Pagine

Visualizzazione post con etichetta Ligure. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Ligure. Mostra tutti i post

mercoledì 11 agosto 2021

Pastonchi trova posto in antologie straniere di poesia italiana moderna

Francesco Pastonchi - Fonte: Wikipedia

Il 24 giugno 1933 Alessandro Pellegrini <1 scrive a Vjačeslav Ivanov che il poeta ligure Francesco Pastonchi scriverebbe “forse” per il numero speciale del “Convegno” a lui dedicato “alcune pagine, quasi un ritratto, impressioni personali” tratte dalle loro conversazioni. Le pagine di Pastonchi su Ivanov non sono mai state pubblicate e, probabilmente, neanche mai scritte; tutto ciò che rimane dell’incontro di queste due figure sono quattro lettere di Pastonchi conservate all’Archivio Romano di Ivanov (RAI) insieme ad una bozza di risposta di quest’ultimo, che coprono un arco temporale dal 1932 al 1935.
Se non possiamo avvalerci delle “impressioni” di Pastonchi su Ivanov per capire quanto i due condividessero in ambito artistico, è senz’altro utile tracciare il ritratto di Pastonchi per scoprire quali ruoli abbia rappresentato nel panorama letterario italiano della prima metà del XX secolo.
Giuseppe Francesco Flaminio Pastonchi nasce nel 1874 a Riva Ligure, <2 ma - pur restando sempre affettivamente e culturalmente legato alla terra natia - deve la sua formazione all’ambiente intellettuale della Torino dell’ultimo decennio dell’Ottocento. Qui frequenta la facoltà di Lettere sotto la guida di Arturo Graf (1848-1913) e diventa presto noto per l’abitudine di declamare in pubblico versi propri e altrui; conosce altri protagonisti della scena letteraria italiana come Giovanni Cena, Ferdinando Neri, Giulio Bertoni, Massimo Bontempelli <3 e nasce in lui “l’amore per la forma definita” in poesia, <4 ovvero per quella ricercatezza metrica che sarà sempre il suo vero tratto distintivo: <5 'gli interessava esclusivamente un ideale carducciano (e dannunziano) di far della poesia una pratica, né estetica né filosofica, ma metrica e linguistica: una pratica che quasi si risolve tutta nella parola, scelta e collocata là dove il “numero” la dispone'. <6
Appena diciottenne pubblica una prima raccolta di poesie intitolata Saffiche (1892); questo lavoro, le tre canzoni A mia madre (1900) e la poesia civica delle odi Italiche (1903) sono considerati “esercizi di buona scuola carducciana”, mentre La Giostra d’Amore e le Canzoni (1893-1895), <7 definite anni dopo da Pastonchi stesso “saggi metrici”, <8 risentono dell’influenza dei dannunziani Isotteo, Intermezzo e Chimera, sebbene vi sia poco di veramente “preraffaellita” e “stilnovista”. <9
Una delle migliori prove di quella che viene definita la ‘prima stagione lirica’ di Pastonchi sono sicuramente i sonetti di Belfonte (1903), salutati dal critico e scrittore Ugo Ojetti (1871-1946) come uno splendido esempio di “italianità”, perché scritti in quella che è la forma “più precisa, più singolare, più perfetta” e “più eterna” della poesia italiana, appunto il sonetto, rispetto alle “novità vandaliche” dei poeti dell’inizio Novecento. <10
Pensieri intimi, quelli di Belfonte, fusi a paesaggi italici, in particolare di montagna, una lotta tra io “randagio” e “fraternità universale”, cui seguono due anni dopo le limpide liriche di Sul limite dell’ombra (1905). Qui “come pochi suoi contemporanei” Pastonchi si lascia “incantare dall’abbagliante e transitorio fascino dell’impressionismo”, <11 per poi tacere qualche anno e riapparire con la meno riuscita raccolta Il pilota dorme (1913), influenzata stavolta dal più giovane Guido Gozzano (1883-1916). <12
Con queste raccolte Pastonchi trova posto in antologie straniere di poesia italiana moderna insieme ai grandi poeti cui si ispirava (Carducci, Pascoli, d’Annunzio) e ad Antonio Fogazzaro (1842-1911), Arturo Graf e Corrado Govoni (1884-1965); <13 rappresenta l’Italia con Pascoli, d’Annunzio e pochi altri in manuali di poesia contemporanea accanto a Poe, Swinburne, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud e Claudel. <14
Oltre che poeta, Pastonchi è attivo critico letterario e saggista fin dagli anni Novanta del XIX secolo sulle pagine di giornali e riviste. Collaboratore costante, dal 1901 fino alla morte, del “Corriere della Sera”, è anche fondatore di periodici di arte e letteratura quali “Il Piemonte” (1903) e “Il Campo” (1904-1905). Per il suo impegno di giornalista e scrittore trascorre quasi tutta l’esistenza negli ambienti intellettuali di Torino e Milano, ama talora allontanarsi dalla città per riposare in località meno mondane o nei piccoli paesi della nativa Riviera.
È proprio nell’amata Liguria che il poeta ha contatti con la folta colonia russa, avendo modo di frequentare la famiglia del cugino, il deputato sanremese Paolo Manuel-Gismondi, che sposa nel 1927 la pittrice Anna Svedomskaja. <15
Nei dintorni di Antibes incontra il granduca Dmitrij Pavlovič Romanov (1891-1942), complice nell’omicidio di Rasputin del principe Feliks Jusupov (1887-1967), <16 e Sergej Djagilev (1872-1929) durante le tournées dei Ballets Russes a Monte Carlo, nella villa del noto medico Sergej Voronov. <17
Gli amici russi insistono spesso perché il poeta parli loro di Gabriele d’Annunzio, avendo avuto la fortuna di conoscerlo di persona. <18
Pastonchi diventa così famoso per le sue frequentazioni mondane e per essere riuscito, fin dai primi anni del Novecento, a crearsi un nutrito seguito, 'dovuto all’abile costruzione del personaggio, che oltre alla nota eleganza e alla posizione di prestigio di critico del “Corriere”, aveva per sale e salotti d’Italia grande successo come dicitore di poesia, da Dante a se stesso. L’attenzione al “nuovo” aveva precocemente reso il giovane Francesco esperto di comunicazione (…) rispetto al protagonismo tribunizio del maestro avverso Gabriele'. <19 [...]
1 Alessandro Pellegrini (1897-1985), germanista, francesista, scrittore, saggista e traduttore. Estimatore del pensiero di Ivanov, di cui legge alcune opere in tedesco già negli anni Venti, decide di pubblicare un numero monografico su di lui sulla rivista “Il Convegno”, della quale è creatore e redattore.
2 Notizie sulla vita di Pastonchi sono pubblicate in Francesco Pastonchi, un ligure accademico d'Italia. Biografia, ricordi del poeta, brani scelti di prosa e poesia, a cura di B. M. Gandolfo, Sanremo, Tipolito La Commerciale, 1998; M. Pardini, Francesco Pastonchi: un percorso biografico, “La riviera ligure. Quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro”, 2005, n. 48, pp. 43-60; P. Rachetto, Francesco Pastonchi (il poeta), Torino, Petrini, 1952.
3 Giovanni Cena (1870-1917), poeta, prosatore e critico, redattore di “Nuova Antologia”, rivista fiorentina di letteratura, arti e scienze dal 1902 fino alla morte; Ferdinando Neri (1880-1954), francesista, critico letterario, presidente dell’Accademia delle Scienze di Torino, direttore di importanti periodici di letteratura come il torinese “Giornale storico della letteratura italiana” e il romano “La Cultura” (1928-1936); Giulio Bertoni (1878-1942), filologo, critico e linguista, direttore della sezione di Linguistica della Enciclopedia italiana dal 1925 al 1937, presidente dell’Accademia d’Italia; Massimo Bontempelli (1878-1960), scrittore, critico e drammaturgo, ideatore del “realismo magico” italiano.
4 U. Ojetti, Cose viste, Firenze, Sansoni, 1951, p. 784.
5 M. Guglielminetti, Francesco Pastonchi poeta, in La Musa subalpina. Amalia e Guido, Pastonchi e Pitigrilli, a cura di M. Masoero, Firenze, Olschki, 2007, p. 43.
6 Ivi, p. 38.
7 La Giostra d’amore è divisa in sette cicli “in onore” di altrettanti personaggi femminili, mentre le Canzoni sono divise in Canzoni libere, Sestine e Ballate. L’impianto è di ispirazione medievale e il richiamo a Dante si esplicita in un componimento intitolato La vita nuova.
8 Cf. U. Ojetti, Cose viste, cit., p. 784.
9 M. Guglielminetti, Francesco Pastonchi poeta, cit., pp. 41-42.
10 U. Ojetti, I sonetti di Francesco Pastonchi, “Fanfulla della Domenica”, XXV, 27, 5 luglio 1903.
11 F. Olivero, Studies in Modern Poetry, London, Milford, 1921, p. 251.
12 M. Guglielminetti, Francesco Pastonchi poeta, cit., p. 43. Cf. anche M. Guglielminetti, Pastonchi e Gozzano, in La Musa subalpina. Amalia e Guido, Pastonchi e Pitigrilli, cit., pp. 349-363. Pastonchi dedica a Gozzano il saggio Il terzo Guido, in F. Pastonchi, Ponti sul tempo, Milano, Mondadori, 1947, pp. 141-171.
13 Cf. Cambridge Readings in Italian Literature, edited by E. Bullough, Cambridge, Cambridge University Press, 1920.
14 Cf. F. Olivero, Studies in Modern Poetry,  cit.                                                                                          15 Anna Aleksandrovna Svedomskaja (1898-1973), figlia del pittore Aleksandr Svedomskij (1848-1911), frequenta l’Italia fin da bambina. Studia disegno e scultura a Mosca, trasferendosi in Italia dopo la rivoluzione. Vive dal 1925 a Sanremo, dove espone le sue opere tra gli anni Venti e Trenta. Cf. la nota biografica in www.russinitalia.it.
16 F. Pastonchi, Danzò e piacque, in Ponti sul tempo, cit., pp. 253-260.
17 Sergej Abramovič Voronov (1866-1951), chirurgo e scienziato russo emigrato in Francia. Acquista nel 1925 una spaziosa villa a Grimaldi, frazione di Ventimiglia.
18 F. Pastonchi, Colazione con Voronoff, in Ponti sul tempo, cit., pp. 69-79.
19 S. Verdino, Ascolto di Pastonchi, in Pastonchi, ricordo di un poeta ligure (Atti del Convegno di Riva Ligure e Sanremo, 5-6 dicembre 1997), a cura di G. Bertone, Novara, Interlinea, 1999, pp. 66-67.
Giuseppina Giuliano, Il Sole, “signore del limite”. Lettere di Francesco Pastonchi a Vjačeslav Ivanov in Archivio Russo-Italiano VIII - Russko-ital’janskij Archiv VIII, Pag.105-139, Salerno, Europa Orientalis, 2011 

Già Pastonchi, all’indomani della pubblicazione della Via del rifugio, aveva esortato il giovane Gozzano a ricercare la propria voce e a liberarsi dalle fonti francesi, quelle che più spiccavano all’orecchio dei contemporanei, più ancora di d’Annunzio che aveva emanato tanto della propria personalità da essere difficilmente riconoscibile. Ma il critico <2 non sapeva che ancor prima di lui, a separare l’originalità dell’oro dall’argento del plagio, ci aveva  pensato Mario Vugliano <3, che eliminò dal fascio di poesie pronte per l’Editore Streglio, quelle in cui il magistero dannunziano era troppo invadente, per lasciare spazio a quel mazzetto di poesie intitolato La via del rifugio.
2 F. Pastonchi, in Primavera di poesia, in <<Corriere della sera>>, 10 giugno 1907, parla soprattutto di Jammes e conclude che Gozzano dovrebbe: <<liberarsi da certe coloriture [...] da influenze che ne alterano l’organismo e lo dispongono a imitazioni>>
3  Carlo Calcaterra, in Con Guido Gozzano e altri poeti, Bologna, Zanichelli, 1944, narra l’episodio della “censura” di Mario Vugliano: <<Così nel 1907 apparve smilza smilza la prima sua raccolta di rime. La via del rifugio, senza Il frutteto, senza il sonetto L’antenata, senza i versi al Bontempelli, senza L’altana, senza i sonetti Domani e altri componimenti>>, pp. 27 e 28

Sara Calì, Gozzano tra D'Annunzio e Pascoli. Legami intertestuali, Tesi di Laurea, Università degli Studi "Roma Tre", Ciclo XXII

Pastonchi Francesco: 26 L, 30 C. Carteggio 1920-1951.
Pastonchi legge di UB soprattutto gli scritti d’arte e i Precetti ai pittori. I due condividono l’amicizia con Papini, Soffici, Linati. Alla morte dell’amico, UB pubblica sulla «Provincia» di Como una Lettera in morte di Francesco Pastonchi [029].
L'Archivio Ugo Bernasconi, Carteggi, Manoscritti, Documenti a stampa (1874-1960). Inventario, Carteggi: elenco dei corrispondenti, a cura di Margherita d’Ayala Valva, Edizioni Scuola Normale Superiore Pisa, 2005

 

lunedì 5 luglio 2021

L’uomo è un fenomeno tra i fenomeni, non è più signore assoluto

Francesco Biamonti

Matteo Grassano
Il territorio dell’esistenza. Francesco Biamonti (1928-2001)
Milano
Franco Angeli
2019
ISBN 978-88-917-8042-3

Chi ama i romanzi di Francesco Biamonti non potrà che compiacersi dello scrupoloso lavoro di Matteo Grassano, che ha prodotto questa corposa monografia dedicata a uno degli autori più convincenti dei nostri tempi, letterato di grande finezza, artista di forte efficacia. Subito celebrato dalla critica come scrittore di razza, Biamonti non è forse ancora abbastanza conosciuto dal più vasto pubblico dei lettori colti.
Per chi ama testi letterari di valore, l'autore ligure risulta una scoperta stimolante, per la filigrana esistenziale di cui sono permeate le sue opere, la raffinata asciuttezza del suo dettato al tempo stesso rigoroso e lirico, l’approccio personale ed efficacemente artistico della sua strategia narrativa. E poi la rarefazione delle trame, la pudica continenza (che talvolta rasenta la reticenza) con cui il narratore tratteggia i personaggi, che accrescono nel lettore interesse e curiosità per una prosa autentica, vocata, lontana da pose e mode, dotata di una propria cifra stilistica inconfondibile.
Spontaneo, quindi, il desiderio di comprendere di più questo autore dalla marcata personalità artistica.
Proprio qui interviene la paziente ricerca di Matteo Grassano in Il territorio dell’esistenza. Francesco Biamonti (1928-2001), pubblicata da Franco Angeli nella collana «Letteratura italiana. Saggi e strumenti», diretta da Gian Mario Anselmi, Pasquale Guaragnella e Francesco Spera.
Collana che vuole, fra l’altro, «indicare nuovi percorsi e suggerire nuove letture alternative, ravvivando la circolazione delle idee e riconfermando l’alto valore della nostra civiltà letteraria».
Il volume ha la prefazione di Vittorio Coletti, e non per caso, visto che Grassano raccoglie in pieno l’invito dello studioso a «una rilettura più critica e meditata del nostro autore» che miri a «una ricostruzione dei suoi percorsi umani e intellettuali» (Vittorio Coletti, Introduzione a Francesco Biamonti. Le parole il silenzio, Genova, Il nuovo melangolo, 2005, p. 9) inaugurando anzi «una terza età delle critica biamontiana: dopo quella della recensione militante e dell’interpretazione critica, quella della sistemazione complessiva» (p. 10).
Le quattrocento pagine del volume (di cui una trentina di bibliografia) concretizzano una ricerca meticolosa e appassionata, con lo scopo, si avverte, di essere prima di tutto utile, grazie a un approccio rispettoso che non interpone lo studioso tra scrittore e lettore ma vuole, al contrario, fornire strumenti per meglio comprendere e apprezzare i libri di un autore amato; e il saggio di Matteo Grassano tanto è ricco di informazioni, tutte documentate, quanto scritto in un linguaggio non specialistico ma chiaro, accessibile anche a chi fa altro mestiere da quello dello studioso o del critico.
Un elemento, che emerge con chiarezza dalla ricerca di Grassano e che aiuta a capire la genesi dei romanzi di Biamonti, è che per l’autore di San Biagio della Cima l’invenzione artistica parte dal dato reale; l’autore filtra sulla pagina scritta - in chiave narrativa, ovviamente - elementi del proprio vissuto, la conoscenza di ambienti, persone, fatti. I luoghi conosciuti - dunque - diventano lo scenario dell’universo narrativo in cui Biamonti ripropone suggestioni e veri e propri “quadri”, forte della sensibilità e vocazione pittorica che caratterizzavano il suo sguardo sulle cose e sul mondo, alla ricerca della luce e del tratto distintivo, identitario, che quei luoghi possiedono e comunicano: «La Liguria del qui e dell’ora è la frontiera in continuo movimento lungo cui si muove l’uomo e lo scrittore Francesco Biamonti per rappresentare il mondo circostante» (p. 31).
Lo studioso, con un paziente lavoro di verifica incrociata tra biografia, testimonianze, letture e scrittura, accerta infatti che i luoghi della narrativa biamontiana rimandano a contrade familiari o amate dall’autore, così come alcune figure e svariati fatti che compaiono nei suoi romanzi: quella, ricorrente, del pittore, costruita sulla frequentazione dell’amico Morlotti (p. 75); e così Sabel che fa la «stagione in Provenza nei campi di lavanda o nei vigneti» richiama l’esperienza dell’emigrazione (pp. 78-79) documentando il rapporto storico della comunità contadina del Ponente ligure con la Francia; e poi ancora le balie, le nounous di Vento Largo (p. 79); la fuga stessa di Sabel a Saint-Honorat, dove «Biamonti era stato ospite dei monaci» (p. 71); il celebre incontro con il pastore sul passo dell’Annunciata, luogo che «era davvero un punto di svernamento per i pastori delle Alpi Marittime» e dove ancora oggi si trovano i cortì, ovili in pietra (pp. 34 e 95); o l’esperienza di passeur che rimanda al ricordo di un fatto realmente vissuto da Biamonti quando aveva una decina di anni (p. 113), solo per fare alcuni esempi.
Grassano con esplorazione tenace e paziente ripercorre a ritroso i sentieri della composizione biamontiana rintracciando riferimenti filosofici, letterari, storici, linguistici, usi e vicende della tradizione locale e persino familiare dell’autore ligure. E così si precisa meglio la «mistura di vero e immaginario, di concreto e di mentale che costituisce il paesaggio di Biamonti» (Coletti, Francesco Biamonti, cit. p. 13) e più in generale la sua narrativa.
Passo passo Grassano ricostruisce, dunque, la fitta trama di dati reali che stanno dietro la trasfigurazione artistica, svela che l’ispirazione (com’è prevedibile) non è frutto di astrazione ma ha radici nel vissuto, nell’esperienza, nelle conoscenze, nei viaggi dell’autore ligure.
Le ricerche di alcuni studiosi - avverte -  «confermano quanto Biamonti evoca narrativamente» (p. 79). È forse anche questa concretezza, questa densità di reale trasfigurato che sta dietro e dentro la pagina di Biamonti - viene da domandarsi - che dà, tra le altre cose, credibilità e vita alla sua narrativa.
Nei personaggi poi (marinai che vorrebbero tornare a fare i contadini, contadini che sognano di navigare), Grassano intravede una irrequietezza feconda fra «estraneità e malinconia» (p. 197), l’impossibilità di trovare una vera composizione tra curiosità del mondo, fuga verso un altrove da un lato e incrollabile radicamento alla propria terra dall’altro (p. 353); il dilemma, la tensione dei personaggi non si può comporre e lo spaesamento che ne deriva è, prima che individuale, storico.
Non c’è per Francesco Biamonti un buen retiro. Non lo sono le terrazze di ulivi e mimose marginalizzate da una società e una economia mutata; non lo è la fuga verso un altrove (il mare, simbolicamente) che pare tuttalpiù solitaria concentrazione in sé stessi, fino allo smarrimento (p. 354). I suoi protagonisti sono viandanti dell’esistenza, comunicano solitudini, testimoniano esistenze irrisolte (p. 145). E questo viaggio del vivere, condotto con la consapevolezza che non esiste porto sicuro, relazione sentimentale appagante (la donna «concilia l’uomo con la materialità della vita e con l’eternità della morte», p. 224) né requie è, in fondo, la normale, autentica condizione dell’essere umano: «È indubbio che, secondo Biamonti, lo statuto esistenziale dell’uomo sia sostanzialmente interrogativo» (p. 146). Ma la forza, la suggestione che è in grado di esercitare la sua prosa è frutto anche dell’accettazione, mai rassegnata, di questo dato di fatto, piuttosto che del compendiarsi dell’esperienza umana in quei quattro elementi - roccia, vento, mare, luce - che sono quasi metaforico “acronimo” della «vera e propria tetralogia elementare della materia e dell’immaginazione» (p. 362) compiuta dall’autore ligure nei suoi quattro, bellissimi romanzi: Angelo di Avrigue (roccia), Vento largo (vento), Attesa sul mare (acqua), Le parole la notte (luce) (p. 361).
Il lavoro di Grassano aiuta poi a comprendere con maggiore consapevolezza la peculiare esperienza estetica che origina dalla lettura delle opere di Biamonti, attraverso un percorso che conduce a esplorare la geografia reale, narrativa, interiore dell’autore di San Biagio, i luoghi della sua poetica, la «civiltà dell’ulivo» della Liguria contadina fatta di fatica e miseria, il mito consolatorio della Francia e quello antico, ancestrale della Provenza, e poi - insieme - il legame con quella attualità dolorosa di esuli e terre abbandonate o brutalizzate da un’economia senz’anima nell’inarrestabile precipizio della storia.
Acuta e utile, a tale proposito, la notazione di Grassano sul lirismo «fenomenologico-esistenziale» della prosa biamontiana (che si legge quasi fosse poesia) forse il più seducente e efficace strumento a cui lo scrittore affida una pur labile possibilità di resilienza: «[…] più il mondo si fa disumano e la realtà più crudele, più i segni di morte pervadono le coscienze, tanto più la risposta dev’essere lirica per salvare ciò che ancora c’è di umano nel nostro tempo», annota Grassano citando lo stesso Biamonti» (p. 340).
Ma la ricerca di Matteo Grassano è anche uno scavo delle radici del letterato ligure, condotto attraverso l’esplorazione della biblioteca personale dello scrittore a San Biagio della Cima, partendo dalle notizie che si possono trarre da interviste e interventi nei più diversi contesti in cui l’autore ligure ragionava apertamente, dialogando forse anche un po’ tra sé (come i suoi personaggi) sulla propria poetica, sulla lingua come strumento artistico-letterario e sull’arte letteraria come occasione esistenziale e strumento profondamente espressivo, da maneggiare con rigore, audacia e rispetto.
E così Il territorio dell’esistenza diventa lo stimolo a compiere nuove letture per conoscere di più la stessa opera di Biamonti, attraverso i testi e gli autori che furono per lui fondamentali: da L’essere e il nulla di Sartre a La terre et les rêveries du repos di Gaston Bachelard a Camus, Malraux, Valéry, Montale, solo per citarne alcuni, così da rileggere poi i romanzi dell’autore ligure con accresciuto interesse.
Infine, tra i pregi del saggio di Matteo Grassano, l’indicazione delle zone che richiedono ancora di essere illuminate dagli studiosi di Biamonti, prima fra tutte la formazione e le letture filosofiche (p. 149), e - prezioso contributo - l’articolata bibliografia che, con osservazioni puntuali utilmente distribuite di nota in nota, si compone nel corso della lettura del volume quasi in una bibliografia
ragionata.
Massimiliano Francia, Matteo Grassano, Il territorio dell’esistenza. Francesco Biamonti (1928-2001), Oblio, Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca, Anno X, numero 40, Inverno 2020

Il mondo letterario di Francesco Biamonti, la sua personale “terra di mezzo” a metà strada tra realtà e immaginazione <1, è un paesaggio di frontiera.
Nella straordinaria luce del trasognato ma vivido Ponente ligure biamontiano riverbera misteriosa l’entità confine <2. Presi tra l’azzurro cangiante del Mediterraneo e la verticale trascendenza delle Alpi Marittime, tra vertiginosi dirupi e terrazze ulivate, ne possiamo percepire la singolare presenza. Diffusa e viscosa, si appiccica a tutte le cose. Contamina il territorio, lo segna inesorabilmente. Nel presente saggio cercheremo di mostrare come la lirica prosa dello scrittore di San Biagio della Cima sia incentrata sul paesaggio di frontiera della Val Roja e della Val Nervia, dove la Liguria italiana sfuma nella Provenza francese. Forza allora, incamminiamoci “nel paesaggio aspro e scosceso dell’entroterra […], nell’estremo suo lembo di Ponente, al confine con la Francia” <3.
Paesaggio di frontiera
Prima di procedere, una considerazione preliminare, di metodo. In questo lavoro il paesaggio non è da intendersi come il convenzionale sfondo su cui si stagliano le gesta dei protagonisti umani delle vicende narrate. Nella nostra prospettiva il paesaggio è l’espressione estetica di un territorio vivo, cioè la manifestazione sensibile di un’associazione eterogenea di entità biologiche ed inorganiche che disegnano il profilo di una vera e propria società non antropocentrica. Non fondale inerte dunque, ma campo di forze ed energie. Greppi ruderi torrenti, rocce sentieri cespi, crinali terrazze e persino le stelle sono tutti elementi che, insieme agli uomini, compongono con intraprendenza la trama del tessuto geosociale <4 del territorio. Talora complici, talvolta nemici degli sconfinamenti clandestini della frontiera, le entità non umane che popolano il Ponente ligure biamontiano possono opporre resistenza, oppure cospirare con gli uomini.
Ne Le parole e la notte, ad esempio, “i picchi facevano da sentinelle lunari” <5 a un transito segreto. Vi è tutta un’arcana politica segreta di alleanze ed opposizioni, una diplomazia non verbale oltre l’umano. Gli sventurati trovatisi a tentare la sorte sui lameggiati crinali del confine franco-italiano sanno bene quanto gli elementi del territorio possano rivelarsi decisivi per il buono o il cattivo esito dell’attraversamento.
In Vento largo, quando il passeur Varì conduce Dragomir e Danila oltrefrontiera, appare evidente come le entità non umane non stanno sullo sfondo della narrazione, ma reclamino un ruolo da protagoniste. Citiamo il passaggio.
La Cimòn Aurive emergeva scogliosa in faccia alla luna. […]
Camminavano adesso verso il costone che allacciava il crinale d’Aùrno
alla Cimòn Aurive <6. Gli ulivi s’alternavano al bosco; l’aria portava un soffio
autunnale, di foglie secche: veniva dalle querce. […]
Il sentiero andava in cima a terrazze senz’alberi […]
Entrarono in un uliveto, l’ultimo di pace precaria, già assediato dai
rovi. […]
Passate le pietre di un vallone, solo rocce e stelle; poi, la parete vetrificata
incisa dal sentiero.
- Non parlate, - Varì disse col fiato, - la voce da qui non trova ostacoli,
se ne va sino al confine. Venite piano piano.
Si vedeva il mare laggiù in fondo, un mare che turbava: un dirupo più
lucente degli altri, che saldava i promontori. Poi salirono per un canalone
di polvere e conchiglie corrose, dove il piede affondava e dal crinale apparve
un altro mare, più vasto e che sembrava respirare. […]
Sostarono in attesa che la luna passasse a rischiarare l’altro versante, col
buio forato dalle luci di Castellar e di Sospel. […]
Li guardò scendere contro il mare, tra la risacca attutita dalle rupi. Tornò
indietro col cane che cominciava a riannusare i cespugli.
Ci si vedeva meno che all’andata - la luna rasentava il mare e illuminava
solo qualche scheggia di terra alta, da cui scendevano i riverberi
<7.
Ecco come gli elementi del paesaggio sembrano dotati di vita propria, palpitano. Non di rado, forse per farne risaltare in modo più esplicito la vitalità, sono addirittura antropomorfizzati. In Biamonti sentiamo vibrare distintamente “l’intelaiatura stessa del paesaggio, l’intelaiatura morfologica” <8.
Le entità non umane, al pari degli esseri umani, compartecipano alla creazione e allo sviluppo di concatenamenti di senso e d’azione. Potremmo spingerci sino ad affermare che l’ontologia sottesa all’universo narrativo di Biamonti sia “piatta” <9, non antropocentrica. Del resto, a detta dello stesso autore, “l’uomo è un fenomeno tra i fenomeni, non è più signore assoluto” <10. Lo scrittore aveva dichiarato esplicitamente di sperare che nei suoi romanzi “le cose prendessero rilievo in sé: sì, come fenomeno a sé” <11.
[...]
1 Cfr. M. Quaini, Nel segno del paesaggio: Biamonti, la Liguria, il Mediterraneo, in “Resine: Quaderni Liguri di Cultura”, 141-142, Anno XXXV, 3°-4° trimestre 2014, pp. 135-136.
2 In questo saggio scegliamo di utilizzare i termini ‘confine’ e ‘frontiera’ come sinonimi. Per una discussione sul possibile diverso significato dei due termini rimandiamo a M. Graziano, Frontiere, Bologna, il Mulino, 2017.
3 Queste parole sono di Italo Calvino, tratte dalla quarta di copertina dell’edizione Einaudi de L’angelo di Avrigue. Cfr. F. Biamonti, L’Angelo di Avrigue (1983), Torino, Einaudi, 1995.
4 Cfr. N. Clark, K. Yusoff, Geosocial Formations and the Anthropocene, in “Theory, Culture & Society”, 34 (2-3), 2017, pp. 3-23.
5 Cfr. F. Biamonti, Le parole e la notte (1998), Torino, Einaudi, 2014, p. 84.
6 A nostro avviso questa cima rappresenta l’analogo letterario del Monte Grammondo, vetta delle Marittime che con i suoi 1378 metri domina il crinale di confine.
7 Cfr. F. Biamonti, Vento largo (1991), Torino, Einaudi, 1994, pp. 6-9.
8 Cfr. F. Biamonti, Scritti e parlati, Torino, Einaudi, 2008, p. 105.
9 Con la definizione di “ontologia piatta” facciamo riferimento al modello teorico dell’“attore-rete” (Actor-Network-Theory) nell’ambito della ricerca sociale, di cui il collasso della divisione moderna natura/cultura e il riconoscimento di entità non umane come attori (o attanti) qualora queste producano effetti su altri attori. Cfr. B. Latour, Reassembling the Social: An Introduction to Actor-Network Theory, Oxford, Oxford University Press, 2005.
10 Cfr. F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., p. 228.
11 Ibidem.

Ivan Bonnin, Biamonti e il Ponente ligure: un paesaggio di frontiera, Paideutika, L'educazione tra norma e trasgressione, Nuova Serie, Numero 29, Anno XV, 2019


sabato 5 giugno 2021

Come al solito ritrovo Bruno Fonzi


Il romanzo di Fonzi si ambienta sulla riviera ligure, dove un gruppo di ricchi sfaccendati recita - fra partite di tennis, cene e mondanità - una commedia imprevedibile che si rovescia in dramma.
Redazione, Bruno Fonzi, Tennis, Einaudi, 1973, Antro di Ulisse   

[...] Ricordo che quando veniva a trovarmi a Bordighera dimostrava un attaccamento a quei luoghi e ad un comune amico in particolare, lo scrittore Guido Seborga, l’Hess della Resistenza e dell’impegno socialista all’Avanti che aveva poi abbandonato per dedicarsi  alla pittura e alla scrittura nell’immediato entroterra bordigotto. Attorno al mitico locale “Che Louis” in viale Italia si trovavano intellettuali come lui, Betocchi, Navarro (affezionatissimo di Bordighera e di Venezia  per le sue vacanze) e Bruno Fonzi che a Bordighera dedicò il romanzo Tennis. Ero un giovane universitario ed ho potuto partecipare di quel clima solo   attraverso i suoi epigoni, notandone le profonde inquietudini esistenziali che non bastavano più bevute a rasserenare. Hess, sicuramente il più affascinante e libero, era profondamente deluso e si poteva cogliere con immediatezza. Massimo Novelli ha scritto di lui in modo raffinato, cogliendone l’arte e il travaglio interiore profondo [...]
Pier Franco Quaglieni, Quelle vacanze nella Liguria torinese, Lo Spiffero, 3 agosto 2015 


Il mio primo rapporto con Bruno Fonzi risale al dicembre del 1974. Nell’aprile di quell’anno aveva pubblicato, nei “Nuovi Coralli” di Einaudi, I pianti della liberazione, quel racconto suo bellissimo che faceva parte della prima raccolta Un duello sotto il fascismo del ’61. Il due dicembre mi scrisse per ringraziare dell’articolo dedicatogli. S’avviò così un’amicizia durata poco meno di due anni, ma intensissima e profonda. “Come se ci conoscessimo da molto”, diceva. Ci vedemmo di lì a poco a Milano per un breve incontro tra due librerie, la casa Garzanti, un ristorante. Portava la sua eleganza come il colore degli occhi e l’andatura nobile che lo contrassegnava. Era nato a Macerata nel 1914. A Macerata era rimasto fino al ’26 quando la famiglia si era trasferita a Torino. Dopo la laurea in Scienze Economiche e Commerciali, negli anni Quaranta sarà a Roma dove intreccerà amicizie che si interromperanno con il suo spegnersi: Moravia, Elsa Morante, Giorgio Bassani, Giacomo Debenedetti, Ennio Flaiano, Niccolò Gallo, Mario Pannunzio che lo chiamerà a collaborare, per circa un decennio, a “Il Mondo”. Nel ’49 fissa la residenza definitiva a Torino, dove sposerà Ada Fosco, e sarà chiamato, da Cesare Pavese, ad occuparsi della collana di narrativa inglese e nordamericana. Poco prima della morte, nel giugno del ’76, lascerà l’Einaudi per Garzanti. Le insidie dell’intelligenza si era intitolato il seminario di studi presso l’Università di Urbino, Istituto di Filologia Romanza, tenutosi il 10 e 11 maggio 1988, a cura di Gualtiero De Santi e al quale parteciparono Gina Lagorio, Mario Santagostini, Donatella Marchi, Massimo Raffaeli, Fabrizio Adanti, Maria Lenti e il sottoscritto.
A oltre dieci anni dalla sua perdita, tornava l’identità di scrittore e di traduttore superbo che era passato attraverso le regioni più intense e impervie della letteratura che gli premeva: il Sartre de La nausea (1947) e l’Hemingway di Un addio alle armi (’45), il Teatro di Arthur Miller (’59) e quello di O’Neill (1962), La fortezza di Singer (’72) e le Memorie di una maitresse americana della Kimball (’75), Ragtime di Doctorow 8’76) e I libri della mia vita di Henry Miller (’76), per citarne alcuni.Scese ad Ancona, provenendo da Firenze, nel marzo del ’76, per presentare alla Biblioteca “Benincasa” la raccolta dei suoi racconti di una vita, Equivoci e malintesi, che Einaudi aveva pubblicato poco prima. Poggiata la valigia da certi suoi parenti di Via Villarey, risalimmo in auto per raggiungere Portonovo e rammentare le pagine di Musil ne “Il viaggio in paradiso”, appendice de L’uomo senza qualità, nel quale quella baia è toccata dalla grazia della scrittura e dei sensi. Ripercorremmo l’itinerario della sua infanzia per la città ferita ancora dal terremoto del ’72 e con le tracce aperte dell’ultima guerra europea: la via delle carceri, i palazzi del Guasco, di San Pietro, l’arcivescovado, il porto.
Camminava nell’impermeabile scuro tutto abbottonato e raccontava una storia di brevi capitoli lasciando che crescesse il ritratto del ragazzino che era stato, occhi vivi e veloci, in quei luoghi tra l’Anfiteatro e Piazza San Francesco. Salendo per la Cattedrale gli dicevo che lungo quel percorso – e più sotto – Visconti aveva girato, nel ’42, le scene anconetane di Ossessione, con Girotti, la Calamai, Juan De landa, Elio Marcuzzo. Anche le vie di quel film erano, in gran parte, scomparse con i disastri dei bombardamenti. Poi Villa Bosdari verso il Trave, dove cenammo, da soli, nel conforto di una conversazione che durava da ore e che avrebbe occupato gran parte della notte. Sulla spiaggia di Portonovo mi parlò di Pavese, degli anni einaudiani. Consegnava figure e fatti oltre il mito e la leggenda, nell’asciutta evidenza delle cose. Non condivideva la pubblicazione de Il mestiere di vivere, il diario d’esistenza che si chiuderà con il suicidio dello scrittore nell’agosto del 1950, a quarantadue anni.
Appoggiati a una barca rovesciata vicino alla Torre De Bosis affrontammo i suoi libri. Ironico, discreto, attento, sfogliava le sue pagine e le pagine dell’Italia con la stessa andatura esatta della scrittura. Le Marche, per lui, erano elegia e memoria. Un suo romanzo del ’64, Il maligno, era stato ambientato “in quella zona dell’Italia centrale imprecisa e ibrida quant’altre mai, dove confinano l’alto Lazio, l’Umbria e le Marche” (Giorgio Bassani). La presentazione del giorno dopo, affollatissima e che gli piacque proprio per il carattere di imprevedibile festa composta, si chiuse in un ristorante di Piazza del Plebiscito. Poi uscimmo a camminare fino al Porto che ancora consentiva la passeggiata sulle banchine libere, tra bitte e gomene e l’odore d’acqua morta. Il giorno dopo raggiungemmo Recanati e Macerata, senza malinconia. La coscienza vigile del reale l’avvisava ogni volta degli smottamenti e dei rischi dell’emozione. Seppi, la mattina del 5 giugno, da un piè di pagina de “Il Giorno”, della sua improvvisa morte a Milano. La civiltà laica e l’educato anarchismo tacquero all’improvviso come la civile gentilezza, la pazienza dignitosa, la raffinata intelligenza. Nel suo lavoro di autore e nelle scelte del traduttore non c’è mai stata la volontà di piegare il reale, ma l’esigenza di approssimarsi alla verità delle immagini sensibili, delle situazioni, per “restituire ciò che abbiamo preso dal granaio della vita” secondo l’Henry Miller da lui stesso “doppiato” in italiano. L’abitava il bisogno di dire quel che aveva in testa mediante la forma più vicina a “come” lo sentiva. L’universo delle idee e degli sguardi: così si compone il giuoco di macchine linguistiche e di posizioni stilistiche del più controverso romanzo suo del ’73, Tennis. Dopo trentuno anni la voce morbida suggerisce: “Che lo scrittore sia interprete della società mi pare indubbio. Altrettanto indubbia mi pare la sua nessuna influenza sull’andamento delle cose: […] quasi sempre la sua testimonianza – e magari, quando c’è, il suo messaggio – vengono recepiti a posteriori. Troppo tardi”
Francesco Scarabicchi, Love in Translation: Bruno Fonzi, Le parole e le cose 2 



Nel maggio del 1958, dalle pagine de “Il Mondo”, Bruno Fonzi, scrittore che vale la pena riscoprire - con Einaudi ha pubblicato Il maligno e Tennis, ha tradotto, tra i tanti, Faulkner, Singer e Hemingway - racconta che “Gli americani hanno infine riconosciuto che Pound non è matto e l’hanno liberato dal manicomio”. Il pezzo è ben scritto, un robusto sketch narrativo, e costituisce una specie di cliché: lo scrittore dettaglia, per sommi capi, la cornice della vicenda poundiana - fascino, fascinazione per il fascismo, arresto, manicomio criminale -, e il suo incontro con il poeta, a Rapallo. La chiusa del pezzo è saporita - “Lo rividi di sfuggita a Roma… Aveva il cappello a larghe tese, un bastone dalla punta ferrata e un lungo sigaro. Mi parve proprio ammattito” - e dimostra, come altri articoli (pressoché esemplari, cioè aurei esempi di giornalismo narrativo) raccolti in È inutile che io parli, la quasi assoluta, appagata, indifesa incomprensione di Pound da parte della cultura italiana. Questa è una delle scabre scoperte del libro, edito da De Piante e curato da Luca Gallesi, che raccoglie “Interviste e incontri italiani” di Ezra Pound dal 1925, l’anno in cui il poeta si trasferisce a Rapallo, al 1972, l’anno della morte, che lo coglie a Venezia, dove è sepolto.
[...] Credo che il caso sia retto da un remota armonia, allora, perché nei giorni in cui De Piante manda in libreria È inutile che io parli, Massimo Bacigalupo, insigne studioso e traduttore di Pound, ha fatto ristampare il libro di suo padre, Giuseppe Bacigalupo, Ieri a Rapallo, che custodisce un mirabile ritratto di “Ezra Pound”. Il ritratto è bello perché privo di civetterie intellettuali e di tremori politici. Si racconta l’arresto di Pound – “Stava traducendo il Libro di Mencio il 3 maggio 1945 quando due partigiani lo prelevarono nella casetta di S. Ambrogio. Se lo mise in tasca e li seguì” –, il carcere, l’incontro, nel 1962, in Liguria, dopo un ricovero nella Casa di Cura di Martinsbrunn, vicino a Merano, “dimagrito, invecchiatissimo… in un mutismo quasi assoluto”. Giuseppe Bacigalupo è medico di fama e conduce Pound nella sua clinica, Villa Chiara: il poeta è operato dopo aver rilevato “una grave intossicazione uremica”. I ricordi più estasianti, però, affondano nel 1926, quando Bacigalupo conosce Pound “sui campi del Tennis Club di Rapallo. Ero agli inizi di uno sport che mi avrebbe dato molte soddisfazioni anche in campo agonistico, mentre Pound vi veniva a sfogare le energie non esaurite della sua vulcanica attività intellettuale, saltando e sudando copiosamente tra esclamazioni assai poco ortodosse”. Insieme a Pound, il giovane Bacigalupo partecipa “a qualche piccolo torneo nelle cittadine rivierasche, dove giungevamo sulla Fiat 509 torpedo, carichi di entusiasti del tennis e guidata da mia madre”. Quando Pound vinceva, insieme al giovane, talentuoso amico, “era giulivo come un ragazzo”. Sapeva giocare: “con poco stile ma con inesauribile energia e combattività”. Il poeta sul campo da tennis. Non avrebbe desiderato altro ricordo: lì, nel gioco, dove tutto è vento, volontà, vigore e verbo scomposto. E l’azzurro - si sa, siamo in Liguria - è una traccia di vetro.
Redazione, Mi parve proprio proprio ammattito. Ezra Pound in Italy: l’idolo incompreso, Pangea, 15 aprile 2021   

Anni fa, chiacchierando con un caro amico a proposito di racconti mi disse che gli era stato nominato da non ricordo chi questo Bruno Fonzi come uno dei migliori scrittori italiani di racconti del Novecento. Era un autore che non conoscevo (d’altronde ho molte lacune), così qualche tempo dopo in biblioteca presi un suo piccolo libro, I pianti della Liberazione, pubblicato da Einaudi singolarmente negli anni ‘70 ma che faceva parte della raccolta di racconti d’esordio del 1961, Un duello sotto il fascismo, pubblicata anch’essa dall’editore torinese. Mi piacque e mi ripromisi di approfondire ma, come mi capita spesso, sono facile alla distrazione e le mie letture vagolano. Un paio d’anni fa ero in questa piccola libreria in città, Les Bouquinistes, che ha un bel catalogo di libri usati, e dando un occhio come al solito ritrovo Bruno Fonzi. Due libri: uno era quello già letto, e l’altro era questo romanzo, Il Maligno, del 1964. Presi e portai a casa e misi a posto, lì tra le letture da fare. Ogni tanto mi guardava ma non era il momento, credo, e così l’ho letto solo adesso.
Siamo negli anni ‘30, in un piccolo paese appenninico a un centinaio di chilometri da Roma. Il Fascismo è un’ombra lontana vista perlopiù solo come opportunità di possibile potere.
Il Maligno invece è lì, da qualche mese, in una casupola di una sola stanza, vicina al bosco, dove abitano la Bibiana e la piccola figlia Settimina. Di notte accade qualcosa, la voce gira e le persone vanno a vedere, a sentire. Le autorità cercano di vigilare, ma è chiaro come solo l’intervento del parroco possa liberare il luogo e riportare la pace; la Bibiana però si deciderà a chiamarlo?
[...] Chi è, cosa è questo Maligno sulla bocca di tutto il paese ma che non si dovrebbe/potrebbe nominare? Di sicuro c’è, di sicuro “parla”, di sicuro scombussola e travolge la vita delle persone che vi si agitano intorno. Perché il Maligno non si sposta, il Maligno sta; il Maligno non appare, il Maligno è. Il Maligno è “la valvola rivelatrice” dei peccati e i peccatucci, esplicita i dubbi e rende reale ciò che si finge di non vedere.
Il Maligno è, da un punto di vista narrativo, l’escamotage che permette all’autore di indagare la natura umana, di occuparsi delle persone e del paese. Fonzi, traduttore dal francese e dall’inglese, cita esplicitamente nel testo Sotto il sole di Satana, romanzo di Bernanos, e non si può non tenerne conto, ma ho ripensato anche ai racconti di Winesburg, Ohio, di Sherwood Anderson perché in ogni capitolo presenta personaggi diversi, e via via li fa interagire tra loro e alcuni come ovvio ricorrono più frequentemente e prendono rilevanza mentre altri rimangono sullo sfondo ma sono essenziali per fornire il quadro generale.
Così c’è il vecchio principe nella dimora decaduta che ospita la cugina-contessina, donna repressa che sogna leggendo libri francesi in lingua (tra cui quello di Bernanos, in cui si immedesima portando il nome di una delle protagoniste), c’è il parroco goloso che ha meno fede dei suoi parrocchiani, c’è la maestra cattolica integerrima, c’è il nuovo norcino che ha da vincere le diffidenze della clientela, c’è l’amministratore del feudo che ha qualche mira, c’è la governante, ci sono i carabinieri, c’è l’oste del Dopolavoro e certo ci sono la Bibiana e Settimina e c’è il Maligno.
La scrittura di Fonzi non indugia né indulge e il paese cui dà vita lo si sente reale, prende forma mentre si avanza nella lettura e non ci viene risparmiato nulla, eppure anche le scene più forti non appaiono eccessive o fini a loro stesse. C’è qualcosa che va oltre i fatti che vengono narrati, qualcosa che fa dei personaggi persone, qualcosa che precede e che rimane [...]
Andrea Brancolini, Bruno Fonzi, Il maligno, Lankenauta, 11 dicembre 2020   


Una Roma sguaiata e alla fame, da poco liberata dagli americani e ancora sfigurata da vent'anni di regime, fa da quinta all'irresistibile racconto di una giornata nella vita del commendator Mastroluongo, «capodivisione al ministero», marito-padre tormentato e sospettoso di ogni cambiamento. Un funerale rocambolesco, l'assedio di un usciere che fa affari con la borsa nera, l'inopinata risoluzione di varcare l'ingresso del banco dei pegni prefigurano un finale cupo e inesorabile, finché un incontro fortuito apre al protagonista le porte di una casa incantata e ricca di sorprese. "I pianti della liberazione" uscì per la prima volta nella raccolta "Un duello sotto il fascismo", pubblicata da Einaudi nel 1961. Postfazione di Christian Raimo.
Presentazione, Bruno Fonzi, I pianti della Liberazione, Abbot, 2021, Libraccio.it

Siamo a Roma, nel momento del trapasso dalla monarchia clerico-fascista a una mai nata repubblica fondata sui valori della Resistenza. Trent’anni sono trascorsi sull’alto burocrate commendator Mastroluongo senza segnare una ruga: nulla è mutato nella sua mentalità. Pavido, bigotto, anche se in fondo di buon cuore, ridotto in miseria dal carovita, per soccorrere un suo coetaneo il commendatore finisce in una casa d’appuntamenti, e vi conosce quelle delizie che il menage coniugale gli aveva sempre negato. Nella sua avventura, raccontata con una ironia tagliente che diventa giudizio morale, si riflette il quadro di una Roma «anno zero», scardinata e arruffona. Ha scritto Arnaldo Bocelli: «Particolarmente bella è la figura della “signora” Speranza, la matura ma ancora godereccia padrona di quella casa, di un impudore così naturale da sembrare quasi pudico… E di vigoroso risalto è l’ambiente familiare del commendatore, con quel figliolo anticonformista, terrore dei genitori, eppur unico barlume in quel tenebrore. Un racconto felice, che è già un punto d’arrivo». Se l’impianto linguistico e il felice disegno dei personaggi ne garantiscono l’intatta validità, l’aver individuato nel momento di massima esplosione della retorica populisteggiante la vera «ala marciante» del sistema, fa di questo libro un piccolo classico nel panorama della narrativa italiana degli anni cinquanta.
Presentazione, Bruno Fonzi, I pianti della Liberazione, Einaudi, Nuovi Coralli, 1974, Einaudi    

Tra la fine del 1953 e l’inizio del 1954 Claudi, incoraggiato forse da alcuni amici <141, spedisce presumibilmente il manoscritto de L’anatra mandarina all’Einaudi. L’eventualità di pubblicare il testo viene considerata dall’autore come «una possibilità di lavoro ancora libera e felice, un’espressione di personalità» <142. L’opera si caratterizza come la realizzazione di «un “libro” da un diario di pensiero» <143, in cui l’autore cerca di mostrare la sua riflessione teorica a partire dalla sua dimensione biografica, operazione che gli costa la fatica di passare «da un problema a un altro, da un piano intellettuale ad un altro» <144.
Il 5 ottobre del 1954 Bruno Fonzi <145 e Renato Solmi <146 rispondono a Claudi ricusando la pubblicazione del testo. Le motivazioni del rigetto vengono individuate in problematiche di natura principalmente teorica. Solmi considera il testo «anacronistico» <147 e non in linea con l’impostazione ideologica della casa editrice torinese, in quanto l’individuo si caratterizza come «un prodotto della storia, e tutt’altro che “eterna luce trascendente”» <148. Oltre alle critiche di Solmi, Fonzi precisa come «alcuni capitoli mancano di quell’assoluto rigore stilistico, o concettuale, che il genere richiede; o meglio, l’approssimazione stilistica riflette l’imperfetta chiarezza concettuale» <149. Gli effetti psicologici di queste critiche sono devastanti e amplificano una situazione già difficile e dolorosa, come descritto nel diario 1954: "Il rifiuto del mio libro da parte di Einaudi è stato un colpo netto che ho avvertito come una pugnalata allo stomaco. Qualunque siano le ragioni è stato tuttavia un rifiuto, il colpo di ritorno di boomerang lanciato in una direzione sbagliata" <150.
141 «Ho dato in lettura quella specie di piccolo o grosso zibaldone che mi accade talvolta di indicare col nome di diario» (Diario 1949-1955, p. 49). E più avanti troviamo: «Pare che certo mio diario filosofico piaccia. Oggi ho sognato una bella edizione presso uno degli editori più importanti d’Italia» (Ivi, p. 50).
142 Diario 1954 gen, p. 20.
143 Ivi.
144 Ivi.
145 Bruno Fonzi (Macerata, 27 gennaio 1914 - Milano, 5 giugno 1976) è stato uno scrittore e traduttore italiano, collaboratore di case editrici.
146 Renato Solmi (Aosta, 27 marzo 1927 - Torino, 25 marzo 2015) è stato un germanista, traduttore e insegnante italiano.
147 F.C., Lettera Einaudi, 5 ottobre 1954. La lettera non è stata archiviata ed è conservata nei documenti personali di Claudi.
148 Ivi.
149 Ivi.
150 Diario 1954 lug., p. 29.

Gabriele Codoni, Claudio Claudi: un episodio sconosciuto di umanesimo nel secolo breve. Biografia intellettuale, introduzione critica ed edizione filologica di Realtà e valore, Tesi di dottorato, Università degli Studi Urbino Carlo Bo, anno accademico 2017-2018

[...] E’ significativo lo scambio di lettere che intercorre tra Elsa Morante, Luciano Foà e il redattore della casa editrice Einaudi, Bruno Fonzi (che stava curando la pubblicazione dell’Isola di Arturo), a proposito degli spazi bianchi da lasciare nel testo. Il 15 novembre 1956, la scrittrice «riscrive» a Luciano Foà «i particolari» sui quali era già stato preso un accordo verbale: "Ciascuno degli otto lunghi Capitoli richiede un occhiello (mi sembra che si chiami
così la pagina bianca con l’indicazione del Cap. e il titolo nel centro). Essendo ognuno degli otto Capitoli principali suddiviso in numerosi Capitoli più brevi, fra la chiusa di ciascuno di questi e il titolo del successivo si richiede uno Spazio di circa un terzo di pagina. Le suddivisioni interne che talvolta si trovano nei Capitoli brevi (e che da me sul testo sono indicate con delle lineette) richiedono, fra l’una e l’altra, uno Spazio minore, possibilmente segnato da qualche asterisco o simili. Scusami se insisto su questi particolari, ma lo faccio perché, nel mio testo, queste indicazioni prendono un valore non solo tipografico, ma anche poetico. Riguardo ai caratteri, quelli su cui già ci trovammo d’accordo (usati per il romanzo supercorallo di Natalia), mi sembrano i migliori per questo romanzo".
Il 19 novembre, Bruno Fonzi risponde alla Morante che sarebbe stato meglio fare incominciare «sempre a pagina nuova» i capitoli «più brevi entro i capitoli principali», piuttosto di «lasciare uno spazio di un terzo di pagina, che è molto brutto», tenendo conto del fatto che «all’interno di questi capitoli brevi ci sono già altre divisioni con spazio bianco».
La reazione della scrittrice è molto netta: "Non è possibile […] la modifica da Lei proposta riguardo agli spazi fra i Capitoli brevi. Il fatto è che questi spazi, così come io li ho indicati sul testo dattiloscritto, rispondono, nel mio racconto, a un determinato ritmo narrativo: per il quale ognuno dei capitoli principali - divisi da occhiello -, serba, attraverso le pause fra i capitoli brevi, una sua continuità di azione. E’ necessario, perciò, mantenere fra i successivi capitoli brevi, questi spazi sulla stessa pagina; li si potrà, magari, ridurre a un poco meno di quel terzo di pagina che si era deciso, se Leo lo giudica necessario per l’estetica tipografica".
Alberto Cadioli, Le diverse carte. Osservazioni sull’intermediazione editoriale e la trasmissione del testo in età contemporanea, Bollettino di italianistica, 1/2006, gennaio-giugno

I primi romanzi di Roberto Roversi e di Fulvio Tomizza, apparsi nella «Medusa degli italiani» diretta da Gallo (e a lui attribuiti nella tabella 1) transitarono per esempio in Mondadori a seguito della chiusura dei «Gettoni» di Vittorini, che aveva già selezionato quei libri per la sua collana. Fu invece Vittorini a pubblicare nel 1951, come primo numero dei «Gettoni», l’opera prima di Franco Lucentini, I compagni sconosciuti, ma avvalendosi, come era sua abitudine, della consulenza di numerosi colleghi, tra i quali ebbe un ruolo decisivo lo scrittore e traduttore Bruno Fonzi. Lucentini stesso, in una lettera al fratello, restituisce il sapore del lavoro di squadra, plurale e litigioso: «Mi hanno detto Fonzi e Pavese che i racconti sono molto piaciuti: Pare che al meeting editoriale con Einaudi, tutti, Ginzburg, Fonzi e Pavese, ne abbiano fatte lodi così alte che Einaudi, pur non avendolo letto, si è ribellato e ha detto che loro tre capiranno l’estetica ma non l’editoria, e che una breve raccolta di racconti, in quanto breve e soprattutto di racconti, non ha ragione di essere pubblicata. Ma non è finita lì perché adesso Einaudi leggerà i racconti lui stesso e loro scommettono che cambierà idea. Perché insomma, dice la Ginzburg, “gli dovranno piacere”».
Mariarosa Bricchi, L’età del benessere in I romanzi degli altri: scrittori-editori, editori-scrittori, Atlante della letteratura italiana 3, Einaudi, 2012

lunedì 7 novembre 2011

Vallecrosia Alta


Vallecrosia Alta é il Centro Storico di Vallecrosia, in provincia di Imperia, che é situata in riva al mare, da cui la prima dista un paio di chilometri. Proseguendo nell'altra direzione lungo la Valle del torrente Verbone si incontrano San Biagio della Cima e Soldano, poi, più in alto, quasi a chiudere (ci sono diramazioni viarie di collina e di montagna), Perinaldo, ad una vista aguzza leggermente visibile nella fotografia soprastante.



Mi sembra, personalmente, un borgo tenuto bene, molto bene. 
Ma non é questo il punto che intendo sottolineare, ma un altro, abbastanza, credo, paradigmatico.
Vallecrosia Alta, ma anche la stessa Vallecrosia dei Piani, per la quale avevo già in precedenza accennato la millenaria vicenda del sito che oggi ospita la Chiesa di San Rocco, presenta una storia molto complessa, ricca di avvenimenti e di giacimenti culturali, difficile, a diversità di tanti altri temi, da riscontrare appieno, penso (qualche tentativo l'ho pur compiuto), sul Web.
Seleziono, allora, in merito da Cultura-Barocca, sito molto articolato e specializzato cui ho già fatto riferimento in altre occasioni, almeno un accenno in collegamento qui.


Aggiungo un altro esempio, trattato in modo molto veloce. Nella chiesa preesistente alla Parrocchiale (di Sant'Antonio Abate), qui sopra raffigurata parzialmente, predicò Bernardo di Chiaravalle. Lo fece anche altrove nel Ponente Ligure, lasciando ampia risonanza, riscontrabile in toponimi e in edifici sacri a lui dedicati, ma a Vallecrosia Alta l'esistenza di una chiesa, discosta dal paese e a lui intitolata, portò a lungo pensare che il Santo di Chiaravalle avesse fatto sentire la sua voce carismatica nel santuario eretto, invece, appositamente dopo il suo passaggio.


 Ed eccola, la Chiesa di San Bernardo.


C'é molto altro, dunque, nella storia di questo borgo. Ed anche del suo comune. Solo che in questo caso - vado a ripetermi - un lettore curioso difficilmente troverà ampia documentazione da consultare. In questo consiste - sempre a mio modesto avviso - la singolarità dell'argomento. Proverò, pertanto, a tornare sul tema.


Chiudo, però, scattata da Vallecrosia Alta, con un'inquadratura di San Biagio della Cima, paese di Francesco Biamonti, che di queste terre, trasfigurate nei nomi, ha saputo scrivere nei suoi romanzi con autentica vena artistica.



sabato 31 luglio 2010

Gli odori

Io il 24 aprile 1955 a Bevera, in occasione di una delle nostre gite in bicicletta, citate nel post. In lontananza, un segnale - indistinto, certo! - dell'allora in disuso, non ancora ripristinata dalle rovine della seconda guerra mondiale,  linea ferroviaria Ventimiglia-Breil-Tenda-Cuneo


Letto da Novalis l'articolo molto bello, che riporto qui di seguito, non ho resistito, visto che sono di quella zona, alla tentazione di dire la mia. Il che ho fatto in due riprese, la prima su Tumblr, l'altra su Facebook.
 

Gli odori

Era così, mezzo secolo fa, la campagna intorno a casa, con la linea ferroviaria dismessa, che prima della guerra collegava la riviera con la Val Roja e Cuneo, dove ho vissuto i primi anni della mia infanzia. Era il nostro territorio di gioco, quando non esistevano la televisione, i videogiochi, i monopattini e avevamo a disposizione quei lunghi pomeriggi estivi, assolati cieli alti e striduli dal frinire assordante delle cicale che vegliavano su di noi appollaiate sui rami dei ciliegi.


Oltre alle cicale non si sentiva altro, forse ogni tanto il latrato di un cane. Né aerei, né automobili, né motopompe, né motozappe. Il lavoro in campagna si svolgeva a mano e in silenzio. La terra si arava e dissodava col magaglio, l'erba falciata con la "serra" a schiena curva, lavoro da donne, il verderame alle viti veniva irrorato con una pompa di stagno, fissata sulle spalle e azionata dalla mano dell'uomo. Anche la gente allora era più silenziosa. Poche chiacchiere e a bassa voce. Strano come nella mia infanzia non abbia mai udito urlare nessuno. Anche i gesti erano misurati, dalla stanchezza che non concedeva sprechi.


Per noi bambini c'era la terra, l'acqua, il cielo, le piante, gli animali selvatici, gli odori e la ferrovia abbandonata, col cancello che chiudeva il passaggio a livello ancora cigolante sui cardini che spingevano con tutta la forza delle nostre braccia per poi saltarci sopra appena presa la rincorsa.


Gli odori. Lungo la massicciata cresceva rigogliosa una pianta infestante dal fusto poco più grande di un pollice con le foglie lanceolate, non ricordo il suo nome, ma l'ho sempre visto prosperare sui bordi delle ferrovie. Ne spezzavamo i rami più teneri per costruirci la capanna, il nostro rifugio segreto, imbrattandoci le mani del lattice bianco e appiccicoso che sgorgava dalle ferite della pianta e ci impregnava di un odore forte e nauseante che non ho mai dimenticato.


Oggi la ferrovia è stata ripristinata, ma la casa e la campagna non ci sono più.


Una ligure


Mio commento su Tumblr a “Gli odori”
Mi ha colpito il testo in questione, perché nel luogo descritto passavo talora anch’io all’epoca: tutto corrisponde! Aggiungo il fascino per me bambino dei segnali ferroviari (antiquati) abbandonati, le spiegazioni di mio padre su alberi ("L’acacia é pericolosa! Tua bisnonna per la puntura di una spina d’acacia nel piede ha dovuto subire l'amputazione dell'arto!") e su piante, le discese al fiume per bere in foglie verdi e fresche l’acqua sgorgante da polle litoranee. Qualche anno più tardi si andava da quelle parti a tirare quattro calci al pallone: la zona era ancora perfettamente fascinosa e si andava e tornava rasente il corso del Roia per sentirci in piena natura.

Mio commento su Facebook a “Gli odori”
Il bel racconto allegato mi restituisce intatta la meraviglia che quei siti in me suscitavano ancor prima della gentile autrice. Solo non ricordo come facesse mio padre a portare sulla canna di una bici da bersagliere me e mio fratello (sì che eravamo piccolini!) sino a bere dalle allora pulitissime acque del Roia!