Pagine

Visualizzazione post con etichetta 1952. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta 1952. Mostra tutti i post

sabato 16 settembre 2023

A Hollywood ogni sceneggiatore scopriva subito una triste verità


Se nei film su Hollywood la star è di norma votata alla tragedia e all’autodistruzione, lo sceneggiatore è invece un personaggio spesso in balia della frustrazione artistica, del cinismo e perfino della paranoia. Lo dimostra il caso di Viale del tramonto, dove la vittima oggettiva della storia è senza dubbio Joe Gillis, lo screenwriter di terz’ordine freddato da alcuni colpi di pistola per mano della sua amante. Tuttavia, mai una volta durante il suo celebre resoconto post mortem Joe ci fa percepire in maniera melodrammatica l’ingiustizia della sua fine violenta, mentre mantiene intatto, fino all’ultimo, un atteggiamento di cinico distacco mescolato ad amarezza per il suo fallimento professionale. Del resto, per parafrase il titolo originale di un altro celebre film coevo a Viale del tramonto, In a Lonely Place (Il diritto di uccidere, 1950) di Nicholas Ray, gli sceneggiatori sembrano aver occupato un “posto solitario” all’interno dell’industria fin dai tempi in cui l’introduzione del sonoro rende necessaria la presenza costante a Hollywood di scrittori in grado di fornire sceneggiature filmabili provviste di dialogo.
Larry Ceplair e Steven Englund riassumono così le difficoltà esperite da tale categoria professionale: "A Hollywood ogni sceneggiatore - sia che stendesse le sue sceneggiature a Normandy negli uffici della Fox organizzati come un villaggio, o negli asettici e angusti locali della MGM, o nelle malconce ma comode stanze della Paramount […], o nella speciale versione del Château d’If allestita dalla Columbia - scopriva subito una triste verità e prima o poi si doveva abituare a vivere con essa: il rapporto di cui doveva tener conto non era quello tra lui, sceneggiatore, e il pubblico che andava a vedere il film, bensì tra lui e il produttore. […]. Gli scrittori erano sì incoraggiati a presentare soggetti originali ma la forma mentis dei produttori era così rigida che solo raramente uno sceneggiatore riusciva a “piazzare” più di cinque o sei soggetti originali nell’arco della sua carriera. […]. Tutto dunque ruotava sul rapporto tra lo scrittore e il suo produttore. L’impressione era che, dovunque lo sceneggiatore vagasse nel labirinto hollywoodiano, saltava fuori il produttore a sbarrargli il cammino. Era lui che si doveva affrontare e soddisfare. Perciò lo scrittore doveva imparare subito che quel che contava era l’idea che il produttore, e non lui personalmente, aveva di una buona sceneggiatura" <117.
Sebbene i film autoreferenziali spesso denuncino una deliberata assenza di verosimiglianza nel descrivere il lavoro degli sceneggiatori all’interno dello studio system (ad esempio, molte volte è passato sotto silenzio il fatto che il loro principale compito consistesse di norma solo nell’adattare materiale già selezionato dall’ufficio-soggetti, e che di rado qualcuno riuscisse a far realizzare un progetto proprio), l’abisso di potere, che davvero separava questa categoria dai produttori, è sempre posto al centro del dramma. Se Il diritto di uccidere è senz’altro poco realistico quando ci descrive il lavoro di scrittura del protagonista Dix Steele (Humphrey Bogart) come un lavoro solitario e condotto in casa propria agli orari più improbabili, non lo è, però, quando ci comunica la frustrazione che questo stesso personaggio prova essendo costretto dalla sua professione ad adattare soggetti dozzinali per lo schermo. In tal senso, la violenza fisica di Dix e la sua sospettosità paranoide (evidenti soprattutto nel rapporto con l’altro sesso) non sono solo concessioni ai canoni del genere noir in cui il film di Ray s’inscrive, ma servono a tematizzare l’incapacità del protagonista di adeguarsi al modus operandi hollywoodiano.
Come osservano ancora Ceplar ed Englund, «gli scrittori che resistettero a Hollywood impararono a fare del loro meglio con qualsiasi materiale avessero a disposizione cercando di evitare allo stesso tempo (per quanto possibile) ogni coinvolgimento del proprio io nella sceneggiatura che avevano sotto mano. In generale questo tipo di sforzo è estraneo al processo creativo, ma la sopravvivenza degli scrittori impegnati nel processo produttivo dell’industria cinematografica richiedeva questa capacità e così molti di loro impararono in un modo o nell’altro ad adattarsi» <118.
A Dix Steele quest’adattamento non riesce perché equivale per lui, psicologicamente parlando, a essere declassato dal ruolo di artista a quello di semplice funzionario di livello medio all’interno di una grossa impresa produttiva.
Successivo di soli due anni a Il diritto di uccidere, Il bruto e la bella di Vincente Minnelli esamina, almeno in parte, questioni analoghe, ma lo fa mettendo al centro della diegesi proprio il personaggio del produttore, vale a dire la figura solitamente accusata di tutti i mali degli sceneggiatori hollywoodiani. Curiosamente, qui il personaggio di Jonathan Shields (Kirk Douglas), con ogni probabilità modellato sulla biografia reale del grande producer indipendente David O. Selznick, ha molti tratti in comune con Dix: ambizione, creatività, rabbia, desiderio di rivalsa sul milieu hollywoodiano, ma anche e soprattutto la medesima difficoltà a stabilire una relazione sentimentale non contrassegnata dalla violenza e dalla manipolazione psicologica. Insomma, sebbene Dix Steele e Jonathan Shields muovano da posizioni professionali opposte (il primo non tollera le restrizioni creative dettate dal suo produttore, mentre il secondo cerca, in tutti i modi, di controllare il lavoro e perfino i sentimenti dei suoi sottoposti), i due personaggi esibiscono problematiche psicologiche davvero affini.
L’immagine di Hollywood come ambiente professionale che esige dei temperamenti particolarmente ossessivi è di antica memoria e di grande forza drammatica. Peraltro, essa non ricorre soltanto nei film ma anche nella letteratura: Gli ultimi fuochi di Francis Scott Fitzgerald, scrittore che non a caso trascorre l’ultima fase della sua vita lavorando infelicemente come sceneggiatore, e Perché corre Sammy? (What Makes Sammy Run?, 1941) di Budd Schulberg, anch’egli sceneggiatore e figlio di un magnate dell’industria, ne sono una buona dimostrazione. Tuttavia, va notato come la figura del produttore spietato non faccia la sua comparsa nel cinema autoreferenziale fino agli anni Cinquanta (nei film degli anni Trenta, come A che prezzo Hollywood ed È nata una stella, i moguls del racconto sono figure pittoresche e bizzarre, ma tutt’altro che sadiche o egocentriche). È solo nel 1952 che Il bruto e la bella inaugura questo genere di caratterizzazione psicologica, che sarà poi ripresa più e più volte nelle opere immediatamente successive. Di nuovo, notiamo come il decennio dei Cinquanta si caratterizzi per una spiccata negatività nel tratteggiare il mondo dell’industria. Le contaminazioni noir in una cornice sostanzialmente melodrammatica, l’atmosfera di soffusa paranoia, la narrazione costruita per flashback che sembra rievocare, sulla falsariga del celebre modello di Quarto potere, il senso di una detection sulle vere ragioni del protagonista, sono solo alcuni dei tanti elementi che contribuiscono all’idea di Hollywood come luogo che distrugge qualsiasi felicità personale in nome dell’ambizione, del successo e del denaro. E tuttavia, il personaggio di Shields, pur nella sua negatività, risulta troppo affascinante, creativo e titanico perché si possa parlare, anche in questo caso, di una completa demistificazione del mondo del cinema.
Siccome gli sceneggiatori erano solitamente indicati come “gli intellettuali di Hollywood” e spesso provenivano da precedenti esperienze nell’ambito della letteratura, del teatro o del giornalismo, non sorprende se la tensione tra desiderio di libertà creativa da parte del singolo e potere schiacciante e indifferenziato dell’apparato economico sia molte volte rappresentata come scontro tra questa categoria professionale e quella dei producers. Talvolta, può accadere anche che a fare le spese del potere debordante dei magnati della Hollywood classica sia il personaggio del regista. A tal proposito, si veda l’esempio di La contessa scalza, dove il regista di talento Harry Dawes (Humphrey Bogart) è costretto a una posizione di sudditanza rispetto al sadico e mediocre Kirk Edwards (Warren Stevens), che si ritrova a capo di una major unicamente per questioni ereditarie. Anche in casi simili il conflitto è solitamente descritto come quello fra un’intelligenza creativa, che ambisce a emancipare la qualità dei progetti in cui è coinvolta, e un atteggiamento invece ottuso, rigido, incapace di riconoscere il vero talento se questo rischia di mettere in discussione la sua autorità.
Un’interessante variazione sul tema - su cui ci si soffermerà più volte tanto nelle pagine dedicate al film di Ray quanto in quelle dedicate al film di Minnelli - è rappresentata da Il grande coltello di Robert Aldrich dove lo scontro si consuma tra Stanley Shriner Hoff (Rod Steiger), tipica figura di tycoon spietato fino al punto di rasentare la malattia mentale, e Charlie Castle, star hollywoodiana stanca di interpretare film mediocri, e desiderosa di tornare all’esperienza del teatro d’impegno politico da cui proviene. Oltre a spostare per una volta l’attenzione dall’immagine della star femminile a quella maschile, e in particolare alla capacità anche del divo maschio di esprimere, attraverso il corpo, un ideale di bellezza ed erotismo (Charlie non è solo una stella ma anche un sex symbol), questo film ci ricorda uno degli aspetti più controversi dell’organizzazione economica dello star system classico. Infatti, come sottolinea Mark Cerisuelo, «il film [di Aldrich] è probabilmente l’unico del filone ad insistere sull’importanza del contratto settennale che legava gli attori alla loro casa di produzione» <119.
[NOTE]
117 Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema Americano 1930-1960, trad. it. Riccardo Duranti, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 15-7. (ed. or. The Inquisition in Hollywood. Politics in Film Community 1930-1960, Doubleday, Garden City, N.Y. 1980).
118 Ivi, p. 19.
119 Marc Cerisuelo, Hollywood a l’ecran. Essai de poétique historique des films: L’exemple des métafilms américains, Presses de la Sorbonne Nouvelle, Paris 2000, p. 287.
Diletta Pavesi, Poisoned Love Letters to the Movies. La contraddittoria rappresentazione di Hollywood nel cinema americano classico (1932-1962), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Ferrara, 2014

martedì 12 gennaio 2021

Giuseppe Balbo e la “I^ Mostra dei Pittori Americani in Europa” di Bordighera (IM)

 Archivio Balbo

Nel 1952 Giuseppe Balbo è il regista di una sorprendente iniziativa artistica che pone Bordighera (IM) al centro dell’attenzione internazionale, al pari di altre più importanti città italiane tradizionalmente note come centri promotori di cultura. La “I^ Mostra dei Pittori Americani in Europa” s’inserisce in un clima di intensi rapporti del nostro paese con gli Stati Uniti.

Un momento dell'allestimento della Mostra - Archivio Balbo

Scrive Walter Shaw nell’opuscolo di presentazione: “Nel prendere sotto i propri auspici questa prima esposizione dei pittori americani in Europa, la città di Bordighera raggiunge il più alto ideale di buona volontà e di fratellanza. Tale è il senso di questo reciproco gesto verso il popolo americano quale lo fu il Piano Marshall nei riguardi del popolo italiano. Tutti i pittori americani che lavorano in Europa sono stati invitati a presentare le loro opere davanti ad una giuria composta da pittori-artisti francesi, americani e italiani. Questa esposizione quindi può ben definirsi internazionale in scopi e sentimento. E’ un panorama che dimostra gli effetti che le diverse concezioni culturali europee passate e presenti hanno avuto nell’animo degli artisti americani“.

Sally Nichols, La piccola strada - Archivio Balbo

Pegeen Vail, Piccolo nudo - Archivio Balbo

Balbo e con lui gli operatori culturali e gli enti pubblici che promuovono la manifestazione, investono sul binomio cultura-turismo che aveva qualificato la storia di Bordighera già nel tardo Ottocento. Credono che sia ancora attuale per far ripartire un’economia svilita dal recente conflitto mondiale e che possa fondare le future sorti della città.

Edward Melchart, Scala a Coney Island - Archivio Balbo

Jean Guerin, Ninfa in solitudine - Archivio Balbo

E. Vardi, Composizione musicale - Archivio Balbo

"E’ difficile trovare uno stile, un carattere che possa classificare la Mostra e potremmo meglio definirla un riflesso delle più disparate esperienze artistiche e d’avanguardia; riassunto che d’altronde è il risultato più logico delle fonti ispirative cui fa capo questa pittura. Fonti che vanno dalle tendenze impressionistiche e postCezanne a quelle fauviste e picassiane, da un astrattismo piuttosto formale ad un realismo con carattere intimista e talvolta anche primitivamente ingenuo e personalistico. Non siamo dinanzi ad arte americana nè di tradizione americana è il caso di parlare … Ognuno di questi pittori si è rivolto al maestro, per non dire all’esemplare…" G.C. Ghiglione, 5 giugno 1952, Il Secolo XIX

Archivio Balbo

Archivio Balbo

Archivio Balbo

Nonostante la tiepida reazione dei critici va considerata una importante caratteristica di questa esposizione: l’istituzione di premi d’acquisto da assegnare mediante una giuria. Il Comune di Bordighera ha quindi la possibilità di acquistare le migliori opere esposte, iniziando così la costituzione di una Galleria d’Arte Contemporanea, primo passo per un Centro internazionale d’arte e di cultura.

Nel 1953 Walter Shaw e Jean Guerin, due miei vecchi amici che vivevano a Bordighera, mi chiesero in prestito dei quadri perchè volevano organizzare un’esposizione di pittori americani che sarebbe stata patrocinata dal Comune, e perciò piuttosto ufficiale. Cocteau scrisse l’introduzione al catalogo ed io accettai di prestare i quadri e andai a Bordighera con Laurence Vail… Il pranzo che Walter e Jean offrirono in onore nostro e di Cocteau fu molto divertente… Con mia grande sorpresa scoprii che eravamo tutti e tre ospiti della città di Bordighera e ci furono offerte tre splendide stanze in un albergo. Peggy Guggenheim

Marco Balbo