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lunedì 8 novembre 2021

Era la prima volta che a Napoli si levava sulle onde della radio una voce libera

Il centro trasmittente di Radio Bari a Ceglie del Campo - Fonte: Barinedita


La BBC, con Radio Londra fu un’importante voce fuori dal coro nel panorama italiano a causa della privazione della libertà di espressione; è innegabile che essa divenne un sostegno per il morale degli italiani.
Tuttavia, la grande differenza rispetto ai primi anni di guerra è che non fu più l’unica fonte alternativa di informazioni per i civili italiani, considerato che esistevano altre radio antifasciste clandestine.
Fra i primi effetti concreti dello sbarco degli alleati in Sicilia si ebbe, infatti, l’apparizione della prima voce dell’Italia liberata: Radio Palermo, che trasmise prevalentemente comunicati dei comandi alleati. Dopo di essa ebbe subito successo Radio Bari, una vera e propria fonte di controinformazione, in concorrenza con Radio Londra.
«L’Italia combatte! Questa trasmissione è dedicata ai patrioti italiani che lottano contro i tedeschi».
Un altro esempio fu quello di Radio Libertà, un canale radio italiano (Biella) gestito dai partigiani a partire dal 1944, solamente rivolto al pubblico, quindi con una funzione non direttamente militare. L’inizio delle trasmissioni era scandito dalle prime dieci note del canto popolare Fischia il vento, eseguite alla chitarra, seguito dalla voce del annunciatore:
«Radio libertà, libera voce dei volontari della libertà».
Le trasmissioni comprendevano una gamma abbastanza differenziata di testi: editoriali su argomenti vari, bollettini di guerra partigiani, lettere di familiari o partigiani, brani musicali.
Particolare fu, infine, il caso di Radio Sardegna, un’altra delle prime stazioni liberate e in assoluto la prima ad aver annunciato la fine della guerra: il 7 maggio 1945. Alle 14/14.15, uno dei marconisti della radio, Quintino Ralli, intercettò la trasmissione di una radio militare di Algeri nella quale si parlava della resa dei tedeschi.
Chiamò il direttore Amerigo Gomez, il quale, sentito anche lui l’annuncio, corse nella cabina di trasmissione assieme all’annunciatore Antonello Muroni e annunciò:
«La guerra è finita… la guerra è finita! A voi che ascoltate, la guerra è finita!».
Quell’annuncio non era stato ancora diramato da nessun’altra radio; Radio Londra ne darà testimonianza solo venti minuti più tardi.
Amanda Antonini, Il potere della comunicazione tra regime e resistenza, Tesi di laurea magistrale, Università di Pisa, 2018
 
Alla prima esperienza di Radio Palermo, con un palinsesto tripartito fra americani, inglesi e italiani, in grado di coprire nove ore e mezza di trasmissioni libere - benché sottoposte al controllo alleato - era infatti seguita l’esperienza di Radio Bari, ancor più autonoma della stazione precedente. Le trasmissioni baresi erano in parte debitrici dell’innovativo apporto di Radio Palermo e del suo direttore Mikhail Kamenetzky, un ebreo russo già noto come Ugo Stille, fuggito negli Stati Uniti e rientrato in Italia come sergente del PWB, dopo aver maturato esperienze giornalistiche al di là dell’Atlantico: <15 "Alla radio - avrebbe detto il direttore - usate sempre frasi semplici e chiare. Ripetete il soggetto. Le ripetizioni sono noiose sulla carta stampata, ma agli ascoltatori radiofonici non importa che tu ti ripeta, e le ripetizioni gli impediscono di perdere il filo". <16
Ancor più indicativo del suo metodo di lavoro è però un altro singolare episodio, riportato dal figlio Alexander Stille. Informato direttamente da Salvatore Riotta, uno degli ex redattori di Radio Palermo personalmente assunti dal padre, Alexander scrive che in una fase del conflitto in cui per gli alleati ogni cosa stava andando a gonfie vele, Kamenetzky avrebbe ordinato a Riotta di trovargli qualche brutta notizia. Alle perplessità del giovane sottoposto, che disse timidamente di essere certo che stesse andando tutto bene, pare che il direttore avesse risposto così: "Per vent’anni gli italiani sono stati immersi fino al collo nella propaganda, sentendosi dire ogni giorno che tutto andava a meraviglia. Se adesso gli diciamo che stiamo vincendo su tutti i fronti, non ci crederanno. Se invece cominciamo con qualche brutta notizia, forse riusciranno a credere a qualcosa di ciò che viene dopo".
Resosi conto della profonda sensibilità giornalistica del suo superiore, a Riotta non restò che scovare un «dispaccio d’agenzia» che parlasse di un sottomarino americano affondato, chissà come, in qualche angolo remoto del Pacifico. <17
IV. IL RADIODRAMMA
Se la direzione palermitana di Kamenetzky si era dimostrata piuttosto attenta alle esigenze e alla psicologia dei radioascoltatori, facendo scuola per chi, come La Capria, avrebbe tratto ispirazione dal suo intuito giornalistico, la direzione barese del già citato Greenlees si sarebbe spinta ben oltre questo segno, dando finalmente voce al popolo italiano e valorizzandone il contributo alla lotta di liberazione nazionale, come si evince anche da alcune dichiarazioni dello stesso Greenlees: "Come direttore della radio io credetti fosse mio dovere di insistere che i programmi fossero obbiettivi ed accurati, e che i commenti politici potessero essere l’espressione libera di uomini politici antifascisti. La guerra che stavano combattendo era una guerra contro il fascismo e quindi, dopo un ventennio di censura politica spietata, era importante creare, nei limiti del possibile, una piattaforma libera alla radio […]. Avevamo incoraggiato, per esempio, la trasmissione del programma «L’Italia combatte», che fu originariamente una mia idea, e che fu preparato per la maggior parte dall’ufficio stampa e diretto da Alba De Cespedes; fu un programma eccellente al fine di incoraggiare i partigiani a combattere contro gli occupanti tedeschi". <18
Accanto al notiziario di guerra che spalleggiava la Resistenza, va citato un altro programma utile alla lotta partigiana dall’inequivocabile titolo di "Spie al muro", nel quale si smascheravano pubblicamente gli agenti assoldati dall’Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo. <19
Oltre a Piccone Stella e alla De Cespedes (nota agli ascoltatori come “Clorinda”), fra gli assistenti di Greenlees, duramente apostrofati dai colleghi dell’EIAR come i «venduti» di Radio Vergogna, spicca la figura del regista Anton Giulio Majano (nome di battaglia “Zollo”), per cui La Capria avrebbe scritto, in seguito, diversi radiodrammi e che già allora incominciava a sperimentare l’innovativa arte del fonomontaggio, destinata a ricevere, anni dopo, le attenzioni della rivista «Filodrammatica»: "Molti radioamatori scrivevano chiedendo stupiti come fosse stata possibile la realizzazione di simili trasmissioni in cui si moltiplicavano dozzine di voci, risonanze ambientali differenti, in cui prendevano parte vari complessi orchestrali, cori cantati, ritmati o parlati, in cui si destavano rumori ed effetti acustici mai uditi precedentemente. Il fatto è più semplice di quanto sembri: la sera di gala, in cui venivano effettuate queste trasmissioni, si montava il film radiofonico in cabina di regia; numerosissime incisioni originali si alternavano con precisione cronometrica e col ritmo voluto alle voci dirette degli attori presenti in auditorio". <20
Un lavoro del genere, la cui riuscita dipendeva dalla perfetta combinazione fra registrazioni e recitazione dal vivo, necessitava evidentemente di un accurato lavoro di sceneggiatura e richiedeva altresì una certa padronanza del mezzo:
"Il testo veniva innanzitutto ridotto per la radio (se non era già di per se stesso un lavoro scritto in funzione del mezzo radiofonico) e poi suddiviso in tante “inquadrature”, “scene”, “sottofondi”; ogni battuta, poi, a sua volta, veniva postillata con segni che ne specificavano il valore spaziale ed espressivo (risonanza, echi, piano fonico, ecc.)". <21
Solo le scene che presentavano maggiori difficoltà di esecuzione venivano registrate anzitempo, così che, al momento del missaggio, il regista potesse scegliere quali mandare in onda, non senza il puntiglio di catalogare i dischi di vetro a 33 giri su cui tali scene erano state riversate. Tanto dispendio di energie poteva essere sostenuto con una frequenza che oscillava dalle tre alle sei volte al mese, in occasione di appositi eventi radiofonici noti con il prestigioso nome di «serate di gala», antesignane di una formula vincente che non mancherà di essere trasmessa ai successori di Radio Bari e, in seguito, anche in Rai, dove un ascoltatore attento di nome La Capria avrebbe riproposto quelle serate speciali in chiave letteraria.
V. RADIO NAPOLI
Quando, nel febbraio del ’44, l’avanzata delle truppe angloamericane renderà necessario l’abbandono del capoluogo pugliese, il «centro di gravità» della propaganda antifascista avanzerà insieme a quei soldati, spingendo molti dei collaboratori di Radio Bari a seguirli nel loro trasferimento a Napoli. <22
In anticipo sul loro arrivo in città, dopo una breve fuga a Tramonti, sulla costiera amalfitana, per entrare tra le fila degli alleati, Ghirelli - che da questi era stato respinto - torna in città per accudire la madre, sola ed affamata, consapevole di essere diventato «amaramente estraneo all’epopea» della Storia. <23 Dopo aver lavorato come manovale al porto della Submarine Base inglese, un incontro fortuito con un ingegnere conosciuto ai tempi dell’Umberto I gli procura un posto alla Royal Navy Barracks, la caserma della Marina dove egli imparerà a fare i conti con il sistema inglese, destreggiandosi fra once, pence, libbre, galloni e pollici.
Con l’arrivo della primavera, tra il mese di febbraio e il mese di marzo, il suo nome viene segnalato ad Edoardo Antòn, uno scrittore romano di teatro che, sorpreso dall’armistizio sull’Isola di Capri, si era messo a dirigere le trasmissioni culturali di Radio Napoli insieme ad Ettore Giannini, un giovane regista affermatosi grazie a uno «scoop radiofonico» paragonabile a quello famoso di Welles «sullo sbarco dei marziani»: <24 "Parecchi di noi furono reclutati individualmente ma, lavorando gomito a gomito, finimmo per creare un ufficio di trasmissioni propagandistiche e artistiche […]". <25
Inizialmente assunto come interprete, Ghirelli sarà uno dei primi candidati ad aver risposto al persuasivo richiamo della radio, un polo culturale insolito e in cerca di voci fresche e brillanti per le sue trasmissioni, non solo fra i napoletani ma pure fra gli esuli ebrei e i confinati politici: "Antòn mi imbarcò - scriverà Ghirelli - l’8 maggio del 1944 a Radio Napoli insieme con quattro miei carissimi amici di cui in seguito si è sentito parecchio parlare: Giuseppe Patroni Griffi, Francesco Rosi, Maurizio Barendson e Achille Millo, ai quali poco dopo se ne unì qualcun altro come Raffaele La Capria, Luigi Compagnone ed Enrico Cernia". <26
Quel gruppo, con «molte lacune e molte integrazioni», avrebbe lavorato alla radio per un periodo di appena «diciotto mesi», anche se alcuni di loro - fra cui Giglio e lo stesso Ghirelli - si sarebbero allontanati già in inverno. <27
Non sarà sfuggita l’eccezionalità del «compromesso» al quale giunse il mezzo radiofonico (non solo a Napoli), che chiamava a raccolta davanti ai suoi microfoni «comunisti ed ex ragazzi del Guf», alcuni dei quali, alla caduta del Duce, si erano ritrovati a combattere insieme dallo stesso lato della barricata. <28
Quella mancanza di uniformità non riguardò, tuttavia, soltanto il lignaggio politico. Secondo la divertita ricostruzione di Arnoldo Foà, l’attore a cui venne affidata l’edizione napoletana de "L’Italia combatte", che tenne a battesimo - peraltro - anche Moravia e la Morante, le prime voci della radio furono scrupolosamente selezionate con il «metodo più empirico» che si potesse immaginare, giungendo ad esiti alquanto curiosi: "Mister Rehm, un giornalista americano, preposto alla direzione della radio sorgente, si mise a contatto con i giornalisti dei già defunti ed immobilizzati organi della stampa locale; li convocò un pomeriggio a Egiziaca a Pizzofalcone assieme ad altri elementi profughi, studenti o altro, e fece leggere un pezzo di giornale a ciascuno di loro. Non capiva quasi una parola di italiano, ma si sentì in grado di giudicare le migliori pronunce. Fu così che aleggiò sul golfo per diverso tempo la più bella raccolta di dialetti che mai antenna avesse trasmesso". <29
La varietà di accenti non fu l’unica nota fuori posto a dare un respiro amatoriale a quelle prime trasmissioni, perché accanto alla “esse” sibilante dell’ultimo venuto e all’improvvisa raucedine del consumato veterano, non poteva mancare il tragicomico inciampo linguistico che non avrebbe risparmiato - assicura Foà, nemmeno in seguito, al tempo della Rai - alcun tipo di annunciatore: "Qualche volta le papere chiamano le papere. È capitato a me, sempre a Napoli, dire: «Non fiù pù», invece di «non fu più». Correggendomi scandii: «Non fu pù». Credo che la più bella sia quella che Corrado Mantoni (da tutti conosciuto solo come Corrado) disse alla presentazione di un concerto alla Rai: «Ascolterete ora la valcacata delle Walkirie» - si corresse immediatamente con: «Pardon, la cavalcacata delle Walkirie!». <30
VI. SEZIONE PROSA
Quelle voci imperfette ma piene di entusiasmo, fra cui quella ancora silenziosa di La Capria, si troveranno quotidianamente in un caotico appartamento di corso Umberto I, all’angolo con piazza Borsa, al terzo piano del palazzo della Singer. Per quanto neppure la luce di mezzogiorno riuscisse a riabilitare «la limitatezza e la povertà degli arredi», sempre invasi da un armamentario di «telescriventi, ciclostili, registratori e dictaphones», sarà sufficiente il cestello delle notizie, in «sali-scendi» dal Centro informazioni del PWB al piano di sotto, a dare vita ai nuovi uffici di Radio Napoli, dove albergava - avrebbe scritto Longanesi nel suo diario - anche «molta agitazione e indolenza, molto apparente tecnicismo americano e arruffio napoletano». <31  Accanto alla stanzetta in cui sostavano indistintamente annunciatori, dattilografe, collaboratori e passanti incuriositi dalla luce rossa della messa in onda, si apriva un monolocale con un tavolo, due sedie e perfino un «tavolino da manicure», che chissà come era capitato da quelle parti. Sull’unica porta che dava accesso a quel luogo era affisso un «cartone bianco», della misura di una «scatola da scarpe», che diceva semplicemente “Sezione Prosa”. <32
Riguardo al nome che i curatori delle trasmissioni culturali si erano dati per distinguersi dai colleghi del Giornale radio, ormai raggiunti anche da Piccone Stella, ci resta una vecchia dichiarazione che Ghirelli consegnò alle pagine di «Qui Radio Napoli», un numero unico scritto con un linguaggio tanto «sulfureo» quanto significativo: "Sezione Prosa, veramente è un nome recente. È il nome che si è deciso di dare ai programmi artistici o come diavolo si possono chiamare i programmi in cui ci sono parole - non però di notiziario o di commento - parole in una certa armonia, cioè appunto prosa. Il lavoro, qui, si è organizzato solo col tempo. Il primo vero titolare dei programmi artistici è stato lo spirito democratico, la fiducia avventurosa e cosciente di pochi intellettuali italiani e di alcuni soldati americani e inglesi". <33
Lo stile acerbo e sfrontato di Ghirelli non nasconde la soddisfazione di essere riuscito a dare una svolta decisiva alla propria carriera, saltando dal grigiore opaco del registro contabile alle tinte cromate dell’apparecchio radiofonico, con la stupefatta rapidità che di norma accompagna solo una favolosa storia di riscatto: "Io sbucai dall’oscura tetraggine della caserma al Mandracchio, entro le stanze illuminate del palazzo Singer, al Rettifilo, dove la Radio alleata era in gran parte trasferita dal primo studio di Pizzofalcone. Ci arrivai sporco e stordito come un topo ma, dopo poche settimane, avevo riacquistato già quasi per intero la spavalda sicurezza dei miei vent’anni, la duttilità del mio ceto sociale, la fredda determinazione di un successo che mi era dovuto per tutti gli anni di pena durati prima". <34
Anche se quello a Radio Napoli fu per La Capria un periodo di mezzo, durante il quale imparare quanto più possibile dagli amici maggiormente coinvolti, per Ghirelli si trattò di una vera e propria rinascita, con la quale incominceranno - nella memoria del giornalista - «i mesi più belli» della sua vita, animati dalle «illusioni più impetuose» e soprattutto dalla «sbalorditiva coincidenza» tra sogni e realtà: "Fu un delirio, impastato di ideali soldi sesso intelligenza libertà potere, come se di colpo - al posto della vecchia macchina dello Stato, sgangherata e corrotta - ci fosse un congegno nuovo, lucente, lubrificato sul quale, finalmente, noi giovani potessimo mettere le mani, non per abusarne o per accumulare ricchezza, ma per diffondere intorno a noi - nella città, nelle strade, nel Sud, tra i poveri e i dannati - una speranza luminosa come l’aurora boreale". <35
VII. PROVE TECNICHE DI TRASMISSIONE
A irradiare speranza fra i vicoli di Napoli era stata la prima rudimentale trasmittente di Monte di Dio, una radio da campo messa a punto dal direttore George Rehm per sopperire alla perdita della stazione di Villanova, sulla collina di Posillipo, completamente distrutta dal sabotaggio dei tedeschi: "L’uccellino della radio tornò così a cinguettare il 15 ottobre del ’43 e fu quello davvero un gran giorno per i napoletani che appresero le più recenti notizie finalmente da accenti di casa propria, quasi si trattasse di amici andati a bussare alla porta della loro dimora per una familiare chiacchierata". <36
Per essere precisi, l’intervento di Rehm dovrà attendere qualche giorno prima di consentire un’adeguata ricezione delle onde di via Egiziaca, perché nonostante gli impianti fossero stati ripristinati da quel sergente venuto dal Connecticut, la nuova emittente «non fu subito captabile nella città, ancora priva di energia elettrica»: "Sapevo - scriverà una redattrice - che la relativa potenza della emittente napoletana e soprattutto l’ostacolo delle montagne non avrebbero consentito alle trasmissioni di toccare la mia città; nondimeno, […] credevo davvero nel potere della voce, nella forza delle parole. Ora me le figuravo come fili sottili capaci di raggiungere e di mitigare solitudini e sofferenze; me le auguravo così forti da infondere fiducia e coraggio ai lontani, da trasmettere loro il senso di solidarietà che poteva venire da una città ferita dalle più dure violenze della guerra". <37
L’inaugurazione delle trasmissioni di Radio Napoli, introdotte dalle prime note dell’Inno di Mameli (non ancora eletto inno nazionale), verrà così ricordata da Grazia Rattazzi Gambelli, una delle poche voci femminili all’interno di una redazione stupita che una madre di famiglia preferisse affannarsi dietro un mestiere “da uomo”, invece di abbracciare docilmente un «più normale destino di donna»: "A volte, in anticipo sull’ora della trasmissione, mi fermavo volentieri sulla soglia della Sezione Prosa, dove era possibile gratificarsi delle conversazioni puntuali e delle divagazioni eclettiche di Compagnone, Ghirelli, e compagni in quel loro tono, caustico e fervido insieme, che rigenerava i dati dell’esperienza e della cultura in fulminante antiretorica e in ipotesi costruttive per il vacuum economico che ci fronteggiava «fuori». Mi piaceva ascoltarli, ammiravo la loro preparazione, mi stupiva la loro sicurezza; e un poco li invidiavo […]. Avevo altri problemi pressanti oltre quelli della collettività! modesti, certo, ma non per questo meno urgenti e vitali". <38
Al di là dell’iniziale penuria di elettricità menzionata dalla Gambelli, anche altrove permarranno alcuni limiti di ordine tecnico. Per dimostrare che la radio non era più il mezzo di comunicazione di massa sdoganato dal fascismo, basterà fornire qualche dato: nel ’42, l’Italia disponeva di 34 trasmettitori a onda media e di 11 trasmettitori a onda corta, mentre all’atto della liberazione soltanto 13 di questi risultavano effettivamente funzionanti, con una dislocazione tale da impedire una copertura adeguata alle esigenze del Paese. <39 Simili restrizioni non riusciranno però a spegnere la «vitalità animalesca» di un apparecchio sul quale si erano riversati i desideri e le aspettative di ascoltatori sempre più partecipi e incuriositi. <40
Inoltre, la ricezione di Radio Napoli migliorerà sensibilmente non appena le sue emissioni si appoggeranno agli «impianti mastodontici» di Radio Bari, concepiti da Mussolini per diffondere la propaganda «anti-inglese» nei paesi arabi, ma impiegati dalle autorità del PWB e dai democratici italiani per portare la «voce della libertà» fino alle Alpi: <41 "Era la prima volta che - scriverà Ghirelli - a Napoli si levava sulle onde della radio una voce libera che chiamava a raccolta i giovani, i lavoratori, le donne, i sindacalisti per mobilitarli contro il nazifascismo, come dicevamo allora un po’ enfaticamente, ma soprattutto per indurli a partecipare alla vita pubblica, sociale, culturale, alla ricostruzione della città dilaniata dalla guerra, al recupero delle sue straordinarie tradizioni". <42
VIII. PALINSESTO
Al culmine della sua attività, non solo Radio Napoli informava gli italiani continuando ad offrire trasmissioni già collaudate dall’emittente barese, come il Giornale radio, "L’Italia combatte" o "Spie al muro", ma inaugurava rubriche inedite, appositamente studiate dalla nuova redazione, alle quali lavorarono anche La Capria, Ghirelli e molti dei vecchi amici del periodo pre-bellico: "Preparavamo trasmissioni che, adesso, forse ci farebbero sorridere ma che allora ci parevano, forse erano, belle come un discorso di Lincoln o una poesia di Majakowski. Alla sera aiutavamo Arnoldo Foà a leggere il giornale radio e «Italia combatte» […]; ma di giorno inventavamo cento rubriche divertenti, stimolanti, provocatorie, chiamando a raccolta tutta la gente onesta di Napoli e del Sud per proporre una revisione integrale di tutto il nostro modo di vita: matrimonio, famiglia, scuola, esercito, proprietà, codice". <43
Fra queste, restano nella memoria: il "Programma per la donna italiana", a cura della Gambelli, che sollecitava la partecipazione delle ascoltatrici per corrispondenza; "Colpevoli", in cui si processavano virtualmente tutti i profittatori dell’umanità, inclusi i responsabili della guerra fascista; "Pionieri", una specie di excursus da Socrate a De Gaulle, dedicato - stando al ricordo di Compagnone - ai grandi interpreti della libertà e della democrazia; "Stella bianca", una rivista satirica firmata da Longanesi e diretta da Soldati, che affidava all’eclettico Steno il compito di scimmiottare la voce militaresca del Duce con il tono scanzonato dell’improvvisazione; la rubrica "Frasi di scrittori", alla quale era riservato uno spazio il venerdì; gli appuntamenti con il «radio-teatro», assegnati puntualmente alla domenica sera; e infine gli speciali di "Conosciamo le Nazioni Unite", trasmissioni deputate a favorire l’avvicinamento fra italiani e alleati, a cui deve aver contribuito anche La Capria, dando «un respiro più drammatico» alle sue puntate. <44 Si noti che con l’espressione “Nazioni Unite” non si intendeva quella che poi sarebbe stata l’ONU, ma l’alleanza angloamericana. Compito della rubrica era infatti quello di far conoscere il mondo anglo-americano agli italiani, al di là delle barriere linguistiche e dell’influenza della propaganda anti-britannica e  anti-americana a lungo condotta dal fascismo. Un mondo che La Capria aveva imparato a conoscere in guerra, leggendo e traducendo testi dall’inglese, e che ora offriva con entusiasmo agli altri domandando, come già fece Vittorini: «Che ve ne sembra?». <45
Di fatto, la ricchezza delle nuove rubriche è il risultato della proficua riorganizzazione editoriale conosciuta da Radio Napoli sotto la direzione di Elvio Sadun, un biologo ebreo livornese fuggito dall’Italia nel ’38 per salvarsi dalla «minaccia delle leggi razziali», combattendo accanto agli americani fino a riscoprirsi, infine, quale energico successore alla poltrona di Rehm: <46 "È giunto dall’Algeria il nuovo direttore, un italiano, ora cittadino e soldato americano. Occhi patetici, naso aquilino, capelli ricciuti e unti. Stringe la mano con due dita, finge di aver molto da fare e parla dei problemi della radio come di questioni teologiche". <47
Sulle tavole della legge del nuovo direttore - che Longanesi si diletterà a prendere di mira nel suo diario - figurava l’impiego di un linguaggio asciutto e immediato, in grado di essere compreso, senza fraintendimenti, da qualunque ascoltatore. Una lezione che gli era stata impartita dagli anchormen del giornalismo statunitense, e alla quale i suoi redattori più zelanti proveranno ad attingere in seconda battuta: "C’era ovviamente molta retorica, molta ingenuità (ancora e sempre) in quell’atteggiamento, ma la passione civile era autentica e insieme all’impegno politico si accendeva in noi l’entusiasmo per un lavoro che non era rassegnato o burocratico, coinvolgendoci giorno per giorno e mettendo alla prova il nostro talento. La sorte ci stava offrendo la preziosa occasione di imparare il mestiere dagli americani, maestri dell’arte di comunicare notizie, idee, fantasie con la più essenziale chiarezza". <48
La redazione di Radio Napoli rappresentò quindi un eccezionale «laboratorio» dove a ciascun autore è stata offerta la possibilità di coltivare per sé un peculiare talento, che avrebbe fornito a tutti - a detta di Ghirelli - la spinta necessaria per emergere professionalmente dagli abissi dell’anonimato: <49 "I miei articoli di giornale, i romanzi di La Capria, i film di Rosi, le commedie di Patroni Griffi nacquero allora, in quegli uffici, in quelle discussioni, in quei programmi. Ci sprofondavamo dentro come l’equipaggio di un sommergibile, in un’atmosfera surriscaldata, artificiale, pazzesca, in una tensione che ci faceva perdere il sonno e ci esaltava, isolandoci anche dalla pena atroce della città". <50
La direzione di Sadun contribuì indubbiamente ad apportare «una visione ottimistica dell’America» senza i trucchi della propaganda, ma scegliendo casomai di applicare i «metodi del positive Thinking» al mezzo radiofonico, allo stesso modo con cui si percorreva, ogni giorno, la strada dissestata che portava agli uffici della Sezione Prosa: <51 "Camminavo molto in quel periodo ma ciò, se inaspriva l’appetito, mi facilitava la concentrazione […]. Era comunque una lunga strada, anche per le frequenti deviazioni dovute ai cumuli di macerie, alle demolizioni e alle minacce di crolli".
È chiaro che la Gambelli guardasse a quel percorso accidentato come all’unica via per raggiungere la felicità, a dispetto del rumore della «sfabbricatura» sotto i piedi che, al contrario, avrebbe scoraggiato anche il sognatore più ottimista, costringendolo ad allontanare dalla mente un pensiero tanto «enfatico» e propositivo. <52
IX. PARTENZA
Presto, i redattori di Radio Napoli avrebbero imboccato una deviazione che li avrebbe condotti al di là del territorio campano, perché il fronte di guerra si sarebbe spostato più a nord, dopo la liberazione della capitale da parte alleata: "Tutti gli intellettuali scappati al Sud tornavano a Roma, lasciando noi ragazzi soli con i burocrati della vecchia EIAR e con i prefetti di Bonomi. Fui assalito dal terrore di ripiombare nella Napoli perbene di prima della guerra, in piena restaurazione, con tutti i dottori, gli ingegneri, gli avvocati tornati al loro posto, i salotti di via dei Mille riaperti, le sale da concerto gremite di sordi, le pasticcerie affollate alla domenica, i generali del Re a palazzo Salerno, i principi e i baroni al Casino dell’Unione, i figli di papà al Circolo del Tennis". <53
Nella «melanconica prospettiva» di assistere al ritorno della vecchia guardia dell’EIAR, decisa a riappropriarsi dei posti occupati fino all’epurazione antifascista, Giglio e Ghirelli decidono di evadere dalla città per «respirare un po’ di aria pulita». <54
Dopo aver chiesto agli americani di essere trasferiti ad Altopascio, una zona di operazioni in Toscana, i due si uniscono all’Unità Mobile Radiofonica 15: "Mentre io e Tommaso seguivamo la Quinta Armata del generale Clark, alcuni amici come La Capria e Patroni Griffi si trasferivano a Roma liberata e altri, come Rosi e Compagna, tornavano a Napoli dalle regioni dove erano stati sorpresi dall’armistizio. I ragazzi di via Chiaia erano cresciuti e seguivano ciascuno il proprio destino, sempre accomunati tuttavia da una illimitata fiducia nella vita, un solare ottimismo che si è tradotto in una notevole capacità creativa, più forte naturalmente in alcuni di noi […]". <55
La parentesi campestre di Giglio e Ghirelli si concluderà nel mese di aprile, con lo sfondamento della linea Gotica che avrebbe permesso loro di insediarsi al Nord, come giornalisti della redazione milanese de «l’Unità». <56
Prima di raggiungere il capoluogo lombardo, in occasione di una breve permanenza a Bologna, Ghirelli avrebbe ancora documentato ai microfoni di piazza San Martino la «drammatica fucilazione» di Mussolini e la fine della seconda guerra mondiale, affiancato da un giovane e sconosciuto Enzo Biagi. <57
Due notizie di indiscutibile rilevanza storica che dovettero sembrargli relativamente importanti, se rapportate alle vicende della sua febbrile esistenza.
 

Ian Greenleess - Fonte: Barinedita


[NOTE]
15 Si veda ROSI, Io lo chiamo cinematografo, cit., pp. 34-35, dove il regista sostiene che, dopo la parentesi di Radio Palermo, Kamenetzky si sarebbe trasferito a Napoli diventando subito «amico di tutti» e, in seguito, anche di sua moglie Giancarla Mandelli, al punto che «quando era a Roma, ormai direttore del “Corriere della Sera”», egli avrebbe dormito da loro «invece che andare in albergo».
16 ALEXANDER STILLE, The Force of Things. A Marriage in War and Peace (2013); trad. di Stefania Cherchi: La forza delle cose. Un matrimonio di guerra e pace tra Europa e America, Garzanti, Milano 2013, pp. 199-200. Si veda GIANNI RIOTTA, Le cose che ho imparato. Storie, incontri ed esperienze che mi hanno insegnato a vivere, Mondadori, Milano 2011, p. 129.
17 STILLE, La forza delle cose, cit., p. 200.
18 IAN GREENLEES, Radio Bari 1943-1944, in Inghilterra e Italia nel ’900. Atti del Convegno di Bagni di Lucca. Ottobre 1972, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 229-50: 242-43 e 244.
19 Per la trascrizione di alcune trasmissioni de L’Italia combatte e di Spie al muro, si veda MONTELEONE, La radio italiana nel periodo fascista, cit., pp. 382-87.
20 ALBERTO PERRINI, Questa è la voce dell’Italia: Qui Radio-Bari!, «Filodrammatica», 2:3 (1946), pp. 4-5.
21 Ivi, p. 5.
22 ISOLA, Cari amici vicini e lontani, cit., p. 36.
23 ANTONIO GHIRELLI, Noi del ’45, «Nord e Sud», n.s., 17:121 (1970), pp. 101-12: 104.
24 GHIRELLI, Una bella storia, cit., p. 31. Ci si riferisce qui alla trasmissione The Mercury Theatre On Air e, in particolare, all’adattamento radiofonico di The War of the Worlds di H.G. Wells andato in onda il 30 ottobre 1938.
25 GHIRELLI, Un’altra Napoli, cit. pp. 138-39.
26 GHIRELLI, Una bella storia, cit., p. 32. A questi si aggiungono, fra gli altri, anche i nomi di Giglio e dei transfughi romani Leo Longanesi, Mario Soldati e Stefano Vanzina (alias Steno).
27 GHIRELLI, Un’altra Napoli, cit. pp. 138-39; GAMBELLI, Una donna a Radio Napoli, cit., p. 282.
28 ORESTE DEL BUONO, Voci dal Vesuvio, «La Stampa», 9 settembre 1993, p. 5.
29 ARNOLDO FOÀ, Una voce di uomini liberi: Radio-Napoli, «Filodrammatica», 2:7-8 (1946), p. 3. Si riproduce il testo emendato da refusi tipografici evidenti.
30 ARNOLDO FOÀ, Recitare. I miei primi sessant’anni di teatro, Gremese, Roma 1998, p. 96.
31 ISOLA, Cari amici vicini e lontani, cit., p. 38; LEO LONGANESI, [Napoli,] 20 dicembre [1943], in Parliamo dell’elefante. Frammenti di un diario (1947), introduzione di Pierluigi Battista, Longanesi, Milano 2005, p. 154.
32 GAMBELLI, Una donna a Radio Napoli, cit., p. 292; ISOLA, Cari amici vicini e lontani, cit., p. 38.
33 GHIRELLI, Noi del ’45, cit., p. 106.
34 Ivi, p. 105.
35 Ibid.
36 RENATO RIBAUD, Una fantastica avventura, Arte Tipografica, Napoli 1997, p. 53.
37 GAMBELLI, Una donna a Radio Napoli, cit., pp. 282 e 285.
38 Ivi, p. 294.
39 Si veda FREQUENZA, Il microfono per corrispondenza, «RC», 23:5 (1946), p. 2. Si veda anche FRANCO MONTELEONE, La ricostruzione della rete radiofonica, in Storia della RAI, cit., pp. 75-94.
40 GHIRELLI, Noi del ’45, cit., p. 105.
41 ANTONIO GHIRELLI, Radio Napoli, «Quaderno di COMUNICazione», 2011-2012, pp. 33-37: 35.
42 GHIRELLI, Un’altra Napoli, cit., p. 139.
43 GHIRELLI, Noi del ’45, cit., pp. 105-6.
44 Ivi, p. 106. Si vedano l’es. di palinsesto e la testimonianza di Compagnone in appendice a GAMBELLI, Una donna a Radio Napoli, cit., pp. 298-99. Si veda anche FOÀ, Radio-Napoli, cit., pp. 3-4.
45 Il riferimento è a WILLIAM SAROYAN, Che ve ne sembra dell’America?, trad. di Elio Vittorini, Mondadori, Milano 1940, antologia che ebbe molta influenza sull’A. Si veda infra p. 147.
46 GHIRELLI, Una bella storia, cit., p. 33. In LA CAPRIA, Il boogie-woogie, cit., p. 56, l’A. attribuisce la direzione dell’emittente napoletana a Kamenetzky che, in effetti, si trovava in città in quel periodo. Anche Rosi lo fa, rispondendo alle domande di ENZO SICILIANO, Ma tu che libri hai letto?, Gremese, Roma 1991, p. 68. Altri sono concordi nel ritenere che quel ruolo spettò prima a Rehm e poi a Sadun: si veda, in proposito, ISOLA, Cari amici vicini e lontani, cit., p. 37. Secondo DIEGO LIBRANDO, Il jazz a Napoli: dal dopoguerra agli anni Sessanta, Guida, Napoli 2004, p. 34, nota 32, la direzione della «sezione spettacoli del PWB» sarebbe stata invece condivisa da Kamenetzky e Sadun.
47 LONGANESI, [Napoli,] 20 dicembre [1943], cit., p. 154.
48 GHIRELLI, Un’altra Napoli, cit., p. 139.
49 GHIRELLI, Una bella storia, cit., p. 33.
50 GHIRELLI, Noi del ’45, cit., p. 107.
51 GAMBELLI, Una donna a Radio Napoli, cit., pp. 296-97.
52 Ivi, p. 291.

Luca Federico, L'apprendistato letterario di Raffaele La Capria, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, 2020 

Ma ormai il destino di Radio Bari era segnato: l'avanzata angloamericana rendeva necessario abbandonare il capoluogo pugliese e spostare in avanti il centro di gravità della propaganda radiofonica verso Radio Napoli. Ma mentre Radio Bari era giunta praticamente intatta in mano agli alleati, quest'ultima stazione aveva subito forti danni dai tedeschi in ritirata, che avevano fatto saltare buona parte delle apparecchiature e il traliccio metallico dell'antenna. Fortunatamente, alcuni tecnici avevano fatto in tempo a nascondere il materiale di scorta e a disinnescare il tritolo posto sotto i gruppi generatori di corrente continua. Su questa base esigua era stato possibile già il 15 ottobre 1943 riprendere le trasmissioni come Radio Napoli Nazioni Unite dalle 19 alle 22.30, grazie agli americani del maggiore George Rehm, primo direttore della sede, che misero a disposizione una radio da campo <44; le trasmissioni, introdotte  dalle prime note dell'Inno di Mameli, non giunsero però nelle case napoletane, perché quella sera mancava in città proprio l'energia elettrica. Per migliorare la struttura tecnica, fu poi approntato un ripetitore di un solo kw di potenza a Monte di Dio, che ampliò il raggio d'ascolto. Piano piano l'orario di trasmissione venne anticipato alle 12 e quindi, definitivamente dalle 6 del mattino alle 24. Radio Napoli, che in un primo tempo aveva affiancato, rilanciando nell'etere i programmi di Radio Bari, era ormai pronta ad accogliere quel gruppo. L'ordine di trasferirsi nel capoluogo partenopeo giunse a Greenlees nel febbraio 1944: a Napoli, sotto il diretto controllo degli Americani della V armata agli ordini del generale Clark, già operava un gruppo nutrito di antifascisti fra cui spiccavano Rosellina Balbi, Maurizio Barendson, Carlo Criscio, Luigi Compagnone, Vincenzo Dattilo, Clara Falconi, Antonio Ghirelli, Ettore Giannini, Tommaso Giglio, Vezio Murialdi, Carlo Pennetti, Michele Prisco, Domenico Rea, Paolo Ricci, Ruggiero Romano, Francesco Rosi, Giuseppe Vorluni e Stefano Vanzina (Steno), da poco arrivato da Roma con Leo Longanesi e Mario Soldati <45. In tempi successivi a questi si aggiunsero Aldo Giuffré e Samy Fayad con funzioni di annunciatori, mentre nella sezione prosa, oltre ai già ricordati Steno e Longanesi, operavano il commediografo Edoardo Anton e Mino Maccari. A Napoli, si trovava anche Ugo Stille, proveniente da Palermo: ma il vero animatore di quella breve esperienza fu il successore di Rehm, il livornese Elvio H. Sadun, un ebreo fuggito nel 1938 negli Usa, dove aveva maturato solide esperienze di giornalismo radiofonico in una stazione newyorkese.
«È giunto dall'Algeria - avrebbe appuntato nel suo diario Longanesi - il nuovo direttore, un italiano, ora cittadino e soldato americano. Occhi patetici, naso aquilino, capelli ricciuti e unti. Stringe la mano con due dita, finge di aver molto da fare e parla dei problemi della radio come di questioni teologiche» <46.
Il salveminiano Sadun condivideva la responsabilità con l'ufficiale americano di origine siciliana Ravotto e con Harry Fornari, in un'atmosfera fortemente spoliticizzata rispetto a Radio Bari. La sede era stata spo stata da Pizzofalcone a Palazzo Singer in Corso Umberto, al cui terzo piano una diecina di apparecchi radio erano in continuo contatto con le stazioni radio più importanti: a queste prime apparecchiature si aggiunsero ben presto telescriventi, ciclostili, registratori e dictaphones in un clima molto particolare: «Negli uffici - è sempre Longanesi la fonte - molta agitazione e indolenza, molto apparente tecnicismo americano e arruffio napoletano» <41. Ciò permise di prolungare sino alla liberazione di Roma (4 giugno 1944) la vita di Italia combatte, a cui si aggiunsero altre trasmissioni come I pionieri, Stella bianca e I colpevoli. Quest'ultima ripeteva la denuncia di Spie al muro, allargata ai ritratti dei maggiori gerarchi fascisti, mentre I pionieri disegnavano il profilo biografico di personaggi della democrazia italiana prefascista. Il carattere educativo e didascalico di queste due trasmissioni segnalava il cambiamento verificatosi da Bari a Napoli e il diverso grado di autonomia goduto dalle due redazioni, nel quadro di un sempre più accentuato positive thinking imposto dagli Americani.
Stella bianca - secondo Monteleone dovuta principalmente alla penna di Longanesi e di Soldati <48 - era invece una rivista satirica, che divenne in breve assai popolare: vi recitavano, fra gli altri, Carlo Giuffré, Peppino Patroni Griffi, Achille Millo e lo stesso Rosi, tutti personaggi destinati ad un ruolo di primo piano nel mondo dello spettacolo. Fra scenette e couplets, si inneggiava all'american way of life e alla rinata democrazia: Steno imitava la voce di Mussolini. Era una risposta umoristica e anche un po' qualunquista alle ristrettezze del momento, ma fu il veicolo di penetrazione dei nuovi concetti in strati popolari poco propensi alla seriosità dei conversatori (Alberto Moravia   ebbe il suo battesimo radiofonico in quest'ambito) o di trasmissioni come Conosciamo le Nazioni Unite, esplicitamente destinate a favorire l'avvicinamento e la conoscenza fra italiani e alleati. Non mancava una trasmissione femminile, Programma per la donna italiana, condotta da Grazia Rattazzi Gambelli, dal dicembre 1943 annunciatrice della stazione di Pizzofalcone con lo pseudonimo Grazia di Torino. Nonostante le difficoltà del momento la magia del microfono permise
«subito» il saldarsi di forme immediate di collaborazione fra la giovane e inesperta conduttrice e il pubblico più vasto: «mi aiutarono le ascoltatrici con la loro partecipazione attraverso la corrispondenza, proponendomi argomenti, interessi, curiosità e problemi. Si instaurò così abbastanza rapidamente un rapporto corale a coinvolgere le ascoltatrici anche tra loro in iniziative concrete di carattere umano e sociale e culturale, e nel contempo arricchendo il nostro programma di riflessi e notizie di momenti associativi femminili, concretamente interessati alla vasta e complessa problematica napoletana». <49
In una realtà urbana dominata dal contraddittorio e «vorace riappropriarsi umano dei sapori elementari della vita», la radio non si sottrasse all'impegno di intervenire sui problemi più scottanti del vivere quotidiano: primo fra tutti quello dell'igiene pubblica. Nella Napoli «terra di conquista», offesa e degradata, di cui Malaparte ha disegnato un affresco drammatico e penetrante nella Pelle, il colonnello Charles Poletti, governatore alleato di Napoli, tenne, ad esempio, una serie di lezioni sul grave problema dell'igiene pubblica.
Le trasmissioni musicali accoppiavano le melodie napoletane delle orchestre Colonnese e Capese o dei complessi Calace, Michele Parise e Amedeo Pariante (un vero divo popolare, vincitore di un concorso nazionale Eiar nel 1941), allo swing dei complessi più in voga oltreoceano come Nelson Eddy, Larry Adler, Oscar Levante John Healy. Ribalta preferita fu il programma La Voce dei giovani, che aveva subito alcune interessanti trasformazioni nel clima di generale depoliticizzazione delle rubriche, giungendo appunto a proporre per la prima volta al pubblico italiano saggi di una produzione culturale nuova e strettamente legata alla moderna industria del divertimento e del consumo. <50  
Fu anche pubblicato il foglio settimanale Qui, radio Napoli per rafforzare il rapporto quotidiano con il pubblico più vasto. Tuttavia, questa eccitante esperienza fu assai breve: per Radio Napoli e per i Napoletani fu una parentesi di poco meno di sei mesi, ma assai importante, prima di ripiombare in una posizione di seconda fila all'indomani della riattivazione di Radio Roma e della trasformazione dell'Eiar in Rai, quando gli americani avrebbero riaffidato ai vecchi tecnici fascisti la direzione delle sedi liberate. Un gruppo di questi giovani rimase a Napoli e continuò a collaborare alle produzioni locali, ma in clima di sempre più sottolineata restaurazione, che giunse a chiamare alla direzione di Radio Napoli il ben noto radiocronista fascista Franco Cremascoli. È tuttavia assai difficile stabilire una forma di gerarchia fra queste prime voci nazionali e le emittenti internazionali, che la sera facevano raccogliere attorno ai più diversi apparecchi interessati e curiosi, magari con una coperta addosso per attutire i rumori udibili dall'esterno e evitare la curiosità, quella sì pericolosa, del capocaseggiato nell'Italia ancora occupata. Com'è naturale non è possibile disporre di dati statistici riguardanti l'ascolto durante la Resistenza; anche le informazioni desumibili dalla stampa circa gli arresti per ascolto clandestino non specificano mai l'emittente incriminata. <51
[NOTE]
44 Su Radio Napoli in generale le notizie sono disperse nella bibliografia  generale già citata e non è sufficiente il tentativo di sintesi di Umberto Franzese, La Radio a Napoli dalle origini alle emittenti libere, Napoli, [1984], passim.
45 Utile la memoria di Grazia Rattazzi Gambelli, Una donna a Radio Napoli, in Alle radici del nostro presente. Napoli e la Campania dal fascismo alla Repubblica (1943-1946), Napoli, 1986, p. 281-300.
46 Cfr. Leo Longanesi, Parliamo dell'elefante. Frammenti di un diario, Milano, 1947, p. 218.
47 Ivi, p. 219.
48 V.  Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione..., cit., p. 180.
49 Cfr. Grazia Rattazzi Gambelli, Una donna a Radio Napoli..., cit., p. 287. Una serie di testi pronunciati da uno dei collaboratori di Radio Napoli in Carlo Criscio, Un cuore alla radio 1943-44, Napoli, 1954.
50 Per un'idea della grande articolazione dei programmi presentati basta riprodurre il palinsesto di una giornata radiofonica tipo: «Notizie : ore 7-8-10-12-13-14- 16-17-20-23.30-24 Notiziario napoletano: ore 11 Notiziario Italia liberata: ore 16 Ritrasmissioni: Radio Londra ore 8.30-9.30-20.30 Voce dell'America: ore 13.15-21.30 Commenti : ore 10.10-13.15-16.10-20.15-00.15 Programmi musicale e di varietà: Ore 7.15 Musica mattutina - 7.30 Buongiorno - 7.45 Dolci melodie - 8.15 Canzoni d'Italia - 8.45 Musica operettistica - 9.00 Orchestra Esperia - 9.45 Cantante della strada - 10.15 Musiche e canti delle Nazioni Unite - 10.30 Musica sinfonica - 11.15 Racconti e novelle celebri - 11.30 L'Ora del soldato - 12.15 Musica per tutti - 12.30 Programma della donna italiana - 12.45 Personaggi del jazz - 13.30 Serenate e valzer - 14.10 Artisti celebri - 14.25 Andiamo al concerto - 16.15 Marciando - 16.30 Concerto vocale e strumentale: Ciucci-Miranda-Adami - 17.15 Musica varia - 17.30 Programma per i piccoli - 17.45 Il libro della danza - 18.15 Programma per i prigionieri da New York - 18.30 Mandolinista Maria Calace - 18.45 Notiziario in lingua francese - 19.00 Il quarto d'ora dei lavoratori - 19.15 Lezione d'inglese - 19.30 Balliamo - 20.45 Radiofollie - 21.15 Grandi autori - 21.45 Incredibile ma vero - 22.15 Musica moderna - 22.30 L'Italia combatte - 23.00 Il compositore della settimana: Mozart -  23.35 Ora romantica - 00.30 Complessi jazz  [ivi, p. 288-9].
51 A proposito di gerarchie d'ascolto, è interessante citare un documento sequestrato ad un antifascista dalla polizia, in cui non si faceva differenze, così come non la facevano gli ascoltatori: «Nell'Italia occupata dai germanici ci si lamenta spesso che le notizie sull'Italia liberata dagli angloamericani sono scarse e poco precise, perché in fondo non si può far conto che sulle trasmissioni di Radio Bari e di Radio Londra: le ultime sono troppo vaghe e portano soprattutto notizie a carattere militare, mentre le prime, che difficilmente si possono captare, sono più importanti, perché si occupano in primo luogo dei problemi italiani, ma non così numerose da accontentare tutti» [cfr. Riservato a Mussolini..., cit., p. 15].

Gianni Isola, Il microfono conteso. La guerra delle onde nella lotta di liberazione nazionale (1943-1945) in Mélanges de l'école française de Rome, Italie et Méditerranée, tome 108, n°1. 1996. pp. 83-124

mercoledì 3 novembre 2021

Quando nel 1924 il Genoa giocò a Buenos Aires contro una selezione argentina il calcio d’avvio venne dato addirittura dal Presidente della Repubblica

L'Arena di Milano, teatro nel tempo di eventi di diverse discipline sportive - Fonte: Wikipedia

In politica estera il fascismo dimostrò una decisa preferenza per le relazioni bilaterali rispetto a quelle multilaterali poiché evitavano di assumere impegni gravosi e consentivano una politica “delle mani libere”. Questo atteggiamento si riflesse anche nello sport dove solo con l’inizio degli anni Trenta ci fu, su spinta di Bonacossa, un tentativo di consolidare l’autorità dell’Italia nei consessi internazionali, cercando di occupare le presidenze delle FSI.
Seppur generalmente poco studiate, al di là di qualche importante eccezione, un rapido sguardo alle relazioni sportive bilaterali può rivelarsi un modo sorprendentemente utile per una maggiore chiarezza dei rapporti politici internazionali. Particolarmente interessanti sono quindi le ricerche sui rapporti calcistici bilaterali fra Italia e Austria.
 
Fonte: Corriere dello Sport

Dopo l’amichevole del 1922 a Milano che aveva permesso all’ex nemico di uscire dall’isolamento, dopo la marcia su Roma si disputarono altri due incontri senza particolari problemi. La politica di fascistizzazione dell’Alto Adige tuttavia non mancò di causare frizioni; nel 1926 la Österreichische Fußball-Bund (ÖFB) si rifiutò di prendere parte al congresso della FIFA di Roma per protestare contro un discorso di Mussolini sulla questione. La piccata reazione della FIGC annunciò la rottura dei rapporti sportivi e solo l’abile lavoro della diplomazia austriaca, che riuscì ad addossare la responsabilità integrale dell’accaduto ai socialdemocratici, riuscì a far rientrare la tensione. Il sostegno di Mussolini ai cristiano-sociali austriaci giocò un ruolo di moderatore nelle sfide successive. Persino l’amichevole potenzialmente esplosiva giocatasi a Vienna nel 1929, in cui non fu suonata la marcia reale né esposta la bandiera e una buona parte dei 50.000 tifosi austriaci cercò di linciare un gruppetto di provocatori fascisti, non si risolse in una crisi grazie all’abilità della diplomazia austriaca la quale, fece ricadere ancora una volta la colpa sui socialdemocratici Mussolini del resto, specialmente dopo il colpo di stato di ispirazione nazista che aveva provocato la morte di Dollfuss, era diventato il garante dell’indipendenza austriaca. 


L’invasione dell’Etiopia tuttavia avvicinò notevolmente l’Italia di Mussolini alla Germania di Hitler e l’Austria divenne la principale merce di scambio dell’alleanza. Nel marzo del 1937 si giocò a Vienna una sfida di Coppa internazionale. Dopo mezz’ora di gioco violento l’Austria andò in vantaggio facendo scoppiare risse sulle panchine e sugli spalti. Nel secondo tempo la violenza raggiunse un tale livello che l’incontro fu sospeso dall’arbitro prima della fine. I disordini furono interpretati come un manifestazione di stampo social-comunista ma è possibile che anche l’opposizione nazionalsocialista si fosse unita all’azione. Mussolini, che aveva ormai deciso di sacrificare l’Austria a Hitler, annullò l’incontro di ritorno tra le due squadre senza avvisare gli austriaci che ricevettero assieme al foglio di via la notizia in albergo e fu inflessibile nel respingere tutte le intercessioni proposte dall’ambasciatore austriaco a Roma <479.
Allargando lo spettro all’intera area danubiana e mitteleuropea, il fascismo svolse una politica particolarmente attiva anche se talvolta ambigua - certificata dai tentativi di indebolire la Piccola Intesa di matrice francese e sostenendo politicamente ed economicamente i movimenti fascisti di Austria, Ungheria, Romania e Bulgaria - che si riflesse anche nella politica calcistica.
Tra il 1923 e il 1934, la nazionale disputò 83 incontri internazionali e di questi ben 33 furono contro Ungheria (10), Austria (9) Cecoslovacchia (9) e Germania (5) <480. Non sempre, come visto per il caso austriaco, gli incontri di calcio favorivano i rapporti di amicizia.
Per esempio ci furono numerosi incidenti a Praga durante l’incontro di calcio tra Slavia Praga e Juventus che si ripeterono quando le squadre si incontrarono a Torino.
Il 16 dicembre 1932 il Presidente del Consiglio dei Ministri chiese a Mussolini di fermare tutti gli eventi sportivi per un po’. In effetti a Praga erano avvenuti incidenti molto seri accompagnati da invettive «contro l’Italia e il Duce». E giocatori si erano feriti seriamente. L’ambasciatore italiano a Praga scrisse «i criteri sportivi, le coppe, i campionati sono importanti ma talvolta la reputazione di una nazione viene prima degli eventi sportivi» <481.
Oltre al calcio le buone relazioni con il governo ungherese furono garantite anche attraverso la scherma. Gli italiani, per esempio, parteciparono per la prima volta alla V edizione dei Campionati internazionali di scherma di Budapest nel 1926, che videro invece la significativa assenza dei francesi. Gli italiani furono accompagnati dal Presidente della Federazione Giuseppe Mazzini, che ne approfittò per salutare l’ambasciatore a Budapest, il Conte Durini di Monsa e i membri del Club fascista della capitale ungherese <482.

 
Sempre il calcio rappresentò senza dubbio la disciplina sportiva prediletta negli scambi con i paesi del Sudamerica, specialmente l’Argentina, il Brasile e l’Uruguay, non tanto per la nazionale - che non affrontò mai la lunga e costosa trasferta, quanto piuttosto per i club più intraprendenti. Quando nel 1924 il Genoa giocò a Buenos Aires contro una selezione argentina il calcio d’avvio venne dato addirittura dal Presidente della Repubblica <483. In generale i rapporti diplomatico-sportivi fra Italia e Paesi sudamericani furono ottimi. Lo certifica, per esempio, il fatto che in occasione della Sessione del CIO dell’aprile 1923 a Roma il delegato brasiliano, il conte Rio Branco, pur sottolineando l’intenzione di Rio de Janeiro di candidarsi a sede olimpica, dichiarava di rinunciare alla propria proposta fino a quando le Olimpiadi non si fossero tenute a Roma <484.
 

Fonte: Wikipedia

Gli scambi verso l’America del Nord risposero invece soprattutto a logiche economico-commerciali, specie in discipline quali il pugilato, l’automobilismo e il ciclismo su pista.
Particolarmente ambigui e conflittuali furono invece i rapporti con la Francia, talvolta vista come la “sorella latina”, altre volte come avversario da sconfiggere e terra di conquista (sportiva).
A partire dal 1920 era stato istituito il Service des Oeuvres Français à l’Etranger (SOFE); anche nella democratica Francia gli atleti erano sussidiati e venivano paragonati ad «ambasciatori» o a «rappresentanti della cultura francese» <485. Così come per l’Italia fascista anche il SOFE non nascose mai il fatto che fosse gradita la partecipazione di atleti francesi all’estero solo nel caso in cui fosse più o meno assicurata la vittoria.
Ecco perché il 26 maggio 1923 in un galà di scherma a Roma tra il francese Lucien Gaudin e l’italiano Candido Sassone si sfiorò l’incidente diplomatico. Nonostante dovesse essere un mero esercizio di stile senza vincitori non solo Sassone fu acclamato dal pubblico come il vincitore, ma anche il Giornale di Roma celebrò la superiorità della scuola italiana parlando di «facile vittoria» su Gaudin <486.
La scherma faceva parte del patrimonio culturale e identitario delle due nazioni anche se le due scuole si erano organizzate non solo con tecniche ma anche con armi differenti. Se Anversa 1920 aveva rappresentato un trionfo per la scherma italiana, Parigi 1924 segnò una grande occasione di riscossa per i francesi; gli incidenti occorsi in pedana segnalarono un risveglio della tensione dell’ostilità tra i due paesi, dovuta anche all’ascesa al potere di Mussolini, che non impedì a Henri Desgranges di applaudire le vittorie di Bottecchia al Tour de France. Dopo i Giochi infatti la Francia e l’Italia entrarono in un nuovo periodo di ostilità che verrà confermato e prolungato dalla presenza al potere in Francia del Cartel de Gauches e dal fatto che Parigi tra gli anni Venti e Trenta assunse lo statuto di capitale dell’antifascismo <487.
Le relazioni sportive tuttavia, al di là di una sentita rivalità specie nel ciclismo e nella scherma e di una certa conflittualità istituzionale, non ne risentirono particolarmente. Addirittura la creazione di corse come la Milano-Torino-Nizza nel 1932 o l’organizzazione di un’amichevole tra Juventus e Marsiglia nel 1933 furono concepite espressamente dalla PCM per migliorare le relazioni bilaterali <488.
La situazione cambiò radicalmente con l’invasione dell’Etiopia. Molti incontri italo-francesi previsti, dalla partecipazione azzurra al Tour a una sfida calcistica, furono annullati. I campionati del mondo di scherma di Parigi 1937 segnarono una certo riavvicinamento, così come la sfida calcistica a Napoli nel 1938 dopo la serie di vittorie italiane in terra francese. Con l’avvicinarsi della guerra, mentre francesi e inglesi erano impegnati in un’operazione di “scaricabarile” per il contenimento militare della Germania, che portò in parallelo alla politica dell’appeasement ad un notevole incremento degli scambi sportivi con quest’ultima, Italia e Francia invece ridussero notevolmente le loro relazioni sportive. Gli italiani, temendo manifestazioni antifasciste e una nuova sconfitta dopo quella del pugile Saverio Turiello contro Marcel Cerdan, si ritirarono dal meeting di atletica italo-francese del 13 giugno 1939. Nel luglio dello stesso anno la nazionale francese di atletica rifiutò di recarsi in Italia, adducendo motivazioni politiche, ma non ebbe problemi a recarsi a Monaco di Baviera <489.
Fino all’invasione dell’Etiopia le relazioni con l’Impero britannico furono ottime. I campi da golf di Stresa e Carezza, per esempio, furono un luogo d’incontro dell’alta borghesia italiana e britannica che certificava il buon rapporto esistente <490. E proprio sui campi di golf Galeazzo Ciano sosteneva: «Tra l’egemonia tedesca e l’egemonia inglese, meglio quest’ultima: è l’egemonia del golf, del wisky [sic] e del comfort» <491. Inoltre, al contrario di quanto avveniva in Francia, le istituzioni sportive inglesi non erano controllate dal governo; fino al 1934 l’idea che un evento sportivo potesse essere utilizzato per fini politici era considerato ripugnante dal Foreing Office, tuttavia fu proprio un incontro di calcio a segnalare quegli scricchiolii che avrebbero poi portato le due nazioni a entrare in guerra l’una contro l’altra.
In vista dell’amichevole prevista a Londra per il novembre del 1934 dopo il pareggio per 1 a 1 a Roma, pur essendo la nazionale di calcio un simbolo del fascismo, la diplomazia britannica sottovalutò l’evento, non cogliendo il lato politico dell’evento. Con la salita al potere di Hitler e la sua politica di riarmo l’Italia e la Francia rappresentavano un obiettivo della diplomazia britannica per limitare la minaccia tedesca. Non era certo nell’interesse di Londra che una partita di calcio rafforzasse l’acredine fra i popoli, eppure fu esattamente ciò che accadde. Dopo la vittoria del Mondiale di calcio del 1934, al quale le quattro Home Nations britanniche non avevano voluto partecipare ritenendosi superiori, l’opinione pubblica britannica si sentì offesa dall’affermazione della propaganda fascista che l’Italia fosse la squadra più forte al mondo. In quella che passò alla storia come «la battaglia di Highbury» e che il «Daily Herald» chiamò «il più brutale e pericoloso incontro internazionale di calcio giocato in questo Paese da diverse decadi», Monti si ruppe un alluce e Hapgood si ruppe il naso, mentre il portiere italiano Carlo Cresoli fu violentemente caricato dal centravanti inglese Ted Drake <492.
Fu evidentemente l’attacco all’Abissinia e non certo una partita di calcio a far crollare il Fronte di Stresa, tuttavia la spavalderia fascista e le pretese di superiorità nello spot nazionale inglese non favorirono certo la reazione dell’opinione pubblica britannica nel momento in cui la stampa, nel dicembre del 1935, fece trapelare il contenuto del patto Hoare-Laval. Le proteste contro l’accordo con l’Italia costrinsero alle dimissioni il segretario generale e portarono alla fine del Fronte di Stresa <493.
Il governo britannico aveva permesso che lo sport peggiorasse le relazioni con l’Italia, ma non volle ripetere lo stesso errore; nel 1938 infatti la squadra di calcio inglese omaggiò quella tedesca con il saluto nazista, mentre Londra fece un passo indietro per concedere le Olimpiadi del 1940 al Giappone <494.
Con l’Italia nuovamente campione del mondo e nonostante gli echi di guerra, le due squadre si ritrovarono a Milano il 13 maggio 1939 alla presenza di 65.000 spettatori. La partita, che terminò con un pareggio per 2 a 2 venne interpretata come una sfida finale per la supremazia nel calcio mondiale, tuttavia fu dato atto dello straordinario talento e della superiore sapienza tattica della squadra inglese <495.
Se durante la Repubblica di Weimar i rapporti con la Germania non mancarono di essere talvolta tesi e ostili, una volta salito Hitler al potere si fecero assai più frequenti e improntati sulla massima cortesia, anche se i gerarchi fascisti non nascosero una certa irritazione per la rapidità con cui lo sport nazista - seguendo il modello fascista - avesse raggiunto risultati di estremo valore.
A dimostrazione di queste buone relazioni possiamo citare un telespresso che il 23 dicembre 1935 l’Ambasciata d’Italia a Berlino inviò al Ministero degli Esteri e dell’Educazione Nazionale:
"Alle Olimpiadi la Germania annette una importanza molto considerevole. Dato il boicottaggio e la propaganda ostile esistente contro questo paese, questa grande riunione sportiva internazionale viene adoperata come un’occasione per ridurre tale cerchio di ostilità […] e, in relazione a tale carattere che si vuol dare alla manifestazione, parecchi Stati, dietro indiretto invito della Germania, manderanno Delegazioni molto rappresentative in cui cioè, al lato ai Delegati esclusivamente sportivi, saranno inclusi anche elementi semi politici […] Fare presiedere la nostra Delegazione da una persona di Autorità potrebbe essere perciò opportuno. La persona che più mi sembrerebbe indicata sarebbe S.E. R. Ricci, Sottosegretario al Ministro Educazione Nazionale. Pur essendo Segretario ha veste politica a ragione della alta carica che ricopre la sua presenza dimostrerebbe l’importanza che l’Italia annette alla manifestazione. S.E. Ricci in questa occasione sarebbe certamente invitato a visitare l’organizzazione della ‘Hitler Jugend’ che qui ha una importanza politica molto superiore a quella della corrispondente organizzazione in Italia". <496.
Diversi anche i tecnici italiani che si recarono in Germania: è il caso, per esempio, del maestro Niccolò Perno che nel 1939 passò ad allenare la squadra nazionale di scherma <497.
 

Fonte: Wikipedia


[NOTE]
476 Sport in regime fascista, «Lo sport Fascista», Milano, 1935, p. 52, cit. in F. FABRIZIO, Sport e fascismo, cit., p. 58.
477 Cfr. A. TEJA, Italian sport and international relations, cit., p. 161.
478 S. PIVATO, Sport et rapport internationaux: le cas du fascisme italien, in P. Arnaud e A. Whal, Sport et Relations Internationales, Actes du Colloque de Metz-Verdun, 23-5 septembre 1993, pp. 65-72.
479 Cfr. D. CANTE, Gli incontri di calcio tra Italia e Austria, cit., pp. 153-166 e D. CANTE, Propaganda e sport, cit., pp. 521-44.
480 Cfr. S. GIUNTINI, L’Olimpiade dimezzata, cit., p. 45.
481 Cit. in A. TEJA, Italian sport and international relations cit., p. 158.
482 Cfr. C. OTTOGALLI-AZZACAVALLO - T. TERRET, Attaque, risposte et contre-risposte: les relations franco-italiennes et l’escrime (1920-1960), in T. Terret (a cura di), Histoire du sport et géopolitique, Paris, L’Harmattan, 2011, p. 22.
483 Leggenda vuole che L’attaccante ricevuta la palla partì di gran carriera e col Presidente ancora in campo indirizzò un tiro verso la porta del divertito portiere De Prà. L’arbitro, tra le proteste dei genovesi, convalidò il gol cfr., R. BASSETTI, Storia e storie dello sport in Italia, cit., p. 55.
484 Cfr. T. FORCELLESE, L’Italia e i Giochi Olimpici, cit., p. 88.
485 Cit. in P. ARNAUD, French sport and the emergence, cit., p. 119.
486 Ibidem., pp. 126-7. Cfr. anche K. BRETIN, La Gazzetta dello sport et les Jeux de 1924, cit., p. 815.
487 Ibid.
488 Cfr. A. TEJA, Italian sport and international relations, cit., pp. 157-9.
489 Cfr. P. ARNAUD, French sport and the emergence of authoritarian regimes, cit., pp. 139-40 e C. OTTOGALLI-AZZACAVALLO - T. TERRET, Attaque, risposte et contre-risposte, cit., pp. 26-7.
490 R. HEBERHART, Italy Prepares To Move Forward In Golf, n.d., April 1926, p. 41.
491 R.J.B. BOSWORTH, Mito e linguaggio nella politica estera italiana, in R.J.B. Bosworth e S. Romano (a cura di), La politica estera italiana (1860-1985), Bologna, Il Mulino, 1991, p. 61.
492 Cit. in R. HOLT, The Foreign Office and the Football Association, cit., pp. 51-3. La sconfitta sportiva subita venne trasformata dalla stampa di regime in una vittoria morale dei «leoni di Highbury» sui perfidi rappresentanti di Albione.
493 Ibidem, pp. 51-3.
494 Ibidem, pp. 51-3. Cfr. anche M. POLLEY, Olympic Diplomacy: The British Government and the Projected 1940 Olympic Games, «International Journal of the History of Sport», n° 9, 1992, pp. 169-182 e P.J. BECK, Scoring for Britain. International Football and International Politics 1900-1939, London, Frank Cass, 1999.
495 Cfr. G. PANICO, Il calcio, cit., pp. 97-8.
496 Cit. in ACS, PCM, 2934-36, 14.4.5714, cit. in. L. RIGO, Cerchi olimpici e fasci littori, cit., p. 32.
497 Cfr. L. ROSSI, Scherma, cit., p. 289.
Nicola Sbetti, Giochi diplomatici. Sport e politica estera nell'Italia del secondo dopoguerra (1943-1953), Tesi di Dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2015

Tutto sommato si può concludere che i mondiali di calcio del 1934 e la vittoria finale d’Italia erano buoni mezzi di propaganda per i fascisti. Si tentava di realizzare un’organizzazione eccellente del torneo, con cui non si poteva notare una nota fuori posto. La stampa doveva innalzare il potere organisatorio del regime. Inoltre, la stessa stampa doveva descrivere le vittorie della Squadra Azzura in un modo mitico. Soprattutto il doppio incontro con la Spagna nei quarti di finale è stato passato alla storia come una vittoria eroica. Martin dice di questo evento che questa partita <<assomigliava più a un combattimento che una partita di calcio, proprio il tipo di confronto, per cui l’italiano nuovo era stato allenato .>> Per la seconda partita Italia era costretta di sostituire quattro giocatori. Questa seconda partita era diventata necessaria, perché il risultato della prima partita fu un pareggio. Però, gli spagnoli dovevano perfino sostituire sette giocatori a causa di infortuni. Moralmente, la situazione era a favore degli italiani. Grazie al sostegno molto fanatico dei tifosi fiorentini, alla fine la Squadra Azzurra fu in grado di battere la squadra spagnola. Phil Ball dice di questa partita che <<gli italiani calciarono gli spagnoli rimasti nell’oblio .>>
Però, la vittoria finale degli italiani era abbastanza controversa. In primo luogo il difensore del titolo Uruguay non partecipò ai mondiali. Inoltre, abbiamo già potuto vedere che anche i forti inglesi non assistettero al torneo. Così, la vittoria italiana perde più o meno lo smalto. Poi, gli appassionati di calcio non-italiani criticarono la partita contro la Spagna nei quarti di finale. Durante la partita l’arbitro aveva preso alcune decisioni discutibili a beneficio degli italiani , per cui alla fine la Squadra Azzurra arrivò in semifinale. Adesso Italia doveva giocare contro la Wunderteam di Austria. Anche questa partita puzzava. Già prima della partita Hugo Meisl, l’allenatore dei forti austriachi, temé che l’Italia sarebbe stata favorita dall’arbitro. La frase “Temo l'Italia, ma temo molto di più l'arbitro" fece sospettare che Meisl già conoscesse il risultato della partita. L’Italia vinse questa partita con 1-0 grazie a un gol dell’argentino-italiano Guaita. Segnò il gol vincente, mentre il portiere austriaco si trovò infortunato sulla terra. Però, l’arbitro Ivan Eklind convalidò il gol. ‘Per caso’ questo signore Eklind era poi anche l’arbitro nella finale . Anche se non è mai venuta a galla la verità su questa decisione, il dubbio sull’onestà di questa decisione continuerà a esistere per sempre.
Alla fine la Squadra Azzurra aveva ottenuto la vittoria finale richiesta dal regime. Però, tutto sommato questa vittoria non era tanto eroica quanto i fascisti affermavano.
[...] 9 George L. Mosse, The Fascist Revolution (New York: Howard Fertig Inc., [1999]), 9-14
10 Simonetta Falasca-Zamponi, Fascist Spectacle (Los Angeles: University of California Press, [1997]), 6-9
16 Giuseppe Iannacone, Il fascismo “sintetico”, Letteratura e ideologia negli anni Trenta (Milano: Greco & Greco Editori s.r.l., [1999]), 76
17 Simon Martin, Football and Fascism, The national game under Mussolini (Oxford: Berg, [2004]), 31
18 Ibidem, 31
19 Ibidem, 80
Tommy van Eldik, Lo sport come elemento della politica fascista in Italia, Tesina in Letteratura e cultura occidentale, Università di Utrecht, 2007

Durante il Ventennio, propaganda e consenso si ressero sul delicato equilibrio fra strumenti coercitivi e strumenti persuasivi. Se dal 1922 al 1926 fu l’uso prevalente dei meccanismi coercitivi a consentire al regime la distruzione di
ogni opposizione organizzata e l’occupazione dei gangli fondamentali dello Stato, la fase dal 1926 ai primi anni Trenta fu destinata alla costruzione di quella “macchina del consenso” pronta a essere lanciata a piena accelerazione. In questa seconda fase si collocò anche il cuore della politica sportiva del fascismo.
Si partì da un assunto. Il mercato dello sport mostrava un’evidente disparità fra domanda (crescente) e offerta (piuttosto modesta). Una mancanza di opportunità che si era palesata mentre i vantaggi della modernità iniziavano a garantire agli italiani buone opportunità di svago: si pensi all’entrata in vigore della legge n. 473 del 17 aprile 1925 - promossa dal regime - che garantiva alla popolazione una maggiore quantità di tempo libero. Differentemente dai vari governi liberali, dalla Chiesa cattolica e dai movimenti socialisti - piuttosto tiepidi nei confronti dello sport - il fascismo comprese il contributo che esso poteva offrire alla socializzazione di massa, di cui la giovane e frammentata popolazione italiana aveva grande bisogno.
La politica sportiva del fascismo conobbe sostanzialmente due fasi. Negli anni Venti si occupò di disegnare una solida identità all’attività sportiva, intendendo estirpare anche in questo campo i suoi antagonisti (rappresentati soprattutto dall’associazionismo cattolico e dai centri sportivi afferenti alle organizzazioni operaie); negli anni Trenta, invece, lo sport costituì elemento di propaganda domestica e internazionale, divenendo efficacissimo strumento a uso del regime per la creazione di una cultura popolare e di un senso di comunità condivisa, favorito dalla nascita di rituali, miti e luoghi sportivi. Una volta acquisito il potere, Mussolini si pose tre obiettivi: appropriarsi dello sport giovanile; assorbire e rimodellare secondo i propri scopi le prime associazioni sportive che agivano nel panorama del dopolavoro industriale; ottenere il controllo delle società ginniche già aderenti alle federazioni sportive nazionali.
Questi obiettivi furono perseguiti mediante la creazione, nella seconda metà degli anni Venti, dell’Opera Nazionale Balilla e dell’Opera Nazionale Dopolavoro nonché, soprattutto, attraverso l’egemonizzazione del CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano), sorto nel giugno del 1914 da una precedente delegazione italiana del CIO (Comitato Olimpico Internazionale). Il CONI divenne ben presto strumento appannaggio del Partito Nazionale Fascista, che nominava i dirigenti delle singole federazioni sportive, imponendo il fascio littorio su tutte le insegne sportive nazionali. Dal 1925, alla guida del CONI fu posto il giovane squadrista toscano Lando Ferretti, teorico di punta dello sport fascista <1.
Già co–direttore della «Gazzetta dello Sport» e caporedattore del «Secolo» e dello «Sport fascista», Ferretti aveva un’idea ben chiara dello sport e delle sue enormi potenzialità propagandistiche. L’obiettivo doveva essere la diffusione della pratica sportiva fra le masse. Lo sport, osservava Ferretti, serviva a «riflettere, penetrare ed elevare le masse. La massa è il suo unico obiettivo, non l’individuo» <2. Il fascismo, coerentemente con le sue mire, puntò dunque in maniera gradualmente inferiore sulle imprese del singolo atleta - pur con importanti eccezioni: si pensi al caso del pugile Primo Carnera, “eroe” dello sport fascista negli anni Trenta - prediligendo il gioco di squadra, in particolare il calcio, la disciplina che meglio si prestava a una simile strategia.
2. Il calcio «giuoco fascista»
Come in gran parte dell’Europa, anche in Italia il calcio aveva conosciuto una crescita esponenziale nel primo dopoguerra. Le sessantasette compagini inquadrate nella FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio) - sorta nel 1909 come evoluzione della FIF (Federazione Italiana del Football), prima organizzazione di governo del calcio italiano, nata nel 1898 - divennero ottantotto in soli due anni, fra il 1919 e il 1921 <3. La crescita di popolarità del calcio, e le folle al seguito di esso, iniziarono a costituire elemento costante, tanto che le società presero a finanziare delegazioni delle tifoserie affinché potessero essere al fianco della loro squadra nelle trasferte <4.
L’obiettivo di unificare il Paese dal punto di vista sociale e culturale spinse Mussolini, nel 1926, a ordinare una ristrutturazione del calcio, lo sport scelto dal fascismo, data la sua popolarità, per diffondere l’identità del regime fra le masse. «Sebbene il fascismo preferisse sport più tradizionalmente accademici come la scherma, o più moderni come l’automobilismo […] comprese immediatamente la presa che poteva esercitare sulle masse uno sport come il calcio», pur pratica di matrice britannica <5 e dunque non esattamente graditissima al duce. Sotto la supervisione di Ferretti, fu nominata una commissione composta dal futuro prefetto romano Italo Foschi, dall’ingegner Paolo Graziani e dall’arbitro e avvocato Giovanni Mauro. Il loro lavoro confluì in quella nota come “Carta di Viareggio”, pubblicata il 2 agosto 1926 e celebrata dalle penne di regime come «una concezione generale e rivoluzionaria di governo» <6.
Essa, fra le sue principali innovazioni, sostituì il precedente Consiglio federale della FIGC con un Direttorio federale, i cui componenti sarebbero stati nominati dal presidente del CONI. Il presidente della FIGC e il Direttorio federale, insieme al presidente del CONI cui risultavano subordinati, avevano così l’autorità assoluta su tutte le questioni legate al calcio, la cui trasformazione definitiva in «giuoco fascista» era sancita agli occhi degli italiani dall’aggiunta del fascio allo scudo sabaudo nello stemma impresso sulla divisa dei membri del CONI e dunque anche delle squadre di calcio. Si procedette, inoltre, alla riorganizzazione dei campionati nazionali che avrebbe compreso tre Divisioni - Prima, Seconda e Terza - suddivise in gironi da criteri geografici ed economici. Ad ogni modo, nelle fasi finali si sarebbero scontrate le migliori squadre di tutte le singole Divisioni, indipendentemente dalla loro provenienza territoriale: quest’aspetto, coerentemente con quanto voluto da Ferretti e dai membri della commissione della Carta di Viareggio, avrebbe garantito la formazione di un unico quadro nazionale in linea con gli obiettivi identitari del regime. Inoltre, in conformità con l’obiettivo di proteggere sia le grandi che le piccole compagini calcistiche - e dunque di garantire la massima partecipazione a quello che si stava delineando come lo sport di massa - fu creata la Coppa d’Oro, riservata alle squadre che non si sarebbero riuscite a qualificare per le fasi finali delle rispettive Divisioni e che, in tal modo, non sarebbero rimaste inattive.
Tre ulteriori aspetti veicolavano agli italiani, mediante il calcio, idee cardine dell’apparato ideologico del fascismo: la creazione della condizione di «non dilettantismo», che garantiva ai calciatori un «rimborso spese» <7 - in linea con l’art. 113 della FIFA (Fédération Internationale de Football Association, la federazione internazionale che già dal 1904 governava lo sport del calcio) - ma non li definiva professionisti, temendo che una professionalizzazione dell’attività avrebbe potuto minare la moralità della pratica calcistica <8; il divieto assoluto per le squadre di tesserare stranieri (con la sola eccezione degli allenatori), in linea con la volontà di “italianizzare” il calcio; la necessità che ogni atleta FIGC possedesse una «fedina penale pulita e fosse un esempio irreprensibile di strenua attività nella sua vita privata e professionale» <9.
Una logica conseguenza della rivoluzione sportiva - e in particolare della rivoluzione calcistica messa in atto - eco e prolungamento della rivoluzione politica del totalitarismo fascista, fu la progettazione di impianti senza precedenti nella storia.
3. La realizzazione dei progetti di massa: dalla legge 1580 alla nascita della Commissione Impianti Sportivi
La prima normativa italiana volta a regolare la costruzione e il restauro degli impianti sportivi giunse nel 1928, anno in cui le cariche di segretario del PNF e di presidente del CONI confluirono nelle mani del gerarca Augusto Turati, che raccolse l’eredità di Ferretti. Si trattava della legge n. 1580 del 21 giugno 1928, firmata da Mussolini e dal ministro delle Finanze Giuseppe Volpi.
Essa subordinava al parere del CONI il via libera prefettizio per la costruzione o l’acquisto, l’adattamento e il restauro di qualsiasi impianto sportivo <10.
Alla luce di un simile snellimento burocratico, accompagnato da importanti agevolazioni fiscali11, non deve stupire che già alla fine del 1928 gli impianti sportivi realizzati, nella tipologia dei cosiddetti Campi del Littorio, risultavano essere 441 (339 al Nord, 63 al Centro e 39 al Sud), secondo il periodico ufficiale del CONI <12.
Nel 1930 sarebbero stati pari a 3280 distribuiti su più di duemila comuni <13. Per comprendere la portata di questo investimento sullo sport si può prendere in esame proprio il 1928: in quell’anno ben il 15% della spesa complessiva riservata dai comuni italiani alle opere pubbliche fu destinata all’implementazione dell’impiantistica sportiva <14.
In questa fase il Paese si trasformò in un “cantiere sonante”, cercando di mostrare il dinamismo economico del regime e di sopperire alle difficoltà del momento mediante l’aumento dei posti di lavoro nei cantieri destinati alle opere pubbliche. Quello sugli impianti sportivi fu, infatti, un investimento anticongiunturale, intrapreso in una fase - almeno negli anni fra il 1928 e il 1933 - di costante decrescita del PIL.
[NOTE]
1 Sull’attività di Ferretti come presidente del CONI, cfr. E. LANDONI, Gli atleti del duce. La politica sportiva del fascismo 1919–1939, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 76–94.
2 La cultura e lo sport in un discorso di Lando Ferretti, «Il Littoriale», 22 gennaio 1929, pp. 1-2.
3 Cfr. G. PANICO, A. PAPA, Storia sociale del calcio in Italia dai club dei pionieri alla nazione sportiva (1887-1945), Il Mulino, Bologna 1993, p. 116.
4 Già nell’aprile del 1925, a seguito di una sconfitta in trasferta del Bologna contro il Verona, il giornale del capoluogo emiliano, «La Voce sportiva», attribuiva l’esito negativo alla scarsa affluenza di tifosi bolognesi, calcolando che un investimento di circa tremila lire da parte della società felsinea avrebbe garantito la presenza di quattrocento supporters al seguito pronti ad aiutare la squadra. Cfr. Football, «La Voce sportiva», 9 aprile 1925, p. 1.
5 S. MARTIN, Calcio e fascismo. Lo sport nazionale sotto Mussolini, Mondadori, Milano 2006, p. 4.
6 G. ZANETTI, G. TORNABUONI, Il giuoco del calcio. Commento alla legislazione della FIGC, Ceschina, Milano 1933, p. 24.
7 Il riassetto della FIGC, “La Gazzetta dello Sport”, 3 agosto 1926, p. 1.
8 Guido Beer, capo di Gabinetto alla Presidenza del Consiglio, nel 1928 così si esprimeva in merito al pericolo della professionalizzazione dei calciatori: «Il problema capitale della vita sportiva italiana è quello di rallentare l’enorme sviluppo del professionismo, che è pericolosissimo per la nazione. Il professionista deve avere questo nome perché […] lo diventa quando ci si dice dilettanti mentre si ricevono regolarmente forti somme […] oppure si risiede tutto l’anno a spese della direzione dei grandi alberghi». ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri 1928-1930, f. 3.2.5, n. 403, Pro-memoria, 15 settembre 1928, p. 1.
9 Federazione Italiana Giuoco Calcio, Annuario italiano del giuoco del calcio, Tipografia Modenese, Modena 1928, p. 145.
10 Cfr. Provvedimenti per la costruzione dei campi sportivi, «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», a. LXIX, n. 166, 18 luglio 1928.
11 Cfr. D. BOLZ, Les arènes totalitaires. Hitler, Mussolini et le jeux du stade, CNRS, Parigi, 2008, pp. 81-83.
12 I campi sportivi comunali costruiti durante l’Anno VI, «Il CONI», a. I, n. 9, 12 settembre 1929.
13 Cfr. I campi sportivi in Italia e la necessità di vigilarne la costruzione, “La Gazzetta dello Sport”, 18 aprile 1930, p. 3.
14 Cfr. E. LANDONI, op. cit., p. 100.
Matteo Anastasi, Fascismo, sport e identità nazionale. Gli stadi di calcio come veicolo di propaganda e strumento di consenso popolare in (a cura di) Novella di Nunzio e Francesca Zantedeschi, Il passato nel presente. Memorializzazione e usi pubblici della storia, Culture Territori Linguaggi CTL 17, Università degli Studi di Perugia, 2020 

Il fascino dei calciatori non era limitato ai campi da gioco. La stampa degli anni Trenta amava far conoscere l’uomo oltre che lo sportivo. Il calciatore era quello che poteva raggiungere uno stile di vita da cui la maggiore parte degli italiani era esclusa. Automobili Fiat per Meazza (una Balilla, ovviamente) o per Orsi; vacanze sul litorale tirreno a Forte dei Marmi per Rosetta, il terzino della Juventus, e per tutti la gestione di un bar o di un negozio. Nella ‘biografia’ di Rosetta, il giornalista Erberto Levi evocava il progetto dell’ex calciatore della Pro Vercelli in questi termini: “Iniziativa commerciale e industriale, in una parola. Virginio Rosetta amministra i frutti dei suoi risparmi con la stessa saviezza con cui amministra i suoi trentatré anni d’atleta” (13). Nessuno spirito di sacrificio al regime, ma piuttosto spirito di risparmio piccolo borghese. Rosetta non seguiva quindi la definizione dello sport secondo Lando Ferretti nel suo breviario atletico: “Lo sport è per noi anzitutto e soprattutto, scuola di volontà che prepara al fascismo i consapevoli cittadini della pace, gli eroici soldati della guerra” (14), scriveva nel 1928 il capo del Coni.
Se i raduni di massa organizzati da Achille Starace hanno potuto contribuire a costruire il consenso ottenuto da Mussolini, secondo Renzo De Felice, per una grande parte degli italiani nella prima metà degli anni Trenta questo non bastava. Certo, Nuto Revelli poté ricordare che per lui “il fascismo e lo sport erano la stessa cosa” e che era “orgoglioso dei suoi nastrini e delle sue medaglie” (15). In questo modo, lo sport, associato ai riti del Campo Dux, poteva lusingare il “narcisismo dei piccoli in divisa” (16).
Per i più grandi, il richiamo del moschetto e della divisa era senz’altro meno forte. O forse il proposito militaresco del regime non era per loro il volto più efficace dell’immagine del fascismo. Ma, come altrove nell’Europa dell’ovest, i vettori italiani della cultura di massa erigevano a modello un modo di vita moderno e spensierato. In questo senso la vita dei calciatori era l’equivalente sportivo dei film dei ‘telefoni bianchi’. E, con il suo primo sistema di protezione sociale, il dopolavoro, grazie al quale i giovani adulti potevano per di più acquistare a buon prezzo i biglietti per vedere le partite di serie A, il regime prometteva anche un presente e un avvenire migliori.
Ma lo stadio offriva anche la possibilità di esprimere quella rabbia che era esclusa dal campo sociale e politico. In particolare quella relativa al campanilismo, a tal punto che nel 1932, Il Littoriale, il quotidiano organo del Coni, dovette richiamare l’esasperazione espressa dal duce contro tutte le manifestazioni di regionalismo (17). Malgrado i decreti legge promulgati da Federzoni dopo la sparatoria della stazione di Porta Nuova nel 1925, al termine della finale Bologna-Genoa, una situazione elettrica accompagnò le partite di calcio fino al 1943. Furono in parte tollerate perché non si trattava di tensioni politiche e, in fin dei conti, non rappresentavano un pericolo per il regime. I tifosi al più erano una specie di ‘indifferenti’ degli stadi, come i protagonisti del romanzo di Alberto Moravia uscito nel 1929.
[NOTE]
(13) Viri (Virginio Rosetta): piccola storia di un grande atleta, Erberto Levi, Editrice Popolare Milanese, 1935
(14) Lando Ferretti, op. cit., pag. 225
(15) Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Nuto Revelli, Einaudi, 2003, pagg. 14-15
(16) Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Antonio Gibelli, Einaudi, 2005, pag. 319
(17) Dopo la parola del Duce. Basta coi regionalismi!, Il Littoriale, 28 luglio 1932
Paul Dietschy (Storico, francese, specializzato nella storia dello sport, in particolare del calcio. Tra le sue pubblicazioni: Histoire du football, Paris, Éditions Perrin, 2010) in paginauno, 10 dicembre 2010

giovedì 28 ottobre 2021

A fine settembre 1943, in una notte senza luna, un sommergibile britannico sbarcò sulle coste liguri la prima missione alleata nel Nord Italia

Prima pagina del rapporto finale di Fausto Bazzi - Fonte: Giuseppe Mac Fiorucci, Gruppo Sbarchi Vallecrosia < ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia - Comune di Vallecrosia (IM) - Provincia di Imperia - Associazione Culturale “Il Ponte” di Vallecrosia (IM) >, 2007

Ultima pagina del rapporto finale di Fausto Bazzi

A fine settembre 1943, in una notte senza luna, un sommergibile britannico (probabilmente il Seraph) sbarcò sulle coste liguri, a San Michele di Pagana, la missione LAW, la prima missione alleata nel Nord Italia. La missione attuò il primo collegamento radio fra Genova e Algeri. Fino a novembre restò l’unica missione della N° 1SF in Italia.
Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (1943-1945) in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico trimestrale - Anno XXIX - 2015, Editore Ministero della Difesa

Riceviamo e pubblichiamo:
'Sabato 25 marzo, alle ore 16 presso la Biblioteca Internazionale “Città di Rapallo” (Villa Tigullio), presentazione del libro di Marco Steiner, “Mino Steiner, il dovere dell’antifascismo” (Ed. Unicopli). Relazione di Giacomo Ronzitti, presidente Ilsrec. Sarà presente l’autore. Presiederà Vittorio Civitella, ricercatore storico e saggista. L’evento è patrocinato dal Comune di Rapallo'.
[...] “Una notte uggiosa di inizio Ottobre del 1943, a qualche miglio dalla spiaggia di Cavi di Lavagna, la sagoma scura d’un sommergibile si erse lentamente dalla superficie del mare sino ad arrestarsi immobile e silenziosa. Uno sportello si aprì sulla tolda e da esso  comparvero alcune figure quatte e guardinghe. Un paio di esse misero in acqua un canotto tenendolo accostato allo scafo sino a quando altri due uomini vi scesero dentro e cominciarono a remare allontanandosi dallo scafo ormai in fase di immersione: un breve e sordo ribollire di schiuma e spruzzi, indi la notte si richiuse sulla fugace apparizione. I due si diressero verso la costa priva di luci. Essi indossavano un giubbotto scuro, erano armati e dentro una sacca impermeabile nascondevano un apparecchio radio…”.
Ha così inizio l’incredibile storia di Guglielmo “Mino” Steiner e del suo secondo, Fausto Bazzi, che, condotti in missione segreta sino a quell’approdo da un sommergibile inglese, avrebbero dato vita ad uno degli episodi più incredibili e avventurosi dell’epopea resistenziale. Quella notte la missione inter-alleata Law aveva avuto il suo battesimo e la articolata cospirazione antifascista sia clandestina che in armi ne avrebbe tratto corposi vantaggi strategici e tragiche conseguenze. [...]
Consuelo Pallavicini, Rapallo: presentazione del libro “Mino Steiner, il dovere dell’antifascismo”, Levante News. La voce del Tigullio, 14 marzo 2017 

Sotto l’aspetto ideologico, il referente innovatore e riformista della composita cospirazione antifascista che aveva accolto a suo tempo le ansie promotrici di Antonio Zolesio era rappresentato dal Partito d’azione di cui Giustizia e libertà (movimento formatosi a Parigi nel 1929 dopo la fuga di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti dalla colonia penale di Lipari) costituiva all’epoca dei fatti narrati il vero braccio armato su tutto il territorio nazionale ove il conflitto era ancora in corso: quasi una milizia di partito così come lo erano per antonomasia le brigate garibaldine per il Pci.
Antesignano di questo concettualmente avanzato movimento nella nostra regione era stato Lino Marchisio; con lui, oltre agli azionisti capifila Eros Lanfranco, Cristoforo Astengo, Luciano Bolis e Marcello Cirenei, l’azionismo ligure poteva contare su altri nomi di riconosciuto ed elevato prestigio quali Mario Cassiani Ingoni, Leonida Balestreri, Mario Zino, Pino Levi Cavaglione, Annibale Ghibellini.
In tale congiuntura ad Antonio Zolesio, già prima del fatidico 1943 che aveva decretato la diversa scelta di campo del Paese nella persona del re e del suo plenipotenziario maresciallo Badoglio, erano stati assegnati preventivi ancorché precisi compiti di intelligence ch’egli, in qualità di segretario militare del Pda per la Liguria (incarico conferitogli per volontà di Ferruccio Parri in persona il quale annetteva ai servizi d’informazione un’importanza preponderante), avrebbe mandato ad effetto, congiuntamente al capitano Dante Novaro (referente della missione Zucca del 2677° reggimento Oss-Apo/512, poi ucciso a Mauthausen-Gusen 2) e ad altri, nel covo clandestino di via San Giorgio, alle spalle del porto di Genova, sotto la copertura d’un innocuo ufficio commerciale.
Tanta tempestiva alacrità avrebbe prodotto a breve la prima (in assoluto) operazione congiunta di intelligence tra le forze alleate e il movimento partigiano dell’Italia del nord: quella missione Law che avrebbe consentito a due ardimentosi, Guglielmo Steiner (Mino) e Fausto Bazzi, entrambi addestrati frettolosamente ad Algeri dal Soe britannico (Special operations executive) e dall’Oss americano (Office of strategic services, precursore dell’odierna Cia), di sbarcare dal sommergibile britannico Hms Sykle sulla spiaggia di Cavi di Lavagna ai primi di ottobre del ’43 muniti d’un apparecchio ricetrasmittente consegnato infine, dopo rocambolesche avventure, al referente ligure della missione, il genovese Piero Caleffi, a sua volta a stretto contatto sia con l’organizzazione Otto di Ottorino Balduzzi sia con gli esponenti milanesi della cospirazione di matrice azionista e giellista facente capo a Ferruccio Parri. Vittorio Civitella, Zolesio e l’opera di intelligence di Fellner e Unger di Löwenberg, in STORIA E MEMORIA, I.L.S.R.E.C., anno XXV, N. 2/2016


Guglielmo Steiner (Mino), fatto prigioniero dagli Alleati mentre era militare in Sicilia, venne recluso ad Algeri, ma si offrì di guidare la prima missione alleata di infiltrazione (missione Law), cercando collegamenti con la Resistenza. Nel 1943 sbarcò da un sottomarino inglese vicino a Cavi di Lavagna e poi raggiunse a piedi S. Michele di Pagana, dove la sorella lo aiutò a recuperare la radio ricetrasmittente, nascosta dopo lo sbarco. Giunto a Milano fu tradito da un delatore e arrestato. I tedeschi lo deportano prima a Mauthausen e poi ad Ebensee.
Ricorda Steiner e la sua impresa anche una targa nel Parco delle Rimembranze a S. Michele di Pagana (Rapallo).
Redazione, Guglielmo Steiner (Mino)...ANPI Sezione "Poldo Gasparotto", Milano, 2011 


Mino STEINER - nato a Milano il 10/5/1909 - arrestato a Milano il 16/3/1944 - assassinato ad Ebensee il 28/2/1945.
Pietra d’Inciampo in Viale Bianca Maria, 7.
Guglielmo “Mino” Steiner nasce a Milano il 10 maggio 1909 da Emerico Steiner e Fosca Titta, primogenito di quattro fratelli. La madre, Fosca, è sorella del baritono Titta Ruffo e della moglie di Giacomo Matteotti: i legami familiari sono molto stretti. Al funerale di Giacomo Matteotti a Fratta Polesine il 21 agosto 1924, Mino, con il padre e gli zii, ne porta a spalle la bara. Laureato in giurisprudenza, inizia l’attività lavorativa nello studio dell’avvocato antifascista Lelio Basso. Nel giugno 1939 è arrestato e tradotto a S. Vittore per una settimana dalla polizia politica fascista in occasione di un ennesimo fermo di Lelio Basso. Nell’ottobre 1942 è richiamato alle armi ed è a Palermo il 5 luglio 1943, sbarco degli alleati in Sicilia. In contatto con i servizi segreti anglo-americani gli viene affi dato il comando della prima missione segreta inviata oltre la linea del fronte in Nord-Italia: la missione “Law” ed il 3 ottobre 1943 sbarca da un sommergibile inglese davanti alla spiaggia di Lavagna (GE). A Milano, progetta con Mario Paggi un giornale di cultura politica aperto a tutte le idee antifasciste: “Lo Stato Moderno”. Arrestato dalla polizia politica, il 16 marzo 1944, viene rinchiuso a S. Vittore, reparto SS; dopo sei settimane è trasferito a Fossoli e da qui, il 21 giugno 1944 a Mauthausen.
Muore nel sotto-campo di Ebensee (Cement) il 28 febbraio 1945.
Redazione, Pietre di inciampo Milano 2017/2021, Cartella Stampa Gennaio 2021

[...] Si chiama Marco Steiner ed è il figlio di Mino Steiner, antifascista milanese arrestato per le sue attività in favore degli alleati nel 1944 e morto in un campo di concentramento nel 1945. Marco è il presidente del comitato Pietre d'inciampo a Milano, o "stolpersteine", blocchi di pietra ideati dall'artista tedesco Gunter Demnig da incastrare in strada per ricordare le vittime delle persecuzioni nazifasciste. Nel capoluogo lombardo Marco da anni si occupa di trovare e ripercorrere proprio le storie dei tanti milanesi deportati nei campi di sterminio e mai più tornati a casa: "Purtroppo i milanesi morti nei campi di concentramento sono troppi, parliamo di quasi un paio migliaio di persone: ricordarne solo 90 è come minimo riduttivo - ha raccontato in una lunga intervista a Fanpage.it in occasione della Giornata della Memoria di oggi 27 gennaio - per questo il nostro lavoro deve andare avanti".
I passanti inciampano, senza saperlo, in qualcosa di importante.
Le pietre d'inciampo, incastrate nel selciato stradale, permettono alle persone di inciampare su questo blocchetto che dà loro la possibilità di leggere qualcosa di importante, come il nome di una persona morta in uno dei campi di concentramento, di cui altrimenti non avrebbero probabilmente mai letto.
[...] "Mio padre Mino si dedicava a reperire informazioni sulle forze militari tedesche e repubblichine da trasmettere agli Alleati, si occupò molto del recupero di militari alleati sbandati o fuggiti dai campi di internamento, favorendone il recupero e l'invio in Svizzera", ha raccontato a Fanpage.it Marco Steiner parlando del padre che ha ricevuto come altri 89 milanesi una Pietra d'Inciampo a Milano. [...]
(a cura di) Chiara Ammendola, Giorno della Memoria, Marco Steiner: “Restituiamo l’identità ai milanesi morti nei lager”, Fanpage.it, 27 gennaio 2020

Questi primi esperimenti di volontariato nati nel Mezzogiorno, questo tentativo di partigiani armati nel Sud come scriveva Bodini, è ingeneroso definirli velleitari, questi tentativi erano stati fatti da uomini in carne ed ossa, di volontari che pagarono talvolta con la vita (40) come Giaime Pintor o Paolo Petrucci ucciso alle Fosse Ardeatine (41). In tanti altri casi si andò ben oltre l'essere addetto alle salmerie, o a zappare trincee e o guidare un mulo: basta ricordare per esempio l’iniziativa di Raimondo Craveri (42), che costituì l’Organizzazione per la Resistenza Italiana (O.R.I.) (43) che diede un contributo prezioso alla Resistenza [...]
[NOTE]
40. Claudio Pavone, I Gruppi Combattenti Italia, Un fallito tentativo di costituzione di un corpo di volontari nell’Italia Meridionale (settembre-ottobre 1940 ) a cura dell’istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia Milano 1955
41. Paolo Petrucci. Nato a Trieste il 1° agosto 1917, fucilato alle Fosse Ardeatine (Roma) il 24 marzo 1944, professore. Al momento dell’armistizio si trovava a Roma. Partecipò così ai combattimenti contro i tedeschi a Palidoro. Quando i nazisti occuparono la Capitale, il giovane granatiere decise di passare in clandestinità. Con gli amici Paolo Buffa e Aldo Sanna, “Pietro Paolucci” - questo il nome di copertura - partì verso il Sud con lo scopo di promuovere la costituzione di un corpo di “Volontari per la libertà”. Non fu possibile realizzare il progetto, per cui Petrucci, con Buffa e Giaime Pintor (che avevano incontrato nell’Italia già liberata), decisero di tornare a Roma per organizzare gruppi di partigiani nel Lazio. Nel tentativo di ripassare le linee lungo il Garigliano, i giovani antifascisti finirono su un campo minato. Pintor saltò in aria su una mina e gli altri decisero di tornare indietro. Addestrati dagli Alleati, dopo due settimane “Paolucci” e Buffa furono paracadutati su Monte Rotondo, di dove poi raggiunsero, a Roma, la casa della comunista Enrica Filippini che li ospitò, consentendogli di organizzare azioni di propaganda antinazista, che raggiunsero il culmine con le manifestazioni degli studenti romani. L’attività di Petrucci e dei suoi durò giusto un mese. Il 14 febbraio 1944 le SS irruppero nell’abitazione della Filippini e vi arrestarono la padrona di casa, Cornelio e Vera Michelin-Salomon, Paolo Buffa e “Pietro Paolucci”. Per tutti la solita trafila in via Tasso e poi il processo, nel corso del quale Petrucci, forse grazie al suo nome di copertura, fu assolto. Ciò non impedì ai tedeschi di farlo rinchiudere nel terzo braccio di Regina Coeli, dal quale uscì soltanto per essere trucidato alle Fosse Ardeatine.
42. Raimondo Craveri (Napoli, 1912 - Roma, 16 ottobre 1992) è stato un intellettuale antifascista, cognato di Croce, fu tra i fondatori del Partito d'Azione. Dopo l'8 settembre 1943, è a Salerno, dove, con Alberto Tarchiani e Alberto Cianca, e con l'avallo morale dello stesso Croce lanciarono l'idea di una formazione di volontari che avrebbe dovuto prender parte, combattendo in prima linea, al fianco degli eserciti anglo-americani, nella guerra per la liberazione dell'Italia soggiogata dai nazisti. Dopo avervi consentito, gli anglo-americani, al momento della sua realizzazione, non ne vollero più sapere. Il loro rifiuto era dovuto al desiderio di Churchill di non consentire che degli italiani, e soprattutto non degli italiani tendenzialmente repubblicani, acquistassero troppi meriti. Craveri non si rassegnò, tuttavia. Propose agli americani la creazione di un servizio di contatti ed aiuti ai partigiani dell'Italia settentrionale. Questa volta trovò ascolto durevole. Il servizio, diretto da Craveri, con la denominazione di ORI, si costituì ed operò molto efficacemente. Procurò parecchi avio-lanci di armi ai partigiani.
43. ... una parte degli uomini che erano stati raccolti da Pavone, furono rilevati da Craveri per l’ORI (Organizzazione per la Resistenza Italiana), che egli reclutò per l’OSS ( Office of Strategic Services) dopo essere stato avvicinato a Capri nel settembre 1944 dal generale Donovan. Lo aiutava nell’impresa uno scienziato napoletano, il dottor Enzo Boeri, le cui simpatie politiche (come quelle di Craveri) oscillavano fra il PDA e il PLI. Coordinata dall'OSS, l'ORI operava spesso in più stretti rapporti con i CLN e i partiti politici che non le SF (Special Force) britanniche. Fin dal settembre l’ORI collaborò alla spedizione della prima missione alleata (Law) nel Nord. Trasportata da un sottomarino e diretta a Lavagna in Liguria, essa era guidata da un nipote di Matteotti, Guglielmo (Mino) Steiner, e comprendeva Fausto Bazzi e Guido De Ferrari. Alla missione si aggiunsero poi Piero Caleffi del PDA di Genova ed altri, tra cui il radiotelegrafista Giuseppe Cirillo, che più tardi proseguì la sua attività presso la direzione milanese della Resistenza. Nell’ottobre l’ORI di Craveri stabilì un contatto radio con il servizio informazioni clandestino della Otto, appena organizzato a Genova da Ottorino Balduzzi, sostenitore a quell’epoca del PDA ... Parri fu in grado di servirsi frequentemente dei servizi della Otto e di comunicare grazie a essa con gli Alleati. Sia l’ORI che le SF si servirono in seguito regolarmente del servizio informazioni della Franchi che le succedette, istituito da Edgardo Sogno e da altri autonomi (da Charles F. Delzell, I Nemici di Mussolini. Storia della resistenza armata al regime fascista, Castelvecchi Roma 2014)
Donato Peccerillo, I partigiani mancati del Sud, ANPI Brindisi