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mercoledì 4 agosto 2010

Douce France

Nella foto (scusate l'immancabile foschia estiva) da destra: Mentone, Cap Martin, -sopra- La Turbie con il Trofeo di Nella Augusto, Montecarlo, Cap d'Ail, dopo-sopra- borgate di Nizza, Beausoleil, Cap-Ferrat)
Abito a pochi chilometri dalla Costa Azzurra, ma invero da anni mi reco sporadicamente oltre il vecchio confine.

Non sempre è stato così, tuttavia non posso dire di avere girato in lungo e in largo la Francia: l'idea che mi sono fatto di questo grande paese deriva in buona misura dalle letture e da tante conversazioni avute nel tempo.

Douce France è il titolo di una bella canzone di Charles Trenet, forse non a caso scrittta durante il secondo conflitto mondiale.

Douce France è un termine usato in senso molto lato in tante occasioni, forse anche a sproposito.

Douce France è il titolo di un libro di memorie di un insigne antifascista italiano, che narra della sua clandestinità nella zona, all'incirca, di Saint-Tropez nel momento più buio della storia transalpina, gli inizi della seconda guerra mondiale. Il fratello di Giancarlo Pajetta, che ho avuto la ventura di accompagnare tanti anni fa a margine di quel teatro geografico, è stato capace di trovare sorrisi e conforto all'interno di una serie di tragiche vicende storiche. Il che, forse, corrisponde a tanta parte della storia di Francia, come, del resto, è stato reso in tanta parte della letteratura.

Nel mio personale sentire la cosiddetta storia maggiore, quella dei libri e dei risonanti articoli di stampa, si intreccia con la storia minore, anzi, ne risulta verificata, corretta ed inverata.

Il mio primo appuntamento fu, a cinque anni a Grasse, per salutare con la famiglia lo zio materno, colà temporaneamente emigrato, anche da discreto giocatore di calcio: un trenino (credo lo stesso con altri risvolti storici che magari tengo da parte per un'altra volta) che corre nella campagna, il classico viale alberato, figure di affabili persone (forse ai miei occhi di allora!) anziane che ho voluto ritrovare in tanti libri e film (ad esempio, nella finzione scenica il padre di Kevin Kline in "French Kiss"): sono fotogrammi che mi accompagnano da quella gita.

Vorrei aggiungere in ordine sparso altre impressioni.

L'anno vissuto a Le Cannet, vicino a Cannes, nel 1931 da mio padre bambino: forse certi entusiasmi me li ha trasmessi proprio lui con i suoi tanti racconti, anche con quello di essere stato compagno di scuola con il semisconosciuto Lazarides, vincitore del primo Tour, ma non ufficiale, del dopoguerra. Sembra neo-realismo in tono minore, ma da giovanotto ne feci argomento per arricchire la conversazione con un anziano italo-francese di quella zona, appassionato di ciclismo. Un fratello della nonna (lato paterno) emigrato a Parigi per antifascismo. Un cugino della nonna che stava a Cap d'Ail, in una casa affacciata su più piani e terrazze su un'incantevole caletta: e scoprire anni dopo lì sotto sul lato orientale, tra le tante famose, la villa che fu dei fratelli Lumiere. Nipoti del nonno Maini emigrati in Dordogna: una storia comune a tanti italiani, come tanti ne ho conosciuti di persona poi io, in genere fieri di essersi integrati, come voleva ancora trent'anni fa tutta la società francese, ma ancora nostalgici del Paese. Una vendemmia (anzi due!) non ancora giovanotto a Les Arc (sempre vicino a Saint-Tropez): "Parli il francese come una vacca spagnola!". A Parigi, già allora il solito italiano: "E' Pompidour?" e il flic "Oui, Monsieur le President!" Documentazione scorta nel vicino dipartimento transalpino sugli anni del Fronte Popolare, con le sue conquiste civili e sociali. E due parole ancora su Picasso. L'incanto della Cappella della Pace a Vallauris, dove ho frequentato ceramisti autorizzati dall'artista in persona a riprodurre certe sue ispirazioni nei loro vasi. Disegni, litografie ed acquarelli donati a sedi ed uffici popolari. La vaga speranza, passando da Mougins, di poterlo scorgere almeno da lontano.

Ho cercato di fare affiorare alla memoria aspetti meno noti della cultura, della tolleranza, dell'antifascismo, del vivere comune della storia di Francia, così come li ho visti io.

Potrò sbagliare, ma trovo oggi molto affievoliti quegli elementi. Italo-francesi o francesi che siano, nei miei attuali occasionali interlocutori trovo sempre minore consapevolezza di quelle radici.


martedì 3 agosto 2010

Al tempo delle jacarande in fiore

Pubblicata al momento della fioritura la foto di una bella jacaranda di Bordighera, ci fu, tra gli altri, un commento che merita, anche a distanza di qualche settimana, di essere riportato:
"Splendida la jacaranda in questo periodo di fioritura. Che strana la nostra Liguria, tanti insigni scrittori, tra cui Francesco Biamonti, niente hanno potuto contro la schiera di pessimi cementificatori."

La sequenza degli eventi è stata, invero, più articolata. Tra i primi commenti ci fu quello di un amico che riportava la notizia per cui a introdurre in provincia di Imperia le jacarande fosse stato il padre di Italo Calvino, insigne botanico. Non potei resistere alla tentazione di scrivere due righe in proposito, per sottolineare l'impegno culturale e civile di Calvino contro la speculazione edilizia. Me ne venne fuori un articolo che, apparendomi pretenzioso, andai subito a cancellare, non prima di avere suscitato le impressioni che più sopra ho riportato.

Potevo partire da un agave, da un pino marittimo, anche da un geranio. Certo, di importazione o di tradizione locale, anche un modesto vegetale desta nelle persone semplicemente dotate di buon senso sentimenti di rispetto per la natura ed il paesaggio.

Ho fatto bene a cancellare quel mio post. Quel commento, che lascio anonimo, era e rimane esaustivo: ogni mia altra considerazione sarebbe superflua.
 

sabato 31 luglio 2010

Gli odori

Io il 24 aprile 1955 a Bevera, in occasione di una delle nostre gite in bicicletta, citate nel post. In lontananza, un segnale - indistinto, certo! - dell'allora in disuso, non ancora ripristinata dalle rovine della seconda guerra mondiale,  linea ferroviaria Ventimiglia-Breil-Tenda-Cuneo


Letto da Novalis l'articolo molto bello, che riporto qui di seguito, non ho resistito, visto che sono di quella zona, alla tentazione di dire la mia. Il che ho fatto in due riprese, la prima su Tumblr, l'altra su Facebook.
 

Gli odori

Era così, mezzo secolo fa, la campagna intorno a casa, con la linea ferroviaria dismessa, che prima della guerra collegava la riviera con la Val Roja e Cuneo, dove ho vissuto i primi anni della mia infanzia. Era il nostro territorio di gioco, quando non esistevano la televisione, i videogiochi, i monopattini e avevamo a disposizione quei lunghi pomeriggi estivi, assolati cieli alti e striduli dal frinire assordante delle cicale che vegliavano su di noi appollaiate sui rami dei ciliegi.


Oltre alle cicale non si sentiva altro, forse ogni tanto il latrato di un cane. Né aerei, né automobili, né motopompe, né motozappe. Il lavoro in campagna si svolgeva a mano e in silenzio. La terra si arava e dissodava col magaglio, l'erba falciata con la "serra" a schiena curva, lavoro da donne, il verderame alle viti veniva irrorato con una pompa di stagno, fissata sulle spalle e azionata dalla mano dell'uomo. Anche la gente allora era più silenziosa. Poche chiacchiere e a bassa voce. Strano come nella mia infanzia non abbia mai udito urlare nessuno. Anche i gesti erano misurati, dalla stanchezza che non concedeva sprechi.


Per noi bambini c'era la terra, l'acqua, il cielo, le piante, gli animali selvatici, gli odori e la ferrovia abbandonata, col cancello che chiudeva il passaggio a livello ancora cigolante sui cardini che spingevano con tutta la forza delle nostre braccia per poi saltarci sopra appena presa la rincorsa.


Gli odori. Lungo la massicciata cresceva rigogliosa una pianta infestante dal fusto poco più grande di un pollice con le foglie lanceolate, non ricordo il suo nome, ma l'ho sempre visto prosperare sui bordi delle ferrovie. Ne spezzavamo i rami più teneri per costruirci la capanna, il nostro rifugio segreto, imbrattandoci le mani del lattice bianco e appiccicoso che sgorgava dalle ferite della pianta e ci impregnava di un odore forte e nauseante che non ho mai dimenticato.


Oggi la ferrovia è stata ripristinata, ma la casa e la campagna non ci sono più.


Una ligure


Mio commento su Tumblr a “Gli odori”
Mi ha colpito il testo in questione, perché nel luogo descritto passavo talora anch’io all’epoca: tutto corrisponde! Aggiungo il fascino per me bambino dei segnali ferroviari (antiquati) abbandonati, le spiegazioni di mio padre su alberi ("L’acacia é pericolosa! Tua bisnonna per la puntura di una spina d’acacia nel piede ha dovuto subire l'amputazione dell'arto!") e su piante, le discese al fiume per bere in foglie verdi e fresche l’acqua sgorgante da polle litoranee. Qualche anno più tardi si andava da quelle parti a tirare quattro calci al pallone: la zona era ancora perfettamente fascinosa e si andava e tornava rasente il corso del Roia per sentirci in piena natura.

Mio commento su Facebook a “Gli odori”
Il bel racconto allegato mi restituisce intatta la meraviglia che quei siti in me suscitavano ancor prima della gentile autrice. Solo non ricordo come facesse mio padre a portare sulla canna di una bici da bersagliere me e mio fratello (sì che eravamo piccolini!) sino a bere dalle allora pulitissime acque del Roia!

sabato 24 luglio 2010

Da Babi Yar di Evgenij Evtushenko

Io sono ognuno dei vecchi fucilati qui.
Io sono ognuno dei bambini fucilati qui.
Niente dentro di me dimenticherà mai!
Che risuoni l’Internazionale quando
L’ultimo antisemita sulla terra
Sarà seppellito per i secoli dei secoli.
Nel mio sangue non c’è sangue ebraico.
Nella loro folle rabbia tutti gli antisemiti
Devono odiarmi ora come se fossi un ebreo.
E per questo sono un vero russo!

di Evgenij Evtushenko

Slovenia on my mind


E' in corso in questi giorni a Sanremo la rassegna EcoLife, dove mi sono imbattuto, preavvisato da un amico che conosce le mie ascendenze, in due stand rappresentativi della Slovenia.
La curiosità di saperne di più sui posti dove erano nati i nonni materni (media valle dell'Isonzo, poco a nord di Gorizia; il nonno ad Anhovo, in italiano Salona d'Isonzo) mi ha indotto, utilizzando i depliant colà reperiti, ad un mio ricorrente azzardato esercizio di presunzione storica e culturale.
Tralascio i riferimenti alla bellezza di certi paesaggi, perché convinto che tutto il mondo é paese, anche se in famiglia al sottoscritto (pigro ed indolente, che solo in una occasione da adolescente dal capoluogo giuliano aveva dato qualche occhiata oltre il vecchio confine) questi temi sono stati più volte anticipati, soprattutto in riferimento all'incantesimo suscitato da certe montagne. Tuttavia, il Sentiero Smeraldo (uno dei partner), che un po' ricorda certo entroterra ligure, merita della considerazione. E non aggiungerò nulla sulle prelibatezze gastronomiche, che in buona parte sono riuscito invece a gustare.

Mi interessa di più sottolineare che esiste una Via della Pace, che transita vicino ai resti delle linee del fronte della prima guerra mondiale, in genere organizzati a presentarsi come un museo all'aperto.

Affiorano alla mia memoria i racconti di mia nonna materna che, ancora bambina, insieme a quello che rimaneva in quel momento della sua famiglia venne costretta dalle truppe italiane a rimanere a ridosso di quel fronte, al di sotto della Bainsizza, teatro, come tutta la linea dell'Isonzo, di reiterati, inumani assalti alla baionetta. Ho capito già da piccolo che la guerra é una cosa atroce mercé il vivo racconto di mia nonna, ma mi rimane il rimpianto di non avere saputo, da adulto, approfondire con lei il discorso, cui non ha poi sopperito l'ampia lettura di resoconti bellici, che in genere poco rendono della dimensione umana degli eventi.

Altro aspetto evidenziato da una rapida scorsa alle brochures, di cui in premessa, é il rilievo, anche in Slovenia, della guerra partigiana, che, per analogia, mi ha fatto pensare alla bisnonna (suocera della nonna), staffetta partigiana di Tito e ai nipoti della nonna che la lotta di liberazione l'avevano abbracciata in Friuli.

Certe vicende richiamano altre vicende a mio avviso importanti, per cui il racconto potrebbe continuare, anche se per rapidi accenni, nella convinzione dell'importanza della cosiddetta storia minore.

Voglio solo sottolineare la persecuzione degli sloveni, condotta dal regime fascista, particolarmente spietata agli inizi della seconda guerra mondiale (campi di concentramento dove vennero reclusi tra ogni genere di stenti bambini, donne e anziani, mentre gli uomini erano costretti - come un mio prozio, che poi lavorò, se non erro, nel cementificio di Salona d'Isonzo -, a combattere per Mussolini ), persecuzione di cui in famiglia (forse per la lontananza dagli eventi, essendo all'epoca ormai da anni i nonni residenti in riviera)) non si é mai parlato. Si é fatto in tempo a parlare, invece, di certe nefandezze del regime di Tito, in particolare con la voce di lontani cugini ormai stabiliti nei dintorni della Gorizia italiana.

Forse in funzione di questi ricordi e di altri analoghi, derivanti (come per tante altre persone, io credo) da altri rami familiari, mi sento - spero in modo degno - cittadino del mondo e testimone dei tempi che corrono.


sabato 17 luglio 2010

“VORREI NASCERE IN TUTTI I PAESI” di Serghej Evtushenko

Quindici anni fa' di questi giorni si consumava il massacro di Srebrenica. Per quelle vittime innocenti, per tutte le vittime innocenti delle recenti assurde guerre sparse per il mondo, per tutte le vittime innocenti della ferocia che troppo spesso l'uomo sa incarnare, per tutte le vittime innocenti degli attuali respingimenti nel Mediterraneo avevo pensato, in segno di rispettosa dedica, ad un'altra poesia di Serghej Evtushenko che, nel mio ricordo e nel mio sentimento personale, pur essendo riferita ad una strage perpetrata nella seconda guerra mondiale dalle armate naziste in Russia, ha un valore universale. Non l'ho per il momento ritrovata. Mi sono, però, imbattuto nella mia ricerca in questa lirica che non conoscevo e che qui di seguito riproduco, perché mi sembra molto significativa:



vorrei nascere in tutti i paesi
perchè la terra stessa, come anguria,
compartisse per me
il suo segreto
e essere tutti i pesci
in tutti gli oceani
e tutti i cani nelle strade del mondo.

Non voglio inchinarmi
davanti a nessun dio, la parte non voglio recitare
di un hippy ortodosso
ma vorrei tuffarmi
in profondità nel Bajkal
e sbuffando
riemergere
nel Missisipi
Vorrei
nel mio mondo adorato e maledetto,
essere un misero cardo
non un curato giacinto,
essere una qualsiasi creatura di dio
sia pure l’ultima jena rognosa
ma in nessun caso un tiranno
e di un tiranno, nemmeno il gatto;
in nessun caso.
Vorrei essere uomo
in qualsiasi personificazione:
anche torturato in un carcere del Guatemala,
o randagio nei tuguri di Hong-Kong,
o scheletro vivente nel Bangladesh
o misero jurodivyj a Lhasa,
o negro a Capetown,
ma non personificazione della feccia.
Vorrei giacere
sotto il bisturi di tutti i chirurghi del mondo,
essere gobbo, cieco,
provare ogni malattia, ferita, deformità
essere mutilato dalla guerra
raccogliere luride cicche
purché in me non si insinui
il microbo ignobile della superiorità
non vorrei fare parte dell’élite
ma di certo neppure del gregge dei vigliacchi
né dei cani del gregge
né dei pastori che al gregge si conformano,
vorrei essere felicità
ma non a spese degli infelici
vorrei essere libertà, ma non a spese di chi è asservito. Vorrei amare tutte le donne del mondoe vorrei essere donna anch’io
magari una volta soltanto…
madre-natura, l’uomo é stato da te defraudato.
Perché non dargli
la maternità?
Se in lui, sotto il cuore, un figlio
si facesse sentire così
senza un perché, certo l’uomo
non sarebbe tanto crudele.
Vorrei essere essenziale – magari una tazza di riso
nelle mani di una vietnamita segnata dal pianto,
o una cipolla nella brodaglia di un carcere di Haiti,
o un vino economico
in una trattoria di terz’ordine napoletana
e un tubetto, anche minuscolo, di formaggio
in orbita lunare;
che mi mangino pure
e mi bevano
purché nella mia morte ci sia una utilità.
Vorrei appartenere a tutte le epoche, far trasecolare la storia tanto da stordirla con la mia impudenza:
della gabbia di Pugacev segherei le sbarre
quale Gavroche introdottosi in Russia
condurrei Nefertiti
a Michajlovskol, sulla trojka di Psi^n
Vorrei cento volte prolungare la durata di un attimo
per potere nello stesso istante
bere alcool con i pescatori nella Lena
baciare a Beirut,
danzare in Guinea, al suono del tam-tam,
scioperare alla “Renault”,
correre dietro a un pallone con i ragazzi di Copacabana, vorrei essere onnilingue, come le acque segrete del sottosuolo
Fare di colpo tutte le professioni
e ottenere così che
un Evtusenko sia semplicemente poeta, un altro, militante clandestino spagnolo, un terzo, uno studente di Berkeley
e un quarto, un cesellatore di Tbilisi.
Un quinto – un maestro elementare in Alaska,
un sesto – un giovane presidente in qualche dove,
anche in Sierra Leone, diciamo,
un settimo -
scuoterebbe soltanto il sonaglio di una carrozza
e il decimo…
il centesimo…
il milionesimo…
Poco per me essere me stesso
tutti, fatemi essere!
E ciascun essere,
in coppia, come si usa.
Ma dio, lesinando la carta carbone
mi ha prodotto in un solo esemplare
nel suo bogizdat.
Ma a dio confonderò le carte. Lo raggirerò!
Avrò mille facce
fino all’ultimo giorno
affinchè la terra rimbombi per causa mia
e i computers impazziscano
per il mio universale censimento.
Vorrei
umanità
lottare su tutte le tue barricate
stringermi ai Pirenei,
coprirmi di sabbia attraverso il Sahara
e accettare la fede della grande fratellanza umana, e fare proprio il volto
di tutta l’umanità.
E quando morirò
sensazionale Villon siberiano
non deponetemi
in terra inglese
o italiana -
ma nella nostra terra russa,
su quella verde, serena collina,
dover per la prima volta io
mi sono sentito tutti.

Serghej Evtushenko