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martedì 9 luglio 2024

Peglia e dintorni...





Località  Peglia di Ventimiglia (IM), a nord del ponte della ferrovia per la Francia.
C'era un po' più in su una pista di go-kart con annesso pubblico servizio: un'area molto frequentata ed oggi molto rievocata in tante memorie. Con base di partenza e di arrivo da quel sito e con deviazione su sentieri sull'addomesticato greto o solo su quel cemento - si tenne almeno in un'occasione (anno di grazia 1966) una sorta di pre-selezione (sub-provinciale) dei campionati studenteschi di corsa campestre.
A valle della strada ferrata l'area forse ha un altro nome, ma un tempo aveva una maggiore interconnessione con la precedente: c'erano anche anche delle piccole peschiere; il vecchio mattatoio; un po' a ponente, a fianco della strada che attualmente concede solo un minimo accesso a Peglia, ai suoi vecchi mulini, alla Bocciofila del Dopolavoro Ferroviario, c'era una fabbrica di liquirizia, un edificio purtroppo devastatato dallo scoppio di una caldaia agli inizi degli anni '70, con la conseguenza di gravi danni alle persone, soprattutto con la morte di una giovane ragazza che frequentava il Bar Irene, vero centro sociale e culturale dell'epoca nella città di confine. Ed ancora un camping sempre molto affollato d'estate...
Sino a tutti gli anni Sessanta alcuni carri della Battaglia di Fiori, una volta finita la manifestazione, venivano portati, o riportati, davanti al mattatoio.
La via principale per Peglia, che passava per un varco del ponte della ferrovia, è stata resa intransitabile in quel proseguimento per motivi di sicurezza rispetto alle piene del limitrofo fiume Roia.
Per arrivare all'altra Bocciofila (quella storica ed affiliata al CONI), ai campi da tennis, ai rettangoli verdi del calcio occorre adesso sottoporsi ad un lungo giro.
Il campo di calcio di Peglia forse venne realizzato man mano che veniva dismesso quello vecchio in Piazza d'Armi a Camporosso (IM), ancora utilizzato nel 1964.

Adriano Maini

martedì 1 marzo 2022

La FIGC punì i giocatori “fuggiti in terra jugoslava” con una squalifica semestrale

Una formazione della Triestina seconda in Serie A nel ’48 - Fonte: unionetriestina.it - Immagine qui ripresa da SportHistoria

La formazione Amatori Ponziana che castigò l’Hajduk Spalato nel 1946/47 - Fonte: Contrasti

La stagione 1947-48 viene celebrata dagli sportivi di Trieste come il fiore all’occhiello del calcio triestino. La società alabardata - dopo le caotiche vicissitudini nel corso del campionato precedente - arrivò seconda in classifica, insediando la testa del campionato al “Grande Torino”. Alla guida della squadra fu chiamato l’ex giocatore della Triestina e della Nazionale Nereo Rocco, che formò una rosa quasi esclusivamente di triestini nutrita da un codice di appartenenza territoriale impensabile ai giorni nostri. Una squadra che doveva essere composta da triestini, per gridare in campo l’appartenenza a una città così vicina e lontana <345.
Una delle novità del campionato fu la concessione del GMA (Governo Militare Alleato) di far giocare dall’inizio della stagione tutte le gare casalinghe a Trieste (allo Stadio San Sabba) ad entrambe le squadre. Tale concessione fu subordinata all’assunzione della completa responsabilità del Presidente dell’Amatori Ponziana e dal segretario della Triestina in caso di incidenti.
Da come si legge dagli atti dell’Archivio statale di Trieste
"Io sottoscritto BOLTAR Edoardo, presidente dell’Amatori Ponziana, dopo essermi consultato con i diversi capi dei partiti politici aderenti all’U.A.I.S., garantisco con la presente e mi assumo la responsabilità per il comportamento corretto degli elementi sloveni di Trieste in occasione dell’incontro calcistico che avrà luogo nello Stadio S. Sabba […]"
"Io sottoscritto, COTTA Luciano, segretario dell’UNIONE SPORTIVA TRIESTINA, dopo essermi consultato con i diversi capi dei partiti politici italiani aderenti al C.L.N. garantisco con la presente e mi assumo la piena responsabilità per il comportamento corretto degli elementi italiani di Trieste in occasione dell’incontro calcistico che avrà luogo nello stadio S. Sabba domenica 22 dicembre 1946, tra una squadra proveniente dalla Jugoslavia ed una squadra di Trieste" <346.
Mentre l’A. Ponziana otteneva una discreta prestazione nel campionato jugoslavo, piazzandosi a metà classifica, la Triestina, dunque, disputò il suo miglior campionato della sua storia: dopo una fila di tredici partite utili consecutive, terminò seconda classificata con 49 punti, a pari merito con Juventus e Milan, e sotto solo al Torino.
L’imponente disponibilità finanziaria elargita dal governo italiano, unita alla possibilità di giocare le proprie gare casalinghe a Trieste e alla sapienza tattica di Nereo Rocco, portarono la Triestina nel punto più alto nella sua storia, a distanza di un solo anno dall’ultimo posto ottenuto nel corso del campionato precedente. Tale risultato sportivo è rimasto tuttora ineguagliato e risulta significativo che sia stato ottenuto proprio durante uno dei periodi più tesi della “questione di Trieste”. L’anno successivo la squadra alabardata non riuscì nell’impresa di riconfermarsi tra le grandi del calcio italiano e terminò il campionato del 1948/49 con un discreto ottavo posto; l’A. Ponziana, invece, concluse la stagione all’ultimo posto in classifica, e fu l’ultima apparizione nella Prva Liga.
Nel frattempo, infatti, un importante evento politico andava a sconvolgere gli equilibri internazionali, segnando profondamente tutto l’universo comunista, in maniera particolare quello triestino, ambito sportivo compreso. Stiamo parlando della “crisi del Cominform”. Tale evento politico determinò l’espulsione del partito comunista jugoslavo dall’ecumene comunista per tutta una serie di motivi: lo Stato jugoslavo veniva accusato dal PCUS di quella di aver condotto una «politica indegna nei confronti dell’URSS» <347, di aver rifiutato di rendere conto dei proprio atti politici al Cominform; di aver intrapreso un percorso di deviazionismo ideologico dai principi marxisti-leninisti; e, infine, Tito venne addirittura accusato di essere una spia imperialista.
In questa sede ci limiteremo a considerare solo una delle principali cause che determinò l’espulsione del PCJ dall’organismo del Cominform; vicenda che, oltre a innescare un vero rovesciamento dei rapporti tra potenze occidentali e lo stato Jugoslavo, avrà un effetto dirompente sugli equilibri politici (e, come vedremo, sportivi) del contesto triestino. Tito usciva dalla seconda guerra mondiale come uno dei leader più autorevoli del panorama comunista. Tra il 1941 e il 1944 divenne la guida del movimento di liberazione jugoslavo, ottenendo la liberazione del paese dalle forze nazifasciste e avviando la costruzione dello Stato socialista Jugoslavo. Sulla base di questi successi - che estesero la sua popolarità e il suo prestigio ben oltre i confini jugoslavi - <348 il leader del PCJ, cominciò, sin dall’immediato secondo dopoguerra, a condurre una politica estera in modo sostanzialmente autonomo, suscitando l’ostilità delle potenze occidentali e diventando una figura ingombrante per il regime sovietico. Come scrisse lo storico Pirjevec Stalin come Geova era un dio geloso, e non poteva permettere che accanto a lui sorgessero altri dei <349. Nel giro di pochi anni si venne a creare un clima di sospetto e diffidenza nei rapporti tra sovietici e jugoslavi che portarono alla definitiva sconfessione della Jugoslavia da parte dell’URSS nel giugno del 1948.
La questione di Trieste fu uno dei primi motivi d’attrito tra il leader jugoslavo e quello sovietico: l’occupazione della città giuliana nel Maggio del 1945 da parte delle truppe di Tito e le conseguenti richieste annessionistiche, rischiarono di trascinare la Jugoslavia, assieme all’Unione Sovietica, alle soglie di uno scontro armato con le potenze alleate <350. L’operazione militare di Tito venne interpretata dalle potenze del blocco occidentale come un gesto di sfida, come un deciso tentativo di espansione del mondo comunista all’interno dell’Europa occidentale. Tale tentativo, dunque, fu percepito dalle potenze del blocco occidentale come una manovra architettata dall’Unione Sovietica; lo stesso Churchill si convinse che Tito «fosse un tentacolo della piovra moscovita» <351. Tuttavia, per Stalin, la “questione di Trieste” - benché non fosse contrario alle pretese jugoslave - non fu mai considerata una questione prioritaria né tantomeno una causa per la quale rischiare un conflitto armato con le potenze occidentali.
[...] Tale clima di ostilità e di contrapposizione si estese anche all’ambito extrapolitico, coinvolgendo l’ambito culturale, quello editoriale e, ovviamente, la dimensione sportiva.
A Trieste ci fu lo scioglimento di tantissimi circoli culturali, compagnie teatrali e gruppi bandistici italo-sloveni; in alcune associazioni si scatenarono durissime guerre intestine tra membri di orientamento titoista e fra quelli stalinisti <365. Le principali testate della città presero due strade separate: i “cominformisti” mantennero il giornale italiano “Il Lavoratore”, mentre i titoisti, invece, conservarono la proprietà del già menzionato “Primorski Dvenik”.
A farne le spese fu altresì la dimensione sportiva. Come ha osservato Nicola Sbetti, lo scisma comunista indebolì profondamente la posizione dell’Ucef sullo sport triestino: "Da quel momento il supporto di Tito all’UCEF venne meno anche perché, con l’uscita della Jugoslavia dal Cominform, vi fu una presa di distanza anche dal PCI, partito a cui molti membri dell’UCEF erano legati" <366.
Ma soprattutto la “crisi del Cominform” pose fine del sostegno finanziario del governo Jugoslavo nei confronti dell’Amatori Ponziana. La società triestina terminò mestamente la stagione 1948/1949 all’ultimo posto in classifica e, dopo tre campionati nella Prva Liga, scomparve completamente dal panorama calcistico <367. Alcuni suoi giocatori trovarono sistemazione in altre squadre del campionato jugoslavo, la maggior parte, invece tornò in Italia. A quest’ultimi, però, fu impedito, per i primi sei mesi, di svolgere l’attività sportiva: la FIGC, infatti, punì i giocatori “fuggiti in terra jugoslava” con una squalifica semestrale <368.
Successivamente, l’epilogo della vicenda dell’A. Ponziana andò a incidere anche sul destino della Triestina, determinando un progressivo disinteresse da parte del governo italiano per le sue sorti sportive, che divenne pressoché totale dopo il 1954.
Dopo il Memorandum di Londra, che sancì il ritorno ufficiale della città all’Italia, il valore simbolico e propagandistico della Triestina subì un deciso ridimensionamento; e, anche per questo motivo, dopo la retrocessione in serie B nella stagione 1956-57, la squadra alabardata non riuscirà più a prendere parte alla massima serie italiana.
Si chiudeva quindi una vicenda fortemente rappresentativa del clima di contrapposizione e rivalità che caratterizzò la città giuliana dopo il 1945.
[...]
Appendice
Intervista con Giuliano Sadar, 19 Febbraio 2015.
Giulino Sadar è stato inviato del quotidiano “TriesteOggi” per il quale ha seguito le vicende delle squadre di vertice triestine. Giornalista professionista dal 1993, oggi lavora alla sede Friuli-Venezia Giulia della Rai. Nell’Ottobre 1997 ha pubblicato il suo primo libri “El Paron, vita di Nereo Rocco (Lint Editoriale).
1. Come nasce l’idea di questo libro?
Tutto nasce dal particolare clima politico che poi si riverberò all’interno del contesto sportivo. Sono venuto a sapere di questo episodio negli anni '80 ad Avellino, durante una partita tra Triestina e Avellino. Sono andato a casa di un certo Lo Schiavo, un triestino che viveva ad Avellino e mi riferì di questo episodio. La storia dell’Amatori Ponziana l’ho raccontata io per la prima volta, perché qua c’era proprio un tabù nel parlarne.
[...]
3. Lei ha scritto che «passare dall’Amatori Ponziana era un tradimento di maglia, affetti e ideologie», cosa intendeva con questa espressione?
Calcoli che il Ponziana, era la tradizionale squadra dei lavoratori del porto di Trieste, un ambiente molto frequentato dai socialisti; la Triestina invece era la squadra, tra virgolette dei “signori”, della borghesia italiana. Erano due mondi diversi, inconciliabili. Passare da una squadra all’altra veniva visto come un tradimento, soprattutto per quelli che dalla Triestina passarono all’Amatori Ponziana. La gente li vedeva come “dei venduti ai comunisti di Tito”. Questi 40 giorni di Tito a Trieste, sono stati vissuti malissimo dalla cittadinanza, era il periodo delle “Foibe”, un periodo di grandi violenze.
4. Quanto contava la questione ideologica nell’aderire all’Amatori Ponziana?
Intanto erano tutti giocatori italiani. A quanto mi ha detto Ettore Valcareggi (giocatore dell’Amatori Ponziana, ndr) fu prevalentemente una motivazione economica. Quando lo incontrai, mi disse “mi davano un milione all’anno”. La dirigenza era invece comunista: c’era un evidente motivazione politica. Secondo me, almeno tra i giocatori, ma è solo una mia sensazione, non c’era una particolare adesione politica.
5. Una parte di Trieste sperava nell’adesione di Trieste durante quel periodo?
Gli sloveni, e una parte dei comunisti italiani favorevoli a Tito. Al di là del socialismo, la Jugoslavia era una potenza militare, perché Tito era uscito vincitore da una guerra civile sanguinosissima, quindi aveva una grande forza di attrazione rispetto all’Italia, che era si era praticamente sfaldata dopo l’8 Settembre.
6. Quanto ha inciso la rottura fra Tito e Stalin sulle sorti sportive di entrambe le squadre?
Come ho già scritto nel libro, ha fatto calare il valore propagandistico di tenere la squadra in Jugoslavia. Lo stesso vale per la Triestina. Ha avuto finanziamenti fino agli anni ’50, fu tenuta in serie A fino al 1959, dopodiché ci fu il declino. Arrivavano soldi qua, come arrivavano soldi dalla Jugoslavia. Lo sport è sempre servito per motivi politici.
7. Era molto seguita l’Amatori Ponziana?
Si, era molto seguita durante le partite, ovviamente dalla parte comunista della città.
[NOTE]
345 Ivi, p. 64.
346 ASTs (Archivio di stato di Trieste), Oggetto n. 246, Unione Sportiva Triestina, II 27 B.
347 J. Pirjevec, Tito, Stalin e L’Occidente, Opicina, Villaggio del fanciullo, 1985, p. 173
348 P. Purini, op.cit. , p. 264.
349 J. Pirjevec, Tito, Stalin e L’Occidente, Opicina, Villaggio del fanciullo, 1985, p, 16.
350 Il pericolo che Tito trasformasse Trieste in un fronte di agitazione comunista portò le forze alleate a prendere in considerazione l’eventualità di uno scontro armato con le forze jugoslave. J. Pirjevec, op. cit., p. 36
351 J. Pirjevec, op.cit , p. 19.
365 P. Purini, op.cit. , p, 272
366 N. Sbetti, op.cit. , p, 429.
367 Ricordiamo che il C.S. Ponziana 1912 continuava a svolgere la sua attività sportiva nelle categorie inferiori del calcio italiano.
368 G. Sadar, op.cit. , p, 64.
Nicolò Falchi, Il Calcio al confine: il caso di Trieste. Dall’irredentismo alla guerra fredda, Tesi di laurea, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Anno accademico 2014-2015


Il Ponziana del 1948/49, all'ultima recita nella Prva Liga - Fonte: Stefano Affolti, art. cit. infra

[...] L'Amatori saluta e torna nei ranghi della casa madre Ponziana. L'Italia non stende certo tappeti rossi e la zelante Figc presenta un conto salato: sei mesi di squalifica per tutti coloro che hanno osato tesserarsi altrove e iscrizione della squadra solo al campionato di Promozione, la quarta serie. Molti giocatori se ne vanno, trovando posto in Jugoslavia o in categorie superiori.
Declino, blitz e campioni. Da allora il Ponziana conosce un lento ma inesorabile declino: la coraggiosa squadra del quartiere popolare naviga nei tornei minori, segnalandosi come ottimo vivaio (escono da lì Fabio Cudicini, il povero Giorgio Ferrini e Giovanni Galeone) e realizzando ogni tanto blitz da prima pagina. Come quando, il 17 luglio 1960, vince grazie alla monetina la finale nazionale dei dilettanti a Rimini con la Scafatese (finita 1-1). O quando, il 1° dicembre 1974, batte 1-0 la Triestina in un memorabile derby di serie D, giocato al Grezar davanti a ventimila spettatori. Triestina che, dopo la fine della querelle sui confini orientali, a sua volta perde la tutela politica della Dc: abbandona la serie A nel 1959 per non rivederla più.
Siccome reincarnarsi non gli dispiace, lo spirito del Ponziana è ancora vivo sotto altre spoglie: la società originaria è scomparsa nel 2014, oggi la legittima erede si chiama Chiarbola Ponziana e milita in Promozione.
Stefano Affolti, La guerra fredda del Ponziana, Gente di Calcio, 22 luglio 2020 

L’inviato speciale del «Corriere» Egisto Corradi avrebbe tenuto in sospeso gli animi dei lettori con un reportage a puntate sulle sorti di quegli «Italiani modello, intensissimi Italiani, uomini che da piccoli giuocavano con le bandiere italiane invece che con bambole e palline», costretti nella Zona B del Territorio Libero di Trieste a veder smantellato «tutto ciò che è italiano, dalle scuole alle squadre di calcio, [...] terra italiana in cui si ascolta Radio-Milano di nascosto, a porte e finestre chiuse» <461, ridotti in libertà vigilata, serrati dietro «una trincea».
"Tutti gli Italiani possono esaminare carte geografiche e rendersi conto della situazione, ma i triestini, in mezz’ora di automobile da Piazza Oberdan, possono arrivare a toccare uno qualsiasi dei sedici posti di frontiera che dividono la zona anglo-americana del Territorio libero dalla Jugoslavia. [...] Dovete sempre ricordarvene quando parlate con loro: vivono in un cerchio che ha per raggio mezz’ora di vita libera. Se ve ne dimenticate, senza dirvelo, ve lo ricordano; e se avete orecchio intenderete sempre questo fatto della mezz’ora come sottinteso implicito ed incombente in ogni loro discorso. I triestini «sentono» la cortina di ferro che corre tutt’intorno, così come un cieco «sente» le pareti che ostacolano il suo cammino" <462.
[NOTE]
461 A Capodistria si ascolta Radio-Milano di nascosto, «Il Corriere della Sera», 1 aprile 1948.
462 Sarà duro per Tito lasciare la “Piccola Istria”, «Il Corriere della Sera», 8 aprile 1948.
Vanessa Maggi, La città italianissima. Usi e immagini di Trieste nel dibattito politico del dopoguerra (1945-1954), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Anno Accademico 2018-2019

mercoledì 3 novembre 2021

Quando nel 1924 il Genoa giocò a Buenos Aires contro una selezione argentina il calcio d’avvio venne dato addirittura dal Presidente della Repubblica

L'Arena di Milano, teatro nel tempo di eventi di diverse discipline sportive - Fonte: Wikipedia

In politica estera il fascismo dimostrò una decisa preferenza per le relazioni bilaterali rispetto a quelle multilaterali poiché evitavano di assumere impegni gravosi e consentivano una politica “delle mani libere”. Questo atteggiamento si riflesse anche nello sport dove solo con l’inizio degli anni Trenta ci fu, su spinta di Bonacossa, un tentativo di consolidare l’autorità dell’Italia nei consessi internazionali, cercando di occupare le presidenze delle FSI.
Seppur generalmente poco studiate, al di là di qualche importante eccezione, un rapido sguardo alle relazioni sportive bilaterali può rivelarsi un modo sorprendentemente utile per una maggiore chiarezza dei rapporti politici internazionali. Particolarmente interessanti sono quindi le ricerche sui rapporti calcistici bilaterali fra Italia e Austria.
 
Fonte: Corriere dello Sport

Dopo l’amichevole del 1922 a Milano che aveva permesso all’ex nemico di uscire dall’isolamento, dopo la marcia su Roma si disputarono altri due incontri senza particolari problemi. La politica di fascistizzazione dell’Alto Adige tuttavia non mancò di causare frizioni; nel 1926 la Österreichische Fußball-Bund (ÖFB) si rifiutò di prendere parte al congresso della FIFA di Roma per protestare contro un discorso di Mussolini sulla questione. La piccata reazione della FIGC annunciò la rottura dei rapporti sportivi e solo l’abile lavoro della diplomazia austriaca, che riuscì ad addossare la responsabilità integrale dell’accaduto ai socialdemocratici, riuscì a far rientrare la tensione. Il sostegno di Mussolini ai cristiano-sociali austriaci giocò un ruolo di moderatore nelle sfide successive. Persino l’amichevole potenzialmente esplosiva giocatasi a Vienna nel 1929, in cui non fu suonata la marcia reale né esposta la bandiera e una buona parte dei 50.000 tifosi austriaci cercò di linciare un gruppetto di provocatori fascisti, non si risolse in una crisi grazie all’abilità della diplomazia austriaca la quale, fece ricadere ancora una volta la colpa sui socialdemocratici Mussolini del resto, specialmente dopo il colpo di stato di ispirazione nazista che aveva provocato la morte di Dollfuss, era diventato il garante dell’indipendenza austriaca. 


L’invasione dell’Etiopia tuttavia avvicinò notevolmente l’Italia di Mussolini alla Germania di Hitler e l’Austria divenne la principale merce di scambio dell’alleanza. Nel marzo del 1937 si giocò a Vienna una sfida di Coppa internazionale. Dopo mezz’ora di gioco violento l’Austria andò in vantaggio facendo scoppiare risse sulle panchine e sugli spalti. Nel secondo tempo la violenza raggiunse un tale livello che l’incontro fu sospeso dall’arbitro prima della fine. I disordini furono interpretati come un manifestazione di stampo social-comunista ma è possibile che anche l’opposizione nazionalsocialista si fosse unita all’azione. Mussolini, che aveva ormai deciso di sacrificare l’Austria a Hitler, annullò l’incontro di ritorno tra le due squadre senza avvisare gli austriaci che ricevettero assieme al foglio di via la notizia in albergo e fu inflessibile nel respingere tutte le intercessioni proposte dall’ambasciatore austriaco a Roma <479.
Allargando lo spettro all’intera area danubiana e mitteleuropea, il fascismo svolse una politica particolarmente attiva anche se talvolta ambigua - certificata dai tentativi di indebolire la Piccola Intesa di matrice francese e sostenendo politicamente ed economicamente i movimenti fascisti di Austria, Ungheria, Romania e Bulgaria - che si riflesse anche nella politica calcistica.
Tra il 1923 e il 1934, la nazionale disputò 83 incontri internazionali e di questi ben 33 furono contro Ungheria (10), Austria (9) Cecoslovacchia (9) e Germania (5) <480. Non sempre, come visto per il caso austriaco, gli incontri di calcio favorivano i rapporti di amicizia.
Per esempio ci furono numerosi incidenti a Praga durante l’incontro di calcio tra Slavia Praga e Juventus che si ripeterono quando le squadre si incontrarono a Torino.
Il 16 dicembre 1932 il Presidente del Consiglio dei Ministri chiese a Mussolini di fermare tutti gli eventi sportivi per un po’. In effetti a Praga erano avvenuti incidenti molto seri accompagnati da invettive «contro l’Italia e il Duce». E giocatori si erano feriti seriamente. L’ambasciatore italiano a Praga scrisse «i criteri sportivi, le coppe, i campionati sono importanti ma talvolta la reputazione di una nazione viene prima degli eventi sportivi» <481.
Oltre al calcio le buone relazioni con il governo ungherese furono garantite anche attraverso la scherma. Gli italiani, per esempio, parteciparono per la prima volta alla V edizione dei Campionati internazionali di scherma di Budapest nel 1926, che videro invece la significativa assenza dei francesi. Gli italiani furono accompagnati dal Presidente della Federazione Giuseppe Mazzini, che ne approfittò per salutare l’ambasciatore a Budapest, il Conte Durini di Monsa e i membri del Club fascista della capitale ungherese <482.

 
Sempre il calcio rappresentò senza dubbio la disciplina sportiva prediletta negli scambi con i paesi del Sudamerica, specialmente l’Argentina, il Brasile e l’Uruguay, non tanto per la nazionale - che non affrontò mai la lunga e costosa trasferta, quanto piuttosto per i club più intraprendenti. Quando nel 1924 il Genoa giocò a Buenos Aires contro una selezione argentina il calcio d’avvio venne dato addirittura dal Presidente della Repubblica <483. In generale i rapporti diplomatico-sportivi fra Italia e Paesi sudamericani furono ottimi. Lo certifica, per esempio, il fatto che in occasione della Sessione del CIO dell’aprile 1923 a Roma il delegato brasiliano, il conte Rio Branco, pur sottolineando l’intenzione di Rio de Janeiro di candidarsi a sede olimpica, dichiarava di rinunciare alla propria proposta fino a quando le Olimpiadi non si fossero tenute a Roma <484.
 

Fonte: Wikipedia

Gli scambi verso l’America del Nord risposero invece soprattutto a logiche economico-commerciali, specie in discipline quali il pugilato, l’automobilismo e il ciclismo su pista.
Particolarmente ambigui e conflittuali furono invece i rapporti con la Francia, talvolta vista come la “sorella latina”, altre volte come avversario da sconfiggere e terra di conquista (sportiva).
A partire dal 1920 era stato istituito il Service des Oeuvres Français à l’Etranger (SOFE); anche nella democratica Francia gli atleti erano sussidiati e venivano paragonati ad «ambasciatori» o a «rappresentanti della cultura francese» <485. Così come per l’Italia fascista anche il SOFE non nascose mai il fatto che fosse gradita la partecipazione di atleti francesi all’estero solo nel caso in cui fosse più o meno assicurata la vittoria.
Ecco perché il 26 maggio 1923 in un galà di scherma a Roma tra il francese Lucien Gaudin e l’italiano Candido Sassone si sfiorò l’incidente diplomatico. Nonostante dovesse essere un mero esercizio di stile senza vincitori non solo Sassone fu acclamato dal pubblico come il vincitore, ma anche il Giornale di Roma celebrò la superiorità della scuola italiana parlando di «facile vittoria» su Gaudin <486.
La scherma faceva parte del patrimonio culturale e identitario delle due nazioni anche se le due scuole si erano organizzate non solo con tecniche ma anche con armi differenti. Se Anversa 1920 aveva rappresentato un trionfo per la scherma italiana, Parigi 1924 segnò una grande occasione di riscossa per i francesi; gli incidenti occorsi in pedana segnalarono un risveglio della tensione dell’ostilità tra i due paesi, dovuta anche all’ascesa al potere di Mussolini, che non impedì a Henri Desgranges di applaudire le vittorie di Bottecchia al Tour de France. Dopo i Giochi infatti la Francia e l’Italia entrarono in un nuovo periodo di ostilità che verrà confermato e prolungato dalla presenza al potere in Francia del Cartel de Gauches e dal fatto che Parigi tra gli anni Venti e Trenta assunse lo statuto di capitale dell’antifascismo <487.
Le relazioni sportive tuttavia, al di là di una sentita rivalità specie nel ciclismo e nella scherma e di una certa conflittualità istituzionale, non ne risentirono particolarmente. Addirittura la creazione di corse come la Milano-Torino-Nizza nel 1932 o l’organizzazione di un’amichevole tra Juventus e Marsiglia nel 1933 furono concepite espressamente dalla PCM per migliorare le relazioni bilaterali <488.
La situazione cambiò radicalmente con l’invasione dell’Etiopia. Molti incontri italo-francesi previsti, dalla partecipazione azzurra al Tour a una sfida calcistica, furono annullati. I campionati del mondo di scherma di Parigi 1937 segnarono una certo riavvicinamento, così come la sfida calcistica a Napoli nel 1938 dopo la serie di vittorie italiane in terra francese. Con l’avvicinarsi della guerra, mentre francesi e inglesi erano impegnati in un’operazione di “scaricabarile” per il contenimento militare della Germania, che portò in parallelo alla politica dell’appeasement ad un notevole incremento degli scambi sportivi con quest’ultima, Italia e Francia invece ridussero notevolmente le loro relazioni sportive. Gli italiani, temendo manifestazioni antifasciste e una nuova sconfitta dopo quella del pugile Saverio Turiello contro Marcel Cerdan, si ritirarono dal meeting di atletica italo-francese del 13 giugno 1939. Nel luglio dello stesso anno la nazionale francese di atletica rifiutò di recarsi in Italia, adducendo motivazioni politiche, ma non ebbe problemi a recarsi a Monaco di Baviera <489.
Fino all’invasione dell’Etiopia le relazioni con l’Impero britannico furono ottime. I campi da golf di Stresa e Carezza, per esempio, furono un luogo d’incontro dell’alta borghesia italiana e britannica che certificava il buon rapporto esistente <490. E proprio sui campi di golf Galeazzo Ciano sosteneva: «Tra l’egemonia tedesca e l’egemonia inglese, meglio quest’ultima: è l’egemonia del golf, del wisky [sic] e del comfort» <491. Inoltre, al contrario di quanto avveniva in Francia, le istituzioni sportive inglesi non erano controllate dal governo; fino al 1934 l’idea che un evento sportivo potesse essere utilizzato per fini politici era considerato ripugnante dal Foreing Office, tuttavia fu proprio un incontro di calcio a segnalare quegli scricchiolii che avrebbero poi portato le due nazioni a entrare in guerra l’una contro l’altra.
In vista dell’amichevole prevista a Londra per il novembre del 1934 dopo il pareggio per 1 a 1 a Roma, pur essendo la nazionale di calcio un simbolo del fascismo, la diplomazia britannica sottovalutò l’evento, non cogliendo il lato politico dell’evento. Con la salita al potere di Hitler e la sua politica di riarmo l’Italia e la Francia rappresentavano un obiettivo della diplomazia britannica per limitare la minaccia tedesca. Non era certo nell’interesse di Londra che una partita di calcio rafforzasse l’acredine fra i popoli, eppure fu esattamente ciò che accadde. Dopo la vittoria del Mondiale di calcio del 1934, al quale le quattro Home Nations britanniche non avevano voluto partecipare ritenendosi superiori, l’opinione pubblica britannica si sentì offesa dall’affermazione della propaganda fascista che l’Italia fosse la squadra più forte al mondo. In quella che passò alla storia come «la battaglia di Highbury» e che il «Daily Herald» chiamò «il più brutale e pericoloso incontro internazionale di calcio giocato in questo Paese da diverse decadi», Monti si ruppe un alluce e Hapgood si ruppe il naso, mentre il portiere italiano Carlo Cresoli fu violentemente caricato dal centravanti inglese Ted Drake <492.
Fu evidentemente l’attacco all’Abissinia e non certo una partita di calcio a far crollare il Fronte di Stresa, tuttavia la spavalderia fascista e le pretese di superiorità nello spot nazionale inglese non favorirono certo la reazione dell’opinione pubblica britannica nel momento in cui la stampa, nel dicembre del 1935, fece trapelare il contenuto del patto Hoare-Laval. Le proteste contro l’accordo con l’Italia costrinsero alle dimissioni il segretario generale e portarono alla fine del Fronte di Stresa <493.
Il governo britannico aveva permesso che lo sport peggiorasse le relazioni con l’Italia, ma non volle ripetere lo stesso errore; nel 1938 infatti la squadra di calcio inglese omaggiò quella tedesca con il saluto nazista, mentre Londra fece un passo indietro per concedere le Olimpiadi del 1940 al Giappone <494.
Con l’Italia nuovamente campione del mondo e nonostante gli echi di guerra, le due squadre si ritrovarono a Milano il 13 maggio 1939 alla presenza di 65.000 spettatori. La partita, che terminò con un pareggio per 2 a 2 venne interpretata come una sfida finale per la supremazia nel calcio mondiale, tuttavia fu dato atto dello straordinario talento e della superiore sapienza tattica della squadra inglese <495.
Se durante la Repubblica di Weimar i rapporti con la Germania non mancarono di essere talvolta tesi e ostili, una volta salito Hitler al potere si fecero assai più frequenti e improntati sulla massima cortesia, anche se i gerarchi fascisti non nascosero una certa irritazione per la rapidità con cui lo sport nazista - seguendo il modello fascista - avesse raggiunto risultati di estremo valore.
A dimostrazione di queste buone relazioni possiamo citare un telespresso che il 23 dicembre 1935 l’Ambasciata d’Italia a Berlino inviò al Ministero degli Esteri e dell’Educazione Nazionale:
"Alle Olimpiadi la Germania annette una importanza molto considerevole. Dato il boicottaggio e la propaganda ostile esistente contro questo paese, questa grande riunione sportiva internazionale viene adoperata come un’occasione per ridurre tale cerchio di ostilità […] e, in relazione a tale carattere che si vuol dare alla manifestazione, parecchi Stati, dietro indiretto invito della Germania, manderanno Delegazioni molto rappresentative in cui cioè, al lato ai Delegati esclusivamente sportivi, saranno inclusi anche elementi semi politici […] Fare presiedere la nostra Delegazione da una persona di Autorità potrebbe essere perciò opportuno. La persona che più mi sembrerebbe indicata sarebbe S.E. R. Ricci, Sottosegretario al Ministro Educazione Nazionale. Pur essendo Segretario ha veste politica a ragione della alta carica che ricopre la sua presenza dimostrerebbe l’importanza che l’Italia annette alla manifestazione. S.E. Ricci in questa occasione sarebbe certamente invitato a visitare l’organizzazione della ‘Hitler Jugend’ che qui ha una importanza politica molto superiore a quella della corrispondente organizzazione in Italia". <496.
Diversi anche i tecnici italiani che si recarono in Germania: è il caso, per esempio, del maestro Niccolò Perno che nel 1939 passò ad allenare la squadra nazionale di scherma <497.
 

Fonte: Wikipedia


[NOTE]
476 Sport in regime fascista, «Lo sport Fascista», Milano, 1935, p. 52, cit. in F. FABRIZIO, Sport e fascismo, cit., p. 58.
477 Cfr. A. TEJA, Italian sport and international relations, cit., p. 161.
478 S. PIVATO, Sport et rapport internationaux: le cas du fascisme italien, in P. Arnaud e A. Whal, Sport et Relations Internationales, Actes du Colloque de Metz-Verdun, 23-5 septembre 1993, pp. 65-72.
479 Cfr. D. CANTE, Gli incontri di calcio tra Italia e Austria, cit., pp. 153-166 e D. CANTE, Propaganda e sport, cit., pp. 521-44.
480 Cfr. S. GIUNTINI, L’Olimpiade dimezzata, cit., p. 45.
481 Cit. in A. TEJA, Italian sport and international relations cit., p. 158.
482 Cfr. C. OTTOGALLI-AZZACAVALLO - T. TERRET, Attaque, risposte et contre-risposte: les relations franco-italiennes et l’escrime (1920-1960), in T. Terret (a cura di), Histoire du sport et géopolitique, Paris, L’Harmattan, 2011, p. 22.
483 Leggenda vuole che L’attaccante ricevuta la palla partì di gran carriera e col Presidente ancora in campo indirizzò un tiro verso la porta del divertito portiere De Prà. L’arbitro, tra le proteste dei genovesi, convalidò il gol cfr., R. BASSETTI, Storia e storie dello sport in Italia, cit., p. 55.
484 Cfr. T. FORCELLESE, L’Italia e i Giochi Olimpici, cit., p. 88.
485 Cit. in P. ARNAUD, French sport and the emergence, cit., p. 119.
486 Ibidem., pp. 126-7. Cfr. anche K. BRETIN, La Gazzetta dello sport et les Jeux de 1924, cit., p. 815.
487 Ibid.
488 Cfr. A. TEJA, Italian sport and international relations, cit., pp. 157-9.
489 Cfr. P. ARNAUD, French sport and the emergence of authoritarian regimes, cit., pp. 139-40 e C. OTTOGALLI-AZZACAVALLO - T. TERRET, Attaque, risposte et contre-risposte, cit., pp. 26-7.
490 R. HEBERHART, Italy Prepares To Move Forward In Golf, n.d., April 1926, p. 41.
491 R.J.B. BOSWORTH, Mito e linguaggio nella politica estera italiana, in R.J.B. Bosworth e S. Romano (a cura di), La politica estera italiana (1860-1985), Bologna, Il Mulino, 1991, p. 61.
492 Cit. in R. HOLT, The Foreign Office and the Football Association, cit., pp. 51-3. La sconfitta sportiva subita venne trasformata dalla stampa di regime in una vittoria morale dei «leoni di Highbury» sui perfidi rappresentanti di Albione.
493 Ibidem, pp. 51-3.
494 Ibidem, pp. 51-3. Cfr. anche M. POLLEY, Olympic Diplomacy: The British Government and the Projected 1940 Olympic Games, «International Journal of the History of Sport», n° 9, 1992, pp. 169-182 e P.J. BECK, Scoring for Britain. International Football and International Politics 1900-1939, London, Frank Cass, 1999.
495 Cfr. G. PANICO, Il calcio, cit., pp. 97-8.
496 Cit. in ACS, PCM, 2934-36, 14.4.5714, cit. in. L. RIGO, Cerchi olimpici e fasci littori, cit., p. 32.
497 Cfr. L. ROSSI, Scherma, cit., p. 289.
Nicola Sbetti, Giochi diplomatici. Sport e politica estera nell'Italia del secondo dopoguerra (1943-1953), Tesi di Dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2015

Tutto sommato si può concludere che i mondiali di calcio del 1934 e la vittoria finale d’Italia erano buoni mezzi di propaganda per i fascisti. Si tentava di realizzare un’organizzazione eccellente del torneo, con cui non si poteva notare una nota fuori posto. La stampa doveva innalzare il potere organisatorio del regime. Inoltre, la stessa stampa doveva descrivere le vittorie della Squadra Azzura in un modo mitico. Soprattutto il doppio incontro con la Spagna nei quarti di finale è stato passato alla storia come una vittoria eroica. Martin dice di questo evento che questa partita <<assomigliava più a un combattimento che una partita di calcio, proprio il tipo di confronto, per cui l’italiano nuovo era stato allenato .>> Per la seconda partita Italia era costretta di sostituire quattro giocatori. Questa seconda partita era diventata necessaria, perché il risultato della prima partita fu un pareggio. Però, gli spagnoli dovevano perfino sostituire sette giocatori a causa di infortuni. Moralmente, la situazione era a favore degli italiani. Grazie al sostegno molto fanatico dei tifosi fiorentini, alla fine la Squadra Azzurra fu in grado di battere la squadra spagnola. Phil Ball dice di questa partita che <<gli italiani calciarono gli spagnoli rimasti nell’oblio .>>
Però, la vittoria finale degli italiani era abbastanza controversa. In primo luogo il difensore del titolo Uruguay non partecipò ai mondiali. Inoltre, abbiamo già potuto vedere che anche i forti inglesi non assistettero al torneo. Così, la vittoria italiana perde più o meno lo smalto. Poi, gli appassionati di calcio non-italiani criticarono la partita contro la Spagna nei quarti di finale. Durante la partita l’arbitro aveva preso alcune decisioni discutibili a beneficio degli italiani , per cui alla fine la Squadra Azzurra arrivò in semifinale. Adesso Italia doveva giocare contro la Wunderteam di Austria. Anche questa partita puzzava. Già prima della partita Hugo Meisl, l’allenatore dei forti austriachi, temé che l’Italia sarebbe stata favorita dall’arbitro. La frase “Temo l'Italia, ma temo molto di più l'arbitro" fece sospettare che Meisl già conoscesse il risultato della partita. L’Italia vinse questa partita con 1-0 grazie a un gol dell’argentino-italiano Guaita. Segnò il gol vincente, mentre il portiere austriaco si trovò infortunato sulla terra. Però, l’arbitro Ivan Eklind convalidò il gol. ‘Per caso’ questo signore Eklind era poi anche l’arbitro nella finale . Anche se non è mai venuta a galla la verità su questa decisione, il dubbio sull’onestà di questa decisione continuerà a esistere per sempre.
Alla fine la Squadra Azzurra aveva ottenuto la vittoria finale richiesta dal regime. Però, tutto sommato questa vittoria non era tanto eroica quanto i fascisti affermavano.
[...] 9 George L. Mosse, The Fascist Revolution (New York: Howard Fertig Inc., [1999]), 9-14
10 Simonetta Falasca-Zamponi, Fascist Spectacle (Los Angeles: University of California Press, [1997]), 6-9
16 Giuseppe Iannacone, Il fascismo “sintetico”, Letteratura e ideologia negli anni Trenta (Milano: Greco & Greco Editori s.r.l., [1999]), 76
17 Simon Martin, Football and Fascism, The national game under Mussolini (Oxford: Berg, [2004]), 31
18 Ibidem, 31
19 Ibidem, 80
Tommy van Eldik, Lo sport come elemento della politica fascista in Italia, Tesina in Letteratura e cultura occidentale, Università di Utrecht, 2007

Durante il Ventennio, propaganda e consenso si ressero sul delicato equilibrio fra strumenti coercitivi e strumenti persuasivi. Se dal 1922 al 1926 fu l’uso prevalente dei meccanismi coercitivi a consentire al regime la distruzione di
ogni opposizione organizzata e l’occupazione dei gangli fondamentali dello Stato, la fase dal 1926 ai primi anni Trenta fu destinata alla costruzione di quella “macchina del consenso” pronta a essere lanciata a piena accelerazione. In questa seconda fase si collocò anche il cuore della politica sportiva del fascismo.
Si partì da un assunto. Il mercato dello sport mostrava un’evidente disparità fra domanda (crescente) e offerta (piuttosto modesta). Una mancanza di opportunità che si era palesata mentre i vantaggi della modernità iniziavano a garantire agli italiani buone opportunità di svago: si pensi all’entrata in vigore della legge n. 473 del 17 aprile 1925 - promossa dal regime - che garantiva alla popolazione una maggiore quantità di tempo libero. Differentemente dai vari governi liberali, dalla Chiesa cattolica e dai movimenti socialisti - piuttosto tiepidi nei confronti dello sport - il fascismo comprese il contributo che esso poteva offrire alla socializzazione di massa, di cui la giovane e frammentata popolazione italiana aveva grande bisogno.
La politica sportiva del fascismo conobbe sostanzialmente due fasi. Negli anni Venti si occupò di disegnare una solida identità all’attività sportiva, intendendo estirpare anche in questo campo i suoi antagonisti (rappresentati soprattutto dall’associazionismo cattolico e dai centri sportivi afferenti alle organizzazioni operaie); negli anni Trenta, invece, lo sport costituì elemento di propaganda domestica e internazionale, divenendo efficacissimo strumento a uso del regime per la creazione di una cultura popolare e di un senso di comunità condivisa, favorito dalla nascita di rituali, miti e luoghi sportivi. Una volta acquisito il potere, Mussolini si pose tre obiettivi: appropriarsi dello sport giovanile; assorbire e rimodellare secondo i propri scopi le prime associazioni sportive che agivano nel panorama del dopolavoro industriale; ottenere il controllo delle società ginniche già aderenti alle federazioni sportive nazionali.
Questi obiettivi furono perseguiti mediante la creazione, nella seconda metà degli anni Venti, dell’Opera Nazionale Balilla e dell’Opera Nazionale Dopolavoro nonché, soprattutto, attraverso l’egemonizzazione del CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano), sorto nel giugno del 1914 da una precedente delegazione italiana del CIO (Comitato Olimpico Internazionale). Il CONI divenne ben presto strumento appannaggio del Partito Nazionale Fascista, che nominava i dirigenti delle singole federazioni sportive, imponendo il fascio littorio su tutte le insegne sportive nazionali. Dal 1925, alla guida del CONI fu posto il giovane squadrista toscano Lando Ferretti, teorico di punta dello sport fascista <1.
Già co–direttore della «Gazzetta dello Sport» e caporedattore del «Secolo» e dello «Sport fascista», Ferretti aveva un’idea ben chiara dello sport e delle sue enormi potenzialità propagandistiche. L’obiettivo doveva essere la diffusione della pratica sportiva fra le masse. Lo sport, osservava Ferretti, serviva a «riflettere, penetrare ed elevare le masse. La massa è il suo unico obiettivo, non l’individuo» <2. Il fascismo, coerentemente con le sue mire, puntò dunque in maniera gradualmente inferiore sulle imprese del singolo atleta - pur con importanti eccezioni: si pensi al caso del pugile Primo Carnera, “eroe” dello sport fascista negli anni Trenta - prediligendo il gioco di squadra, in particolare il calcio, la disciplina che meglio si prestava a una simile strategia.
2. Il calcio «giuoco fascista»
Come in gran parte dell’Europa, anche in Italia il calcio aveva conosciuto una crescita esponenziale nel primo dopoguerra. Le sessantasette compagini inquadrate nella FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio) - sorta nel 1909 come evoluzione della FIF (Federazione Italiana del Football), prima organizzazione di governo del calcio italiano, nata nel 1898 - divennero ottantotto in soli due anni, fra il 1919 e il 1921 <3. La crescita di popolarità del calcio, e le folle al seguito di esso, iniziarono a costituire elemento costante, tanto che le società presero a finanziare delegazioni delle tifoserie affinché potessero essere al fianco della loro squadra nelle trasferte <4.
L’obiettivo di unificare il Paese dal punto di vista sociale e culturale spinse Mussolini, nel 1926, a ordinare una ristrutturazione del calcio, lo sport scelto dal fascismo, data la sua popolarità, per diffondere l’identità del regime fra le masse. «Sebbene il fascismo preferisse sport più tradizionalmente accademici come la scherma, o più moderni come l’automobilismo […] comprese immediatamente la presa che poteva esercitare sulle masse uno sport come il calcio», pur pratica di matrice britannica <5 e dunque non esattamente graditissima al duce. Sotto la supervisione di Ferretti, fu nominata una commissione composta dal futuro prefetto romano Italo Foschi, dall’ingegner Paolo Graziani e dall’arbitro e avvocato Giovanni Mauro. Il loro lavoro confluì in quella nota come “Carta di Viareggio”, pubblicata il 2 agosto 1926 e celebrata dalle penne di regime come «una concezione generale e rivoluzionaria di governo» <6.
Essa, fra le sue principali innovazioni, sostituì il precedente Consiglio federale della FIGC con un Direttorio federale, i cui componenti sarebbero stati nominati dal presidente del CONI. Il presidente della FIGC e il Direttorio federale, insieme al presidente del CONI cui risultavano subordinati, avevano così l’autorità assoluta su tutte le questioni legate al calcio, la cui trasformazione definitiva in «giuoco fascista» era sancita agli occhi degli italiani dall’aggiunta del fascio allo scudo sabaudo nello stemma impresso sulla divisa dei membri del CONI e dunque anche delle squadre di calcio. Si procedette, inoltre, alla riorganizzazione dei campionati nazionali che avrebbe compreso tre Divisioni - Prima, Seconda e Terza - suddivise in gironi da criteri geografici ed economici. Ad ogni modo, nelle fasi finali si sarebbero scontrate le migliori squadre di tutte le singole Divisioni, indipendentemente dalla loro provenienza territoriale: quest’aspetto, coerentemente con quanto voluto da Ferretti e dai membri della commissione della Carta di Viareggio, avrebbe garantito la formazione di un unico quadro nazionale in linea con gli obiettivi identitari del regime. Inoltre, in conformità con l’obiettivo di proteggere sia le grandi che le piccole compagini calcistiche - e dunque di garantire la massima partecipazione a quello che si stava delineando come lo sport di massa - fu creata la Coppa d’Oro, riservata alle squadre che non si sarebbero riuscite a qualificare per le fasi finali delle rispettive Divisioni e che, in tal modo, non sarebbero rimaste inattive.
Tre ulteriori aspetti veicolavano agli italiani, mediante il calcio, idee cardine dell’apparato ideologico del fascismo: la creazione della condizione di «non dilettantismo», che garantiva ai calciatori un «rimborso spese» <7 - in linea con l’art. 113 della FIFA (Fédération Internationale de Football Association, la federazione internazionale che già dal 1904 governava lo sport del calcio) - ma non li definiva professionisti, temendo che una professionalizzazione dell’attività avrebbe potuto minare la moralità della pratica calcistica <8; il divieto assoluto per le squadre di tesserare stranieri (con la sola eccezione degli allenatori), in linea con la volontà di “italianizzare” il calcio; la necessità che ogni atleta FIGC possedesse una «fedina penale pulita e fosse un esempio irreprensibile di strenua attività nella sua vita privata e professionale» <9.
Una logica conseguenza della rivoluzione sportiva - e in particolare della rivoluzione calcistica messa in atto - eco e prolungamento della rivoluzione politica del totalitarismo fascista, fu la progettazione di impianti senza precedenti nella storia.
3. La realizzazione dei progetti di massa: dalla legge 1580 alla nascita della Commissione Impianti Sportivi
La prima normativa italiana volta a regolare la costruzione e il restauro degli impianti sportivi giunse nel 1928, anno in cui le cariche di segretario del PNF e di presidente del CONI confluirono nelle mani del gerarca Augusto Turati, che raccolse l’eredità di Ferretti. Si trattava della legge n. 1580 del 21 giugno 1928, firmata da Mussolini e dal ministro delle Finanze Giuseppe Volpi.
Essa subordinava al parere del CONI il via libera prefettizio per la costruzione o l’acquisto, l’adattamento e il restauro di qualsiasi impianto sportivo <10.
Alla luce di un simile snellimento burocratico, accompagnato da importanti agevolazioni fiscali11, non deve stupire che già alla fine del 1928 gli impianti sportivi realizzati, nella tipologia dei cosiddetti Campi del Littorio, risultavano essere 441 (339 al Nord, 63 al Centro e 39 al Sud), secondo il periodico ufficiale del CONI <12.
Nel 1930 sarebbero stati pari a 3280 distribuiti su più di duemila comuni <13. Per comprendere la portata di questo investimento sullo sport si può prendere in esame proprio il 1928: in quell’anno ben il 15% della spesa complessiva riservata dai comuni italiani alle opere pubbliche fu destinata all’implementazione dell’impiantistica sportiva <14.
In questa fase il Paese si trasformò in un “cantiere sonante”, cercando di mostrare il dinamismo economico del regime e di sopperire alle difficoltà del momento mediante l’aumento dei posti di lavoro nei cantieri destinati alle opere pubbliche. Quello sugli impianti sportivi fu, infatti, un investimento anticongiunturale, intrapreso in una fase - almeno negli anni fra il 1928 e il 1933 - di costante decrescita del PIL.
[NOTE]
1 Sull’attività di Ferretti come presidente del CONI, cfr. E. LANDONI, Gli atleti del duce. La politica sportiva del fascismo 1919–1939, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 76–94.
2 La cultura e lo sport in un discorso di Lando Ferretti, «Il Littoriale», 22 gennaio 1929, pp. 1-2.
3 Cfr. G. PANICO, A. PAPA, Storia sociale del calcio in Italia dai club dei pionieri alla nazione sportiva (1887-1945), Il Mulino, Bologna 1993, p. 116.
4 Già nell’aprile del 1925, a seguito di una sconfitta in trasferta del Bologna contro il Verona, il giornale del capoluogo emiliano, «La Voce sportiva», attribuiva l’esito negativo alla scarsa affluenza di tifosi bolognesi, calcolando che un investimento di circa tremila lire da parte della società felsinea avrebbe garantito la presenza di quattrocento supporters al seguito pronti ad aiutare la squadra. Cfr. Football, «La Voce sportiva», 9 aprile 1925, p. 1.
5 S. MARTIN, Calcio e fascismo. Lo sport nazionale sotto Mussolini, Mondadori, Milano 2006, p. 4.
6 G. ZANETTI, G. TORNABUONI, Il giuoco del calcio. Commento alla legislazione della FIGC, Ceschina, Milano 1933, p. 24.
7 Il riassetto della FIGC, “La Gazzetta dello Sport”, 3 agosto 1926, p. 1.
8 Guido Beer, capo di Gabinetto alla Presidenza del Consiglio, nel 1928 così si esprimeva in merito al pericolo della professionalizzazione dei calciatori: «Il problema capitale della vita sportiva italiana è quello di rallentare l’enorme sviluppo del professionismo, che è pericolosissimo per la nazione. Il professionista deve avere questo nome perché […] lo diventa quando ci si dice dilettanti mentre si ricevono regolarmente forti somme […] oppure si risiede tutto l’anno a spese della direzione dei grandi alberghi». ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri 1928-1930, f. 3.2.5, n. 403, Pro-memoria, 15 settembre 1928, p. 1.
9 Federazione Italiana Giuoco Calcio, Annuario italiano del giuoco del calcio, Tipografia Modenese, Modena 1928, p. 145.
10 Cfr. Provvedimenti per la costruzione dei campi sportivi, «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», a. LXIX, n. 166, 18 luglio 1928.
11 Cfr. D. BOLZ, Les arènes totalitaires. Hitler, Mussolini et le jeux du stade, CNRS, Parigi, 2008, pp. 81-83.
12 I campi sportivi comunali costruiti durante l’Anno VI, «Il CONI», a. I, n. 9, 12 settembre 1929.
13 Cfr. I campi sportivi in Italia e la necessità di vigilarne la costruzione, “La Gazzetta dello Sport”, 18 aprile 1930, p. 3.
14 Cfr. E. LANDONI, op. cit., p. 100.
Matteo Anastasi, Fascismo, sport e identità nazionale. Gli stadi di calcio come veicolo di propaganda e strumento di consenso popolare in (a cura di) Novella di Nunzio e Francesca Zantedeschi, Il passato nel presente. Memorializzazione e usi pubblici della storia, Culture Territori Linguaggi CTL 17, Università degli Studi di Perugia, 2020 

Il fascino dei calciatori non era limitato ai campi da gioco. La stampa degli anni Trenta amava far conoscere l’uomo oltre che lo sportivo. Il calciatore era quello che poteva raggiungere uno stile di vita da cui la maggiore parte degli italiani era esclusa. Automobili Fiat per Meazza (una Balilla, ovviamente) o per Orsi; vacanze sul litorale tirreno a Forte dei Marmi per Rosetta, il terzino della Juventus, e per tutti la gestione di un bar o di un negozio. Nella ‘biografia’ di Rosetta, il giornalista Erberto Levi evocava il progetto dell’ex calciatore della Pro Vercelli in questi termini: “Iniziativa commerciale e industriale, in una parola. Virginio Rosetta amministra i frutti dei suoi risparmi con la stessa saviezza con cui amministra i suoi trentatré anni d’atleta” (13). Nessuno spirito di sacrificio al regime, ma piuttosto spirito di risparmio piccolo borghese. Rosetta non seguiva quindi la definizione dello sport secondo Lando Ferretti nel suo breviario atletico: “Lo sport è per noi anzitutto e soprattutto, scuola di volontà che prepara al fascismo i consapevoli cittadini della pace, gli eroici soldati della guerra” (14), scriveva nel 1928 il capo del Coni.
Se i raduni di massa organizzati da Achille Starace hanno potuto contribuire a costruire il consenso ottenuto da Mussolini, secondo Renzo De Felice, per una grande parte degli italiani nella prima metà degli anni Trenta questo non bastava. Certo, Nuto Revelli poté ricordare che per lui “il fascismo e lo sport erano la stessa cosa” e che era “orgoglioso dei suoi nastrini e delle sue medaglie” (15). In questo modo, lo sport, associato ai riti del Campo Dux, poteva lusingare il “narcisismo dei piccoli in divisa” (16).
Per i più grandi, il richiamo del moschetto e della divisa era senz’altro meno forte. O forse il proposito militaresco del regime non era per loro il volto più efficace dell’immagine del fascismo. Ma, come altrove nell’Europa dell’ovest, i vettori italiani della cultura di massa erigevano a modello un modo di vita moderno e spensierato. In questo senso la vita dei calciatori era l’equivalente sportivo dei film dei ‘telefoni bianchi’. E, con il suo primo sistema di protezione sociale, il dopolavoro, grazie al quale i giovani adulti potevano per di più acquistare a buon prezzo i biglietti per vedere le partite di serie A, il regime prometteva anche un presente e un avvenire migliori.
Ma lo stadio offriva anche la possibilità di esprimere quella rabbia che era esclusa dal campo sociale e politico. In particolare quella relativa al campanilismo, a tal punto che nel 1932, Il Littoriale, il quotidiano organo del Coni, dovette richiamare l’esasperazione espressa dal duce contro tutte le manifestazioni di regionalismo (17). Malgrado i decreti legge promulgati da Federzoni dopo la sparatoria della stazione di Porta Nuova nel 1925, al termine della finale Bologna-Genoa, una situazione elettrica accompagnò le partite di calcio fino al 1943. Furono in parte tollerate perché non si trattava di tensioni politiche e, in fin dei conti, non rappresentavano un pericolo per il regime. I tifosi al più erano una specie di ‘indifferenti’ degli stadi, come i protagonisti del romanzo di Alberto Moravia uscito nel 1929.
[NOTE]
(13) Viri (Virginio Rosetta): piccola storia di un grande atleta, Erberto Levi, Editrice Popolare Milanese, 1935
(14) Lando Ferretti, op. cit., pag. 225
(15) Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Nuto Revelli, Einaudi, 2003, pagg. 14-15
(16) Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Antonio Gibelli, Einaudi, 2005, pag. 319
(17) Dopo la parola del Duce. Basta coi regionalismi!, Il Littoriale, 28 luglio 1932
Paul Dietschy (Storico, francese, specializzato nella storia dello sport, in particolare del calcio. Tra le sue pubblicazioni: Histoire du football, Paris, Éditions Perrin, 2010) in paginauno, 10 dicembre 2010

venerdì 27 agosto 2010

Quando giocava Kopa

Ritorna il campionato di calcio, con il suo pesante carico di problemi e di tensioni, ben noto anche a chi non segue questo sport. Non sempre è stato così o, per lo meno, non compiutamente così.

Nel 1960, credo, ci recammo io, papà, fratellino e zio materno a vedere una partita Monaco-Reims nel vicino Principato, nel vecchio stadio a dimensione quasi familiare. Eravamo vicini ad una linea laterale prossima ad una porta, ma un gruppo di spettatori sulla nostra sinistra era ancora più affacciato di noi sul rettangolo (come si suol dire) di gioco. Anzi, ad un certo momento, si consentì agli stessi di avanzare ancora, sino a portarsi a ridosso del portiere: in questo movimento rivedo ancora la fulminea mossa di una signora a riprendersi trafelata il fiaschetto di vino scordato indietro per potersi poi finire beata il suo bel picnic nella nuova agognata posizione.

Finita la partita, dobbiamo avere indugiato un po' da qualche parte, perché altrimenti non mi spiego la scena seguente. Su due sedie malandate, davanti ad un baretto qualsiasi (come oggi a Montecarlo non ce ne sono più), lo zio riconobbe per primo un calciatore, io un attimo dopo il secondo. Si trattava rispettivamente di Kopa, migliore giocatore europeo del 1958, e di Fontaine, tuttora recordman con 13 reti (1958, in Svezia) di un singolo mondiale, quella volta con una gamba ingessata (e, quindi, non era sceso in campo, ma aveva accompagnato la squadra) come avevo già letto in uno dei miei prediletti giornalini dell'epoca: entrambi del Reims e nazionali (i galletti) di Francia, il primo oriundo polacco, il secondo a suo tempo esordiente in Marocco. Si avviò un'amabile conversazione tra adulti, di cui ora io ricordo solo i continui complimenti fatti anche in spagnolo (aveva appena finito di militare nel Real Madrid), rivolti da Kopa al mio fratellino.

Lo stesso anno alla riapertura si andò a Marassi di Genova per un Genoa in serie B. Anche lì all'epoca si poteva stare molto vicini al campo, tanto é vero che in occasione di rimesse laterali o altre pause tecniche di gioco Pesaola (O' Petisso) contraccambiava spesso i saluti dei tifosi rossoblu e Bean (allora il mio adorato Bean, come ne spiegherò un'altra volta la motivazione, se ne troverò lo spunto) mi parve rivolgesse addirittura un amichevole cenno diretto a me che lo chiamavo.

Potrei riferire altri episodi similari, attinti sia alla memoria che alle letture, molti degni di un libro "Cuore", alcuni anche emblematici del mio amato ciclismo di una volta. Non che tutto fosse perfetto, anzi, ma si rinvenivano almeno un maggior numero di storie esemplari. Spero di trovare prima o poi l'occasione opportuna per parlarne.