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giovedì 8 febbraio 2024

Uno sciopero storico, un corteo di provincia, alcuni attenti fotografi, un poderoso archivio


Gli scatti qui pubblicati sono riferiti al corteo sindacale unitario per lo sciopero generale nazionale sulla casa - un evento centrale di quell'"Autunno Caldo", ormai entrato nella Storia - un corteo che ebbe luogo in Ventimiglia (IM) mercoledì 19 novembre 1969. 

Le fotografie in questione provengono dal munitissimo archivio di Alfredo Moreschi, ma una loro ulteriore specificità verra spiegata più avanti. 

In effetti, Moreschi non ricordava più in quale occasione fossero state fatte.


La spiegazione è stata fornita da Lorenzo Trucchi, all'epoca Segretario della Camera del Lavoro di Ventimiglia, in seguito Segretario Provinciale della CGIL, dal 1985 consigliere regionale della Liguria per due legislature.


Lorenzo Trucchi non appare in nessuno degli scatti repertoriati, anche perché si trovava in quell'occasione sulla FIAT 500 - la sua! - che apriva il corteo.





Lorenzo Trucchi sarebbe poi stato uno dei tre oratori del comizio conclusivo della manifestazione presso il Mercato dei Fiori - oggi Mercato Annonario - di Ventimiglia.


Si dà il caso che in quel torno di tempo un gruppo - qui sopra se ne riportano i nomi - di amici fotografi - e forse l'unico professionista era Moreschi - si cimentavano nella realizzazione di una documentazione che viene proprio da definire neorealista.




Sembra opportuno, allora, pubblicare - a titolo di esempio - qualche altro scatto di quel sodalizio, scatto, però, non riguardante il citato evento della città di confine.

Adriano Maini

domenica 29 ottobre 2023

Le indagini di Paolo Borsellino e il suo assassinio


Il 1° luglio 1992, Paolo Borsellino si trova a Roma. La sua agenda recita: «ore 9.50 - Holiday Inn; ore 15 - Dia; ore 18.30 - Parisi; ore 19.30 - Mancino; ore 20 - Dia» <68. Quello del pomeriggio alla Direzione investigativa antimafia è un appuntamento particolarmente importante, con un nuovo pentito pronto a parlare. Si tratta di Gaspare Mutolo, boss mafioso coinvolto nel Maxiprocesso del 1986 e condannato in primo grado a dieci anni di reclusione. Mutolo ha deciso di collaborare con la giustizia, proposta che gli era già stata avanzata due anni prima da Giovanni Falcone, dopo aver ricevuto notizia della strage di Capaci. Quando si trovano faccia a faccia, il pentito rivela la sua intenzione di rilasciare dichiarazioni scottanti su Domenico Signorino e Bruno Contrada: un giudice e un poliziotto, due membri delle istituzioni <69. Proprio mentre Mutolo procede declinando le sue generalità necessarie per aprire ufficialmente la verbalizzazione, Borsellino viene convocato d’urgenza al Ministero dell’Interno, dove ad attenderlo c’è Nicola Mancino.
A ricostruire gli eventi di quel pomeriggio sono due testimonianze particolarmente rilevanti. Una è quella di Rita Borsellino, sorella del magistrato, che racconta come «A un tratto, durante l'interrogatorio, Paolo riceve una telefonata, chiude il verbale, si precipita al Viminale, poi ritorna da Mutolo. Il pentito ha detto successivamente che di ritorno dal Viminale Paolo era talmente nervoso che fumava due sigarette contemporaneamente e decise di non continuare l'interrogatorio» <70. Ancora più dettagliata è la ricostruzione di Mutolo, illustrata il 21 febbraio 1996 nell’aula del processo per la strage di via D’Amelio. «Il giudice Borsellino mi viene a trovare io ci faccio un discorso molto chiaro e ci ripeto quello che io sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato molto importanti. Allora mi ricordo probabilmente che il dottor Borsellino la prima volta che mi interroga riceve una telefonata, quindi manca qualche ora e mi ricordo che quando è venuto, è venuto tutto arrabbiato, agitato, preoccupato. Io insomma non sapendo gli ho chiesto “dottore ma che cos’ha?” e lui molto preoccupato e serio mi fa che si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada, mi dice di scrivere che il dottor Contrada era colluso con la mafia e che il giudice Signorino era amico dei mafiosi» <71.
A quel punto, dunque, Borsellino sa: è stato informato dei contatti che gli uomini dello Stato hanno con Cosa Nostra e, come logica conseguenza, il suo primo pensiero va alla morte dell’amico Falcone. Ci mette poco, il giudice, a immaginarsi quale sarà il prossimo obiettivo dei mafiosi: la sera stessa infatti, in una telefonata alla moglie, confessa sconsolato «oggi ho respirato aria di morte» <72.
Nel frattempo, però, la malavita siciliana mette in pausa la sua strategia del terrore. È ben consapevole che in Parlamento sia ancora in discussione il decreto-legge che introduce il 41 bis, da convertire entro un massimo di due mesi di tempo. L’idea è, dunque, quella di attendere l’inizio di agosto e lasciare che il provvedimento decada, per poi ricominciare da dove il progetto stesso era stato lasciato, ma a questa strategia attendista, Borsellino risponde con un’ulteriore intensificazione delle indagini.
Il 15 luglio, una scoperta lo lascia senza parole. Tornando a casa la sera dopo una faticosa giornata di lavoro, il giudice è in preda a ripetuti conati di vomito. La moglie Agnese, vedendolo, corre in suo soccorso e Borsellino le dice «sto vedendo la mafia in diretta. Ho saputo che il generale Subranni è punciutu» <73. “Punciutu”, un termine prettamente siciliano che corrisponde a “punto” e che indica un rito di affiliazione alla mafia dove alla persona in esame viene punto l’indice della mano con cui, da quel momento in poi, dovrà sparare. Per completare la cerimonia, al nuovo membro della cosca viene fatto pronunciare un impegno solenne: «giuro di essere fedele a Cosa Nostra. Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento» <74. Borsellino capisce così che anche gli altissimi esponenti dell’Arma sono coinvolti e si sente circondato da traditori, sapendo che il tempo stia ormai per finire.
Il 19 luglio è una domenica di sole e il giudice si trova al mare con la famiglia, a Villagrazia di Carini. Come ogni fine settimana, nel pomeriggio torna in città, a Palermo, e si reca dalla madre che abita in Via d’Amelio 21, considerata pericolosa già da tempo perché molto stretta e senza vie di fuga. Insomma, per un uomo posto sotto costante protezione della scorta, può essere considerata una pericolosa “trappola per topi” ed è infatti stato richiesto dalle autorità della città che in quella zona venga applicato il divieto di sosta per tutte le vetture, in modo da fugare ogni possibile timore di attentato <75. Eppure, in via D’Amelio, quel 19 luglio le macchine parcheggiate sono ancora molte.
L’orologio segna quasi le 17 quando il giudice, come da programma, suona al campanello della madre. Non fa in tempo a staccare il dito dal citofono che una Fiat 126, rubata qualche giorno prima e imbottita con circa 90 chili di esplosivo, viene fatta detonare. La strada salta in aria e così decine di macchine, oltre ai corpi di Borsellino e degli uomini della scorta. Uno di loro, Antonino Vullo, rimane in vita e per descrivere quegli attimi usa parole forti. «Il giudice e i miei colleghi» - racconta - «erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l'auto che era alla testa del corteo. Improvvisamente è stato l'inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L'onda d'urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c'erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto» <76.
Subito dopo l’esplosione, un uomo delle istituzioni, il capitano Arcangioli, viene ripreso dalle telecamere mentre cammina in via D'Amelio con una borsa di pelle marrone nella mano sinistra, una pettorina azzurra su cui si staglia uno stemma dorato dell'Arma e un marsupio nero attorno alla vita <77. Non si hanno prove sufficienti per stabilire con esattezza cosa abbia fatto il capitano dopo essersi allontanato, ma dalla scena del crimine sparisce l’agenda rossa di Borsellino, quella su cui era solito scrivere minuziosamente tutti i risultati delle sue indagini. L’agenda grigia, dove erano segnati gli appuntamenti, viene invece lasciata. Poche ore dopo, con due telefonate alle redazioni Ansa di Torino e Roma, una persona che si annuncia come portavoce della Falange Armata rivendica la strage.
Nelle vicinanze arrivano il figlio di Borsellino, Manfredi, e il suocero, il magistrato in pensione Angelo Pirano Leto, ex Presidente della Corte d’Appello di Palermo. Entrambi camminano attorno al cratere provocato dall’esplosione cercando notizie sul giudice. Anche la moglie vuole sapere qualcosa e telefona a chiunque per chiedere informazioni. A nessuno di loro, in quel momento, viene detta la verità <78. Intanto, al Palazzo di Giustizia di Palermo, vengono apposti i sigilli alla stanza del magistrato e così alla sua cassaforte, dove, secondo i familiari, teneva le carte di lavoro riservate. Nei giorni successivi, la cassaforte verrà aperta, ma stranamente, al suo interno, non si troverà nulla di importante <79.
[NOTE]
68 G. Lo Bianco e S. Rizza, L’agenda rossa di Paolo Borsellino, Chiarelettere, Milano, 2007, p. 137.
69 Ibidem, p. 140.
70 Ibidem
71 Ibidem, p. 141.
72 https://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/15/intervista-inedita-a-borsellino-dimenticata-negli-archivi-rai/294265/
73 https://mafie.blogautore.repubblica.it/2019/08/24/senza-titolo-2/
74 P. Grasso, A. La Volpe, Per non morire di mafia, Pickwick, Milano, 2009, p. 132.
75 http://files24.rainews.it/strage-di-via-d-amelio/la-rai-racconta-borsellino/
76 https://espresso.repubblica.it/attualita/cronaca/2013/07/18/news/via-d-amelio-ancora-troppi-misteri-1.56776
77 https://www.archivioantimafia.org/libri/borsellino_e_l_agenda_rossa.pdf
78 G. Lo Bianco e S. Rizza, L’agenda rossa di Paolo Borsellino, Chiarelettere, Milano, 2007, p. 194.
79 Ibidem, p. 196.
Nicola Corradi, La trattativa Stato-mafia: Il biennio 1992-1993 da cui è nata la "Seconda Repubblica", Tesi di laurea, Università Luiss, Anno Accademico 2020-2021

martedì 26 settembre 2023

Da Novara ai campi di sterminio

Pietre d’inciampo in ricordo di Amadio Jona e Giacomo Diena posate a Novara nel 2022. Fonte: Anna Cardano, art. cit. infra

Una foto e una lettera
I nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona[1] sono noti da sempre a chi si è occupato delle persecuzioni antiebraiche sia in ambito novarese che vercellese. Insieme a Bertie Sara Kaatz[2], ebrea nata in Polonia e residente a Novara dal 1942, la cui storia è emersa più tardi e continua a essere poco conosciuta, sono i “sommersi” arrestati in città il 19 settembre 1943, spesso dati per assassinati nella stessa data. La loro sorte dopo quel giorno è ancora parzialmente ignota. Qui vorrei aggiungere qualche tassello a questa storia, nell’ambito di una più vasta ricerca in corso, avendo come riferimento soprattutto i fondi archivistici conservati all’Archivio di Stato di Novara, in particolare quelli della Prefettura (Divisione Gabinetto), quelli dell’Archivio storico del Comune di Novara, e in misura minore quelli relativi all’ospedale psichiatrico, e poi i registri del cimitero novarese, conservati negli uffici del cimitero stesso. Alcune notizie provengono dai fondi Egeli[3] e da quelli dell’Archivio di Stato di Torino e altre informazioni utilizzate si trovano in archivi privati[4] o provengono da testimonianze orali[5].
Nel 2014 stavo effettuando una ricerca all’Archivio di Stato di Novara sul comportamento delle amministrazioni pubbliche nell’applicazione della legislazione antiebraica, finalizzata anche a un possibile utilizzo didattico con i miei studenti, quando mi è arrivata una raccomandata postale da Alzano Lombardo contenente una fotografia in bianco e nero di Giacomo Diena, al quale si poteva dunque dare un volto, riportante in calce la dedica «Al mio unico amore», la firma Giacomino e la data del 2 agosto 1931. Sul retro era timbrato il nome di uno studio fotografico molto noto a Novara, quello dei fratelli Lavatelli, e una scritta successiva a matita «moroso zia Irene». La busta ricevuta conteneva anche un foglio ingiallito, scritto a matita in tre date diverse, l’11 ottobre 1943, il 20 ottobre 1943 e il 14 novembre 1943, e piegato tre volte fino a raggiungere la dimensione di un biglietto da visita. Riportava la firma di Giacomo Diena e un breve saluto dello zio materno Amadio Jona alle sorelle novaresi. È dunque evidente che né Diena né lo zio Jona erano morti lo stesso giorno dell’arresto. Diena segnalava come indirizzo del mittente «Carceri giudiziarie Torino». I due uomini erano quindi in carcere a Torino da quasi due mesi, dopo l’arresto del 19 settembre 1943, e dal 20 ottobre non erano più riusciti ad avere notizie dei loro familiari rimasti in città, Marianna Jona, madre di Diena, e sua zia materna Dolce, neppure tramite gli amici da cui speravano aiuto. Nel testo viene citata «la cara Irene», cioè Irene Cantoni (1897-1976), la donna novarese a cui la lettera era destinata e che l’avrebbe poi conservata per tutta la vita insieme alla foto. Dallo scambio di e-mail e telefonate con il nipote di Irene, Giuseppe Cantoni, oggi residente ad Alzano Lombardo ma di origini novaresi, ho appreso che la famiglia Cantoni voleva assicurarsi della futura conservazione a Novara di quei documenti.
Con le dovute cautele che occorrono quando si ha a che fare con memorie di bambini, ho saputo che suo nonno paterno Giuseppe, da cui aveva ereditato il nome, mediatore di risi e poi titolare di una trattoria in centro città, era appunto amico del Diena, che frequentava assiduamente la loro casa di corso della Vittoria, anche per far visita ad Irene. Diena è ricordato come un signore distinto, elegante e gioviale, con il distintivo degli invalidi della prima guerra mondiale portato sempre sulla giacca. La zia paterna del mio interlocutore, Irene, si era dedicata alla famiglia, al padre e agli altri fratelli, dopo aver perso la madre in giovane età, e lavorava in casa come ombrellaia. Uno dei suoi fratelli, Aldo, azionista, si era invece trasferito nel 1936 a Bergamo, con la famiglia, e lì avrebbe poi collaborato con la Resistenza come informatore. Il piccolo Giuseppe era cresciuto in una famiglia antifascista e ricorda che sia il nonno Giuseppe che il padre Aldo, tornando per questa ragione da Bergamo, dopo l’arresto del Diena avevano cercato sue notizie. Nel dopoguerra fu poi Irene, oltre ovviamente alla Comunità israelitica di Vercelli, a chiedere notizie di Giacomo e dello zio Amadio Jona al Comitato ricerche deportati ebrei, con sede a Roma, come risulta anche dalla documentazione conservata al Yad Vashem di Gerusalemme. Sarebbero dunque stati deportati in Germania, «presumibilmente», come riportano alcuni documenti degli anni cinquanta, ma senza alcuna indicazione certa sulla loro fine. Tornerò in seguito su questo punto.
In questi decenni la figura del Diena, considerato come uno di famiglia, è stata ricordata sia dal ramo della famiglia Cantoni rimasto a vivere a Novara, che in quello trasferitosi nel Bergamasco, nelle giornate del 2 novembre, del 25 aprile, e in seguito anche del 27 gennaio, Giorno della Memoria. Dopo la morte di Irene, la foto e la lettera erano state conservate da Giuseppe Cantoni.
La famiglia Diena-Jona e il suo radicamento a Novara
La ricerca di Liliana Picciotto sugli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah rileva che essi costituiscono l’81 per cento degli ebrei presenti allora sul territorio, senza sostanziali differenze tra ebrei italiani e stranieri[6]. Perché dunque Giacomo Diena non si salvò, nonostante fosse stato invitato a mettersi in salvo la sera del 18 settembre 1943? Diverse testimonianze, come quelle di Benvenuta Treves e di Ines Muggia, ebree novaresi che riuscirono a evitare l’arresto, riportate nella bibliografia già citata e in particolare in “Novara ebraica”, ci raccontano infatti dei messaggi che furono fatti pervenire agli ebrei novaresi grazie alla moglie del ragionier Celso Muggia, a sua volta av­visata da un ristoratore novarese che aveva raccolto l’informazione del previsto rastrellamento da un fun­zionario della Questura. Celso Muggia si era già allontanato da qualche giorno da Novara, era amico del Diena e certo il messaggio era attendibile. Riferisce la figlia Ines Muggia: «La cosa che ancor oggi mi rattrista è pensare che il povero ragionier Diena non cercò nemmeno di mettersi in salvo, convinto che il suo servizio alla Patria lo avrebbe in qualche modo tutelato»[7].
Sul suo passato militare il Diena contava dunque parecchio, tanto che aveva sperato di ottenere la discriminazione prevista per gli ebrei con meriti speciali, anche se questa non era mai arrivata. Probabilmente a influire sulla scelta fu anche la sua condizione familiare: mamma e zia anziane e malandate, così come lo zio Amadio Jona che, seppure residente a Torino[8], era spesso in casa con loro. Lui stesso inoltre era claudicante: uno spostamento del nucleo familiare non era affatto semplice e d’altra parte si sentiva integrato nella città in cui abitava da decenni. Il tono della lettera inviata a Irene Cantoni dalle carceri giudiziarie di Torino ci mostra così tutta la sua disperazione [...]:
Scrivete veloci notizie per carità
E pregate per noi e ricordateci
Torino 11/10/43 XXI
Carissime mamma e zia
Nell’inviarVi il Buono per la legna da ardere che presto ne avrete bisogno, mi raccomando di non lasciarlo scadere bisogna andare tutti i primi giorni del mese a pagarle e pregare che la portino a casa. Hai pagato l’affitto di casa? Nella mia del 1o corr vi domandavo se avete già ricevuto il carbone, vi domandavo notizie della vostra salute, e vi pregavo dei saluti della casa, ma fin’ora non ho ricevuto vostre care notizie. Scrivetemi presto.
La cara Irene credo che verrà da voi, pregatela a nome mio di aiutarvi e di scrivermi. /omissis/
Irene hai fatto quanto ti pregavo nella mia del 1o corr? Spero di sì e ti ringrazio il papà come sta? /…/ Scrivimi e ricordami bacioni tuo Giacomo”, /…/.
Carissime tutte
Tralascio perché sono disperato, non mi raccapezzo più, solo vi prego di avervi cura di farvi forza e di pregare per noi qui che il Buon Dio ci faccia ritornare tra di voi al più presto possibile. /…/.
Più avanti troviamo anche un la­conico saluto dello zio Amadio, allora set­tan­tanovenne, in data 14 novembre 1943:
Care Sorelle,
Oltremodo addolorato vi mando mie buone notizie e cari saluti a tutti e baci
aff. Amadio.
Per provare a capire lo sconcerto dei due uomini, occorre risalire a decenni prima e intravvedere le speranze di una famiglia con radici nell’Astigiano (gli Jona) e nel Torinese (i Diena), che a fine Ottocento decide di trasferirsi a Novara[9].
Il primo a giungere in città il 1 marzo 1891, dopo il trasferimento da Fossano, è Amadio Jona (registrato spesso come Amedeo), nato ad Asti il 4 dicembre 1864, che si stabilisce in via dell’Archivio, alla Casa Barabino dove viveva il negoziante Neemia Jona, con la moglie, la figlia, la madre (vedova del precedente capofamiglia Abramo Jona) e una cameriera. Il gruppo, arrivato da Milano, si sposterà poi a Mantova, conferma questa della frequente mobilità e intraprendenza di queste famiglie. Ritengo opportuno addentrarmi in questi particolari per segnalare che, come ben documentato in “Novara ebraica”, la presenza di ebrei a Novara non era residuale, anche se ostacolata per varie ragioni da diffidenze delle istituzioni e della cittadinanza.
Nel foglio di famiglia appena descritto il giovane Amadio è indicato come orefice e «congiunto» degli altri Jona. Amadio sceglie di fermarsi a Novara, la sua bottega da orefice è in pieno centro, in via Omar 2, dove nelle guide commerciali della città risulta un’attività di lucidatore di argenti e preziosi; probabilmente convince sorelle, cognato e nipoti a raggiungerlo a Novara nel 1899.
[...] Tra il 1939 e il 1943 non risultano altri documenti che spieghino la ragione della mancata conclusione del provvedimento di “discriminazione” a favore del Diena e nessuna annotazione relativa a iter in corso (presente invece per altri nominativi) risulta su tutti gli elenchi di ebrei visionati. E così, pensando ingenuamente di essere in salvo, quella domenica 19 settembre 1943, il cinquantaseienne Giacomo Diena di­venta una facile preda e viene arrestato dalle forze di occupazione tedesca da pochi giorni presenti a Novara, sulla base degli elenchi di ebrei residenti in città forniti dalla Questura. Prelevato dall’abitazione di piazza Sant’Agata con lo zio Amadio, che aveva allora quasi settantanove anni, e lasciando al loro destino la madre e la zia, viene portato insieme ad altri ebrei alle scuole Morandi.
Giorgio Hasenbohler, in una testimonianza del 1983[25], riferisce che suo padre, un industriale di origini svizzere trasferitosi a Novara da tempo, che si esprimeva bene in tedesco, aveva portato beni di conforto in carcere e cercato più volte di intercedere a suo favore presso il Comando germanico[26], venendo infine minacciato di fare la stessa fine degli arrestati. L’industriale conosceva bene i Diena-Jona perché abitava al terzo piano nello stesso edificio in cui loro abitavano al primo. Giorgio Hasenbohler ricorda che i fascisti, all’inizio del 1944, avevano messo nella loro casa una squadra di torturatori, fatto per cui erano seguite altre inutili proteste di suo padre.
Tre giorni dopo, mercoledì 22 settembre 1943, un ufficiale delle Ss si presenta alla Banca popolare di Novara chiedendo di aprire le cassette di sicurezza degli arrestati. Dissuaso, tornerà il giorno successivo, ma la direzione della Banca fa in modo che l’operazione di apertura forzata avvenga alla presenza del notaio Nicolitti, che ne redige verbale[27].
Sulla rapacità apparentemente disordinata di queste razzie (contemporanee alle note stragi sui laghi d’Orta e Maggiore del settembre 1943) e sulle modalità dell’occupazione in questi primi giorni non mi soffermo. Se è vero che sono le Ss i primi carnefici di questa particolare storia, la complicità degli uffici che avevano predisposto la rete di controlli sugli ebrei è tutta italiana. Dal 30 novembre del 1943, come è noto, sarà poi la polizia italiana a occuparsi di arresti e deportazioni. Il rastrellamento novarese avviene in tempi precoci, quando i diversi compiti tra autorità d’occupazione e autorità della Rsi non sono ancora bene stabiliti.
I decreti di confisca dei beni di Giacomo Diena e Amadio Jona sono stati effettuati alcuni mesi dopo, l’11 maggio 1944 (n. 01463) e il 19 maggio 1944 (n. 01498), come risulta dal Servizio Beni ebraici[28] nel suo accertamento eseguito il 31 lu­glio 1944 relativo ai sequestri effettuati in provincia fino a quel momento. Si segnala che al Diena viene confiscata la somma di 1.536,95 lire, competenze che la banca aveva assegnato all’ex dipendente alla fine del rapporto di lavoro, oltre a qualche titolo e ai mobili (la casa era stata utilizzata dagli occupanti come di consueto durante le requisizioni). Allo zio Jona, dichiarato “benestante”, vengono sequestrati titoli, azioni e un’importante rendita annua. I due non hanno proprietà immobiliari a Novara, ma a Torino, dove Jona risulta residente, la sua casa di via San Martino subisce analoga sorte. Sconcerta il carteggio, presente tra i documenti dell’Egeli, in cui l’amministratore del condominio torinese sollecita più volte le autorità competenti a effettuare quanto di dovere rispetto all’alloggio dell’ebreo Amadio Jona.
Dopo alcuni giorni di detenzione a Novara, Giacomo e Amadio vengono dunque trasferiti alle carceri giudiziarie di Torino nelle quali sono sicuramente presenti almeno dall’11 ottobre 1943 (prima data che risulta nella lettera citata all’inizio) al 1 dicembre 1943. Quest’ultima data è attestata da un altro elenco di ebrei[29] in cui compaiono i nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona, un passaggio di consegne che segna la loro uscita dal carcere di Torino e l’invio alla deportazione. Da controlli incrociati sulle altre persone in elenco con i nomi presenti ne “Il libro della memoria”[30], l’ipotesi più plausibile è che i due detenuti arrestati a Novara siano stati portati a Milano, a San Vittore, in attesa della partenza dal binario 21 per Auschwitz. Dei 19 nomi elencati nella lista, ben 13 risultano partiti col convoglio n. 5 formato a Milano e Verona il 6 dicembre 1943, giunto ad Auschwitz l’11 dicembre 1943. I prigionieri in partenza da Milano erano confluiti al carcere di San Vittore da Torino e da Genova. Un altro deportato della lista torinese risulta invece partito col convoglio n. 6, formato a Milano e Verona il 30 gennaio 1944, giunto ad Auschwitz il 6 febbraio 1944. Quest’ultimo convoglio aveva raccolto prigionieri provenienti da vari centri di raccolta provinciali e dalla frontiera italo-svizzera. Entrambi i convogli, sia il n. 5 che il n. 6, viaggiavano sotto sigla Rsha. Per altri tre deportati della lista torinese, nel volume citato si parla di immatricolazione dubbia e morte in data e luogo ignoti.
Per Diena e Jona, in assenza di documenti definitivi, possiamo quindi solo ragionare per probabilità. Morti in viaggio, oppure giunti a destinazione e poi subito eliminati? Alla Comunità ebraica di Vercelli risulta la lettera del Comitato di ricerche dei deportati ebrei (istituito dall’Unione delle Comunità israelitiche italiane) datata 25 ottobre 1945, nella quale si comunica che fino a quel momento nessuna notizia era giunta sui deportati Giacomo Diena e Amadio Jona. Come già visto, nemmeno Irene Cantoni era riuscita a sapere qualcosa di certo.
I nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona sono ora presenti su una targa scoperta il 17 gennaio 2019 a Novara a Palazzo Bellini, sede storica della Banca popolare di Novara dove il contabile lavorava[31].
 

Bertie Sara Kaatz. Fonte: Anna Cardano, art. cit. infra

Qualche notizia sulla più sommersa: Bertie Sara Kaatz
Bertie Sara Kaatz è la terza vittima della Shoah nella città di Novara, la meno conosciuta dei tre. A Novara non ci sono targhe o luoghi che ricordino la vicenda di questa giovane donna, ricostruita in “Novara ebraica”[32] qualche anno fa. Aggiungo solo qualche tassello che emerge dalle carte d’archivio, completandone i dati anagrafici nella speranza che anche Bertie sia presto ricordata a Novara. La famiglia Kaatz era arrivata a Novara da Milano, dove aveva presentato nel 1939 denuncia di appartenenza alla razza ebraica e si era stabilita in viale Roma, 8. Nei registri del Comune di Novara che aggiornano la situazione migratoria, nella settimana tra il 17 e il 24 giugno 1942 i nomi di Bertie Kaatz, nata a Breslavia (Polonia) il 26 febbraio 1912, e dei suoi genitori Ludwig Kaatz, nato a Schwerzen (Ger­mania) nel 1878, e Augusta Oppler, nata a Pleschen (Polonia) nel 1878, risultano tra i richiedenti residenza stabile a Novara. Ludwig è indicato come «senza occupazione». Per tutti e tre si precisa che sono di razza ebraica. Nella rubrica A[33] realizzata dalla Provincia di Novara sugli ebrei presenti in provincia, di cui si è detto sopra, risalente al luglio 1942, i componenti della famiglia Kaatz sono invece registrati come apolidi e benestanti. Evidentemente erano giunti in Italia per sfuggire alle persecuzioni in Polonia e forse con l’intenzione di emigrare negli Stati Uniti, dove viveva il fratello. Così sostiene Sandra Taccola[34], nipote di Margherita Rho, la portinaia del palazzo in cui abitavano. Sandra ricorda la madre di Bertie sulla sedia a rotelle, molto ammalata, e dalla nonna le furono negli anni seguenti raccontate le preoccupazioni di Bertie, che voleva trovarle una sistemazione e non partiva per questo. Essendo ebrei stranieri, avreb­bero potuto essere individuati per l’internamento e, anche se ciò non accadde, è evidente il clima di paura in cui la famiglia viveva. Tutti e tre erano iscritti alla Comunità israelitica di Vercelli.
Un’altra volta, prima dell’arresto, nel palazzo erano stati fatti dei sopralluoghi da parte dei fascisti, ma i Kaatz si erano nascosti in casa della portinaia ed erano sfuggiti ai controlli; il 19 settembre invece tutta la famiglia viene arrestata. Bertie non tornerà più.
Seguirà lo stesso percorso di Giacomo Diena e di Amadio Jona, prima alle carceri giudiziarie di Torino, dove è detenuta insieme ad altre undici donne ebree arrestate nel Torinese, nel Vercellese e a Genova nel settembre e ottobre 1943, poi trasferita al carcere di Milano, come risulta dall’elenco datato 1 dicembre 1943 predisposto per il passaggio di consegna delle detenute dal carcere giudiziario di Torino[35] a quello milanese di San Vittore. Anche in questo caso, dai controlli incrociati sulle altre donne in elenco (dieci su dodici erano cittadine italiane), con i nomi presenti ne “Il libro della memoria”[36] e con le banche dati già citate, si può concludere che molto probabilmente anche Bertie sia partita da Milano per Auschwitz il 6 dicembre 1943, col convoglio n. 5, giunto a destinazione l’11 dicembre 1943. Poi, la fine.
Di certo per i genitori la situazione precipita, nonostante trovino ospitalità presso la casa di cura dell’Ospedale mag­giore e alcune persone rimangano loro vicine. La portinaia Margherita sa­rà presente al seppellimento di Augusta Oppler il 10 dicembre 1943 al cimitero di Novara[37], insieme a Ludwig Kaatz, il quale morirà poi nell’ottobre successivo. I genitori di Bertie non furono comunque sepolti nel cimitero ebraico. Così come per Diena, il foglio di famiglia del Comune di Novara intestato ai Kaatz continuerà a rimanere attivo, come se Bertie fosse ancora viva anzi, dopo la morte di Ludwig e Augusta, è lei ad apparire intestataria del foglio stesso.
La triste vicenda di questa famiglia è emersa grazie a un carteggio postbellico tra Comunità israelitica di Vercelli e Istituto bancario San Paolo di Torino, che tentavano di prendere contatti col fratello di Bertie, Alexander Kaatz, che era stato in Italia al seguito delle truppe americane. Occorreva infatti restituirgli, in qualità di erede, i beni confiscati in precedenza alla famiglia. Il nome di Ludwig Kaatz risulta anche, appena dopo la Liberazione, in una nota[38] che il Comando dell’amministrazione alleata a Novara invia al prefetto Fornara il 21 maggio 1945, affinché vengano restituiti al più presto, agli ebrei elencati, i beni confiscati nel periodo nazifascista.
Come si vede, una lunga e terribile storia di elenchi.
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XL, n. s., n. 2, dicembre 2020
[NOTE]
[*] Devo ringraziare per la collaborazione a queste ricerche Rossella Bottini Treves, presidente della Comunità ebraica di Vercelli, Biella, Novara e Vco; Paolo Cirri, della Fondazione Bpn per il territorio; Chiara Mangione, Giuseppe Cantoni, Sandra Taccola, Gianni Galli, l’Archivio di Stato di Novara.
[1] Il nome di Giacomo Diena risulta sulla lapide commemorativa presente al cimitero ebraico di Vercelli; su quella del tempio ebraico appaiono i nomi di Amadio Jona e Giacomo Diena; solo recentemente (gennaio 2019) una targa con entrambi i nomi è stata apposta a Novara nel cortile interno della Banca popolare di Novara, nella sede storica di Palazzo Tornielli Bellini. I due nomi, presentati come vittime della Shoah in Italia, e dati come uccisi lo stesso giorno dell’arresto, compaiono in diverse fonti, tra cui Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), ricerca della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano, Mursia, 2a ed., 2002, e www.nomidellashoah.it, mentre l’ipotesi di una loro deportazione è già contemplata nella documentazione della Comunità ebraica di Vercelli, nelle ricerche di Gisa Magenes (“Fogli sensibili”, n. 3, ottobre-dicembre 1994), che data la morte del Diena in Germania al 1 novembre 1943, nella testimonianza di Giorgio Hasenbohler (“Corriere di Novara”, 13 ottobre 1983) e in www.ushmm.org. Le ricerche successive contemplano entrambe le ipotesi. In ambito vercellese, sono anche ricordati da Alberto Lovatto in Deportazione memoria comunità. Vercellesi, biellesi e valsesiani nei lager nazisti, Milano, Franco Angeli, 1998.
[2] La ricostruzione della vicenda di Bertie Sara Kaatz, iscritta alla Comunità israelitica di Vercelli, si trova in Rossella Bottini Treves - Lalla Negri, Novara ebraica. La presenza ebraica nel novarese dal Quattrocento all’età contemporanea, Novara, sn, 2005, pp. 86-93.
[3] I documenti dell’Ente di gestione e liquidazione immobiliare dei beni ebraici espropriati a seguito delle leggi antiebraiche del 1938 sono conservati nell’Archivio storico Intesa Sanpaolo.
[4] Archivio privato famiglia Cantoni, Alzano Lombardo (Bg), e Archivio privato famiglia Luca e Marcella Moia, Novara.
[5] Giuseppe Cantoni, conversazioni del 23 maggio 2014 e del 24 gennaio 2016; Sandra Taccola, conversazione del 21 febbraio 2019.
[6] L. Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah. 1943-1945, Torino, Einaudi, 2017, pp. 267-280.
[7] R. Bottini Treves - L. Negri, op. cit., pp. 94-97.
[8] Il motivo per cui Amadio Jona non si trova in nessun elenco di ebrei novaresi è dovuto al fatto che, dopo essere rimasto vedovo, aveva spostato la sua residenza da Novara a Torino, in una casa di proprietà in via San Martino, 10, come emerge dal fascicolo a lui intestato (Jona, Amadio, segnatura: 181 TO - GES 372 736) presente nel fondo Egeli già citato.
[9] Le notizie biografiche riportate provengono dai Fogli di famiglia intestati a Jona Amadio, Saulle Diena e poi Giacomo Diena, Archivio di Stato di Novara (d’ora in poi Asn), fondo Comune di Novara, parte III, Anagrafe, cassetta VIII, Foglio di famiglia n. 2120; fondo Comune di Novara parte antica, Reg. 64, Fogli di famiglia n. 9610; fondo Comune di Novara, bb. 1395 e 1396 sulla popolazione novarese, b. 1398, con i fascicoli nominativi degli ebrei residenti a Novara; fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 712.
[25] Si veda la nota 1, articolo ne “Il Corriere di Novara”, 13 ottobre 1983.
[26] Si vedano Carlo Gentile, Settembre 1943. Documenti sull’attività della Divisione Leibstandarte SS Adolf Hitler in Piemonte, in “Il presente e la storia”, n. 47, 1995, pp. 75-130, e i recenti studi dello studioso svizzero Raphael Rues.
[27] R.G.N.N. 24.016 del 1 ottobre 1943.
[28] Si veda la nota 16.
[29] Dell’elenco, proveniente dall’Archivio del carcere di Torino, sono venuta a conoscenza grazie a Rossella Bottini Treves.
[30] L. Picciotto, Il libro della memoria, cit. Oltre ai nomi dei deportati, il libro contiene l’elenco dei trasporti alle p. 44 e seguenti.
[31] La targa è nata dalla collaborazione tra Bpn, Cral e associazione “Noi della Bpn”, Comunità ebraica di Vercelli, Biella, Novara e Vco, Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola “Piero Fornara”.
[32] Si veda la nota 2.
[33] Si veda la nota 21.
[34] Si veda la nota 5.
[35] Anche di questo elenco di prigioniere, analogo a quello di Diena e Jona per i detenuti maschi, proveniente dall’Archivio del carcere di Torino, sono venuta a conoscenza grazie a Rossella Bottini Treves.
[36] Si veda la nota 30.
[37] Comune di Novara, Archivio del Cimitero, Registri dei seppellimenti, 1943 e 1944.
[38] Asn, fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 712.
Anna Cardano, I sommersi del 19 settembre 1943 a Novara. Giacomo Diena, Amadio Jona, Bertie Sara Kaatz, l'impegno - Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, 24 gennaio 2022