La storia della televisione e della radio, nei cinque anni precedenti alla riforma, può essere vista come un incalzare di fermenti rivoluzionari a cui faceva eco un’urgenza di ristrutturazione capitalistica. Ma alla fine a vincere fu una terza strada, una strada a metà: quella del capitalismo selvaggio che in principio sembrava accontentare tutti e che poi alla lunga avrebbe portato al duopolio. <250 L’esigenza di cambiamento della Rai si esprimeva attraverso tre gruppi fondamentali: il Partito socialista che puntava sulla riforma; il gruppo dei sindacati, uomini di cultura e costituzionalisti; il management della Rai (compresi i redattori del famoso documento dei tre esperti, che delineava una Rai più azienda e meno fabbrica di consenso). <251 In occasione del noto ordine di servizio del 1969, che prevedeva un rimpasto e un moltiplicarsi delle cariche direttive della Rai, Granzotto venne sostituito dal nuovo presidente della Rai, il repubblicano Aldo Sandulli. Da questo momento si aprì in Rai una crisi lunga e difficile. L’ordine di servizio del maggio 1969 prevedeva infatti un rimpasto dell’organigramma, che si tradusse in un vero sisma. Esso fu interpretato, dai nemici di Bernabei, come il sigillo di una nuova svolta “moderata”, <252 come un tentativo per mettere le mani su tutta l’azienda in un’ottica di lottizzazione <253. Mentre dal punto di vista di osservatori neutrali lo stesso ordine di servizio fu indice di un’errata ingerenza dei partiti sul piano del management. L’ordine non fu firmato dall’amministratore delegato Granzotto, ma dal suo successore, il socialista Paolicchi. Proprio su questo progetto si consumò infatti lo scontro tra Bernabei e Granzotto, le cui dimissioni provocarono commenti sulla stampa e interrogazioni parlamentari.
Nel frattempo appariva sempre più complesso stabilire come fornire un servizio pubblico obiettivo e imparziale, aspetto quest’ultimo che traspare anche dall’inchiesta di Tv 7 di Sergio Zavoli, Un codice da rifare, che portò alle dimissioni di Sandulli. Nel Cavallo morente di Chiarenza al riguardo si legge: <254 “Il Comitato ristretto nominato dalla Commissione parlamentare di vigilanza non raggiunse mai un accordo sulla valutazione da dare ai tagli effettuati in sede di montaggio della trasmissione “Un codice da rifare”; la maggioranza si limitò a definire discutibile l’utilizzazione delle immagini”. <255
Tutto questo mentre si avvicinava la scadenza della Convenzione, prevista per il dicembre del 1972. Il fronte di contestazione del monopolio era esteso e composito e a grandi linee può essere inserito all’interno di due specifiche tendenze, quella di chi indicava la strada della riforma interna all’azienda o quella di chi apriva alla privatizzazione. Il dibattito sulla nuova forma da dare alla Rai fu portato avanti attraverso dibattiti e convegni. La Dc voleva la riforma interna della Rai e invocava un intervento più efficace del Parlamento; il Pci ambiva a sua volta al rafforzamento del servizio pubblico e alla regionalizzazione; il Psi indicava la strada della creazione di un ente pubblico a statuto speciale, con una più precisa accentuazione del monopolio, un controllo parlamentare e una spinta al decentramento, rifiutando vieppiù ogni apertura ai privati. <256
In questo clima variegato prendeva piede anche l’ipotesi di privatizzazione di Eugenio Scalfari, <257 che individuava nella strada della concorrenza fra pubblico e privato, l’unica possibilità per la radiotelevisione italiana. Intanto Giovanni Leone veniva eletto presidente della Repubblica, mentre il nuovo governo Andreotti (1972), si limitò a prorogare di un anno la concessione dello Stato alla Rai, affidando lo studio della riforma a una commissione mista di politici e tecnici.
A partire dall’autunno del 1973 in tutti i Paesi capitalistici si diffuse una crisi che durò fino alla fine deli anni Settanta e che ebbe ripercussioni anche nell’economia nella politica. Per l’Italia si trattò di un periodo di trasformazione e crisi: maturavano cambiamenti nell’assetto produttivo, nella fisionomia legislativa, nella tipologia dei consumi di radio e tv, che fecero parlare del “caso italiano”. La crisi dunque non generò stagnazione, semmai dinamismo: creò nuove forme di aggregazione, nuove tendenze, distruggendo nel contempo vecchie ideologie. Gradualmente si venne configurando il processo di privatizzazione della televisione che assunse due direzioni: da una parte la concentrazione di grandi gruppi editoriali e dall’altra lo sviluppo di iniziative a opera di piccole imprese presenti su tutto il suolo nazionale, mentre a concorrere allo sviluppo del mercato concorrenziale fu la diffusione della tv via cavo.
Intanto la battaglia per la riforma continuava, ma c’era anche una nuova battaglia che prendeva piede, quella giuridica sulla legittimazione delle stazioni locali via cavo. Telebiella, <258 prima tv a trasmettere via cavo, ottenne il 20 aprile del 1971 dal Tribunale della sua città la registrazione “come giornale periodico a mezzo video”; ne era direttore Peppo Sacchi, ex regista Rai. Nello stesso anno, quello in cui Umberto Delle Fave divenne presidente Rai, dal confine jugoslavo, Radio Capodistria trasmetteva ogni sera, per tre ore, programmi a colori che si captavano con nitidezza dal Veneto alle Marche. <259
Sulla questione poi dei ripetitori svizzeri presenti in Italia ci fu la prima rivoluzionaria sentenza emessa dalla Corte Costituzionale, quella del luglio 1974 n. 225; in base ad essa i ripetitori stranieri non dovevano essere smantellati per garantire la libera circolazione di idee. Non solo: questa delibera, “non mette in dubbio la legittimità del monopolio Rai, ma di fatto apre ad alcuni varchi teorici della privatizzazione, sottoponendo il monopolio Rai a una serie di condizioni o di vincoli (i cosiddetti comandamenti) diretti a creare un “monopolio aperto” […]. É la prima espressione del principio del pluralismo interno proprio del servizio pubblico”. <260 La seconda sentenza, n. 226, definiva come legittima la riserva dello Stato della concessione per la tv via etere e liberalizzava definitivamente la tv via cavo in ambito locale. Nell’estate del 1974 si attestavano le prime esperienze di emittenti libere via etere, mentre tra il 1974 e il 1975 sparivano dalla scena tutte le tv via cavo, sostituite da tv via etere.
Nel frattempo veniva approvata la riforma Rai attraverso la legge n. 103, dal 14 aprile 1975, che stabiliva in primis che l’asse del servizio pubblico si spostasse dal Governo al Parlamento per assicurare un maggior pluralismo, completezza e obiettività (in questo modo, il Pci, secondo partito italiano, poté accedere alla futura Rai Tre); si ribadiva il monopolio di Stato sul servizio pubblico e si cominciavano a regolamentare le trasmissioni via cavo. <261
La legge si basava su tre importanti assunti: in primis la riserva allo Stato della diffusione dei programmi su scala nazionale, a patto che fosse assicurato il massimo livello di pluralismo possibile, in secondo luogo la garanzia di decentramento e di rispetto delle esigenze locali e in ultimo la ripetizione sul territorio nazionale di televisioni straniere. Dunque più che una riforma, una vera e propria rifondazione, che si avvalse di tempi di elaborazione lunghi, ma che alla fine arrivò. Inoltre, con la sentenza n. 202 del luglio del 1976, vennero dichiarati incostituzionali gli articoli 1, 2, 14, 45 della neonata legge n. 103, autorizzando così le trasmissioni via etere in ambito locale. Una mossa quest’ultima che aprì ancora di più alla liberalizzazione.
In questo periodo infatti nascevano moltissime emittenti radiofoniche e televisive. In poco più di quindici anni l’imprenditoria privata diede prova di sfruttare a pieno i vantaggi offerti dalla riforma, a scapito di una Rai che si trovò invece sempre più in difficoltà rispetto alla nuova concorrenza. <262 Nel 1973 erano state avviate Tele Ivrea, Tele Alessandria, Tele Vercelli, Tele Piombino, Teleromacavo, Tele Ancona, Telediffusione Italiana, mentre nel 1974 iniziarono a trasmettere Telemontecarlo, Firenze Libera e Telemilano di Silvio Berlusconi.
[NOTE]
250 Su questi aspetti si veda Giorgio Grossi, Sistema di informazione e sistema politico, in “Problemi dell’Informazione”, III, 1978, n. 1, gennaio-febbraio.
251 Cfr. Carlo Macchitella, Il gigante nano, cit.
252 Cfr. Telesio Malaspina, I faraoni della tv in “L’Espresso”, 1 giugno 1969. Ma anche Irene Piazzoni, Storia delle televisioni in Italia…, cit., pp. 107-108.
253 Cfr. Vincenzo Basili, Dirigere la Rai: cinquantacinque anni di lottizzazione e managerialità, in “Problemi dell’informazione”, XXV, 2000, n. 2, pp. 191-201.
254 Cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia…, cit., pp. 377-384.
255 Cfr. Franco Chiarenza, Il cavallo morente…, cit., p. 155.
256 Cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia…, cit., pp. 382-383.
257 Cfr. Eugenio Scalfari, E ora, libertà d’antenna, in “L’Espresso”, 23 gennaio 1972.
258 Cfr. Alessandra Bartolomei, Paola Bernabei, L’emittenza privata in Italia dal 1956 a oggi, Eri, Torino 1983, p. 24.
259 Aldo Grasso, Storia della televisione italiana…, cit., p. 227.
260 Cfr. Giuseppe Gnagnarella, Storia politica della Rai, 1945-2010…, cit., pp. 84-85.
261 Cfr. Aldo Grasso, Storia della televisione italiana…, cit., p. 272.
262 Cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, cit., pp. 377-392.
Giulia Bulgini, Il progetto pedagogico della Rai: la televisione di Stato nei primi vent’anni. Il caso de "L’Approdo", Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2018