di tutt’altro tenore. Nel 1955, momento cruciale per le celebrazioni del decennale della Liberazione, Primo Levi si rammaricava dell'indifferenza generale che avvolgeva i deportati razziali, concludendo che fosse ancora “indelicato parlare” dell'esperienza concentrazionaria e dei campi di sterminio <34.
Come ricorda Manuela Consonni, tra il 1944 e il 1950 furono in tutto 38 i titoli dedicati al racconto della persecuzione e della deportazione, tra cui solo 8 di essi provenienti dalla penna di scrittori ebrei <35. Dopo una lunga pausa degli scritti di memorialistica sulla deportazione, si avvertì una ripresa dalla metà degli anni Cinquanta, con l’uscita di "Si fa presto a dire fame" di Piero Caleffi nel 1954, la seconda edizione di "Se questo è un uomo" pubblicata da Einaudi nel 1958, la traduzione italiana del "Diario di Anna Frank" e de "La specie umana" di Robert Antelme.
Anche in Francia, come in Italia, l’associazionismo che raccoglieva le esperienze degli ex deportati era per lo più di sinistra: per questo alcuni sopravvissuti ai campi, come Simone Veil, Robert Waitz o Georges Wellers preferirono restare ai margini delle associazioni marcatamente “partigiane” <36. Come ricordava poi Olivier Lalieu: "L’affirmation d’un destin singulier des Juifs en déportation est donc entravée au nom de l’antifascisme triomphant porté par les communistes ou confiné à des sphères guère visibles au sein de la société française. Mais elle est également contrariée dès 1945 par une tradition républicaine qui répugne à distinguer une partie de la population en fonction de critères
religieux" <37. A questo proposito, lo storico francese ricorda come il Ministère des prisonniers, déportés, rapatriés promosse la diffusione nel 1945 di un poster in cui un lavoratore forzato e un prigioniero di guerra in tenuta a righe si abbracciavano, sotto lo slogan “Il sont unis. Ne le divisez pas” <38.
Per Annette Wieviorka, neppure la comunità ebraica organizzata mise l’accento sulla specificità del genocidio: "Elle vit dans l’ombre portée des années noires, et aspire, comme tout un chacun d’ailleurs au lendemain d’une guerre, au retour à la normale, que l’on se présente à l’image de ce que fut l’avant-guerre. Les commémorations marquent alors le désir de réintégrer la communauté nationale, dont les Juifs de France avaient été exclus par l’occupant nazi et la contre-révolution vichyssoise" <39.
La fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60 segnarono una prima svolta nelle politiche della memoria dei due Paesi: al termine della guerra d'Algeria, che aveva contribuito a richiamare gli inquietanti fantasmi del passato recente <40, la V Repubblica veicolava una visione pacificata del secondo conflitto mondiale plasmando la rappresentazione collettiva attraverso l'edificazione di numerose opere, come il Musée du Débarquement de Provence al Mont Faron, il Musée de l'Ordre de la Libération, il Mémorial du Struthof e il Mémorial de la Déportation sur l'Île de la Cité <41. Inoltre, il 18 dicembre 1964, le ceneri di Jean Moulin vennero trasferite al Panthéon: la grande cerimonia organizzata per l'occasione favorì l'identificazione del generale Charles de Gaulle e della nazione intera con l'eroe simbolo della Resistenza <42. Una "Journée nationale de la déportation" venne poi istituita nel 1954, segnando l'ingresso ufficiale della deportazione nell'agenda delle commemorazioni nazionali <43.
È proprio in questo periodo che opere di letteratura, cinema e teatro misero al centro il tema della deportazione: i romanzi di John Hersey "La muraille" pubblicato nel 1952 e "La mort est mon métier" di Robert Merle, sulla figura del comandante di Auschwitz Rudolf Hoess, furono seguiti da "Le Dernier des Justes" di André Schwarz-Bart nel 1959 e la pièce teatrale "Le vicaire di Rolf Hochhuth" nel 1961. Al cinema nel 1957, "Nuit et Brouillard" di Alain Resnais propose le immagini dei campi con il commento e le parole del poeta Jean Cayrol. Inoltre, tra il 1951 e il 1964, in Francia furono pubblicati 62 titoli dedicati alla deportazione: tra le testimonianze più significative è opportuno ricordare il "Journal" di Anne Frank nell’edizione francese del 1950, "La nuit di" Elie Wiesel uscito nel 1957, "Si c’est un homme" di Primo Levi nel 1961, "Aucun de nous ne reviendra" di Charlotte Delbo nel 1965.
Il processo Eichmann del 1961 e quello di Francoforte tra 1963 e il 1965, che vide alla sbarra alcuni dei membri del commando tedesco impiegati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, condussero infine il parlamento francese ad adottare l'imprescrittibilità dei crimini contro l'umanità nel 1964. Più tardi, soprattutto a partire dagli anni '80, grazie anche all'intervento dell'avvocato Serge Klarsfeld e di sua moglie Beate <44, si assistette ad una serie di procedure giudiziarie nei confronti di criminali di guerra e alti funzionari di Vichy che avevano collaborato alla “Soluzione Finale” <45.
In Italia invece ad essere perseguiti attraverso la legge erano stati soltanto alcuni gerarchi militari nazisti, come i responsabili dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, tra cui Herbert Kappler e Albert Kesselring, i cui processi vennero celebrati nell'immediato dopoguerra, e - molto più tardi - quello di Erich Priebke, condotto alla sbarra nel 1995, condannato all'ergastolo e protagonista di molte polemiche anche dopo la sua morte, sopraggiunta l'11 ottobre 2013 <46. Tuttavia, diversamente dal caso francese, l'intervento della giustizia italiana, anche per effetto dell’amnistia Togliatti, riguardò raramente coloro che avevano collaborato con l'occupante nazista: come ricorda Galliano Fogar in merito al processo di Trieste del 1976, il ruolo di tale azione giudiziaria è da ritenersi insufficiente <47. Nel caso ad esempio della Risiera di San Sabba, la musealizzazione del luogo precedette addirittura le indagini giudiziarie.
Gli studi storici sull’antisemitismo e sulla Shoah in Francia, più precoci rispetto all’Italia, vennero invece inaugurati da Léon Poliakov con i volumi "Le bréviaire de la haine" del 1951 e "Le IIIe Reich et le Juifs" del 1959, che assieme a pochi altri studi internazionali, come quello dell’inglese Gerard Reitlinger, e più tardi dell’americano Raul Hilberg, entrarono a far parte di una prima corrente di riflessioni sul tema che all’inizio non tracciava un vero distinguo tra la storia della distruzione degli ebrei europei e la storia del nazionalsocialismo <48.
Soltanto negli anni Settanta si verificò un significativo cambiamento di prospettiva, con il contributo fondamentale di Olga Wormser-Migot sul sistema concentrazionario nazista (1968), ma soprattutto con un rinnovato interesse storiografico sul regime di Vichy e sul collaborazionismo, grazie ai lavori di Henry Rousso con il suo "Vichy, un passé qui ne passe pas" e degli storici americani Stanley Hoffmann, Robert Paxton e Michaël Marrus <49. Il primo tema ad essere posto in evidenza da questa nuova corrente storiografica è “la co-responsabilità del regime di Vichy, e del collaborazionismo dei francesi, e dunque delle istituzioni francesi nella deportazione degli ebrei presenti in Francia e nella Soluzione finale proposta e attuata dal Terzo Reich”, oltre al tema spigoloso dell’antisemitismo francese <50. Nel 1978 uscì inoltre, a cura di Serge Klarsfeld, "Le mémorial de la déportation des Juifs de France", una meticolosa ricostruzione dei convogli partiti dalla Francia, fondata sulle liste conservate presso il CDJC dal 1945 <51.
Per quanto riguarda la storiografia italiana invece, soltanto alla fine degli anni Ottanta - con il cinquantesimo anniversario delle leggi razziali del 1938 - gli storici hanno cominciato ad approfondire le questioni legate alla deportazione razziale e politica, all’antisemitismo in Italia e alle sue implicazioni ideologico-politiche e materiali <52.
Prima di allora vigeva il paradigma universalmente riconosciuto per il quale la legislazione antiebraica in Italia non fosse altro che un’imposizione da parte della Germania hitleriana; un regime, quest’ultimo, ritenuto di gran lunga più sanguinario e “nocivo” rispetto alla dittatura dai tratti “carnevaleschi” di Mussolini <53. Secondo la vulgata, mentre il fascismo aveva rappresentato una “parentesi” nella millenaria storia d’Italia contraddistinta dalla tradizione universalistica latina e cattolica, dall’umanesimo rinascimentale e dal culto della libertà, il nazismo aveva invece rappresentato il “portato” dell’intera storia tedesca, la quale risultava da sempre segnata da esclusivismo etnico-razziale, dall’ostinata volontà di imporre ad ogni costo il proprio primato e da una radicata vocazione illiberale <54.
Un primo segnale di distacco da questa tendenza fu rappresentato dai lavori dell’ex colonnello Massimo Adolfo Vitale e, in seguito, dal giornalista e storico della rivista “Il Ponte” Antonio Spinosa <55. Entrambi dimostrarono un atteggiamento più critico nei confronti della chiesa e della presunta totale solidarietà nei confronti degli aiuti dimostrati agli ebrei.
Non mutava però nel complesso l’assunto che l’antisemitismo fosse un male esterno instillato interamente dalla Germania nazista.
Fu Renzo De Felice, incaricato dall’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, a dedicarsi alla stesura di un’opera destinata a rimanere per lungo tempo il testo di riferimento sulle persecuzioni antiebraiche in Italia. Il volume "Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo", pubblicato nel 1961, trovò la sua genesi in un periodo storico mutato e più sensibile a certe tematiche: tra le vicende che dettero un impulso alla ripresa di questi studi vi fu il processo Eichmann, l’ascesa dell’estrema destra, con l’appoggio dell’MSI al governo di Fernando Tambroni e gli echi preoccupanti di un risorgere dell’antisemitismo nel paese <56.
Il lavoro di De Felice, che più di recente è stato largamente criticato <57, soprattutto per non aver saputo riconoscere la specificità dell’iniziativa fascista nella persecuzione degli ebrei dopo le leggi del 1938, resta comunque un testo cardine per la storiografia sulla Shoah, che dimostra come con l’apertura dell’era del testimone abbia creato di fatto anche una nuova fase per la ricerca storica.
La fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta segnarono un'ulteriore svolta nell'elaborazione della memoria della Shoah: nel 1979 andò in onda lo sceneggiato "Holocaust" del regista americano Marvin J. Chomsky, trasmesso in Francia da Antenne 2 e in Italia da Rai 1. Fu a partire da quell'anno che scoppiarono alcuni casi mediatici legati al negazionismo, come quello di Robert Faurisson, che costrinsero ad un'urgente riflessione sull'uso e l'abuso della storia a livello pubblico <58.
Il cinema costituì, in tutto questo periodo, un altro potente catalizzatore per rimettere in circolo memorie rimaste in sordina: se in Francia "Le Chagrin et la pitié" (1971) e "Lacombe Lucien" (1974) scandirono le tappe di un confronto più approfondito con les années sombres e il ruolo di Vichy, in Italia invece la deportazione degli ebrei venne affrontata dalla trasposizione cinematografica de "Il giardino dei Finzi Contini" (1970) di Vittorio de Sica e dal controverso "Il portiere di notte" (1973) di Liliana Cavani.
Vi fu anche una significativa ripresa nella pubblicazione di opere di memorialistica: fioriva così un genere, quello che talvolta è stato definito “letteratura concentrazionaria” <59.
“Si scrive di più” - commentano Anna Bravo e Daniele Jalla - “man mano che la distanza dai fatti propone un’urgenza inedita: per opporsi al passare del tempo, fronteggiare in anticipo il momento in cui non ci saranno più testimoni diretti, far conoscere esperienze personali che non possono mai essere interamente rappresentate nel racconto altrui” <60.
Non è quindi cambiato soltanto il rapporto dei sopravvissuti con il ricordo dell’esperienza della deportazione, dalla quale hanno assunto maggiore distacco, ma è mutata anche la disposizione del pubblico all’ascolto dell’eco di quel terribile passato. Tra gli scritti più celebri che ottengono maggior successo in questo periodo figurano in Italia il "Diario di Gusen" di Aldo Carpi, "Le donne di Ravensbrück" di Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Buzzone, gli scritti di Giovanni Melodia e le poesie di Lodovico Belgiojoso. Inoltre, nel corso degli anni Ottanta, vengono tradotte in italiano anche le memorie di Jean Améry e di Elie Wiesel, preludio ad una intensissima produzione di testimonianze e letteraria che dura ancora oggi.
[NOTE]
28 R. Poznanski, D. Peschanski, B. Pouvreau, Drancy, un camp en France, Fayard et Ministère de la Défense, Paris, 2015., pp. 242.
29 A. Wieviorka, Déportation et génocide, cit., p. 167.
30 A. Bravo, D. Jalla, La vita offesa: Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, 1988, pp. 23-24.
31 La partecipazione ebraica alla resistenza non ebbe una valenza collettiva, ma fu piuttosto il frutto di scelte individuali. Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino, 2000, pp. 133-134. Si veda anche L. Picciotto Fargion, Sul contributo di ebrei alla Resistenza italiana, “Rivista mensile di Israel”, 3-4, 1980, pp. 132-146; S. Peli, Resistenza e Shoah, “Passato e Presente”, vol. 70, 2007, pp. 88 sg.
32 Cfr. P. Bertilotti, Contrasti e trasformazioni della memoria dello sterminio in Italia, in M. Flores et al. (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni. vol. II, UTET, Torino, 2010, pp. 72-73.
33 A. Sierp, A. Sierp, History, Memory and Trans-European Identity, Routledge, New York, London, 2014, p. 44. La memoria delle stragi era funzionale alla visione condivisa da molti politici italiani per i quali l’Italia non era stata che una vittima della Germania nazista, e in questo senso avrebbe dovuto partecipare a pieni diritti al tavolo degli alleati alla Conferenza di Pace di Parigi. La memoria dei campi di concentramento italiani era ben più complessa: assieme alla ricerca dei gerarchi SS che li avevano gestiti e delle amministrazioni naziste che li avevano diretti, essa avrebbe riportato a galla anche le responsabilità italiane. Come sottolinea Sierp, le commemorazioni degli eccidi, perpetuati dai nazisti, nel corso degli anni Novanta ebbero uno sviluppo notevole, per una semplice ragione: “it perpetuated the self-absolving image that Italians had of themselves, the idea of an innocent Fascism which, compared to the brutality of Nazism, had been less evil and almost good-natured and thus did not require any form of Vergangenheitsbewältigung (coming to terms with the past)”. Cfr. ivi, p. 82. Su questo si veda soprattutto il capitolo IV di G. Schwarz, Tu mi devi seppellir: riti funebri e culto nazionale alle origini della Repubblica, UTET, Torino, 2010, pp. 155-219.
34 Cfr. P. Levi, Deportati. Anniversario, 25 aprile 1955, in A. Cavaglion (a cura di), Primo Levi per l’ANED, l’ANED per Primo Levi, Angeli, Milano, 1997, pp. 18-20.
35 M. Consonni, L'eclissi dell'antifascismo: resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989, GLF Editori Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 41.
36 O. Lalieu, Histoire de la mémoire de la Shoah, Edition Soteca, Paris, 2015.
37 Cfr. ivi, p. 56.
38 Ivi, p. 27.
39 Cfr. A. Wieviorka, La construction de la mémoire de la déportation et du génocide en France. 1943-1995, in P. Momigliano Levi (a cura di), Storia e memoria della deportazione. Modelli di ricerca e di comunicazione in Italia e in Francia, Giuntina, Firenze, 1996, p. 32.
40 O. Wieviorka, La mémoire désunie., cit., pp. 141 sg.
41 Ivi, p. 154.
42 M. Gilzmer, Mémoires de pierres, cit., p. 116.
43 Ivi, pp. 131-133.
44 B. Klarsfeld, Mémoires. Serge et Beate Klarsfeld, Fayard-Flammarion, Paris, 2015.
45 Klaus Barbie viene incolpato di crimini contro l'umanità nel 1983 e condannato all'ergastolo nel 1987, Paul Touvier viene arrestato nel 1989 e condannato all'ergastolo nel 1994, Maurice Papon processato nel 1997 e condannato a dieci anni di reclusione nel 1998, Réné Bousquet, incolpato di crimini contro l'umanità nel 1991, fu ucciso nel suo appartamento nel 1993, mentre il processo a suo carico era ancora in corso (si veda S. Chalandon, P. Nivelle, Crimes contre l'humanité. Barbie, Touvier, Bousquet, Papon, Plon, Paris, 1998).
46 Sul divieto a tenere un funerale religioso e concedere alla salma di Priebke la sepoltura in un cimitero romano, si veda E. Mauro, La tomba segreta di Priebke, “La Repubblica”, 7 novembre 2013, consultato online il 22 settembre 2015.
47 G. Fogar, L'occupazione nazista del Litorale Adriatico e lo sterminio della Risiera, in A. Scalpelli (a cura di), San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, 2 voll., ANED, Mondadori, Trieste, 1988, pp. 58-65
48 M. Cattaruzza, La storiografia della Shoah, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, Storia della Shoah, vol. III, Torino, Utet, 2006, p. 117. Vedi anche P. Dogliani, Rappresentazioni e memoria della guerra in Italia e in Francia, in G. Corni (a cura di), Storia e memoria. La seconda guerra mondiale nella costruzione della memoria europea, Museo storico di Trento, Trento, 2006, pp. 119-220.
49 H. Rousso, E. Conan, Vichy, un passé qui ne passe pas, Fayard, Paris, 1994.
50 P. Dogliani, Rappresentazioni e memoria, cit., p. 211.
51 Un simile studio sulla deportazione politica è stato condotto dal Dipartimento di storia dell’Università di Torino diretta da Brunello Mantelli e Nicola Trafaglia e promosso dall’Aned, che ha dato origine ai quattro volumi dell’opera Il libro dei deportati, editi da Mursia tra il 2009 e il 2015.
52 I. Pavan, Gli storici e la Shoah in Italia, in Storia della Shoah in Italia, vol. II, cit., p. 135.
53 L’espressione è di Benedetto Croce, si trova nel volume Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, Laterza, Bari, 1944, p. 21. Su queste tematiche si veda F. Focardi, L’immagine del cattivo tedesco e il mito del bravo italiano, cit.; Id. Il cattivo tedesco e il bravo italiano, cit.; D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il Saggiatore, Milano, 1994. I lavori di Cecil Roth (The History of the Jews in Italy, Jewish Publication Society of America, Philadelphia, 1946, pp. 105-553), Léon Poliakov (La condition des Juifs en France sous l’occupation italienne, Centre de Documentation Juive Contemporaine, Paris, 1946), Gerald Reitlinger (The Final Solution: the attempt to exterminate the Jews of Europe, 1939-1945, Vallentine, Mitchell, London, 1953), Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira (Storia d’Italia nel periodo fascista, Einaudi, Torino, 1956) sebbene avessero cominciato a far luce sulle vicende degli ebrei italiani sotto il regime fascista, ripetevano tuttavia lo stereotipo della bontà naturale e dell’ “innata gentilezza” del popolo e dei soldati italiani.
54 Cfr. F. Focardi, L’immagine del cattivo tedesco, cit., p. 105.
55 A. Vitale, Les persécutions contre les juifs en Italie, in Les Juifs en Europe (1943-1945). Rapports présentés à la Première Conférence Européenne des Commissions Historiques et des Centres de Documentation Juifs, Edition du Centre CDJC, Paris, 1949; A. Spinosa, Mussolini razzista riluttante, Bonacci, Roma, 1994.
56 I. Pavan, Gli storici, cit., p. 144.
57 Come ad esempio nella nota critica riservatagli da Corrado Vivanti in «Studi Storici», 1962, n. 4, pp. 889-906, oppure più recentemente da M. Sarfatti, La Storia della persecuzione antiebraica di Renzo De Felice: contesto, dimensione cronologica e fonti, “Qualestoria”, 2, 2004, pp. 11-27; Si vedano poi le interviste rilasciate da Renzo De Felice a Giuliano Ferrara per il “Corriere della Sera” nel dicembre 1987 e gennaio 1988, in cui lo storico ammise che “il fascismo italiano è al riparo dall'accusa di genocidio, è fuori dal cono d'ombra dell'Olocausto. Per molti aspetti, il fascismo italiano è stato «migliore» di quello francese o di quello olandese. Inoltre, da noi la revisione è più utile, per le ragioni che le ho appena esposto e che riguardano la necessità di costruire una nuova Repubblica, e meno rischiosa. Noi non abbiamo una tragedia sociale come quella dell'immigrazione nordafricana in Francia, che ha portato il fascismo petainista fin dentro le fabbriche. Dunque possiamo ragionare, informare, parlare del fascismo con maggiore serenità” (Cfr. Ferrara, G., Le norme contro il fascismo? Sono grottesche, aboliamole. A colloquio con Renzo De Felice, lo storico del ventennio nero, in “Corriere della Sera”, 27 dicembre 1987; Ferrara, G., De Felice: “la Costituzione non è certo il Colosseo…”, “Corriere della Sera”, 8 gennaio 1988).
58 La “loi Gayssot”, concepita per perseguire penalmente la negazione dei crimini l'umanità e adottata dal parlamento francese nel 1990, sarà la prima delle cosiddette “loi mémorielles”, che segnano un forte intervento nell'ambito delle politiche della memoria attraverso lo strumento legislativo. Sul negazionismo si veda invece per la Francia P. Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire. “Un Eichmann de papier” et autres essais sur le révisionnisme, La Découverte, Paris, 2005 e V. Igounet, Histoire du négationnisme, Le Seuil, Paris, 2000, mentre per l’Italia V. Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas: logica del negazionismo, Bompiani, Milano, 2014 e C. Vercelli, Il negazionismo: storia di una menzogna, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2013.
59 C. Coquio, Finzione, poesia, testimonianza: dibattiti teorici e approcci critici, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, Storia della Shoah, vol. IV, UTET, Torino, 2006, pp. 158 sg.
60 Cfr. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta: Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, FrancoAngeli, Milano, 1994, p. 75.

Chiara Becattini, Storia della memoria di quattro ex campi di transito e concentramento in Italia e in Francia. 1945-2012, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, Université Paris 8 Vincennes-Saint Denis, 2017