Ma voi, claquers, ditemi immantinente
se resterà almeno un filo
dei miei concerti o se, tranne
la spuma dei vostri entusiasmi,
di fatto non c’era niente.
Sonerò ancora lo splendido violino verde,
finché le mani ce la faranno.
Sento però che la mia destrezza si perde
e crescono il disinganno e l’affanno.
Ma voi, claquers, assicuratemi
che di me durerà almeno un rigo,
che delle mie sconsolate sonate
qualcosa...
Luca Simoncelli, Sanremo, il giornalismo piange il collega Giovanni Choukhadarian: morto a soli 50 anni, Riviera 24.it, 2 febbraio 2018
Nato e vissuto a Sanremo, ma di origini armene, Giovanni Choukhadarian era un animatore culturale e un giornalista che collaborava sia con giornali locali, sia con testate nazionali. Si occupava prevalentemente di spettacolo, ma non solo. Persona colta e dai modi garbati, era piacevole chiacchierare con lui quando ci si incontrava nella sala stampa dell’Ariston, durante i giorni del Festival, o al Premio Tenco, del quale era assiduo frequentatore.
Per gli amici era “Chouka”, e quanto fosse benvoluto lo dimostrano i tanti post apparsi sui social appena si è diffusa la notizia della sua dipartita.
Massimo Poggini, Addio al giornalista Giovanni Choukhadarian, Spettakolo, 2 febbraio 2018
Ieri pomeriggio, martedì 15 dicembre 2015, presso la sala Nino Lamboglia dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri a Bordighera, ha avuto luogo la presentazione della seconda ristampa del catalogo col quale Daniele Audetto ha voluto ricordare il suo passato di giovane pittore.
Oltre alla riproduzione fotografica dei suoi dipinti, riproposti nel luglio dell’anno scorso nella mostra all’oratorio San Bartolomeo degli Armeni del Paese Alto, il catalogo raccoglie anche suoi scritti sugli amici pittori e scrittori che hanno animato la vita culturale di Bordighera e della Riviera: Seborga, Cammi, Gian Antonio, Bilinsky, Morlotti, Maiolino, Gagliolo, Truzzi e tanti altri.
Una straordinaria galleria di personaggi, raccontati con sensibilità e affetto, ben oltre l’aneddotica.
Presente in veste di padrona di casa la Dottoressa Daniela Gandolfi, ha fatto da intervistatore, dopo l’introduzione di Giorgio Loreti, il giornalista Giovanni Choukhadarian.
Chiara Salvini, Una serata per artisti a Bordighera al Museo Bicknell, Nel delirio non ero mai sola, 17 dicembre 2015
La prima volta che ho incontrato Giovanni [Choukhadarian] di persona per me era ancora Silvio: così si faceva chiamare e chissà perché, non me lo ha mai spiegato, su it.cultura.libri, il newsgroup dove ci eravamo conosciuti e che tutti noi, ossessionati dai libri e utenti internet della prima ora, utilizzavamo negli anni novanta per scambiarci idee su lettura e scrittura, quando blog e social network erano ancora di là da venire. In quel newsgroup la più parte dei partecipanti litigava, si insultava, ‘Silvio’ invece commentava con impeccabile eleganza. Erano anche i tempi in cui ancora non esistevano Google e Wikipedia ma ‘Silvio’ spaccava il capello in quattro, leggeva tutto, aveva letto tutto. Detestava le cadute di stile tanto nei libri quanto nei commenti su quei libri, detestava il conformismo, la volgarità. Poteva intraprendere scontri che diventavano thread infiniti, ma non smetteva in nessun caso i suoi modi da signore.
Quella prima volta che l’ho incontrato di persona, quando da Silvio è diventato Giovanni, è stata, e dove altrimenti, a un Salone del Libro di Torino. Era un maggio caldo, Giovanni aveva uno dei suoi vestiti chiari e leggeri, una camicia bianca, i mocassini, la pochette color lillà rigogliosa nel taschino della giacca. Spiccava da lontano per distinzione in quel serraglio di addetti ai lavori e lettori tutti egualmente affaticati, sudati, nevrotici. Anche in carne, ossa, lino e seta, era il gentiluomo che mi aspettavo da quel che scriveva: elegante, però anche fuori dal comune, né rettilineo né curvilineo nelle idee, nel portamento, nei movimenti, piuttosto frastagliato, spigoloso, come seguisse un’imprevedibile spezzata. Avrei saputo anni dopo che quella vaga irregolarità del portamento, quel percorso impercettibilmente spezzato dei movimenti, non era un vezzo, ma la conseguenza di un primo episodio ischemico.
[...] Il cognome Choukhadarian viene dal padre armeno, rifugiato a Gerusalemme ed emigrato in Liguria, a Taggia, negli anni sessanta, dove si sposò e Ohannès, Giovanni, nacque nel ’67. Ci fu prima il liceo classico, poi giurisprudenza in Cattolica a Milano, poi gli anni in cui fu venditore per la Utet che si sovrappongono agli anni di it.cultura.libri e dopo ancora, prima dell’Hospice di Sanremo, c’è stato il mondo di Giovanni. Scrivere di libri, occuparsi di libri - ma anche scrivere e occuparsi di musica, l’altra sua grande passione - era stata un’evoluzione naturale dopo i newsgroup. In rete pubblicava e commentava nei siti dove la discussione era più seria e per così dire tecnica, mi ricordo per certo di Vibrisse (il sito/blog di Giulio Mozzi), di Lipperatura (quello di Loredana Lipperini), di Nazione Indiana (nato per mano di Scarpa, Moresco, Voltolini, proseguito poi con altre teste e altre mani), in tempi più recenti naturalmente Doppiozero. Sulla carta stampata avrebbe scritto per testate locali come La Riviera e l’Eco della Riviera, e per le pagine culturali dei quotidiani La Repubblica, Il Giornale, Il Foglio, prevalentemente firmando recensioni di narrativa.
Era ospite fisso della sala stampa del Festival di Sanremo e del premio Tenco, viaggiava per festival musicali e letterari, è stato tra i giurati-lettori del Campiello insieme a Silvana e presentava, ecco, soprattutto presentava i libri degli amici e ogni volta era uno spettacolo. Elegante, con la camicia d’estate e il dolcevita nei mesi più freschi, poi giacca e immancabilmente pochette, lungo le sue spezzate di movimento e di pensiero prendeva in contropiede spettatori e autore. Era impossibile opporsi, contrastarlo, cercare di guadagnare il centro dell’attenzione, il centro era lui ed era giusto così, ne sapeva più di te persino del tuo libro. Riconosciuto questo allora era bello lasciarsi trasportare, lasciarlo fare, perché in quelle occasioni ‘istrione’ e ‘mattatore’ erano le parole che meglio lo descrivevano.
Di presentazioni di miei libri ne avrà fatte un centinaio, ma me ne ricordo solo quattro o cinque, tre sono quelle che ho fatto con lui. La più memorabile? Quella in una Diano Marina invernale, deserta, ‘se spari dieci colpi di fucile ad alzo zero non prendi nessuno’, così ne parlavano quel giorno gli amici liguri. Era domenica, Giovanni aveva inventato un ‘pranzo con l’autore’ che aveva raccolto una manciata di adesioni, eravamo in uno dei pochissimi ristoranti di Diano aperti, c’eravamo io, lui, Silvana, i nostri pochi appassionati lettori seduti con noi e poi due tavoli di avventori ignari. Una famiglia e due coppie di coniugi anziani, che al posto della frittura di pesce si erano visti arrivare Giovanni con un microfono e il mio libro in mano. Giovanni che aveva respinto le loro proteste, li aveva costretti al silenzio, all’ascolto, mi aveva fatto dire un paio di cose mentre lui ne diceva venti. Aveva letto delle pagine. Non aveva esitato a sedersi al tavolo di quelle brave persone. Prima del dessert già gli aveva venduto non una copia a tavolo ma una a testa, con tanto di sentiti ringraziamenti e strette di mano.
Sono felice di aver potuto scrivere qualcosa per il mio amico Giovanni. Come lui ne esistevano pochissimi, anzi forse solo uno. Sono felice che in questo modo qualcosa su di lui rimanga nella rete, ma vorrei che ne rimasse ancora di più. Sto meditando di aprire una voce wikipedia a suo nome. Ne parlavo giorni fa con Silvana, chiedendole se per caso non esistesse già e mi fosse sfuggita. La sua battuta, perfetta: “no, non c’è. Giovanni su Wikipedia compare alla voce ‘pochette’.”
Piersandro Pallavicini, Ciao Giovanni..., Doppio Zero, 16 febbraio 2018
Nel ciclo inesorabile dei repêchage, siamo arrivati da un bel po’ agli anni Ottanta. Non sono più gli anni dell’edonismo reaganiano, o forse lo sono ancora, ma adesso li si ricorda con nostalgia, se non proprio con orgoglio. Le tivù satellitari riscoprono gli spettacolini scollacciati con Umberto Staila, le discoteche si attrezzano con i successi della disco dance italiana del tempo, giornalisti fino a qualche tempo fa insospettabili di reducismo pubblicano libretti anche gradevoli in cui si fanno cantori di gesta una volta impronunciabili (uno per tutti: Stefano Di Michele, I magnifici anni Ottanta, Venezia, Marsilio, 2003).
Il punto è che, come in tutti i revival, c’è il rischio di non cogliere le complessità, le differenze, al limite anche le obiezioni e le opposizioni. Un quadro più completo di quel decennio lo offre l’esordio da romanziere di Silvio Bernelli, bassista nelle più importanti hardcore band del periodo, oggi ancora musicista e copywriter.
Nelle note di copertina, che non sono firmate ma è facile attribuire a Giulio Mozzi, si avverte che “questo non è né un ‘romanzo musicale’ né un ‘romanzo generazionale’”. E’ però anche quello e bisogna esserne grati all’autore.
Se la maggioranza dei 18-20enni del tempo s’imbrillantinavano, calzavano scarponcini Timberland e calzettoni colorati Burlington e ascoltavano Gazebo e Sandy Marton, altri ce n’erano per cui i miti erano la California dei Minor Threat, degli Avengers o dei Suicidal Tendencies: la fiorente hardcore punk scene, della quale Silvio Bernelli, prima coi Declino, poi coi Negazione e infine con gli Indigesti è stato un autentico pioniere. Di questi adolescenti non riconciliati, Bernelli illustra non soltanto - e sarebbe già moltissimo - la passione per la musica, ma anche e magari soprattutto le singole vicende umane, le storie d’amore e d’amicizia.
Nei “Ragazzi del Mucchio” non si scorge volontà mitografica. L’ultimo capitolo racconta di ragazzi divenuti, da adulti, architetti, web designer, istruttori di kung fu. Rispetto ai loro coetanei integrati, però, nei ragazzi del Mucchio sembra sopravvivere un desiderio, forse non del tutto espresso, di libertà e indipendenza. Gran merito di Silvio Bernelli è averlo spiegato in queste pagine veloci e appassionate.
Calvino editore spiegava i suoi criteri per stabilire “se un libro c’è o non c’è: se ha un linguaggio, se ha una struttura, se fa vedere qualcosa, possibilmente di nuovo”. “I ragazzi del mucchio”, scelti da Giulio Mozzi per la collana indicativo presente, corrispondono in pieno a queste richieste.
Giovanni Choukhadarian, Adolescenti non riconciliati, Stilos, 01.07.2003, art. qui ripreso da Sironi Editore