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lunedì 5 giugno 2023

Il romanzo "Il Clandestino" è attento anche alla stratificazione sociale


Come Il partigiano Johnny, anche Il Clandestino <12 di Mario Tobino è un affresco della Resistenza - in particolare dei suoi inizi - in cui l'evento storico in questione non è più allontanato e demonizzato ma assunto come momento positivo del riscatto di un'umanità fino a quel momento soffocata dal regime. È il primo romanzo in cui Tobino affronta questo nodo tematico, che toccherà tangenzialmente nel racconto Una giornata con Dufenne <13 e riprenderà poi con Tre amici. <14 Opera dalla lunga gestazione <15 e dall'origine autobiografica, Il Clandestino racconta i primi passi del movimento partigiano nato nell'immaginario paese di Medusa, dietro cui si distingue Viareggio. Al centro non è più un singolo personaggio come nei romanzi fenogliani ma un'intera comunità, che rivive nell'impostazione corale di un intreccio in cui le figure centrali sono alter ego di donne e uomini realmente esistiti. Il titolo stesso guida il lettore a far attenzione non ad un solo personaggio, come per il Partigiano, ma ad un protagonista collettivo: questo fa del romanzo di Tobino una tappa evolutiva da segnalare nel percorso della narrativa sulla Resistenza.
Non ci si concentra più sulle reazioni di un individuo che si trova perso ed isolato di fronte ad un evento più grande di lui; al contrario, la voce narrante pone l'accento su un cenacolo di persone, diverse per cultura ed estrazione sociale, che si uniscono, con entusiasmo e determinazione, nella lotta contro un nemico comune.
L'abilità pittorica dello scrittore si esercita nel ritrarre una gamma di personaggi molto diversi l'uno dall'altro. Guida l'organizzazione clandestina della lotta il Summonti, giovane di estrazione borghese ma convinto comunista - è conosciuto da tutti come il “prete rosso” - spesso frenato nelle sue decisioni da un credo politico che non lo aiuta a risolvere i tanti interrogativi della guerra civile; gli fa da spalla e da contrappeso il Mosca, ingegnere lontano dalle strette di partito e votato all'impeto, all'azione. Altro intellettuale e pensatore è Gustavo Duchen, docente di filosofia altruista e riflessivo, spesso riservato, che si lascia trasportare dall'entusiasmo della lotta; come lui Marino, scrittore e poeta che rifiuta la sua torre d'avorio e si unisce al gruppo clandestino, svincolandosi così dal ruolo iniziale dell'intellettuale inetto.
Il romanzo è attento anche alla stratificazione sociale: Adriatico, umile calafato orfano dei genitori, rappresenta la voce popolare di una città votata al mare e all'attività marinara. Uno spazio è riservato all'elemento nobiliare, con Saverio - ammiraglio nostalgico del Risorgimento e degli ambienti monarchici radiato dalla Marina per discorsi sovversivi - e l'amante Nelly, contessa civettuola e apparentemente superficiale, accompagnati dal loro entourage. Non mancano i rappresentanti della parte avversa: i fascisti bastonatori di Medusa, il podestà e i repubblichini.
Con pochi tratti descrittivi o sfruttando episodi salienti, la voce narrante sa mantenere tutti i personaggi su uno stesso livello di approfondimento caratteriale, tanto che risulta impossibile individuare un protagonista che svetti sugli altri. Il romanzo, inoltre, si apre grazie all'ampio respiro del narratore onnisciente ad abbracciare l'intera collettività che in esso si agita.
Si deve ammettere certo che il romanzo di Tobino è popolato da personaggi così calati nel loro ruolo, così solidali gli uni con gli altri e decisi nelle loro azioni da risultare irreali: la determinazione priva di qualsiasi paura, l'indomito coraggio che li smuove, l'universale accordo nato tra loro rasenta un ideale che difficilmente può essere creduto possibile. Nel mondo di Tobino, i buoni e i cattivi, i valorosi e gli opportunisti sono divisi con l'accetta, senza chiaroscuri.
La coralità del romanzo coinvolge anche la cittadina di Medusa con le sue vie, il mare e il territorio circostante, tanto che può essere considerata una protagonista alla pari degli altri. Apre il primo capitolo, infatti, la descrizione della città, con le sue passioni e i suoi difetti, che reagisce al messaggio radio del 25 luglio allo stesso modo di una persona, in carne ed ossa: "A questi messaggi Medusa, come avvenne in tutte le città d'Italia, si risvegliò, immediatamente fu dimenticata la stagione balneare; Piazza Grande riebbe tutti i suoi diritti. Medusa oltre la celebrità balneare è giustamente nota per essere sensibile alla politica, per partecipare agli impeti ribelli e anarchici della regione dove è situata. Forse è il rischio del mare e il duro lavoro dei calafati che la sospinge a generose intemperanze; e la frequenza con gli oziosi bagnanti estivi oltre a donare ai medusiani il senso dell'ingiustizia sociale obbliga a constatare come la ricchezza di rado si accompagna alla virtù". <16
Lungo il romanzo, la voce narrante getta spesso uno sguardo alle sorti della cittadina, inerme spettatrice e vittima delle scelte umane. Ecco come la città è descritta, attraverso gli occhi di Anselmo, dopo l'arresto di alcuni componenti del gruppo clandestino. Medusa è come morta, privata dell'impeto della sua gioventù di ribelli: " 'Li hanno arrestati! Chi è stato? Da chi è partito, che gli faranno?' e rientrando in casa Anselmo ebbe la sensazione che la città fosse stata dissanguata, orbata della sua linfa gentile, ignobili mani l'avessero profanata, udì nella testa un brusio di pensieri, uno sciame che vola caldo nel sole". <17
Ulteriore esempio è la descrizione della città dopo la partenza degli antifascisti del gruppo clandestino, decisi a creare una formazione in montagna. Qui si legge chiaramente l'importanza che l'uomo riveste nel dare vita e storia allo spazio. Denudata dalle ruberie dei tedeschi e priva dei suoi combattenti, la città resta indifesa, quasi stupita di quel vuoto: "Laggiù Medusa era rimasta sola, senza neppure un cittadino. Chi poi per caso straordinario ci capitò raccontava che era immersa in un silenzio, uno stupore; lungo i marciapiedi erano cresciute delle erbe, dei ramoscelli. Se si percorrevano in bicicletta le strade risuonava netto e quasi pauroso il fruscio delle gomme, il ticchettio della ruota libera. Tutte le porte delle case erano aperte, c'entrava l'aria, la luce, il buio. Quando si alzava il libeccio le porte sbattevano. Sulla spiaggia si erano formate le dune, i pesci arrivavano indisturbati alla riva. I tedeschi avevano fatto crollare tutti i campanili delle chiese, anche il più antico, quello di Santa Rosalia; i rottami giacevano su un lato". <18
La città vive, quindi, nei suoi abitanti: privata di essi, risulta un corpo vuoto, inerte. Ambientato per la più parte in una città marittima, di marinai e calafati, raramente nel romanzo si intravede l'ambiente, collinare o montuoso, tipico dei racconti partigiani. Nelle poche pagine in cui questo avviene, anche il paesaggio naturale, come la città, assume connotati e sentimenti umani, razionali, e porta l'impronta della comunità che vi si muove: elemento, questo, che differenzia molto Tobino da Fenoglio, per il quale la natura è invece una forza indipendente dall'uomo, che agisce su di lui inducendolo ad assumere comportamenti ferini, fino alla completa disumanizzazione.
Nel Clandestino la montagna, per esempio, è sempre collegata all'immagine della famiglia di Duchen, che lì vive; il prato scelto per il lancio è detto «il prato della Teresa», <19 e come il prato anche la caverna individuata per nascondere la merce ha un nome: la caverna «della Scimmia Pelosa». <20 La grotta stessa è descritta con termini più adatti ad illustrare un'abitazione o uno spazio antropizzato piuttosto che un luogo scavato dalla natura dentro al cuore della montagna: "Gli parve di essere tornati ragazzi, quando la prima volta si ascolta la descrizione della casa dell'orco. Si entrava nella caverna per un varco, giusto la misura di un uomo. Al di là c'era un atrio di pochi passi; dirimpetto iniziava un cunicolo, un corto e stretto corridoio. Per percorrerlo si scontrava nelle gibbosità delle pareti. Al di là si apriva il salone, un largo; la volta in certi punti era schiacciata, in altri era nera d'ombra come un camino, tanto era alta. In terra si scontrava in sassi aguzzi. Un uccello notturno cominciò a stridere e a volare; quando era investito dalla luce delle lampade gli si vedeva il ventre color topo, tumido. Il salone era largo numerosi metri". <21
È la presenza dell'individuo, quindi, ad essere preponderante e non la forza vitale della natura. Anche quando non è antropico, l'ambiente perde i suoi attributi naturali per assumere sentimenti tipicamente umani. Ciò rende ancora più evidente che il romanzo ha al suo centro la coralità di un gruppo variegato di uomini e donne, i quali animano spazio e tempo con i loro progetti, errori e traguardi.
Il racconto si snoda tra i primi tentativi di organizzazione del gruppo, gli iniziali fallimenti causati dall'eccessivo impeto, il trasferimento inconcludente a Saltocchio, il ritorno in città. Dall'altra parte, si vedono anche i movimenti dei repubblichini, ma sono descritti in trasparenza, come se questi ultimi fossero già dati per perdenti, votati al fallimento ancora prima che la lotta inizi. L'azione dei partigiani, per quanto alle prime armi, e l'entusiasmo positivo che li sostiene, sono invece centrali: la prima operazione ben riuscita è la bomba innescata al Balipedio di Medusa, deposito dei proiettili dell'esercito italiano.
In seguito, il gruppo si attiva per stabilire un contatto con gli Alleati, avvalendosi del coraggio di Rosa - dietro di lei si nasconde la medaglia al valore militare Vera Vassalle - che attraverserà le linee e tornerà a Medusa con una radio e con le istruzioni per poterla utilizzare.
[NOTE]
12 MARIO TOBINO, Il Clandestino, Milano, Mondadori, 1962, da cui citerò.
13 M. TOBINO, Una giornata con Dufenne, Milano, Bompiani, 1968.
14 M. TOBINO, Tre amici, Milano, Mondadori, 1988.
15 L'introduzione di Paola Italia all'edizione del 2013 (PAOLA ITALIA, Introduzione, in M. TOBINO, Il Clandestino, Milano, Mondadori, 2013, pp. VII-XX) ricostruisce le tappe di stesura del romanzo, mostrando che l'autore ne accarezzava l'idea già all'indomani della Liberazione.
16 M. TOBINO, Il clandestino, cit., p. 13.
17 Ivi, p. 501.
18 Ivi, p. 558.
19 Ivi, p. 311.
20 Ivi, p. 313.
21 Ibid.
Sara Lorenzetti, Narrativa e resistenza: "invenzione" della letteratura e testimonianza della storia, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” - Vercelli, Anno Accademico 2014/2015

domenica 28 maggio 2023

La banda partigiana di Beltrami non è politicizzata


A Novara Gino Vermicelli cerca dei contatti comunisti e arriva tramite vari informatori a Romagnano, presso lo studio di un avvocato, dove si riunisce il Fronte Nazionale dei cinque partiti antifascisti, l’embrione del CLN.
Lentamente riprende i contatti con i compagni di Borgomanero, Omegna, Gravellona; in questo periodo egli conosce Gaspare Pajetta, che diventerà suo grande amico. L’8 settembre è per tutti una doccia fredda: il CLN è costretto a spostarsi a Meina per sfuggire ai Tedeschi che hanno velocemente occupato Novara. Gino e Gaspare rimangono in città per riorganizzare la federazione del partito: nascosti in un deposito di vernici scrivono e stampano “La Lotta” <33, un periodico fondato da loro che continuò ad esistere fino al 1961. Presto vengono raggiunti da Pietro Flecchia, un confinato comunista biellese che pretende di assumere la direzione della federazione. Gino viene così “retrocesso” a responsabile militare: il suo compito diventa organizzare la Resistenza. Il nuovo incarico affidatogli lo porta a Borgosesia, dove conosce Cino Moscatelli, personaggio di spicco che, d’accordo con l’ex-podestà della città, raccoglie armi e sbandati per organizzare la guerriglia; non rimane però con lui a causa di alcuni problemi sorti tra Vermicelli e gli altri combattenti.
Gino decide di raggiungere l’altro gruppo partigiano della zona, quello del “capitano” Filippo Maria Beltrami, ma è coinvolto in una trappola tesa dai fascisti. Viene infatti catturato insieme al commissario politico di Beltrami: fortunatamente entrambi sono presto liberati grazie ad uno scambio di prigionieri. La decisione finale di Gino, che da questo momento sarà Edoardo, è salire in montagna con Beltrami, che l’ha salvato. Così egli sale a Campello Monti, dove ritrova l’amico Pajetta, che si era già unito al gruppo del “capitano”. Questa non è una banda “politicizzata”: Beltrami, essendo un ex ufficiale, adotta ancora la mentalità e i modi di fare tipici del regio esercito, con le sue gerarchie e i suoi cerimoniali; Gino e Gaspare organizzano comunque una cellula comunista all’interno del gruppo.
Purtroppo la banda viene presto decimata durante una sanguinosa battaglia avvenuta a Megolo [nd.r.: Frazione di Pieve Vergonte (provincia del Verbano-Cusio-Ossola)], il 13 febbraio 1944: Gino sopravvive per miracolo, ma l’amico Pajetta e Beltrami soccombono. “Edoardo” torna così a Rimella da Moscatelli, dove, ritrovati altri sopravvissuti alla battaglia di Megolo, si forma un nuovo distaccamento, che viene mandato in Val d’Ossola.
Vermicelli ottiene l’incarico di commissario politico per questo nuovo gruppo. La figura del commissario politico è fondamentale per tutte le formazioni partigiane, dalla più piccola, il battaglione, alla più numerosa, la divisione: affianca in ogni decisione il comandante, e si occupa della politicizzazione dei volontari, cioè deve insegnare loro l’etica del partigiano, i valori e i comportamenti da seguire in battaglia e nei confronti della popolazione che vive nelle montagne. Vermicelli cerca sempre, durante gli anni da partigiano, di comportarsi in modo eticamente irreprensibile, per dare il buon esempio ai giovani.
Il continuo afflusso di volontari, conseguente all’emissione dei bandi Graziani per l’arruolamento forzato, trasforma il distaccamento in battaglione; arriva anche il nuovo comandante, che deve affiancare Vermicelli al comando: Andrea Cascella. Il gruppo si disloca un po’ in Ossola, un po’ in Val Formazza e un po’ in Val Antigorio. I rastrellamenti operati dai Tedeschi sono abbastanza frequenti, per cui i partigiani devono essere spesso in movimento, per evitare di essere individuati. In poco tempo il battaglione diventa divisione, e “Edoardo” ottiene dal CLN l’incarico di vice-commissario.
La liberazione dell’Ossola, che avviene tra il 9 e il 10 settembre 1944 e a cui contribuisce anche Vermicelli, è un fatto spontaneo, non stabilito a tavolino da nessun comando superiore. I vari fortini nazifascisti dislocati un po’ ovunque nella valle sono attaccati quasi simultaneamente da vari gruppi partigiani, comunisti o autonomi, e facilmente occupati. I Tedeschi abbandonano Villadossola, dove c’è il comando tedesco, senza nemmeno aprire il fuoco, lasciando il posto ai partigiani, che prendono in mano il governo della valle, costituendo la Giunta provvisoria di governo dell’Ossola. Vermicelli però rifiuta di partecipare alla gestione della zona: secondo lui il controllo del territorio deve essere lasciato agli abitanti, poiché il compito dei partigiani è solo quello di liberare le zone occupate, non di governarle.
La mancanza di aiuti materiali e di assistenza da parte degli Alleati fa presto fallire questo tentativo di governo democratico, che dura soltanto 43 giorni, dal 10 settembre al 23 ottobre 1944: un nuovo attacco tedesco partito da Gravellona respinge di nuovo i partigiani, che sono costretti ad abbandonare Domodossola.
Dopo la sconfitta, Vermicelli contribuisce a riorganizzare la divisione; i vari distaccamenti ottengono lanci e aiuti dal CLN per affrontare l’inverno alle porte, e riescono ad attuare piccole operazioni di guerriglia, per poter controllare le centrali elettriche della Val Antigorio.
33 “La Lotta”, Novara (1947-1961).
Sara Lorenzetti, Gino Vermicelli tra Resistenza e scrittura, Tesi di laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro, Anno accademico 2006-2007 

[...] "Un bel dì mi venne il fregolo/di fermarmi in quel di Megolo!”. Così inizia così la canzone scritta dal Capitano Filippo Maria Beltrami dopo la faticosa traversata invernale dei suoi partigiani dopo l'abbandono della Valstrona alla fine di gennaio 1944. Non tutti gli uomini, dei quasi trecento che costituivano la "Brigata Patrioti Valstrona", arrivarono nella frazione di Pieve Vergonte: una sessantina se ne andò deponendo le armi; un gruppo sbagliò sentiero e paese; alcuni abbandonarono la formazione durante il tragitto; altri furono inseguiti e impegnati in combattimento. A Megolo, col Capitano, giunsero soltanto una quarantina di uomini. Il componimento, scritto dopo una cena all'albergo del Ramo Secco, risente di quelle disavventure. Nelle due settimane in cui si fermò a Megolo, Beltrami attese per ricostituire la formazione, allontanandosi soltanto per effettuare un attacco alla casermetta di Vogogna. La posizione non era certo favorevole, oltre che facilmente individuabile era poco adatta ad un combattimento. All'alba del 13 febbraio del 1944 i reparti delle SS, appoggiati da una compagnia di repubblichini, giungono a Pieve Vergonte con l'intento di stroncare la Resistenza partigiana. Sorpresi nel sonno, due giovani vengono catturati e torturati ma non riveleranno nulla. Saranno fucilati accanto all'osteria del paese. Intanto i 53 partigiani del Capitano Filippo Maria Beltrami, avvisati del rastrellamento, si preparano a resistere sulle balze del Cortavolo a Megolo contro più di cinquecento nazi-fascisti perfettamente armati. L'armamentario dei partigiani è misero: una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra e una cinquantina di moschetti. La nebbia dà loro una mano, celandoli sino al momento in cui i nazi-fascisti sono a tiro. La battaglia sarà lunga e cruenta vivendo fasi alterne: i partigiani non si arrendono anzi, riescono anche a costringere i nazi-fascisti a un disordinato ritiro. Ma le forze in campo sono troppo impari. Nell'abitato di Megolo il momento più tragico della battaglia, è una strage. Cade il capitano Beltrami e due giovani combattenti che si spingono in suo aiuto: lo studente 17enne Gaspare Pajetta e Antonio Di Dio, 20 anni, ufficiale di carriera unitosi alla Resistenza dopo l'8 settembre. Quella battaglia segnò l'apice e contemporaneamente la fine della "Brigata Patrioti Valstrona". Caddero combattendo Filippo Maria Beltrami "Il Capitano", Carlo Antibo, Giovanni Bressani Bassano, Aldo Carletti, Gianni Citterio, Angelo Clavena, Bartolomeo Creola, Antonio Di Dio, Emilio Gorla, Paolo Marino, Gaspare Pajetta ed Elio Toninelli. Nel piccolo cimitero di Megolo sono ancora sepolti Gaspare Pajetta e lo studente Aldo Carletti che con lui, da Torino, s'era arruolato nella "banda" Beltrami e vi era morto al fianco, quella mattina, poco dopo le otto. Qui hanno voluto essere sepolti i genitori di Gaspare Pajetta e anche i due fratelli, Giuliano e Giancarlo.
Marco Travaglini, Val Grande, Memoria resistente: la Val Grande e Megolo, 26 ottobre 2022

La battaglia di Megolo fu uno degli episodi più eroici della Resistenza. Il 13 febbraio 1944, alle prime luci dell’alba, reparti delle SS, appoggiati da una compagnia della GNR, invasero la piccola frazione di Pieve Vergonte, con l’intento di stroncare la Resistenza dei ribelli che operavano in quel luogo. Due giovani partigiani, che riposavano in attesa di raggiungere i loro distaccamenti, furono sorpresi nel sonno e catturati. Trascinati davanti al comandante delle SS furono a lungo e invano torturati, non fecero alcuna rivelazione. Alla fine, ormai quasi in fin di vita, furono fucilati nella piazzetta a lato dell’osteria del paese.
Avvertiti del rastrellamento in corso, i partigiani della valle, al comando del Capitano Filippo Maria Beltrami, architetto, 36 anni,  medaglia d’Oro al Valor Militare, si disposero a resistere: erano 53 uomini con una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra e una cinquantina di moschetti contro più di cinquecento nazi-fascisti armati di tutto punto, con un cannoncino, due mortai, tre mitragliatrici, fucili mitragliatori e mitra.
Mentre la nebbia di disperdeva e i raggi del sole iniziavano a illuminare il nuovo giorno, i partigiani osservavano in silenzio l’avanzare della colonna nemica. Era necessario attendere che i nazi-fascisti giungessero a tiro, per non sprecare le munizioni. I tedeschi avanzavano su tre linee distanziate fra loro di qualche metro, i fascisti avanzavano sulle due ali. Finalmente il Capitano diede il segnale e i partigiani iniziarono a sparare. Fu una battaglia lunga e cruenta, con fasi alterne. Più volte il fuoco dei partigiani costrinse gli avversari a ripiegare, ma sempre essi si riconpattavano e tornavano all’attacco. L’ unica arma pesante dei partigiani s’inceppò e dovette essere abbandonata, uno dei due mitragliatori fu raggiunto da un colpo di mortaio. Con le poche munizioni rimaste non potevano più resistere a lungo. Il Capitano respinse per la seconda volta l’invito ad arrendersi. Era necessario attaccare il nemico e i partigiani balzarono all’assalto. Sorpresi dall’azione i nazi-fascisti iniziarono a ritirarsi disordinatamente, inseguiti dai ribelli. L’azione terminò nell’abitato di Megolo, dove gli inseguitori furono falcidiati dalle mitragliatrici dei rinforzi giunti dall’Ossola in appoggio dei nazisti. Cadde anche il capitano Beltrami, mentre cercava di riorganizzare i suoi uomini, e caddero, mentre cercavano generosamente di soccorrerlo, Gaspare Pajetta, studente torinese di 17 anni e Antonio Di Dio, di 20 anni, un ufficiale di carriera che dopo l’8 settembre si era unito alla Resistenza.
Un fascista, raggiunto Beltrami, fece scempio del suo corpo con un pugnale.
Il Cap. Simon, invece, riconoscendo la generosità, il valore, il coraggio, la nobiltà dei sentimenti dell’eroico comandante partigiano gli fece tributare gli onori militari da un reparto di SS.
Redazione, La battaglia di Megolo, ANPI Como, 15 maggio 2013