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venerdì 1 dicembre 2023

E Italo Calvino testimoniava a favore di un ex soldato repubblichino

Sanremo (IM): il Monumento ai Partigiani - opera del patriota resistente Renzo Orvieto - sito davanti all'ex Forte di Santa Tecla, dove brevemente fu rinchiuso anche Italo Calvino

Leggendo articoli di quotidiani e di portali web, sembra che non solo per Sanremo e per Bordighera - come si è già visto su questo blog -, ma che per tutta la provincia di Imperia durante la seconda guerra mondiale ci fosse un gran pullulare di spie, ma non di spie qualsiasi, bensì di quelle che oggi rendono appassionanti film, serie televisive e romanzi d'azione. Solo che Kgb e Cia all'epoca non c'erano ancora! E non ci fu neppure nulla di paragonabile a esperienze vissute da personaggi quali Richard Sorge, Kim Philby, ‎Anthony Blunt, ‎Guy Burgess o i membri dell'Orchestra Rossa.
Neppure, forse, nella limitrofa Costa Azzurra.
Detto questo, ad onor del vero furono numerose le operazioni segrete - raramente spettacolari - condotte da o verso la Costa Azzurra da alleati, partigiani, nazifascisti.
Su questo panorama e su quello delle fitte trame intessute sul territorio imperiese c'é da credere che sarà molto illuminante il prossimo libro degli storici locali Giorgio Caudano e Paolo Veziano.
Il grosso degli accadimenti, in ogni caso, riguardava infiltrati - per fortuna, molti a favore della Resistenza! -, sicofanti, voltagabbana, traditori, delatori, opportunisti.
In questo quadro ci sono fatti noti, altri meno, altri pressoché inediti.
 
In questo vasto campo non si può fare altro che procedere con degli esempi.
 
In ordine alle tristi collaborazioni con i nazifascisti si può evincere che "un fascista repubblicano" di Imperia denunciava il 13 febbraio 1944 due funzionari dell'Ufficio Provinciale delle Corporazioni per generici gesti antifascisti compiuti dopo il 25 luglio 1943; che ci furono, sempre nel capoluogo, altre analoghe denunce; che un impresario edile di Sanremo si dichiarava protetto dalle S.S. tedesche; che molto pesanti furono le accuse a carico di una donna abitante a Bordighera; che a Sanremo il borghese "robusto, statura piuttosto alta, età circa 50 anni, colorito bruno, capelli leggermente brizzolati, barba rasa [...] del quale ho dato i connotati, che secondo me guidava la spedizione, mi disse che era stato lui ad andare dal comando tedesco" (come da un verbale di interrogatorio, oggi documento in Archivio di Stato di Genova - ricerca effettuata da Paolo Bianchi di Sanremo - < fattispecie in seguito in questo post contrassegnata come AS GE>), avrà quasi di sicuro indotto altri rastrellamenti, oltre quello qui appena accennato e nel corso del quale vennero falcidiati i partigiani fratelli Zoccarato; che sempre a Sanremo un mutilato di guerra "che camminava con i bastoni" era comunque in grado di dare informazioni nocive agli antifascisti; che era piuttosto losca la figura dell'impresario di Sanremo del quale "... parecchi giorni dopo si seppe che era stato preso l'O. Il 15 novembre [1944], pochi giorni dopo l'arresto dell'O., i nazi-fascisti effettuarono un  rastrellamento nella zona di San Romolo [n.d.a.: le responsabilità di questo O. per la tragica fine di così tanti partigiani a San Romolo, tra i quali il vecchio gappista Aldo Baggioli, il giorno stesso in cui venivano preso anche Italo Calvino, erano ribadite dall'ex graduato delle SS Ernest Schifferegger - documento statunitense agli atti -] .... tutto San Romolo è voce comune che nel secondo rastrellamento, avvenuto otto giorni dopo, vi era... il quale alla presenza del figlio del custode di Villa Marsaglia presentò ai tedeschi una lista nella quale vi erano tutti i finanziatori dei Patrioti" (AS GE); che SS francesi ancora al 22 aprile 1945 mandavano informazioni carpite a danno dei partigiani al comando locale della X Mas. 
 
Se si leggono alcuni carteggi, quali i documenti in archivio IsrecIm, riassunti da Rocco Fava di Sanremo nella sua tesi di laurea del 1989, si capiscono, inoltre, in controluce talune contromisure adottate dai garibaldini. Il 18 gennaio 1945 "Dario", Ottavio Cepollini, informava la Sezione SIM (Servizio Informazioni Militari) della Divisione d'Assalto Garibaldi  "Silvio Bonfante" che "da parte dei tedeschi continua l'interrogatorio di 'Giulio' e 'Dek', 'Boll' collabora con i tedeschi, viene messo spesso con gli arrestati e con il pretesto di essere caduto anche lui in trappola cerca di carpire notizie utili da riferire ai tedeschi. Si cercherà di fare eliminare 'Boll' proprio dai tedeschi. I tedeschi a Pieve di Teco stanno ricostruendo il ponte crollato". Il 1 marzo 1945 la Sezione SIM del CLN di Sanremo avvisava la Sezione SIM della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione "Felice Cascione" che "... a Sanremo si stava intensificando l'attività spionistica dei tedeschi... era inutile l'attacco contro il sarto Sofia". Il 16 marzo 1945 il CLN di Sanremo informava la Sezione SIM della V^ Brigata che "si trovava di nuovo a Sanremo il 'famigerato maggiore' tedesco Kruemer". Il 28 marzo 1945 "Carmelita" segnalava al C.L.N. di Sanremo  che tra i più assidui informatori dei tedeschi vi era un certo colonnello Alberto Neri, abitante a Sanremo, invalido, ex combattente dell'esercito francese, in diretto contatto con il capitano "Frank" e che un'altra informatrice era una donna sudamericana di nome "Pegg", intima amica del Neri stesso. Il 30 marzo 1945 il responsabile "S. 22", G.B. Barla del SIM della I^ Zona Operativa Liguria scriveva al comando della I^ Zona Operativa Liguria che occorreva procedere all'arresto della spia Seccatore (Coccodé), su cui si erano già date informazioni e che stava agendo a Molini di Prelà.  
 
Si riportano spesso in letteratura specialistica il passaggio di confine con la Francia compiuto in tre direzioni o punti diversi da tre gruppi della missione britannica Flap, cui si erano aggregati, tra gli altri, patrioti del Piemonte, piloti ed avieri, ex prigionieri, e l'arrivo dell'ufficiale di collegamento con la I^ Zona Operativa Liguria Robert Bentley, del Soe. Meno conosciuti, invece, sono - nel novero del Oss - i passaggi della missione Youngstown e di quella Zucca, alla quale ultima partecipava anche Vincenzo Stimolo, un eroe delle Quattro Giornate di Napoli, fallita casualmente alla stazione ferroviaria di Santo Stefano al Mare, mentre poco al largo un sottomarino aspettava di sbarcare il vero referente, un responsabile del servizio statunitense, Bourgoin.
 
Ventimiglia (IM): a sinistra la casa - di colore rosa - in Marina San Giuseppe dove venne ucciso il capitano Gino Punzi

Una storia straordinaria è quella del capitano Gino Punzi, infine reclutato dagli americani Oss antenna di Nizza, nella cui tragica vicenda si incontrano maquisard, poliziotti fascisti prima di Ventimiglia poi di Imperia ma impegnati a sostenere in segreto la sua azione di costruzione di una rete antifascista, patrioti italiani quali Giuseppe Porcheddu, il maggiore degli Alpini a riposo di Ventimiglia Luigi Raimondo - già impegnato a margine della missione Flap -, Chiappa padre e figli di Bordighera, partigiani di passaggio in Costa Azzurra che tentarono di affidargli messaggi di delazione da recapitare ai loro Comandi circa loro compagni dediti a presunte o veritiere attività illecite, pescatori contrabbandieri chi in ferale ritardo chi fatale traditore: il capitano Gino, colpito da tergo alla testa con un'ascia, ricevette il colpo di grazia a Marina San Giuseppe di Ventimiglia per ordine di un agente della S.R.A. della Marina da guerra tedesca di stanza a Sanremo.
 
A danno della Resistenza Imperiese è celebre il caso della cosiddetta "donna velata" che, dopo essersi infiltrata tra i partigiani, creò i presupposti per alcune efferate stragi nazifasciste, soprattutto ad Imperia. Lo è meno quello di Olga, nome fittizio di una giovane, forse jugoslava, di cui parla Michael Ross nel suo libro di memorie "From Liguria with love". Ross, inglese, già prigioniero di guerra a Fontanellato di Parma, dopo essere stato, insieme al suo compagno di fuga Bell, prima aiutato dal martire antifascista Renato Brunati e dalla sua compagna Lina Meiffret, poi, dopo il fallito tentativo di arrivare in Corsica in barca a motore, ospitato in clandestinità per mesi e mesi a Bordighera da Giuseppe Porcheddu - che aveva acceduto alle istanze di Brunati e di Meiffret, i quali sentivano imminente il loro arresto da parte della miliza fascista - si trovava, sempre con Bell, ai primi del 1945 tra i partigiani della zona di Taggia. Per due volte la spiaggia di Arma di Taggia da dove i due - ed altri militari alleati - avrebbero dovuto attendere il canotto di un sottomarino, attivato grazie ai messaggi radio del telegrafista di Bentley, fu, invece, teatro di uno scontro, rischiarato dai bengala tedeschi, tra partigiani e nazisti, con conseguente fallimento della prevista esfiltrazione. Non ci fu un terzo scontro, perché sia i tedeschi che il comandante - che non si era più potuto avvisare - del mezzo navale attesero invano. I garibaldini avevano capito il tradimento di Olga, che venne pertanto giustiziata con un colpo di pistola alla nuca alla presenza dei due britannici: la sua salma venne seppellita in fretta e furia. A marzo 1945 Ross e Bell partirono infine in barca a remi da Vallecrosia con l'aiuto della locale SAP per rientrare da Montecarlo nei propri ranghi.
 
Un funzionario - temporaneo (venne quasi subito arrestato) - di P.S. della Questura fascista di Imperia fece mettere a verbale che aveva contributo a salvare il maggiore Enrico Rossi (reintegrato finito il conflitto nel Servizio Permanente Effettivo del Regio Esercito), che era stato consegnato a giugno 1944 dalla G.N.R. alle SS tedesche insieme al tenente Angelo Bellabarba ed al tenente Alfonso Testaverde, tutti rei di attività antifascista, in cui spiccava la loro pregressa collaborazione con Renato Brunati e Lina Meiffret (AS GE).   
 
Italo Calvino dichiarava il 17 luglio 1945 in Commissariato di Polizia a Sanremo: "Ho conosciuto sempre il N. come di sentimenti antifascisti. Essendo io stato catturato nel rastrellamento del 15 novembre 1944 mi trovavo alcuni giorni dopo nella Caserma Crespi d'Imperia ed arruolato forzatamente in quella Compagnia Deposito. Qui incontrai il N. che era stato costretto a presentarsi in seguito a minacce di rappresaglie verso la sua famiglia. Egli appariva assai abbattuto, moralmente, per aver dovuto compiere quel passo. Io lo avvertii che la compagnia deposito non era che una stazione di smistamento verso i campi di addestramento dai quali non si poteva più scappare perciò lo consigliai, vedendo che egli aveva intenzione di scappare quanto prima di entrare a fare parte della compagnia provinciale cercando di esimersi dal fare rastrellamenti. Alcuni giorni dopo io scappai e non sò specificare l'attività del N. in quel d'Imperia. Posso dichiarare però che egli pur essendo a conoscenza del mio nascondiglio in campagna, non solo non mi denunciò ma mi avvertì che ero attivamente ricercato segnalandomi i rastrellamenti che si sarebbero compiuti nella zona" (AS GE): lo stile di scrittura non é certo quello del grande autore de "Il sentiero dei nidi di ragno"!
 
Un rapporto della flotta statunitense di stanza nel Mediterraneo annunciava l'arrivo il 10 settembre 1944 nelle vicinanze di Saint-Raphaël di tre giovanotti, colà pervenuti in barca a remi da Ventimiglia e latori di alcune informazioni di spessore militare (" Più tardi nostre navi spararono, con il supporto di aerei da ricognizione, su alcuni obiettivi indicati da questi patrioti italiani"), una attestazione che conferma un racconto tramandato oralmente in zona ma non molto noto, anche se tramandato anni fa da Arturo Viale nel suo "Vite parallele".
 
Nel diario brogliaccio del distaccamento di Sanremo delle Brigate Nere si può leggere che il comandante Mangano - di cui oggi qualcuno insinua che fosse anche in contatto con gli americani - ebbe almeno un abboccamento - destando stupore nel verbalizzante - con un partigiano autonomo. Mangano, appena finita la guerra, morì suicida a Genova.
 
"Per assicurare la dovuta segretezza alle nostre comunicazioni è stato stabilito che ogni nostro Agente firmi ogni suo rapporto, relazione, informazione, ecc con una sigla. Vogliate prendere nota che la SIGLA a Voi assegnata e con la quale dovete firmare é: VEN 38" scriveva il comandante della Legione G.N.R., Bussi, ad un suo agente confidente - goielliere di Ventimiglia - alle dipendenze dell'U.P.I. (Ufficio Politico, in pratica uno dei tanti servizi segreti della Repubblica di Salò) (AS GE).  
 
Il 16 settembre 1944 alcuni giovani francesi tentarono un vera e propria azione di commando sulla frontiera di Ponte San Luigi, tra Mentone e Ventimiglia. Il colpo fallì: morirono Jean Bolietto, di origini astigiane, saltato su una mina, e Joseph Arnaldi, detto Jojo, raggiunto da proiettili, cui si sottrassero gli altri tre del gruppo. Su questi partigiani e su questo fatto ha scritto diverse volte il professor Enzo Barnabà.         
Stando alle sue dichiarazioni del maggio 1945 (AS GE) un ex poliziotto ausiliario della polizia saloina - di nuovo in carcere con l'accusa di avere militato in precedenza nelle fila fasciste - doveva incontrare alla fine di novembre del 1944 a Camporosso alcuni partigiani francesi, ma ne venne impedito in quanto catturato da ex colleghi repubblichini di Bordighera.
Si hanno notizie (pregressa ricerca del compianto Giuseppe "Mac" Fiorucci, autore di "Gruppo Sbarchi Vallecrosia" - con ogni evidenza in ciò aiutato dallo stimato storico nizzardo Jean-Louis Panicacci -) di incursioni - confermate da precise mappe dei luoghi, ancora esistenti - in zone del nostro ponente compiute da Joseph Manzone, detto "Joseph le fou" (un nome, un programma!), maquisard del dipartimento delle Alpi Marittime, che aveva già aiutato intorno all'8 settembre 1943 soldati italiani della IV Armata a fuggire o a raggiungere la locale Resistenza, protagonista di svariate altre avventure, lunghe da raccontare.
Da ottobre 1944 in avanti diversi furono da parte di partigiani ed agenti transalpini i tentativi compiuti di entrare in Italia attraverso la Val Roia, ma fallirono tutti o quasi. Particolarmente efficiente fu in questo contrasto a febbraio 1945 il servizio di controspionaggio tedesco.
 
Adriano Maini

domenica 5 novembre 2023

Praticamente, la Linea Gotica correva lungo il confine tra le province di Lucca e di Massa Carrara


Il compito assegnato agli uomini comandati da Vinci Nicodemi “Uberti”, era quello di controllare la strada Castelnuovo Garfagnana-Arni con particolare riguardo alle zone di Isola Santa e del Col di Favilla, occupate da truppe nemiche. <331 Ulteriori richieste di Pietro [Pietro Del Giudice, comandante del Gruppo Patrioti Apuani] in cambio dell'adesione alla divisione, si rintracciano in un altro appunto manoscritto datato 23 ottobre 1944 e nella successiva risposta del comando divisionale. L'appunto su carta intestata del comando GPA (Gruppo Patrioti Apuani) reca come luogo lo stesso comando di divisione e riporta: “Richieste da fare al maggiore: 1 - che nel nostro schieramento ci sia soluzione di continuità. 2 - che i nostri patrioti ubbidiscano esclusivamente a comandanti del gruppo sotto l'alta direttiva del maggiore comandante la divisione. 3 - due mitragliatori Breda 30 e 10 sten con munizionamento per rinforzare il nostro schieramento senza contare naturalmente quelli che saranno dati in dotazione alle nostre forze che rimangono in Garfagnana. 4 - Promessa di assistenza alla popolazione della nostra zona sacrificando magari in parte i paesi molto più ricchi della Garfagnana. In proposito dovrebbe venir stipulata una convenzione. 5 - accordo per un piano militare.” <332
Condizione fondamentale per l'aiuto dato dal GPA alla Divisione Lunense era l'accordo per ricevere rifornimenti e viveri per la popolazione apuana costretta a sopravvivere in piena zona di guerra sulla linea del fronte. Un primo passo in questa direzione si era avuto durante l'incontro del 17 ottobre a Forno, quando venne rilasciata un'autorizzazione firmata da Oldham, agli uomini della 3^ compagnia del GPA, comandata da Arnaldo Pegollo, per la requisizione di viveri in alcune zone della Garfagnana <333. Le ulteriori richieste formulate da Pietro trovarono immediato e pieno riscontro nella convenzione sottoscritta da Oldham, da “Barocci” [Roberto Battaglia], dal comandante della 1^ brigata della Lunense, Coli e dallo stesso comandante del GPA. Questo il testo dell'importante documento: “Il Comando della Lunense e il Comando della 1^ Brigata sentite le richieste del Gruppo Patrioti Apuani chiarisce e risponde in perfetto accordo col Comandante del detto Gruppo quanto segue:
1 - Schieramento difensivo continuo. Il Comando di Divisione prende atto con compiacimento della prontezza con cui il Comando Patrioti Apuani ha inviato un primo distaccamento delle sue forze nel settore della 1^ Brigata e rifornisca immediatamente di 4 fucili mitragliatori Breda e relative munizioni il detto distaccamento. […] Gli affida infine un settore da difendersi ad oltranza, tale da poter stabilire collegamento col grosso dei Patrioti Apuani mediante un'ora di strada.
2 - Comando militare e disciplina del Distaccamento dei Patrioti Apuani. Valgono le direttive generali qui allegate.
3 - Richiesta di armi per il gruppo dei Patrioti Apuani. Il Comando di Divisione, sentito il parere del Comando della 1^ Brigata è lieto di aderire alla detta richiesta. […].
4 - Richiesta di viveri per la popolazione civile di Massa e dintorni. Il Comando di Divisione e così pure il Comando della 1^ Brigata s'impegna di aiutare con ogni suo sforzo e mezzo le popolazioni civili della zona di Massa favorendo l'esportazione di generi alimentari dalla Garfagnana. Come prima prova concreta di questo suo interessamento promette l'invio di 20 quintali di patate a detta popolazione in cambio di un adeguato quantitativo di sale.
5 - Piano militare comune. Il Comandante Pietro è incaricato di riferire a voce su detto piano la cui esecuzione è subordinata a un efficiente schieramento da parte dei partigiani e alle opportune direttive da parte del Comando alleato e del Governo Italiano.” <334
La convenzione si concludeva con un'ulteriore richiesta di invio di uomini rivolta anche alla Brigata Garibaldi “Muccini” e con un chiarimento sul punto più importante dell'accordo: l'invio di viveri verso Massa: “Riguardo al grave e urgente problema dell'incubo della fame sulle popolazioni di Massa e dintorni è dovere di ogni buon Italiano contribuire alla sua soluzione nella misura del possibile. Il Comando di Divisione rivolge a questo proposito un appello ai CLN della Garfagnana. Poiché non si può assumere direttamente la responsabilità di organizzare i rifornimenti dalla Garfagnana a Massa che è compito delicato di competenza civile richiede al CLN di Apuania l'invio di una persona a ciò delegata, cui la Lunense darà l'appoggio incondizionato di tutte le sue formazioni partigiane.” <335
[NOTE]
331 Notizie dettagliate sulla zona occupata dai Patrioti Apuani in Garfagnana si trovano in V. Nicodemi, G. Lenzetti Guerra sulle Apuane, ANPI, Massa, 2006. Il reparto guidato da Vinci si stabilì sul Monte Grotti e giornalmente svolgeva servizio di pattuglia fra il Monte Grotti e il Monte Sumbra.
332 AAM busta 19, fascicolo 19.
333 AAM busta 24, fascicolo 1. Le località designate per la requisizione viveri erano: Giuncugnano ed altre frazioni; Capoli e tutto il comune di Piazza al Serchio. Gli uomini di “Naldo” ricevevano inoltre il compito di agire anche sul paese di Gorfigliano ponendovi un proprio presidio: “Secondo gli accordi prestabiliti i Patrioti Apuani sono autorizzati ad agire su Gorfigliano per la totale epurazione di questo centro fascista repubblicano punendo esemplarmente secondo giustizia tutti i responsabili mediante fucilazione e requisizione dei beni.”
334 AAM busta 24, fascicolo 1. “Convenzione fra il Comando della Divisione Lunense, il Gruppo Patrioti Apuani e la 1^ brigata Garfagnina”.
335 Ivi pag. 2.
Marco Rossi, Il Gruppo Patrioti Apuani attraverso le carte dell'archivio ANPI di Massa. Giugno-Dicembre 1944, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, 2016


Il 5 ottobre, a Viareggio, il generale Edward M. Almond assunse il comando della Task Force 92, formata dai primi contingenti della 92 Divisione di Fanteria “Buffalo” <7, da alcuni mesi in Italia - vale a dire il 370 reggimento di fanteria, il 598 Gruppo d'Artiglieria Campale, il 124 Gruppo d'Artiglieria campale, reparti del genio, sanità e sussistenza - e dall'894 battaglione anticarro, dal 434 e 435 battaglione di fanteria, dal 751 battaglione carri armati e dai reparti britannici, già facenti parte della Task Force 45.
In quei giorni la Quinta Armata si stava preparando ad assestare il colpo definitivo alla Linea Gotica sull'asse Firenze-Bologna e, nell'ambito dell'operazione, alle forze schierate in Versilia e in Garfagnana fu assegnato un compito diversivo, quello di tenere impegnate le truppe nemiche e conquistare alcune posizioni strategiche nel rispettivo settore. In particolare alla Task Force 92 fu ordinato di prendere il m. Canala, sovrastante Seravezza e il Monte di Ripa, che aveva una notevole importanza strategica, essendo il suo controllo indispensabile per poter puntare su Montignoso, Massa e Carrara.
Mentre i Brasiliani, con l'apporto del “Battaglione Autonomo Patrioti Italiani” agli ordini di Manrico Ducceschi (“Pippo”), occuparono Fornaci di Barga, Coreglia e Barga, in Versilia la Task Force 92 non riuscì a prendere il m. Canala, nonostante gli accaniti e sanguinosi combattimenti sostenuti dal 6 all'11 ottobre. Dalla metà di ottobre ai primi di novembre, pattuglie americane arrivarono nelle frazioni montane di Giustagnana, Minazzana, Basati ed Azzano (Comune di Seravezza) e di Terrinca e Levigliani (Comune di Stazzema), poi, il fronte si stabilizzò fino all'aprile 1945, lungo una linea, che seguiva il tratto finale del fiume Versilia, la piana di Porta, le colline di Strettoia e del Monte di Ripa, i monti Folgorito, Altissimo, Corchia ed il gruppo delle Panie. <8
Ad eccezione di Strettoia e di Arni, tutto il territorio versiliese era stato liberato e si erano insediate le Amministrazioni Comunali, nominate dai CLN con il consenso del Governo Militare Alleato, ma la situazione continuò ad essere molto problematica in quanto la Versilia si trovò a essere un territorio “liberato, ma ancora in prima linea”, sottoposto al fuoco dell'artiglieria nemica ed alla minaccia di possibili puntate offensive da parte dei Tedeschi. A correre i rischi maggiori erano il centro di Seravezza e alcuni paesi dello Stazzemese, dislocati a poche centinaia di metri dalle sovrastanti postazioni tedesche, poi Forte dei Marmi e Pietrasanta, situati nelle immediate vicinanze, mentre relativamente più tranquilla era la situazione nel territorio di Camaiore, Viareggio e Massarosa.
Nel settore apuoversiliese della Linea Gotica i Tedeschi non avevano costruito particolari strutture difensive artificiali, ma, piuttosto, adattato o rinforzato quelle naturali, offerte dal terreno collinare e montano, impiegando i lavoratori della TODT e centinaia di uomini, catturati nel corso dei frequenti rastrellamenti. Sulla spiaggia del Cinquale, lungo le sponde del fiume Versilia e la piana di Porta, fino alla via Aurelia, erano stati posti numerosi campi minati, distrutti i ponti, disseminati numerosi ostacoli lungo strade e sentieri, approntati nidi di mitragliatrici. Le colline intorno al Castello Aghinolfi, quelle di Strettoia e del Monte di Ripa, protette da una fitta rete di campi minati, erano presidiate da numerose postazioni di mitragliatrici e mortai, da dove i Tedeschi potevano dominare la zona sottostante, essendo stati rasi al suolo oliveti, vigneti e buona parte della vegetazione spontanea. Sui monti Canala, Folgorito e Carchio, da cui parte la cresta scoscesa che raggiunge il monte Altissimo, dominante la vallata del torrente Serra, erano state scavati ripari e trincee per mitragliatrici e mortai, mentre erano stati allestiti una stazione radio e un posto di osservazione sulla vetta del Folgorito, da dove era possibile tenere sotto controllo la costa da La Spezia a Livorno e gran parte della Versilia. Anche sui monti Altissimo, Corchia, Pania della Croce e Pania Secca, che sovrastano da un lato il territorio di Stazzema e dall'altro la Garfagnana, nel tratto tra Castelnuovo e Gallicano, erano stati allestiti posti d'osservazione, trincee, postazioni per mitragliatrici, obici e mortai.
A difesa del settore occidentale della Gotica i Tedeschi schieravano la 148 Divisione di Fanteria, a cui, nella fase finale, furono aggregati il battaglione mitraglieri Kesselring ed alcuni battaglioni d'alta montagna, mentre il tratto tra l'Altissimo e la Pania erano affidati al battaglione “Intra” della Divisione Alpina “Monterosa”.
Praticamente, la Linea Gotica correva lungo il confine tra le province di Lucca e di Massa Carrara e, di conseguenza, il territorio di Montignoso e di Massa costituiva le immediate retrovie, dove erano dislocati servizi logistici, mezzi, depositi di materiale e postazioni di artiglieria. Un ruolo fondamentale, per la difesa di questo settore della Linea Gotica, era svolto dalle batterie dei cannoni di Punta Bianca, situate nei pressi di Bocca di Magra, dove Tedeschi avevano rafforzato una serie di postazioni precedentemente allestite dalla Marina Militare Italiana. Il sistema difensivo era costituito da due cannoni navali da 152/52 in località Ameglia, 4 cannoni navali da 152/52, posti tra le rocce, e 4 dello stesso tipo in un bunker, oltre a torrette di osservazione e attrezzature varie. Inoltre, era stato aggiunto un cannone di grosso calibro montato su un affusto ferroviario, collocato in una galleria.
[NOTE]
7 - La 92 Divisione di Fanteria “Buffalo” fu costituita il 15 ottobre 1942 a Fort Mc Clellan in Alabama, con una forza iniziale di 128 ufficiali e 1200 soldati, aumentata progressivamente fino al raggiungimento degli effettivi di una divisione. I reparti effettuarono l'addestramento in varie località , poi, nel 1943, si trasferirono a Fort Huachuca. Il 15 luglio salpò per l'Italia il primo contingente, cioè il 370 Regimental Combat Team, formato dal 370 reggimento di fanteria, dal 598 reggimento di artiglieria campale, da reparti del Genio, Sanità, Servizi e Polizia Militare. 8 - Sul settore apuoversiliese della Linea Gotica cfr: Eserciti Popolazione Resistenza sulle Alpi Apuane - Prima parte: aspetti politici e militari, a cura di Gino Briglia, Pietro Del Giudice, Massimo Michelacci, Massa, Tipografia Ceccotti, 1995 - parte seconda: aspetti politici e sociali, a cura di Lilio Giannecchini e Giuseppe Pardini, Lucca, Tipografia San Marco, 1997 - Fabrizio Federigi, Versilia Linea Gotica, Versilia Oggi Edizioni, Roma, 1979 - Davide Del Giudice, La Linea Gotica tra la Garfagnana e Massa Carrara - settembre 1944-aprile 1945, vol. 2, Tipografia Glue&c. Massa, 2000
Giovanni Cipollini, La Linea Gotica in territorio apuoversiliese, saggio pubblicato in “La Linea Gotica - Settore Occidentale 1943-45”, atti del Convegno di studi svoltosi a Borgo a Mozzano il 9 maggio 2004, a cura dell'Istituto Storico Lucchese - sezione di Borgo a Mozzano

mercoledì 4 ottobre 2023

All'inizio dei tentativi di epurazione dei fascisti in Italia



Da ultimo, le nuove autorità politiche avrebbero dovuto far luce, anche attorno ai numerosi episodi di violenza realizzati nel periodo della guerra civile (8 settembre 1943- maggio 1945): con particolare riferimento alle feroci rappresaglie naziste realizzate nel centro-nord della Penisola <4, al trasferimento di civili e militari italiani nei campi di prigionia nazista (c.d. I.M.I. Internati Militari Italiani), alla sorte dei soldati del Regio Esercito, abbandonati senz'ordini alla vendetta dell'ex “fratello d'arme” tedesco <5. Numerosi aspetti oscuri riguardavano anche la lotta partigiana, nelle cui maglie vennero sovente ad innestarsi, regolamenti privati tra cittadini e scontri tra bande ideologicamente rivali, nonché l'opera di liberazione condotta dagli eserciti alleati, nel corso delle cui azioni non mancarono episodi di violenza e aggressione ai danni delle popolazioni civili dei territori di volta in volta liberati <6. Si trattava, come è evidente di incombenze imbarazzanti che difficilmente la giovane ed inesperta democrazia italiana avrebbe potuto realizzare nel breve periodo, specie se si consideri che essa era, in pari tempo, chiamata ad affrontare ulteriori prioritarie questioni: la ricostruzione del Paese distrutto dai bombardamenti, la crisi economica post-bellica, la riconversione dell'industria militare agli usi civili, la riorganizzazione, infine, dopo un vuoto durato vent'anni del pluralismo politico e culturale, operazioni alle quali avrebbe dovuto procedersi, peraltro, sotto le spinte di una popolazione che ampiamente rivendicava una maggiore giustizia sociale ed una più incisiva partecipazione alle scelte politiche del Paese.
In un simile quadro, i primi sforzi del Governo Badoglio furono indirizzati alla “defascistizzazione” dello Stato, divenuto nel corso del ventennio quasi un unicum con il Partito di Mussolini <7: con R.d.l. n. 668/1943 venne disposta, infatti, la soppressione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, con R.d.l. n. 706/1943 si provvide allo scioglimento del Gran Consiglio del fascismo, infine, con R.d.l. n. 704/1943 venne liquidato il P.N.F. e le sue organizzazioni. Ulteriori provvedimenti diedero luogo all'abolizione dell'ordine corporativo e alla Camera dei Fasci e delle corporazioni. Una volta demolite le strutture del vecchio regime, con l'insediamento dei Governi ciellenisti Bonomi e Parri furono riattivate le regole del gioco democratico: vennero soppresse le antiche limitazioni alla libertà di stampa, si ristabilirono le libertà politiche e sindacali (d.lg.lgt. n. 369/1944), fu convocata (nell'attesa dell'insediamento di un nuovo Parlamento) una Consulta Nazionale, incaricata di formulare pareri sui problemi generali e i provvedimenti legislativi sottoposti dal Governo <8.
Per quanto concerne gli aspetti più dichiaratamente discriminatori del passato, con R.d.l. n. 25/1944 si provvide all'abolizione di tutti i decreti, le leggi e le singole disposizioni regolamentari in cui era fatto esplicito riferimento “all'accertamento o alla menzione della razza”, reintegrando al contempo tutti i cittadini di fede ebraica nel pieno godimento dei diritti civili e politici. Con riferimento specifico alle loro sofferenze economiche, il R.d.l. n. 26/1944 precisò, inoltre, la reintegrazione dei suddetti nei loro precedenti diritti patrimoniali <9.
Una corretta gestione del passato, non poteva prescindere, tuttavia, dalla realizzazione di una significativa opera di epurazione del personale dell'esercito, dell'amministrazione pubblica e degli organi di giustizia, nonché dalla persecuzione dei c.d. «delitti collaborazionisti» e dei più efferati crimini perpetrati durante la lunga vigenza del regime, specie nei primi tumultuosi anni della sua affermazione con la marcia del 1922. Tale ufficio rappresentava, peraltro, una delle condizioni (art. 30) specificamente imposte dai rappresentanti dell'esercito anglo-americano al momento della concessione dell'armistizio lungo dell'3 settembre 1943.
Assumendosi detto impegno, il Governo provvide, già il 28 dicembre successivo, durante il c.d. Regno del Sud, all'emanazione del D.l. n. 28/1943, per mezzo del quale si dispose l'assoggettamento a giudizio di chiunque si trovasse, al momento dell'emanazione, insignito della qualifica di squadrista, marcia su Roma, gerarca o sciarpa littorio, o avesse, in ogni caso rivestito in passato ruoli dirigenziali nel quadro organizzativo del Partito nazionale fascista, attribuendo al Consiglio dei ministri, ai consigli di amministrazione o di disciplina degli enti nazionali, nonché a commissioni di nomina prefettizia appositamente istituite, il compito di emettere la decisione e comminare la relativa sanzione. Al di là delle categorie su richiamate furono ad ogni modo considerati colpevoli gli autori di episodi configurabili come “attentato alla libertà individuale” dei cittadini.
Era evidente, in ogni caso, che, stante la divisione del Paese in due Stati in conflitto e la perdurante lotta tra bande partigiane e milizie repubblichine del Governo saloino, il provvedimento in argomento non poté conoscere puntuale attuazione, dando origine a risultati significativamente distanti da quelli auspicati.
Sulla questione dovettero intervenire, perciò, numerose ulteriori disposizioni. Sotto la vigenza dell'Esecutivo Bonomi fu adottato, in particolare il d.lg.lgt. n. 159/1944, per mezzo del quale furono inasprite le pene comminate dal precedente intervento, venne fornita più esatta indicazione dei soggetti destinatari della sanzione, si provvide ad istituire, quali organi di giudizio nelle operazioni, l'Alta Corte di giustizia, le Corti d'assise e i Tribunali militari, integrati questi ultimi, con giudici non togati appartenenti agli ambienti resistenziali. A garanzia del corretto svolgimento delle operazioni venne istituito, altresì, l'Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo, organo destinato ad essere successivamente assistito da quattro Alti Commissari aggiunti, ciascuno dei quali incaricato alla supervisione di uno dei settori di intervento: punizione dei delitti, epurazione dell'amministrazione, avocazione dei profitti del regime, liquidazione dei beni fascisti <10. Il provvedimento in esame stabilì, altresì, che, avverso le sentenze, le ordinanze e i provvedimenti emessi dell'Alta Corte di giustizia non avrebbe potuto proporsi gravame in appello, ma solo il giudizio in Cassazione la valutazione dei vizi di legittimità nell'applicazione di esso. Secondo dette disposizioni si procedette all'epurazione del Senato <11, dei dipendenti militari e civili dello Stato in posizione apicale, dei vertici delle aziende di Stato e delle imprese private, specie se titolari di rapporti di fornitura o di appalto con le amministrazioni pubbliche.
Il sistema predisposto, stando al parere della più recente storiografia <12, conobbe nel complesso, un apprezzabile avvio, tale da consentire - nel caso in cui fosse stato portato effettivamente a compimento - un effettivo rinnovamento del sistema amministrativo centrale e periferico dello Stato (prefetti, podestà, dirigenti della burocrazia ministeriale), nonché una più facile rielaborazione del problematico passato da parte della generalità dei consociati.
Le operazioni in tal modo avviate dovettero subire, però, un radicale mutamento con l'approvazione del d.lg.lgt. n. 625/1945, per mezzo del quale fu disposta la soppressione dell'Alta Corte di giustizia ed il trasferimento di tutti i procedimenti allora pendenti ad una sezione speciale (rectius specializzata) delle Corti d'assise.
La magistratura ordinaria (che era riuscita nel complesso a sottrarsi alle misure di epurazione) si trovò, così, investita del non facile compito di “defascistizzare” la Pubblica amministrazione, assumendo su di sé l'incarico di comminare sanzioni penali e disciplinari a funzionari e dirigenti rei di aver assunto, nel corso della propria carriera, atteggiamenti non dissimili da quelli posti in essere da essi stessi durante il lungo interregno della dittatura fascista <13.
Nell'esercizio di tale attività, fu evidente, quindi, che i magistrati presero ad assumere atteggiamenti di maggior indulgenza rispetto a quelli fatti propri dai componenti delle precedenti commissioni d'epurazione governative, i quali, nel passato, avevano generalmente rivestito ruoli di primo piano nelle file dell'antifascismo e della guerra di liberazione partigiana.
Il frequente ricorso da parte del legislatore a clausole interpretative quali “delitto per motivi fascisti”, “atto rilevante”, “dolo”, “faziosità” consentì ai medesimi, infatti, di procedere ad interpretazioni giurisprudenziali salvifiche delle condotte poste in essere dai dirigenti e dagli impiegati della struttura amministrativa dello Stato e delle sue articolazioni, assicurando ai medesimi una generalizzata e pressoché totale impunità ogniqualvolta non fosse incontrovertibilmente dimostrato - sulla base delle risultanze istruttorie contro di essi prodotte - il ricorso ad atteggiamenti settari o faziosi (requisito esso stesso, come è evidente, suscettibile di ampia interpretazione) nell'esercizio delle funzioni per le quali erano preposti.
[NOTE]
4 L'occupazione dell'Italia da parte delle truppe naziste nel periodo compreso tra l'8 settembre 1943 ed il 2 maggio 1945 (data della resa tedesca in Italia), provocò più di diecimila vittime tra la popolazione civile. Tra l'8 settembre 1943 e l'aprile del 1945 in tutto il centro-nord si registrarono oltre 400 stragi, tra le quali gli eccidi delle Fosse Ardeatine (335 vittime) e di Marzabotto (770 vittime) furono solamente gli episodi più conosciuti. L'area dell'Appennino tosco-emiliano, data la sua posizione strategica lungo la linea Gotica, conobbe, il maggior numero di violenze: tra l'aprile e l'agosto del 1944 le stragi furono 280 e 83 i comuni interessati (tra cui Sant'Anna di Stazzema, Bardine S. Terenzo, Fivizzano, Fosdinovo, Padule di Fucecchio). Le stime più attendibili sono al momento quelle avanzate da Gerhard Schreiber secondo il quale i militari italiani giustiziati nel settembre-ottobre 1943 furono 6.800 tra Balcani, Grecia ed Egeo; 22.720 furono, invece, i partigiani “uccisi nel disprezzo delle disposizioni internazionali” e 9.180 civili i sterminati. Autori di tali esecuzioni collettive non furono soltanto i nazisti delle SS, ma anche i soldati della Wermacht e della Luftwaffe - l'aviazione militare tedesca - nonché le milizie regolari e irregolari del partito fascista inquadrate sotto le insegne della Repubblica sociale italiana. Alla base di tali stragi vi furono sicuramente: il pregiudizio nei confronti degli italiani per reazione psicologica al “tradimento” dell'8 settembre; la decisione del comando supremo della Wermacht e del feldmaresciallo Kesserling (Capo supremo delle forze armate tedesche in Italia) di difendere ad ogni costo il territorio italiano in un momento in cui la guerra all'Est era ormai perduta, il timore di un'attività partigiana che si faceva sempre più efficace e che intimoriva i giovani ed inesperti soldati provenienti direttamente dalla Hitlerjugend; la volontà di ricorrere a dimostrazioni di forza e di superiorità, legittimata con la serie di misure repressive adottate dalle autorità di occupazione.
5 L'esempio più emblematico è senza dubbio l'eccidio di Cefalonia, ma episodi analoghi ebbero a realizzarsi anche nelle altre isole greche: Lero, Coo, Rodi. Con la resa del Governo Badoglio agli anglo-americani, i soldati italiani della 33ª Divisione fanteria "Acqui" si trovarono ad assumere il ruolo di “traditori” agli occhi del co-occupante tedesco. Di fronte alla sua richiesta di disarmo, e senza più conoscere ordini dallo Stato maggiore, le truppe di stanza si trovarono a dover affrontare l'ex alleato, intenzionato a ridurli in prigionia e trasferirli in Germania. La guarnigione comandata dal generale Gandin si oppose ed aprì le ostilità contro quello che ora era diventato il nemico della fazione alleata. Ebbe inizio una sanguinosa battaglia (13-22 settembre) alla quale, in spregio a qualsiasi norma di diritto internazionale militare, l'esercito tedesco vincitore fece seguire il massacro di 4750 soldati e 341 ufficiali. Migliaia di militari furono, invece deportati su navi poi fatte saltare nell'Adriatico.
6 Tra le violenze alleate, emerse nel corso degli ultimi decenni, l'episodio certamente più emblematico è quello delle c.d. “marocchinate”, documentato in letteratura già nel 1957 dall'opera “La ciociara” di Alberto Moravia (e a cui fece seguito il più noto adattamento cinematografico di De Sica). Con tale espressione ci si riferisce all'insieme di stupri e sevizie realizzate nel basso Lazio - all'indomani della battaglia di Montecassino - dalle truppe coloniali franco-marocchine comandate dal generale Juin (c.d. Goumiers). Le vittime furono circa diecimila tra donne, uomini, bambini, anziani e religiosi. All'origine di tali violenze, delle quali era a conoscenza lo stesso generale de Gaulle, vi era un forte sentimento di rancore da parte dei francesi nei confronti degli italiani, considerati colpevoli del “coup de pugnace dans le dos” del giugno 1940. Casi di violenza analoghi si registrano anche in Sicilia, in Toscana ed in altre zone del Meridione.
7 Per un'analisi approfondita della trasformazione dello Stato italiano in senso autoritario successivamente all'affermazione del movimento fascista si rinvia all'ormai classico A. ACQUARONE, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965.
8 Per maggiori approfondimenti sul tema della transizione italiana si rinvia a U. DE SIERVO, La transizione costituzionale (1943-1946), in Diritto Pubblico, 1996; V. ONIDA, (a cura di), L'ordinamento costituzionale italiano dalla caduta del fascismo all'avvento della Costituzione repubblicana, 1991; A. SACCOMANNO, La transizione italiana: le costituzioni provvisorie, in L. GARLATI, T. VETTOR (a cura di), Il diritto di fronte all'infamia del diritto, cit., 397-414.
Per un quadro sulla riaffermazione dei diritti civili e politici nella neonata democrazia italiana si cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Torino, 2005
9 Come giustamente sottolinea Falconieri, la reintegrazione dei cittadini di fede ebraica nel pieno possesso dei diritti si iscrive «a pieno titolo nel percorso di rielaborazione e edificazione di una memoria condivisa che avrebbe dovuto
coinvolgere tanto le élites politiche e intellettuali quanto la popolazione italiana del dopoguerra». Cfr. S. FALCONIERI, Riparare e ricordare la legislazione antiebraica. La reviviscenza dell'istituto della discriminazione (1944-1950) in G. RESTA, V. ZENO-ZENCOVICH, Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, cit., p. 141.
10 Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo venne nominato il liberale Carlo Sforza. Ad esso si affiancarono il comunista Mauro Scoccimarro (epurazione nella Pubblica Amministrazione), il liberal-democratico Stangone (sequestro delle proprietà fasciste), il democristiano Cingolani (illeciti profitti del regime) e Mario Berlinguer del Partito Demo-laburista (persecuzione dei crimini fascisti). Le quattro commissioni per l'epurazione furono istituite,
invece, con d.lg.lgt. 198/1944 e 238/44. Per l'intera ricostruzione del processo di epurazione in Italia si rinvia ai dettagliati e completi: A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., 2012, pp. 72-92; P. BARILE., U. DE SIERVO, Sanzioni contro il fascismo e il neofascismo, in Novissimo digesto italiano, Torino, 1969, pp. 541-564 e in sede storiografica a H. WOLLER, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia (1943-1946), Bologna, 1997, C. PAVONE, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in AA. VV., Italia 1945-1948. Le origini della Repubblica, Torino, 1974 e M. FLORES, L'epurazione, in L'Italia dalla liberazione alla Repubblica. Atti del Convegno internazionale organizzato a Firenze il 26-28 marzo 1976 con il concorso della Regione Toscana, Milano, 1977, pp. 413-467, infine M. SALVATI, Amnistia e amnesia nell'Italia del 1946, in M. FLORES, Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Milano, 2001, pp. 141-161.
11 L'art. 8 del d.lg.lgt. 159/1944 prevedeva all'ultimo comma la decadenza dalla loro carica vitalizia per i senatori che «con i loro voti o atti contribuirono al mantenimento del regime fascista ed a rendere possibile la guerra». Furono deferiti all'Alta Corte di giustizia 394 senatori su 408, di questi 275 furono dichiarati decaduti dalla carica. I senatori sanzionati appellandosi alla Corte di Cassazione (che riconobbe l'assoluto difetto di giurisdizione dell'Alta Corte) riuscirono ad ottenere l'annullamento dei provvedimenti irrogati. Alla fine del processo di epurazione, solo 51 furono dichiarati decaduti. Su questi punti si rinvia ancora a A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., 82.
12 Il giudizio sull'epurazione in Italia da parte della storiografia tradizionale è stato nel complesso negativo. Secondo la terminologia più corrente esso è stato definito una «farsa legale», un processo al termine del quale le élite fasciste mantennero le funzioni pubbliche tradizionali. Tale valutazione, seppur in sostanza non inveritiera, è stata però rivisitata e sfumata negli ultimi anni da magistrati come Canosa e storici come Woller, Minetti e Argenio. A parere di questi ultimi, infatti, gli sforzi per realizzare un'effettiva epurazione vi furono ed anche considerevoli. Ad una prima intensa attività delle commissioni seguì, però, un esito deludente causato dall'adozione dell'amnistia e da un'opera di interpretazione salvifica degli ex fascisti da parte della magistratura. Per un'interpretazione tradizionale del processo di epurazione si rinvia a Z. ALGARDI, Processi ai fascisti, Firenze, 1973, per le più recenti interpretazioni si veda ancora H. WOLLER, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia (1943-1946), cit.
13 La magistratura, come qualsiasi altro potere dello Stato aveva subito nel corso del ventennio una significativa opera di fascistizzazione, che si era compiuta per gradi attraverso il progressivo allontanamento degli elementi togati non allineati al regime. Nel 1925 i giudici ostili alla dittatura furono dispensati dal servizio e l'Associazione generale magistrati sciolta di diritto. I vecchi togati furono rimpiazzati con elementi più favorevoli alla dittatura, mentre i più giovani furono crebbero in un clima che finì per plasmarli completamente alle direttive del duce. Il fascismo creò anche una singolare commistione tra apparato politico-amministrativo dello Stato e funzione giudicante: il Procuratore del Re divenne, infatti, membro delle commissioni per la disposizione del confino politico ai cittadini accusati di antifascismo. Come ha sottolineato Franzinelli, infine, «molti magistrati andarono molto in discesa sul versante dell'autorità, in parte per fanatismo o per senilismo, ma soprattutto per la troppo facile convinzione che la legalità corrispondesse all'autorità: chi aveva a cuore la legalità doveva favorire l'autorità, senza star troppo a sottilizzare la qualità e la legittimazione sostanziale di chi rappresentava l'autorità». La completa fascistizzazione della magistratura trovò conferma in ogni caso nella legge sull'ordinamento giudiziario deliberata nel 1941, con cui si riservò l'accesso ai ruoli requirenti e giudicanti ai cittadini di «razza italiana», di sesso maschile, iscritti al Partito nazionale fascista.
Mirko Della Malva, Diritto e memoria storica nell'esperienza giuridica comparata: il difficile bilanciamento tra tutela della dignità delle vittime, libertà di manifestazione del pensiero, protezione della democrazia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2013-2014

domenica 23 luglio 2023

Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill


Mentre gli eserciti alleati risalivano la penisola italiana, gli inglesi approfittando della situazione della resa italiana, stavano studiando uno sbarco in Istria, per dare la possibilità di effettuare operazioni militari attraverso la regione e la provincia di Lubiana in direzione dell'Europa centrale. Lo sbarco avrebbe avuto non solo conseguenze militari importanti, ma anche in ambito politico, e proprio per questo motivo rappresentava un problema, perché uno sbarco in quella parte della penisola dove viveva la gran parte della minoranza italiana, poteva provocare un peggioramento delle relazioni politiche, rendendo più difficili e sfavorevoli i rapporti e i problemi ancora irrisolti fra gli jugoslavi e gli italiani dell'Istria. Inoltre, lo sbarco venne respinto da Stalin e da Roosevelt alla conferenza di Teheran, perché ritenuto di poca importanza militare, giustificando la bocciatura classificando l'operazione di scarso valore militare, nascondendo le loro preoccupazioni politiche: gli americani consideravano la zona dei Balcani e il fronte italiano era considerato un fronte secondario, a differenza della Francia, mentre per i sovietici l'obiettivo, oltre a Berlino, era anche la presa di Vienna. <14
Mentre per la resistenza slovena e croata, la notizia dell'armistizio italiano, rappresentò una sorta di miracolo: perché da una parte i soldati italiani abbandonarono le caserme, lasciando l'Istria e la provincia di Lubiana sguarnite senza dare una presenza militare seria, permettendo così l'inizio della vendetta degli slavi contro i responsabili fascisti, che si macchiarono del tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia, durante il ventennio fascista, e delle violenze perpetuate dall'esercito italiano nei Balcani durante la guerra, ad esempio la circolare 3C del generale Mario Roatta <15: questa vendetta, verrà ricordata come i massacri delle foibe. In più da quella data le forze partigiane ampliarono il loro raggio delle operazioni militari, considerando che vennero abbandonate migliaia di armi, veicoli blindati e pezzi d'artiglieria italiani, riutilizzate dalle forze partigiane (secondo quanto detto dal generale cetnico Draza Mihajlović). Oltre al materiale bellico abbandonato, diversi reparti italiani si unirono ai partigiani jugoslavi, che subito diedero un contributo significativo nella battaglia di Turjak, contro i nazionalisti sloveni. Questi reparti si unirono alla resistenza, a seguito delle voci, fatte circolare dai titini, di uno sbarco alleato in Istria, che in realtà non ci sarebbe stato, e chiesero agli italiani in zona di unirsi alle forze partigiane e di affrontare il nemico comune, i tedeschi. <16
L'OF, “Osvobodilna fronta”, in sloveno fronte di liberazione, a seguito dell'ampliamento delle loro operazioni, divulgarono, tramite una commissione composta da diversi geografi, militari, politici e storici, teorie nazionalistiche tra la popolazione slava dell'Istria, dichiarando che i territori italiani, dall'Istria fino al fiume Tagliamento, erano territori storicamente appartenuti ai croati e agli sloveni, strappati dagli italiani dopo la Prima guerra mondiale. Queste rivendicazioni non  avevano solo motivi ideologici, ma anche strategici, nel senso che, dopo la sconfitta del nazi-fascismo, in previsione di un nuovo conflitto in Europa, la regione avrebbe svolto un ruolo cruciale per la difesa dello stato Jugoslavo. <17
Il Foreign Office aveva scoperto che se gli alleati avessero continuato a supportare militarmente sia le forze cetniche del governo jugoslavo in esilio a Londra, che le forze comuniste guidate da Tito, avrebbero creato due stati jugoslavi separati tra loro, provocando così una guerra civile, come avverrà nel caso della Grecia nel 1946. Pertanto, gli alleati da una parte avevano dei dubbi sulle forze cetniche guidate da Mihajlović, sospettando che collaborasse con le forze dell'Asse, ipotesi all'epoca falsa, ma che si rivelerà esatta in futuro a causa dell'abbandono del supporto degli inglesi a partire nel 1944. Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill usando la propaganda internazionale, dichiarando che il movimento comunista era l'unico che poteva fronteggiare i tedeschi e che godeva del pieno appoggio del popolo jugoslavo, anche se in realtà in quel momento, i titini non controllavano il Montenegro e la Serbia (roccaforte dei cetnici). <18
Il 28 novembre 1943, si tenne la conferenza di Teheran, per decidere sulle prossime operazioni alleate in Francia, sul fronte occidentale e sulla questione balcanica. Churchill e Stalin volevano che le forze jugoslave unissero le forze sotto un unico comando, per combattere contro i tedeschi. Secondo Churchill per cercare di trovare una tregua tra le forze partigiane, i cetnici dovevano unirsi sotto il comando di Tito e il re Pietro II doveva abdicare in favore delle forze comuniste. Stalin invece, dopo la conferenza, sollecitò i comunisti jugoslavi a prendere contatto con il governo in esilio di Šubasic, poiché l'AVNOJ (Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije - Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia) aveva stabilito che il re Pietro II non poteva più ritornare in patria, poiché ritenuto un traditore <19. Inoltre raccomandò ai comunisti jugoslavi di muoversi con discrezione per evitare di suscitare sospetti tra gli alleati sul nascere di un nuovo stato comunista nei Balcani. <20
Il 12 settembre 1944 re Pietro II, sotto la pressione di Churchill, esortò i serbi, croati e sloveni a riconoscere il nuovo governo sotto la guida di Tito. Il primo ministro inglese, dopo gli accordi, temeva che, non appena fosse arrivata l'Armata Rossa ai confini della Serbia, i sovietici avrebbero instaurato un regime comunista sotto la guida di Tito, per cui sospese i rifornimenti ai cetnici, nonostante la promessa di Mihajlović di continuare a combattere i tedeschi, e li indirizzò ai titini. Per questo motivo, chiese a Tito di incontrare il re per formare un nuovo governo in Jugoslavia per decidere quale sarebbe stato il nuovo sistema politico in Jugoslavia, ma Tito evitò l'incontro con il re, assicurando a Churchill che il suo sistema politico non sarebbe stato di stampo comunista. <21
Per cui, con le dimissioni del re, e con l'avanzata dell'Armata Rossa in Bulgaria e in Romania (che avevano firmato un armistizio con le forze sovietiche), Tito viaggiò segretamente in aereo, all'insaputa degli inglesi, per arrivare a Mosca per chiedere aiuti militari a Stalin e addestrare le sue truppe in modo da poter combattere efficacemente i tedeschi e cacciarli dalla Jugoslavia. Stalin approvò la richiesta <22, e il 20 ottobre 1944 l'Armata Rossa lanciò la sua terza offensiva verso l'Ungheria. In seguito divisioni sovietiche si riversarono su Belgrado e insieme alle forze titine la liberarono. Questa offensiva, l'offensiva di Belgrado, permise a Tito di stabilire il suo quartier generale nella capitale, diventando così il nuovo capo della Serbia, che insieme agli accordi diplomatici, già descritti, furono il suo primo grande successo in campo internazionale. <23 Tuttavia rimaneva la questione irrisolta della Venezia Giulia occupata.
[NOTE]
14 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
15 Rossi-Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, 2011, pp. 59-60
16 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
17 Pupo. Trieste '45. p. 42
18 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
19 Diego de Castro. Vol 1. p. 156
20 Novak, p. 96
21 Novak, pp. 97-99, ma non lo menzionò nei suoi discorsi politici al pubblico.
22 Consultare B. B. Dimitrijević and D. Savić (2011) Oklopne jedinice na Jugoslovenskom ratištu 1941-1945, Institut za savremenu istoriju, Beograd 23 Novak, p. 99
Matteo Boggian, La questione triestina 1945-1954, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2020-2021 

La crescente iniziativa dei partigiani dell'esercito di liberazione nazionale guidato da Tito e la sanguinosa guerra nazionale e civile delle diverse fazioni politiche attive in Jugoslavia, impegnate in una lotta senza quartiere al fianco o contro le forze di occupazione al fine di garantirsi una posizione di forza favorevole alla fine del conflitto, costrinsero Mussolini a dichiarare la Dalmazia, assieme al Montenegro, alla Slovenia e ai territori croati e bosniaci occupati, “zona di operazioniˮ. <187
In Dalmazia queste misure determinarono in primo luogo una selvaggia competizione per il potere tra il governatore Giuseppe Bastianini ed il generale Quirino Armellini, comandante del XVIII Corpo d'armata che si concluse a favore del primo. L'occupazione della Slovenia ebbe implicazioni cariche di conseguenze sulle sorti dei territori di confine: nella provincia di Lubiana il fascismo perseguì in un primo tempo una politica di moderazione nei confronti della popolazione civile.
Questa politica si differenziava notevolmente dalla prassi di germanizzazione violenta messa in atto dai tedeschi nella Slovenia settentrionale, in seguito alla quale circa 21.000 sloveni provenienti dalla zona di occupazione germanica si erano rifugiati nella zona italiana. Questi fatti suscitarono notevoli malumori da parte degli occupanti tedeschi della parte settentrionale della Slovenia, che dal canto loro andavano attuando un programma complessivo di germanizzazione delle aree adiacenti al confine austriaco attraverso deportazioni di massa della popolazione slovena. L'Italia venne accusata in tale frangente di aver favorito il formarsi a Lubiana del centro dell'irredentismo sloveno <188.
Lo stesso Mussolini in un primo tempo non intendeva procedere all'italianizzazione forzata della provincia: «Inizialmente le cose parvero procedere nel modo migliore. La popolazione considera il minore dei mali il fatto di essere sotto la bandiera italiana. Fu dato alla provincia uno statuto, poiché non consideriamo territorio nazionale quanto è oltre il crinale delle Alpi, salvo casi di carattere eccezionale» <189.
[...] Rispetto alla condizione in cui versava il paese, la situazione che venne a crearsi nell'area di confine fu ben diversa: qui andò dissolvendosi ogni simulacro di presenza statuale italiana; l'8 settembre non significò solo, nella Venezia Giulia, lo sbandamento di massa dell'esercito, ma anche la scomparsa delle articolazioni dello Stato italiano, cosicché il carattere di cesura vi si presentò in forme assai più accentuate che nel resto d'Italia <231 .
La firma dell'armistizio provocò un'accelerazione dei processi che erano andati delineandosi già a partire dal 1942, quando l'attività partigiana aveva trasformato la parte orientale del territorio in zona di guerra: i numerosi episodi di aggressione e disarmo di gruppi di soldati da parte di unità partigiane e le preoccupate reazioni degli alti comandi rappresentano infatti un indicatore dello stato di demoralizzazione delle truppe e delle conseguenze che avrebbero potuto sortirne. In seguito alla diffusione della notizia della firma dell'armistizio, varie unità si lasciarono sopraffare da contadini croati disarmati. Ad Albona, 1200 soldati si arresero a 30 croati, tra le quali diverse donne, mentre a Pisino circa 1000 effettivi si sbandavano, dopo aver abbandonato un armamentario composto da pezzi di artiglieria, mitragliatrici e mortai <232. Altri soldati si arresero nel villaggio dell'Istria interna di Pinguente, nella provincia di Lubiana, a Trieste, a Fiume e a Pola. A Gorizia si verificò invece un tentativo di resistenza e di cooperazione con le unità partigiane che circondavano la città: gli operai dei cantieri di Monfalcone, rifornitisi di armi raccogliticce, organizzarono la divisione Proletaria, che si oppose assieme ai partigiani sloveni all'avanzata tedesca; la maggioranza dei soldati che si arrendevano vennero internati in Germania, contro le precedenti assicurazioni dei comandi tedeschi. In Istria le cose andarono diversamente: qui ebbero luogo diverse sollevazioni, sia nei centri italiani sia in quelli croati; Giovanni Paladin, nel suo La lotta clandestina di Trieste, ricostruisce nei termini seguenti il passaggio dei poteri in Istria: «I partiti politici italiani non esistevano, la vecchia classe dirigente era scomparsa da lungo tempo, gli italiani dell'Istria, pur essendo in maggioranza, non disponevano più alcuna istituzione autonoma intorno alla quale raccogliersi e resistere. La disgregazione morale e politica aveva dissociato tutti i gangli vitali della comunità italiana dell'Istria. […] Nel vuoto lasciato libero, prima dal fascismo e poi dalle autorità civili e militari, si precipitarono dopo l'8 settembre i nuclei partigiani slavi, instaurando l'ordine nuovo per mezzo dei cosiddetti «poteri popolari» senza incontrare resistenza alcuna da parte degli italiani dell' Istria. La Venezia Giulia era diventata terra di nessuno…[…]. Quel giorno finiva di fatto la sovranità italiana sull'Istria e incominciava la dominazione balcanica che sovvertiva da cima a fondo l'ordine costituito <233».
Il 13 settembre 1943 si riunì a Pisino un'assemblea del neoistituito Comitato popolare di liberazione, composto da una trentina di quadri: il Comitato proclamava l'unione dell'Istria alla «madrepatria croata»; in seguito una più ampia assemblea, a cui parteciparono anche numerosi italiani, ratificò queste decisioni. Il 20 settembre, il Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia (Zavnoh), emise un decreto che dichiarava decaduti tutti i trattati e le convenzioni stipulate con l'Italia. L'Istria, la Dalmazia e le isole erano annesse ipso facto alla Croazia <234. Il proclama di Pisino era stato preceduto da numerose sommosse locali, in cui una prima rudimentale ossatura di contropotere partigiano, integrata poi da quadri comunisti provenienti dalla Croazia, aveva provveduto a disarmare le guarnigioni e le forze di polizia italiana, insediando i nuovi poteri e rafforzando le fila partigiane.
[NOTE]
187 M. Cantaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 216.
231 M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 241.
232 Ivi, p. 241 ss.
233 G. Paladin, La lotta clandestina di Trieste. Nelle drammatiche vicende del CLN della Venezia Giulia, Del Bianco, Udine 1960, p.74.
234 M. Pacor, Confine orientale. Questione nazionale e Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, cit., p. 211.

Margherita Sulas, Il confine orientale italiano tra contesto internazionale e lotta politica: 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2013

venerdì 30 dicembre 2022

Nei confronti dell'Italia il polo di rigidità era in Washington, piuttosto che Londra


Il 26 settembre 1944, a margine della seconda conferenza di Quebec, i leader anglo-americani concordavano una dichiarazione programmatica che prometteva l’avvio di una nuova fase nelle relazioni tra gli Alleati e l’Italia, in conseguenza delle dimostrazioni di parziale affidabilità offerte da quest’ultima dopo aver combattuto al fianco delle forze antifasciste e partecipato attivamente alla rinascita di una parvenza di sistema democratico rappresentata dal governo di coalizione insediatosi in giugno nella capitale liberata <603. Le potenze occupanti, dunque, stabilivano che una «increasing measure of control will be gradually handed over to the Italian administration» mediante il ripristino di normali relazioni diplomatiche e un progressivo ridimensionamento delle funzioni e delle ingerenze dell’ACC nella vita istituzionale italiana, simboleggiato dalla nuova denominazione di Allied Commission (AC) <604.
L’impressione che una maggiore attenzione all’elemento liberale della politica alleata per l’Italia provenisse dal versante americano dell’alleanza era diffusa tra i contemporanei e confermata in sede storiografica. Nella versione tradizionale, il cambio direzionale operato dagli anglo-americani nella penisola era da ascriversi interamente o quasi all’atteggiamento progressista e amichevole manifestatosi tra le fila americane con maggiore evidenza sin dal gennaio 1944 quando, come si è raccontato nel capitolo precedente, la politica di non intervento preferita dagli statunitensi prendeva la forma di una agevolazione della formazione di un gabinetto marcatamente antifascista e dell’estromissione della figura del monarca dalla scena pubblica italiana. La storiografia, fosse questa di matrice britannica, americana o italiana, ha sottolineato quanto americani e inglesi avessero affrontato la sconfitta dell’Italia e le responsabilità che ne erano seguite con prospettive alquanto differenti, tratteggiando una contrapposizione di fondo tra una Washington interessata alla ricostruzione democratica dell’Italia e una Londra dedita alla conservazione dei propri interessi regionali, per la quale un’Italia debole risultava un fattore indispensabile. Se per gli americani la concentrazione militare nella penisola era stata prevalentemente una tappa nella guerra contro la Germania, «a defeat administered more in sorrow that in anger», per gli inglesi l’eliminazione del nemico mediterraneo, cercata con una determinazione vicina all’ossessione per l’intera durata del conflitto anglo-italiano, costituiva un traguardo a conclusione di un lungo periodo di confusione politica e ansie strategiche, «the elimination of a local rival who had come dangerously close to making good his boasts» <605. Uno tra i maggiori storici dell’occupazione, David Ellwood, sosteneva che il rifiuto britannico di prendere atto del drastico mutamento nella reale consistenza della minaccia rappresentata dagli italiani nel Mediterraneo ora che lo status di potenza era stato annientato da una doppia occupazione aveva portato Londra all’incapacità di definire «in any precise, non-arbitrary way a positive role for Italy in a post-war international system» <606. Secondo Varsori, il fallimento della linea conciliatoria britannica era dovuto alla constatazione della relativa inutilità dell’apporto fornito dalla macchina amministrativa e militare brindisina allo sforzo alleato, che aveva fatto svanire la disponibilità londinese a compiere concessioni modulate sul principio del “payment by results”. Nella delusione provocata dallo scontro dei progetti britannici con la sconfortante realtà del governo provvisorio in fuga da Roma, «i motivi, già emersi in precedenza, che giustificavano un atteggiamento duro verso l’Italia, ripresero il sopravvento» <607.
La differenza sostanziale, insomma, stava nell’importanza che si dava, nelle due capitali alleate, alla lettera dell’armistizio e alle azioni compiute dal governo italiano nelle fasi successive al cambio di campo. Gli inglesi, in una accurata descrizione del loro stato d’animo tracciata dal Dipartimento di Stato, consideravano quella italiana una nazione sconfitta che si era arresa senza condizioni, facendovi riferimento come ad un nemico e insistendo su una rigida applicazione dello strumento di resa, mentre dall’altra parte dell’Atlantico si era preso con serietà lo status della cobelligeranza, traendo le conseguenze dovute dalla cessazione de facto dello stato di guerra tra i due paesi <608. Al forte supporto fornito dagli americani al recupero dell’Italia, rifletteva Gat, faceva da contrappeso la rigidità britannica che, volendo mostrare al mondo che una politica di aggressione non avrebbe pagato, «was not willing to forget Italy’s deeds during three years of war» <609. L’approccio americano, in sostanza, come evidenziano le conclusioni cui giunge lo storico Buchanan, sembrava offrire un’alternativa allo spirito punitivo patrocinato dagli inglesi: «America’s paternalistic intervention in Italian politics had a fundamentally redemptive rather than punitive thrust»; laddove Londra minacciava, Washington offriva speranza <610.
La percezione condivisa da protagonisti e storici aveva raggiunto anche gli ambienti italiani, dove si credeva che gli inglesi, in particolar modo il Foreign Office di Eden, «tenderebbero a mantenere un’Italia debole, che non pensi e non possa dar ulteriori fastidi nel Mediterraneo», mentre gli americani sarebbero invece convinti «della necessità di un’Italia forte che possa riprendere in Europa la sua missione di civiltà e dunque il suo posto, che non può in nessun caso che essere quello di una potenza dirigente»611. Da parte italiana si tendeva a denunciare lo spostamento semantico operato da Churchill, sempre più portato ad addossare alla popolazione italiana la colpa delle condizioni drammatiche nelle quali questa si trovava a vivere, quando invece, in diverse occasioni precedenti, aveva enfatizzato come la responsabilità della guerra italiana fosse da attribuire esclusivamente alle azioni di Mussolini <612.
In sede di analisi conclusiva si possono discutere le possibili accezioni e sfaccettature che la mitezza attribuita alla politica sviluppata in Italia dagli americani a partire dal 1944 poteva assumere, ma l’insistenza sulla natura diretta del controllo da imporre nei territori occupati e il netto rifiuto di una collaborazione con le autorità italiane nella gestione dell’amministrazione che avevano caratterizzato la posizione americana nel periodo precedente al luglio 1943 erano segnali inconfondibili a dimostrazione di un’alleanza che aveva, quantomeno nelle sue fasi iniziali, il suo polo di rigidità in Washington, piuttosto che Londra. Il fatto che a partire dai primi mesi del 1944 le posizioni si fossero soltanto in parte invertite non giustifica la convinzione, piuttosto diffusa, come si accennava, che ad un atteggiamento morbido scelto dagli americani se ne contrapponesse uno duro da parte degli inglesi. La critica alla condotta britannica nel trattamento riservato all’Italia occupata faceva il paio con quella riguardante la strategia mediterranea tradizionalmente articolata in modo esclusivo e autonomo dagli inglesi che tendeva ad escludere dal ragionamento l’attiva collaborazione americana alla definizione di un progetto a lungo termine, anch’essa determinata da interessi e considerazioni strategiche che, seppur diversi da quelli inglesi, rispondevano comunque ad esigenze di carattere nazionale <613. La strategia alleata per l’Europa occupata non era certamente frutto di una elaborazione solitaria compiuta da Londra: Washington aveva iniziato a contribuire ben prima del 1944, riuscendo in più occasioni ad intervenire con l’intento di arginare l’incontinenza strategica mostrata dagli alleati. Con lo sguardo volto agli sviluppi futuri, le posizioni erano destinate a ribaltarsi ancora una volta: gli inglesi mostravano sì un intento punitivo nei confronti dell’Italia, una necessità geopolitica di neutralizzare il pericolo italiano nel Mediterraneo britannico, ma, almeno a detta degli stessi protagonisti della politica londinese in diverse occasioni, l’Italia non rientrava nei piani postbellici inglesi né era considerata una pedina fondamentale nella scacchiera strategica britannica <614. Londra aveva convinto l’alleato d’oltreoceano a partecipare attivamente alla gestione del Mediterraneo e aveva incentivato lo sviluppo di una presenza militare ed economica americana in Italia; l’emergere di particolari interessi nella regione aveva definitivamente legato Washington all’Italia e coinvolto gli americani nella conduzione degli affari locali.
Che il governo inglese avesse mantenuto una posizione a tratti ostile nei confronti del nemico finalmente sconfitto e riportato alla sua condizione di potenza minore è fuor di dubbio. Tra l’aprile e il maggio 1944, quando nelle capitali alleate si discuteva della richiesta riguardante la revisione dello status italiano avanzata da Badoglio, la politica londinese si opponeva con fermezza all’innalzamento della cobelligeranza in alleanza, mostrando scarso interesse ad incoraggiare «too rapidly a marked tendency in her part to forget altogether her position as a defeated enemy or to claim privileges of an ally at the expense of an armistice». Nella visione inglese, quanto più abbondanti le concessioni fatte nel momento di minore capacità italiana, tanto più difficile sarebbe stato imporre le sanzioni desiderate una volta liberata la penisola dalla presenza tedesca <615. Il Foreign Office in particolare non era pronto a intaccare le fondamenta delle relazioni intrattenute con gli italiani e metteva in guardia il War Cabinet dal rischio di essere indotti a fare sempre nuove concessioni dietro la minaccia di una caduta del governo qualora queste non fossero state soddisfatte. Accanto ad un incontrovertibile elemento di verità, secondo l’interpretazione che se ne dava a Londra, nelle lamentele italiane si trovava anche «an unpleasant flavor of blackmail». La linea da adottare, dunque, doveva consistere in un netto rifiuto «even to consider the question of giving Italy Allied status during the war», e subordinare il miglioramento delle condizioni armistiziali al soddisfacimento delle richieste alleate <616. Gli italiani, d’altra parte, secondo la visione condivisa da larghe parti dello schieramento britannico, dovevano considerarsi fortunati ad aver ricevuto la grazia di una permanenza in posizioni di responsabilità governative e amministrative e Londra «shall be very lucky if we never have anything worse than the present Italian government to deal with» <617.
A seguito del rovesciamento di Badoglio in giugno, il fastidio per le macchinazioni degli italiani portava a rigurgiti di quel risentimento che aveva contraddistinto alcune delle reazioni britanniche all’ingresso in guerra dell’Italia. Riflettendo sulla ambigua realtà della resa incondizionata nella sua applicazione al caso italiano, Churchill si chiedeva «whether it was they who had unconditionally surrendered to us or whether we were about unconditionally to surrender to them», richiamando il trattamento di favore riservato agli italiani e il mancato intervento alleato nelle evoluzioni del quadro politico del paese occupato <618. In aggiunta, gli eventi del marzo, con l’avvicinamento sovietico al governo italiano, determinavano un duplice effetto che, spinto dalla paura per la perdita della posizione di predominio nella regione, istigava da una parte una politica di concessioni che motivasse l’Italia a rimanere nella sfera d’influenza anglo-americana, e dall’altra restringesse ulteriormente la morsa del controllo alleato per evitare che si lasciasse libero il governo italiano di passare volontariamente sotto la protezione dell’alleato/nemico sovietico. Pur riconoscendo l’importanza in prospettiva futura di avere un’Italia con la quale poter collaborare in armonia per il mantenimento di un Mediterraneo prospero e pacifico, il Foreign Office era convinto della necessità imperativa di rifiutare «the Italian threat that if we do not go fast enough in transforming Italy from a defeated enemy into a new-made ally, she will at once go Communist and throw herself into the arms of the Soviet government» <619. In considerazione del turbolento passato recente condiviso con l’Italia, gli inglesi intendevano combinare i piani strategico e geopolitico in una politica che impedisse la ricostituzione di una Italia «with an exaggerated sense of her own strength, for that leads to trouble» <620, sviluppando una strategia che indebolisse il paese «so as to deprive her of the capacity for future aggression, while leaving her sufficient power to check the spread of communism» <621.
La situazione sembrava abbastanza chiara. Gli inglesi intendevano tenere a bada le aspirazioni italiane intervenendo con una politica repressiva che rendesse improbabile, se non impossibile, una riemersione dell’imperialismo mediterraneo fascista. Qualche dubbio sulla monoliticità del giudizio generalmente espresso, tuttavia, rimane. L’ostilità manifestata da Londra in diverse occasioni e in particolare nel periodo successivo alla perdita del punto di riferimento rappresentato da Badoglio era essa stessa espressione di valutazioni non unanimemente condivise da tutti gli agenti politici e militari britannici, o comunque figlia di un lungo periodo di inimicizia avviato da una decisione unilaterale italiana che, come si è visto, gli inglesi avevano tentato in ogni modo di scongiurare. Accanto alla fazione capeggiata da Eden, tendenzialmente contraria al riconoscimento di privilegi e scorciatoie agli italiani, ancora ritenuti nemici tout court, nella politica britannica per l’Italia vi era una seconda anima, moderata e pragmatica, che, prendendo atto della precaria posizione inglese nella regione e dell’effettivo rischio di perdere il controllo della situazione italiana in mancanza di gesti concreti in aiuto della popolazione e delle forze liberali, guidava Londra in direzione di un controllo meno duro, partecipando in maniera decisiva alla costruzione di una politica che, nel giro di pochi mesi, si sarebbe rivelata vincente, culminando nell’enunciazione di una nuova direzione alleata in Italia.
I primi segnali di ammorbidimento venivano inviati da Londra già in occasione della pianificazione per la commissione di controllo nelle settimane immediatamente successive all’imposizione dei termini di resa. Con gli sviluppi post-armistiziali, la concezione britannica del controllo sul governo italiano cambiava radicalmente, in considerazione del fatto che l’Italia non aveva passivamente accettato la capitolazione, ma si era offerta di cambiare campo. Il 7 settembre, ancor prima dell’annuncio ufficiale, Churchill mostrava un atteggiamento assai più accomodante di quanto fatto in precedenza riflettendo sul fatto che le guerre non si vincessero «in order simply to pay off old scores but rather to make beneficial arrangements for the future» <622. Un mese più tardi, il Foreign Office, proponendo una mitigazione delle clausole armistiziali sulla base dei servizi resi dagli italiani nella lotta contro il nemico comune, riteneva la rigida struttura della commissione di controllo inadeguata alle esigenze di promozione di una massima collaborazione con gli italiani, anche nel contesto dell’occupazione militare <623.
Il terreno di coltura di questa nuova politica consisteva, oltre che delle considerazioni strategiche tornate all’attenzione dei leader britannici con la penetrazione sovietica e il sorpasso subito dagli americani in Italia, delle precarie condizioni in cui il governo italiano si trovava ad operare e la popolazione civile a vivere. Una serie di rapporti provenienti dai territori occupati ricordavano ai policy-maker britannici che la situazione istituzionale dell’Italia alleata era ancora tutt’altro che stabile. Nonostante la mancata esecuzione di diverse clausole e il processo di costante rafforzamento della macchina amministrativa italiana, ragionava il Foreign Office, «the Italian government are still not masters in their own house» ed era in ultima istanza costretto ad uniformarsi agli ordini esecutivi del Comandante Supremo, oltreché a dovere la propria sopravvivenza economica alla carità dei governi anglo-americani <624. Lo scontento italiano derivava anche e soprattutto, stando all’analisi di Caccia da Brindisi, dal visibile distacco creatosi tra la propaganda effettuata dagli Alleati in Italia nel periodo pre-armistiziale, con la promessa di un trattamento giusto ed equo, e il trattamento imposto dopo l’8 settembre, segnato da un atteggiamento scarsamente conciliante nei confronti delle richieste e delle esigenze italiane <625. In gennaio, Macmillan denunciava un certo dualismo nella politica adottata dagli inglesi verso il governo italiano che rendeva difficili consistenti progressi e invitava di conseguenza Londra a svolgere un ruolo costruttivo che evitasse di affiancare al rafforzamento di Badoglio e del suo governo la tendenza «to deal him fresh blows», sperando che la ricezione della nuova entità governativa italiana presso le opinioni pubbliche e i governi alleati fosse determinata dall’osservazione della sua performance presente tanto quanto dal ricordo dei suoi misfatti passati. Ricorrendo ad una analogia religiosa, il Resmin, pur valorizzando la funzione di confessione e penitenza nella conversione di un peccatore, riteneva sbagliato «to refuse absolution altogether, however tactfully» e, riferendosi al rifiuto opposto dal Foreign Office all’inclusione dell’Italia nella Carta Atlantica, commentava che se Paolo di Tarso avesse adottato un atteggiamento analogo nei confronti dei gentili, «Christianity would have remained a small Jewish sect» <626. Le contraddizioni presenti nella produzione politica britannica nel contesto dell’occupazione italiana erano inconciliabili con gli obiettivi che questa stessa politica si prefiggeva: talvolta si consideravano gli italiani nemici, talaltre cobelligeranti; «sometimes we wish to punish them for their sins; sometimes to appear as rescuers and guardian angels. It beats me» <627.
Il riconoscimento dei limiti della politica restrittiva britannica, considerata parzialmente responsabile degli aspetti più negativi della situazione italiana, generava una istanza di rinnovamento che veniva portata avanti dai tre uomini inviati da Londra ad operare a stretto contatto con gli italiani, Caccia, Macmillan e, ad uno stadio più avanzato delle relazioni, Charles. La prima concreta proposta di allentamento dei legacci armistiziali giungeva nel marzo 1944 sotto forma di una lunga riflessione sulle complicazioni imposte dall’esistenza di un doppio armistizio in Italia sviluppata da Caccia con la collaborazione del collega americano Reber. Le difficoltà esperite dal governo italiano erano da imputare in gran parte al fatto che i termini di resa erano stati preparati con tanto anticipo «that it bore little relation to the conditions of the Italian capitulation and Allied requirements thereafter». La reale applicazione delle clausole si limitava infatti ad una serie di articoli, approssimativamente la metà di quelli previsti dai long terms, che erano eseguiti al massimo delle potenzialità governative, che in quei mesi equivaleva ad un rinvio della piena esecuzione alla fine della guerra, quando l’intero territorio italiano sarebbe stato sottoposto al controllo dell’amministrazione italiana. La mancanza di una politica costruttiva che prevedesse quantomeno l’abolizione delle clausole in disuso, non rispondenti alla realtà militare e istituzionale dell’Italia occupata, era da considerarsi alla radice dell’iniziativa sovietica e soprattutto della felice ricezione di questa nel campo italiano. Come sottolineato dai due emissari anglo-americani, «if by accident or fortuitous circumstances our treatment of a conquered people grows severer, the result is the same as if this had been a considered policy» <628.
[NOTE]
603 La Second Quebec Conference aveva luogo, con il nome in codice Octagon, tra il 12 e il 16 settembre 1944 nella città di Quebec.
604 Il testo integrale della dichiarazione in FRUS, Conference at Quebec, 1944, Washington D.C., U.S. Government Printing Office, 1944, p. 494. L’assunzione della carica di ambasciatore da parte di Charles, già Alto Commissario britannico in Italia, sarà annunciata a Bonomi il 10 ottobre, mentre il rappresentante americano a Roma, Alexander Kirk, ne portava già il titolo; il governo italiano era contestualmente invitato a nominare propri rappresentanti presso le capitali alleate. Pur non essendo ancora possibile la ripresa delle normali relazioni diplomatiche tra i due paesi, veniva stabilito un contatto diretto con il governo italiano per le questioni riguardanti interessi politici tra Italia e Gran Bretagna, cfr. Charles a Bonomi, MAE, SG, vol. XXII.
605 Cit. Reitzel, The Mediterranean, p. 26.
606 Ellwood, Italy, 1943-45, cit., pp. 100-1.
607 Varsori, L’atteggiamento britannico verso l’Italia, cit., p. 156.
608 La posizione americana nel telegramma di Dunn a Offie, Office of US Political Adviser, del 14 febbraio 1945, riportato in Ellwood, Italy, 1943-45, p. 31.
609 Gat, Britain and Italy, 1943-49, cit., p. 89.
610 Cfr. Buchanan, “Good morning, Pupil!”, cit., p. 240.
611 Cit. l’appunto di Prunas del 29 settembre 1944 su un colloquio avuto con Kirk, in cui si riportava la convinzione di Kirk che durante le conversazioni di Quebec fossero affiorati in tutta la loro evidenza due atteggiamenti radicalmente diversi tra i due alleati circa l’Italia, MAE, AP, Stati Uniti, b. 89.
612 Il 6 settembre 1944, il quotidiano della comunità italiana negli Stati Uniti, Il Progresso Italo-Americano, pubblicava un editoriale dal titolo Italy and Churchill nel quale si denunciava l’inconsistenza della politica del Primo Ministro nei confronti dell’Italia. Nel saluto trasmesso agli italiani alla partenza dal suo viaggio nella penisola, Churchill aveva ricordato come gli italiani non potessero ritenersi immuni da biasimo per essersi lasciati governare per un ventennio dal regime fascista. Secondo il giornale, tuttavia, questa era una conclusione radicalmente diversa da quella presentata da Churchill nel messaggio del 23 dicembre 1940, quando si era proceduto a scindere il giudizio del popolo italiano dalle colpe del Duce. PREM 3/243/15. Altri riferimenti ad una politica britannica tendente a separare i mali del regime dalla popolazione italiana si trovano nei documenti riguardanti la definizione della propaganda politica da adottare in Italia prima dell’invasione, FO 898/163.
613 Per citare Leighton, lo stereotipo consolidato che voleva gli inglesi intenti a manovrare dietro le quinte per indebolire Overlord al fine di dare precedenza alle operazioni mediterranee per poi essere costretti, soltanto in extremis, ad allinearsi controvoglia alla posizione americana non era coerente con le indicazioni della documentazione anglo-americana, Leighton, Overlord Revisited, cit., p. 922.
614 In un discorso ai Comuni del 18 gennaio 1945, Churchill dichiarava che per il governo britannico non vi erano «political combinations in Europe or elsewhere in which we need Italy as a party», MAE, ADG, b. 48.
615 Si vedano il memorandum del Foreign Office del 20 aprile 1944, poi trasmesso a Washington il 24, FO 115/3604; e il telegramma di Churchill a Eden del 26 aprile, in cui si definiva un errore la prematura liberazione del governo italiano dai vincoli armistiziali, CAB 120/584.
616 Cit. la nota di Sargent dell’11 maggio, FO 371/43911. Sulla questione del rancore nutrito da Eden nei confronti dell’Italia, significativa la riflessione di Ellwood, secondo il quale il ministro inglese, «who apparently had not yet heard that Mussolini is dead and is no longer running Italy», era considerato dagli stessi suoi subordinati all’interno del ministero «most unreasonable on subject of Italy and indeed almost psychopathic», Ellwood, Italy, 1943-45, p. 208.
617 Cit. il messaggio di Churchill a Eden del 26 maggio 1944, CAB 120/584.
618 Il commento di Churchill è ripreso dal discorso del gennaio 1945 già citato.
619 Cit. il telegramma di Eden a Charles del 14 agosto 1944, FO 954. Cfr. anche quello di Churchill a Macmillan del giorno precedente, in cui si leggevano le perplessità del Primo Ministro circa la concessione intempestiva all’Italia di uno status che avrebbe affrancato le relazioni anglo-italiane dalle costrizioni dell’armistizio, CAB 120/584.
620 Cit. il Memo on British Long Term Interests in Italy preparato da Caccia e inviato il 26 ottobre 1944 da Charles al Foreign Office, FO 371/43915.
621 Gat, op. cit., p. 89.
622 La citazione nella lettera di Churchill a Eden e ai COS del 7 settembre 1943, PREM 3/245/7.
623 Cfr. la nota FO del 4 ottobre 1943, Relations with the Italian Government and Control Commission in Italy, FO 371/37310. Con questo suggerimento Whitehall non rinunciava alla creazione dell’ACC, ritenuta comunque necessaria alla supervisione del governo italiano, ma intendeva limitare l’insistenza su alcune clausole dell’armistizio che, nelle circostanze di quel periodo, risultavano inapplicabili (l’esempio evidenziato riguarda quella sul disarmo italiano mentre si tentava di formare divisioni italiane per combattere i tedeschi al fianco delle forze alleate).
624 Si veda la nota FO (Williams) del 21 novembre 1944, British Policy Towards Italy, FO 371/43916.
625 Cfr. il rapporto di Caccia al Foreign Office del 27 dicembre 1943, FO 371/43909.
626 24 gennaio 1944, Macmillan a Eden, PREM 3/243/8.
627 Il telegramma di Macmillan a Eden del 10 settembre 1944 è riportato in Ellwood, Italy, 1943-45, cit., p. 105.
628 Cfr. il memorandum inviato a Londra e Washington il 31 marzo 1944, in ACC, b. 959. Secondo Caccia e Reber, gli articoli 16, 25, 28, 29, 30, 33 e 34 dei long terms non erano mai stati eseguiti o in modo soltanto parziale; gli articoli 1-27 (con l’eccezione del 16) erano stati o continuavano ad essere eseguiti dal governo al massimo delle sue potenzialità, il che però significava che non sarebbero stati pienamente eseguiti fino a quando il governo italiano non avrebbe governato l’intero paese.
Marco Maria Aterrano, “The Garden Path”. Il dibattito interalleato e l’evoluzione della politica anglo-americana per l’Italia dalla strategia militare al controllo istituzionale, 1939-1945, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli Federico II, Anno Accademico 2012-2013