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domenica 28 maggio 2023

La banda partigiana di Beltrami non è politicizzata


A Novara Gino Vermicelli cerca dei contatti comunisti e arriva tramite vari informatori a Romagnano, presso lo studio di un avvocato, dove si riunisce il Fronte Nazionale dei cinque partiti antifascisti, l’embrione del CLN.
Lentamente riprende i contatti con i compagni di Borgomanero, Omegna, Gravellona; in questo periodo egli conosce Gaspare Pajetta, che diventerà suo grande amico. L’8 settembre è per tutti una doccia fredda: il CLN è costretto a spostarsi a Meina per sfuggire ai Tedeschi che hanno velocemente occupato Novara. Gino e Gaspare rimangono in città per riorganizzare la federazione del partito: nascosti in un deposito di vernici scrivono e stampano “La Lotta” <33, un periodico fondato da loro che continuò ad esistere fino al 1961. Presto vengono raggiunti da Pietro Flecchia, un confinato comunista biellese che pretende di assumere la direzione della federazione. Gino viene così “retrocesso” a responsabile militare: il suo compito diventa organizzare la Resistenza. Il nuovo incarico affidatogli lo porta a Borgosesia, dove conosce Cino Moscatelli, personaggio di spicco che, d’accordo con l’ex-podestà della città, raccoglie armi e sbandati per organizzare la guerriglia; non rimane però con lui a causa di alcuni problemi sorti tra Vermicelli e gli altri combattenti.
Gino decide di raggiungere l’altro gruppo partigiano della zona, quello del “capitano” Filippo Maria Beltrami, ma è coinvolto in una trappola tesa dai fascisti. Viene infatti catturato insieme al commissario politico di Beltrami: fortunatamente entrambi sono presto liberati grazie ad uno scambio di prigionieri. La decisione finale di Gino, che da questo momento sarà Edoardo, è salire in montagna con Beltrami, che l’ha salvato. Così egli sale a Campello Monti, dove ritrova l’amico Pajetta, che si era già unito al gruppo del “capitano”. Questa non è una banda “politicizzata”: Beltrami, essendo un ex ufficiale, adotta ancora la mentalità e i modi di fare tipici del regio esercito, con le sue gerarchie e i suoi cerimoniali; Gino e Gaspare organizzano comunque una cellula comunista all’interno del gruppo.
Purtroppo la banda viene presto decimata durante una sanguinosa battaglia avvenuta a Megolo [nd.r.: Frazione di Pieve Vergonte (provincia del Verbano-Cusio-Ossola)], il 13 febbraio 1944: Gino sopravvive per miracolo, ma l’amico Pajetta e Beltrami soccombono. “Edoardo” torna così a Rimella da Moscatelli, dove, ritrovati altri sopravvissuti alla battaglia di Megolo, si forma un nuovo distaccamento, che viene mandato in Val d’Ossola.
Vermicelli ottiene l’incarico di commissario politico per questo nuovo gruppo. La figura del commissario politico è fondamentale per tutte le formazioni partigiane, dalla più piccola, il battaglione, alla più numerosa, la divisione: affianca in ogni decisione il comandante, e si occupa della politicizzazione dei volontari, cioè deve insegnare loro l’etica del partigiano, i valori e i comportamenti da seguire in battaglia e nei confronti della popolazione che vive nelle montagne. Vermicelli cerca sempre, durante gli anni da partigiano, di comportarsi in modo eticamente irreprensibile, per dare il buon esempio ai giovani.
Il continuo afflusso di volontari, conseguente all’emissione dei bandi Graziani per l’arruolamento forzato, trasforma il distaccamento in battaglione; arriva anche il nuovo comandante, che deve affiancare Vermicelli al comando: Andrea Cascella. Il gruppo si disloca un po’ in Ossola, un po’ in Val Formazza e un po’ in Val Antigorio. I rastrellamenti operati dai Tedeschi sono abbastanza frequenti, per cui i partigiani devono essere spesso in movimento, per evitare di essere individuati. In poco tempo il battaglione diventa divisione, e “Edoardo” ottiene dal CLN l’incarico di vice-commissario.
La liberazione dell’Ossola, che avviene tra il 9 e il 10 settembre 1944 e a cui contribuisce anche Vermicelli, è un fatto spontaneo, non stabilito a tavolino da nessun comando superiore. I vari fortini nazifascisti dislocati un po’ ovunque nella valle sono attaccati quasi simultaneamente da vari gruppi partigiani, comunisti o autonomi, e facilmente occupati. I Tedeschi abbandonano Villadossola, dove c’è il comando tedesco, senza nemmeno aprire il fuoco, lasciando il posto ai partigiani, che prendono in mano il governo della valle, costituendo la Giunta provvisoria di governo dell’Ossola. Vermicelli però rifiuta di partecipare alla gestione della zona: secondo lui il controllo del territorio deve essere lasciato agli abitanti, poiché il compito dei partigiani è solo quello di liberare le zone occupate, non di governarle.
La mancanza di aiuti materiali e di assistenza da parte degli Alleati fa presto fallire questo tentativo di governo democratico, che dura soltanto 43 giorni, dal 10 settembre al 23 ottobre 1944: un nuovo attacco tedesco partito da Gravellona respinge di nuovo i partigiani, che sono costretti ad abbandonare Domodossola.
Dopo la sconfitta, Vermicelli contribuisce a riorganizzare la divisione; i vari distaccamenti ottengono lanci e aiuti dal CLN per affrontare l’inverno alle porte, e riescono ad attuare piccole operazioni di guerriglia, per poter controllare le centrali elettriche della Val Antigorio.
33 “La Lotta”, Novara (1947-1961).
Sara Lorenzetti, Gino Vermicelli tra Resistenza e scrittura, Tesi di laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro, Anno accademico 2006-2007 

[...] "Un bel dì mi venne il fregolo/di fermarmi in quel di Megolo!”. Così inizia così la canzone scritta dal Capitano Filippo Maria Beltrami dopo la faticosa traversata invernale dei suoi partigiani dopo l'abbandono della Valstrona alla fine di gennaio 1944. Non tutti gli uomini, dei quasi trecento che costituivano la "Brigata Patrioti Valstrona", arrivarono nella frazione di Pieve Vergonte: una sessantina se ne andò deponendo le armi; un gruppo sbagliò sentiero e paese; alcuni abbandonarono la formazione durante il tragitto; altri furono inseguiti e impegnati in combattimento. A Megolo, col Capitano, giunsero soltanto una quarantina di uomini. Il componimento, scritto dopo una cena all'albergo del Ramo Secco, risente di quelle disavventure. Nelle due settimane in cui si fermò a Megolo, Beltrami attese per ricostituire la formazione, allontanandosi soltanto per effettuare un attacco alla casermetta di Vogogna. La posizione non era certo favorevole, oltre che facilmente individuabile era poco adatta ad un combattimento. All'alba del 13 febbraio del 1944 i reparti delle SS, appoggiati da una compagnia di repubblichini, giungono a Pieve Vergonte con l'intento di stroncare la Resistenza partigiana. Sorpresi nel sonno, due giovani vengono catturati e torturati ma non riveleranno nulla. Saranno fucilati accanto all'osteria del paese. Intanto i 53 partigiani del Capitano Filippo Maria Beltrami, avvisati del rastrellamento, si preparano a resistere sulle balze del Cortavolo a Megolo contro più di cinquecento nazi-fascisti perfettamente armati. L'armamentario dei partigiani è misero: una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra e una cinquantina di moschetti. La nebbia dà loro una mano, celandoli sino al momento in cui i nazi-fascisti sono a tiro. La battaglia sarà lunga e cruenta vivendo fasi alterne: i partigiani non si arrendono anzi, riescono anche a costringere i nazi-fascisti a un disordinato ritiro. Ma le forze in campo sono troppo impari. Nell'abitato di Megolo il momento più tragico della battaglia, è una strage. Cade il capitano Beltrami e due giovani combattenti che si spingono in suo aiuto: lo studente 17enne Gaspare Pajetta e Antonio Di Dio, 20 anni, ufficiale di carriera unitosi alla Resistenza dopo l'8 settembre. Quella battaglia segnò l'apice e contemporaneamente la fine della "Brigata Patrioti Valstrona". Caddero combattendo Filippo Maria Beltrami "Il Capitano", Carlo Antibo, Giovanni Bressani Bassano, Aldo Carletti, Gianni Citterio, Angelo Clavena, Bartolomeo Creola, Antonio Di Dio, Emilio Gorla, Paolo Marino, Gaspare Pajetta ed Elio Toninelli. Nel piccolo cimitero di Megolo sono ancora sepolti Gaspare Pajetta e lo studente Aldo Carletti che con lui, da Torino, s'era arruolato nella "banda" Beltrami e vi era morto al fianco, quella mattina, poco dopo le otto. Qui hanno voluto essere sepolti i genitori di Gaspare Pajetta e anche i due fratelli, Giuliano e Giancarlo.
Marco Travaglini, Val Grande, Memoria resistente: la Val Grande e Megolo, 26 ottobre 2022

La battaglia di Megolo fu uno degli episodi più eroici della Resistenza. Il 13 febbraio 1944, alle prime luci dell’alba, reparti delle SS, appoggiati da una compagnia della GNR, invasero la piccola frazione di Pieve Vergonte, con l’intento di stroncare la Resistenza dei ribelli che operavano in quel luogo. Due giovani partigiani, che riposavano in attesa di raggiungere i loro distaccamenti, furono sorpresi nel sonno e catturati. Trascinati davanti al comandante delle SS furono a lungo e invano torturati, non fecero alcuna rivelazione. Alla fine, ormai quasi in fin di vita, furono fucilati nella piazzetta a lato dell’osteria del paese.
Avvertiti del rastrellamento in corso, i partigiani della valle, al comando del Capitano Filippo Maria Beltrami, architetto, 36 anni,  medaglia d’Oro al Valor Militare, si disposero a resistere: erano 53 uomini con una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra e una cinquantina di moschetti contro più di cinquecento nazi-fascisti armati di tutto punto, con un cannoncino, due mortai, tre mitragliatrici, fucili mitragliatori e mitra.
Mentre la nebbia di disperdeva e i raggi del sole iniziavano a illuminare il nuovo giorno, i partigiani osservavano in silenzio l’avanzare della colonna nemica. Era necessario attendere che i nazi-fascisti giungessero a tiro, per non sprecare le munizioni. I tedeschi avanzavano su tre linee distanziate fra loro di qualche metro, i fascisti avanzavano sulle due ali. Finalmente il Capitano diede il segnale e i partigiani iniziarono a sparare. Fu una battaglia lunga e cruenta, con fasi alterne. Più volte il fuoco dei partigiani costrinse gli avversari a ripiegare, ma sempre essi si riconpattavano e tornavano all’attacco. L’ unica arma pesante dei partigiani s’inceppò e dovette essere abbandonata, uno dei due mitragliatori fu raggiunto da un colpo di mortaio. Con le poche munizioni rimaste non potevano più resistere a lungo. Il Capitano respinse per la seconda volta l’invito ad arrendersi. Era necessario attaccare il nemico e i partigiani balzarono all’assalto. Sorpresi dall’azione i nazi-fascisti iniziarono a ritirarsi disordinatamente, inseguiti dai ribelli. L’azione terminò nell’abitato di Megolo, dove gli inseguitori furono falcidiati dalle mitragliatrici dei rinforzi giunti dall’Ossola in appoggio dei nazisti. Cadde anche il capitano Beltrami, mentre cercava di riorganizzare i suoi uomini, e caddero, mentre cercavano generosamente di soccorrerlo, Gaspare Pajetta, studente torinese di 17 anni e Antonio Di Dio, di 20 anni, un ufficiale di carriera che dopo l’8 settembre si era unito alla Resistenza.
Un fascista, raggiunto Beltrami, fece scempio del suo corpo con un pugnale.
Il Cap. Simon, invece, riconoscendo la generosità, il valore, il coraggio, la nobiltà dei sentimenti dell’eroico comandante partigiano gli fece tributare gli onori militari da un reparto di SS.
Redazione, La battaglia di Megolo, ANPI Como, 15 maggio 2013

mercoledì 2 febbraio 2022

I partigiani italiani e francesi ed i patti di Saretto

Saretto in una vecchia cartolina - Fonte: Marco Travaglini, art. cit. infra

Gli accordi sottoscritti a Saretto, in Val Maira, il 30 maggio 1944, furono approdo della complessa sequenza di iniziative di alcuni partigiani di rilevante preparazione  culturale e di rigoroso impegno politico per l'avvento della libertà  democratica. Va ricordato e posto in evidenza, in via preliminare, che a ideare, avviare e preparare nei dettagli l'inizio dei colloqui infine sfociati nell'intesa furono partigiani italiani, ai quali non sfuggiva la disparità di posizione dalla quale avrebbero preso le mosse qualsiasi confronto diretto italo-francese e che tuttavia non rinunziarono a priori a imboccare la via della ricerca di accordi nella lotta di liberazione, mirando a obiettivi politici in una visione di respiro europeo, che richiama l'attenzione dello storico per acume e lungimiranza, non disgiunta da solido pragmatismo.
Ben inteso i Patti furono impresa di uomini immersi da mesi in una guerra senza frontiere, nella quale non sempre si facevano prigionieri e la vita stessa era continuamente in gioco. Mentre la Repubblica sociale italiana intensificava una campagna volta a ottenere la "partecipazione", aleggiava l'illusoria speranza che la conclusione del conflitto fosse alle porte, almeno per l'ltalia o quanto meno per la costiera liguro-provenzale e il suo immediato entroterra, sicché ogni atto militare assumeva rilievo politico e qualsiasi decisione su contingenze particolari sembrava proiettarsi sul futuro, con conseguenze di portata vastissima.. Citando Mario Giovana, Frontiere, nazionalismi e realtà locali: Briga e Tenda (1945-1947), in Il Presente e la Storia, rivista dell'Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in provincia di Cuneo, n° 48, 1995, si piò ancora sottolineare che "oltre ad esprimere la soddisfazione dei contraenti per il ritrovamento di una base di intenti comune, avevano dichiarato l'inesistenza di ragioni di risentimento e di scontro per il recente passato politico e militare, che - affermavano i sottoscrittori - impegnava le responsabilità dei rispettivi governi e non quelle dei popoli medesimi, entrambi vittime di regimi d'oppressione e di corruzione. Inoltre, italiani e francesi proclamavano la piena solidarietà nella lotta contro il fascismo ed il nazismo, nonché contro le forze della reazione, quale necessaria fase preliminare dell'instaurazione delle libertà democratiche e della giustizia sociale in una libera comunità europea".
Questa piattaforma stipulata tra i partigiani che agivano ad est e ad ovest delle Alpi Marittime venne completamente disconosciuta dal generale Charles De Gaulle, in quanto i firmatari francesi degli accordi di Saretto erano "un avvocato radical-socialista di Aix-les- Bains, Max Juvenal, capo della R.2 , un avvocato democratico di sinistra nizzardo organizzatore del maquis del Laverq, Jean Lipman (caduto da valoroso nell'insurrezione), il socialista Maurice Piautier (vice comandante della R.2, anch'egli morto sul campo). Personaggi distanti anni luce dal rapimento di grandeur cui De Gaulle rimetteva il senso medesimo della propria missione".
La missione della quale si sentiva investito il generale francese, nei confronti del confinante stato italiano, consisteva prima di tutto nel non riconoscere il suo status di cobelligerante in quanto "nessun governo francese aveva aderito all'armistizio dell'8 settembre ed il Comitato francese di liberazione nazionale, che vi aveva aderito implicitamente, non era munito di riconoscimento come governo".
Sulla base di questa considerazione si doveva "punire" severamente l'Italia. 

Francobollo commemorativo dei patti di Saretto - Fonte: Marco Travaglini, art. cit. infra

Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

La borgata Saretto di Acceglio (CN) - Fonte: Marco Travaglini, art. cit. infra

Il 31 maggio 1944, a Saretto di Acceglio (CN), si svolse un cruciale incontro tra la resistenza italiana e francese.
L’incontro tra italiani e francesi fu organizzato per firmare gli accordi che sancivano rapporti di solidarietà, intesa, collaborazione e lotta contro la dominazione nazifascista. Queste intese rivestirono un importante valore storico, rappresentando la comunanza politica tra i due movimenti in lotta, il reciproco desiderio di stabilire relazioni e ricercare collaborazioni di tipo militare.
All’appuntamento si giunse grazie alle relazioni politiche avviate da Costanzo Picco, sottotenente della IV armata rimasto in territorio francese dopo lo sbandamento dell’8 settembre 1943, che stabilì i contatti fra la resistenza francese e italiana tramite Detto Dalmastro, comandante del III settore del Comitato di Liberazione Nazionale. Un primo incontro avvenne il 12 maggio 1944 in alta montagna, al bivacco sul Colle Sautron, per iniziativa della Brigata “Giustizia e Libertà della Valle Maira”, al quale presero parte in rappresentanza dei partigiani italiani Detto Dalmastro, Costanzo Picco, Luigi Ventre - comandante della brigata Valle Maira - e Giorgio Bocca, comandante della brigata Valle Varaita.
I francesi erano rappresentati da Jacques Lecuyer, del Comité de Libération National, e da diversi comandanti delle formazioni di maquisards. Al Colle del Sautron ci si accordò per un secondo incontro da tenersi a Barcelonnette, nella valle dell’Ubaye, a una trentina di chilometri dal confine italiano. Al rendez vous del 20 maggio presenziarono Duccio Galimberti, Detto Dalmastro e Giorgio Bocca. L’occasione servì a concordare l’intensificazione dei collegamenti tra le formazioni partigiane dei due versanti del confine, scambiandosi armi, munizioni e due ufficiali che si sarebbero stabiliti presso i rispettivi comandi per concordare azioni comuni: Costanzo Picco e Jean Lippmann. Si giunse così all’incontro decisivo, fissato per il 30 e 31 maggio, per sancire gli accordi anche sul versante italiano con l’arrivo dei maquis francesi attraverso il Colle delle Munie; inizialmente l’intesa doveva essere firmata ad Acceglio, dove si erano ritrovate le due delegazioni passando la notte in paese, ma un improvviso rastrellamento tedesco nella mattinata del 31 costrinse i partigiani a riparare più a monte, nella borgata di Saretto.
Parteciparono all’incontro i partigiani Dante Livio Bianco, Ezio Aceto e Luigi Ventre, mentre i francesi vennero rappresentati dal comandante Max Juvenal (Maxence) e dal suo vice Maurice Plantier. L’importanza degli accordi si distingue per il valore dell’enunciazione di una solidarietà tra i popoli oppressi, la volontà di cooperare per la sconfitta del nazifascismo e la costruzione di una nuova Europa democratica e libera da guerre fratricide. Dal punto di vista politico si riconobbe che non vi era ragione di risentimento fra i popoli italiano e francese per le passate vicende belliche in quanto la responsabilità risaliva ai rispettivi governi e non ai popoli; dal punto di vista militare i Patti di Saretto, preso atto della fratellanza fra i combattenti dei due movimenti partigiani, evidenziò la necessità di unire le forze nella lotta contro i nazisti nella fascia alpina, stabilendo contatti continui per creare obiettivi comuni nelle azioni di guerriglia. Il testo, coinciso e denso di significati, rappresentò una delle dichiarazioni più rilevanti della Resistenza europea, di fondamentale importanza nei rapporti tra Italia e Francia dopo la fine della guerra.
[...] In quelle indimenticabili giornate passate sui monti fra l’alta Valle Maira e la Val d’Ubaye, sprofondando nella neve, combattendo contro il gelo e attraversando di nascosto le postazioni tedesche a presidio delle terre di confine, si consolidò tra quegli uomini l’ideale di un’Europa dei popoli come traguardo della lotta di Resistenza e di liberazione. Il loro pensiero si rivelò così audace che quanto scrissero nei Patti di Saretto venne criticato dai comandi italiani, poiché i concetti espressi andavano ben oltre i confini dell’idea monarchica ponendo le basi per una fase preliminare di costituzione delle libertà democratiche e della giustizia sociale in una comunità europea libera.
Marco Travaglini, I “patti” di Saretto. Una pagina di antifascismo europeo tra i monti della Valle Maira, Crpiemonte, 10 agosto 2020 


Un'ampia relazione al Comitato di Liberazione Nazionale, non firmata ma sicuramente di Duccio Galimberti, fornisce l'interpretazione data a quell'intesa preliminare da parte del suo più autorevole propugnatore di parte italiana.
Essa doveva ristabilire la solidarietà latina e rafforzare la lotta comune per l'affermazione delle libertà democratiche.
Anche alla delegazione di parte francese, integrata con un inviato della Commissione Interalleata di Algeri, era evidente la portata politica degli accordi, tantoché venne convenuto di diramare da radio Algeri un comunicato del seguente tenore: "Fra il Comitato di Liberazione Nazionale Italiano e le Forces Françaises de l'Intérieur si sono raggiunti concreti accordi ufficiali, sulla base del riconoscimento dell'identità della lotta per la liberazione dai tedeschi e per la instaurazione delle libertà democratiche".
Nella relazione al CLN Galimberti aggiunse: "Ho assunto l'incarico di far fare la trasmissione da radio Londra in italiano e confido che sia possibile al C.L.N. ottenerlo, anche ai fini di dimostrare la nostra efficienza organizzativa".
La trasmissione da quella emittente non avrebbe comunque bilanciato l'oggettiva disparità segnata dal fatto che la lingua ufficiale di tutta la trattativa - dai preliminari all'incontro al Sautron, dal Convegno di Barcellonette ai "patti di Saretto" - fu il francese, così come esclusivamente in inglese erano i testi originali dell'atto di resa incondizionata sottoscritto dal generale Castellano a Cassibile ("armistizio lungo" firmato da Badoglio a Malta il 29 dello stesso mese).
[...] Rimanevano infine particolarmente severe e fuori discussione le rivendicazioni di parte francese, ispirate a criteri che riesce difficile non catalogare come punitivi anziché politici. Se è vero che parevano accantonati i piani di smembramento e di occupazione permanente dell'Italia, messi a punto a Londra e in altre sedi negli anni precedenti, sul modello poi attuato ai danni della Germania, i gollisti non nascondevano di voler occupare un lungo tratto della costa ligure e di attestarsi, a est delle Alpi, almeno sulla linea Pinerolo-Cuneo, oltre ad annettersi la Valle d'Aosta: un 'bottino di guerra' che inevitabilmente avrebbe spinto altre potenze vincitrici, anche di seconda fila, come Grecia e Jugoslavia, ad accaparrarsi 'compensi' proporzionati ai vantaggi pretesi dai francesi, sì da gettare le basi di un contenzioso destinato ad avvelenare a tempo indeterminato la possibile pace, come già era accaduto all'indomani della Grande Guerra con i Trattati del 1919-20.
[...] I principi ispiratori di quanti, dal versante italiano, avevano tenacemente voluto l'incontro diretto con i francesi erano dunque gli stessi che nel 1942-43 avevano animato i primi 'manifesti' di riorganizzazione dell'Europa su basi federalistiche e di ciascuno Stato attraverso le autonomie regionali: gli stessi assunti a base della '"carta di Chivasso" <9.
Dal canto suo, Duccio Galimberti proprio nel 1942-43 aveva tracciato, con Antonino Repaci, un progetto di costituzione confederale europea ed interna la cui revisione in vista della stampa, ormai programmata, - scrisse Repaci - venne interrotta la sera dell'8 settembre 1943 dalla notizia dell'"armistizio" <10 .
Quel testo sostituiva il principio dell'indipendenza con quello dell'autonomia: una differenza notevole, sia dal punto di vista etico, sia sul piano giuridico, giacché avrebbe segnato l'abolizione della cosiddetta "sovranità esterna".
Lo Stato - spiegò Repaci stesso - "in altri termini sarebbe rimasto sovrano, e non senza certe limitazioni..., solo nei confronti dei suoi sudditi, cioè rispetto a quella che si suol chiamare politica internaa. <11.
Alla vigilia dell'estate 1944, l'imminenza dell'apertura del "secondo fronte" in Francia conferiva concretezza e valenza pratica immediata a prospettive sino a quel momento apparentemente relegate nella sfera dell'immaginazione e della  mera  letteratura  politica <12. Si trattava infatti di stabilire concretamente quale ruolo assegnare - almeno in prospettiva - alle potenze che stavano per risultare definitivamente vincitrici e ai vinti: fissandone durevolmente la disparità o ponendo tutti su basi di uguaglianza in nome della fratellanza universale tra i popoli.
Il carteggio di due tra i più rappresentativi esponenti del giellismo in Piemonte - ormai in larga parte disponibile anche a stampa - consente alcune sommarie considerazioni. Nessuno poneva in dubbio che le sorti dell'Italia sarebbero dipese dalle decisioni delle potenze occidentali (termine che invero non troviamo in uso, mentre vediamo impiegata la formula "anglo-americani", perché era ancora del tutto assente la previsione della spartizione dell'Europa in due aree, una delle quali ridotta a 'satellite' dell'URSS). In tale quadro, gli scenari postbellici risultavano variabili dipendenti della sorte dai vincitori riservata all'Europa centrale, segnatamente alla Germania.
[...] Il primato dell'amicizia italo-francese quale perno della ricostruzione europea era respinto con ostentata preoccupazione da parte di quanti v'intravvedevano il nucleo di un'aggregazione tra i Paesi 'latini' e affini (dalla penisola iberica al Belgio) nel cui ambito sarebbe risultata rilevante la funzione sociale della Chiesa cattolica: che l'esperienza insegnava essere per nulla incompatibile con la Repubblica francese, neppure quando Marianne aveva avuto una dirigenza laicistica e anticlericale (come ai tempi di Jules Ferry e Waldeck Rousseau).
Su quest'ultimo terreno il peso della Tradizione, comprensivo delle singole personalità e dei rispettivi seguiti (ed era la luce in cui taluni vedevano Duccio Galimberti, figlio di un notabile dell'età giolittiana), si riteneva fosse destinato a esercitare un ruolo frenante contro la realizzazione delle aspirazioni rivoluzionarie coltivate dalla frazione movimentistica della lotta di liberazione in costante contrasto, durante e dopo la guerra, con quanti, anche nel Partito d'Azione e oltre, ritenevano che la libertà non sia incompatibile con l'ordine.
Il testo dei patti siglati a Saretto il 30 maggio 1944 risultò, appunto, quale era atteso, espressione di tale "rivoluzione". Andò, anzi, oltre il segno. I firmatari, infatti, non si limitarono a esprimere il punto di vista delle rispettive organizzazioni. Essi sottoscrissero tre dichiarazioni di principio, una più impegnativa dell'altra:
a - la maggiore responsabilità dei rispettivi governi per il "recente passato politico e militare" (che si spingeva a equiparare il regime di Pétain al fascismo);
b - la piena solidarietà e fraternità franco-italiana nella lotta contro il nazifascismo e le forze della reazione quale fase necessaria e preliminare per l'instaurazione delle libertà democratiche e della giustizia sociale, in una libera comunità europea;
c - per l'Italia, non meno che per la Francia, la forma di governo più atta ad assicurare la saldezza delle libertà democratiche e della giustizia sociale è la repubblica.
La comitiva che - appuntò Bianco nel diario - il 29 maggio prese la corriera per Acceglio andò insomma a consumare un atto rivoluzionario: a dichiarare decaduta la monarchia e a sconfessare quel governo Badoglio che, completo di Croce, Togliatti e quant'altri, aveva il sostegno del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e Nazioni Unite. A ben vedere almeno in quel passo i Patti di Saretto mettevano a nudo il potenziale contrasto fra CLN Regionale Piemontese e CLN Centrale, tra Nord e Sud, tra le due Italie.
[...] A Saretto venne annunziata l'esistenza di un'altra Italia: quella della democrazia in armi il cui obiettivo ultimo, al di là delle liberazione dell'Italia dai nazifascisti, era la rivoluzione republicana.
Ciò che per la delegazione francese era ovvio e ordinario, per gli italiani era invece una sfida alla storia passata e futura. A infondere determinazione in Bianco, Ezio Aceto, Gigi Ventre erano i nove mesi di resistenza armata e la convinzione di essere portatori di un 'ordine nuovo', fondato sull'impiego delle armi, oltreché sull'esercizio di tutti i poteri (giustizia, amministrazione locale...), in nome del "popolo", ovvero del secondo (e spesso dimenticato) termine della formula posta a base dello Statuto Albertino, al quale i giellisti non volevan certo tornare e che anzi intendevano cancellare per sempre.
[NOTE]
(9) Il convegno di Chivasso ebbe luogo il 19 dicembre 1943 con la partecipazione di Emilio Chanoux, Osvaldo Coisson, Gustavo Malan, Mario Albeno Rollier e altri. In merito v. G. PEYRONEL, La dichiarazione dei rappresentami delle popolazioni alpine al Convegno di Chivasso il 19 dicembre 1943 in "Il Movimento di liberazione in Italia", 1949, n. 2 ; E. CHANOUX, Fédéralisme et autonomie, Aosta, 1960.
(10) Come attestò lo stesso A. Repaci nella Avvertenza all'edizione del Progetto di Costituzione confederale europea ed imerna, Torino-Cuneo, Fiorini-ICA, 1946, su cui v. anche FRANCO FRANCHI. Caro nemico. La costituzione scomoda di Duccio Galimberti eroe nazionale della resistenza, Roma, Settimo Siugillo, 1990.
(11) Op. cit.
(12) Per talune cui esemplificazioni v. LIVIO PIVANO, Risalire dal fondo, Panna, Guanda, 1947 e FELICE BERTOLINO, L'ltalia libera, Borgo S. Dalmazzo, Benello 1946
Aldo Alessandro Mola, I "patti" di Sareto del 31 maggio 1944 ed i loro riflessi militari in Cahiers de la Méditerranée, n° 52, 1, 1996 - Relations franco-italiennes - pp. 59-84
 
Un documento senza data e senza firma conservato nell’Archivio dell’Istituto Nazionale, comincia con queste parole: «Evidenti ragioni di generale interesse, non solo per l’immediatezza della lotta partigiana, ma anche per i futuri sviluppi della nostra battaglia di risorgimento patrio mi han sempre indotto a cercare di stabilire un collegamento ufficiale stabile con le forze organizzate ai medesimi fini al di là delle Alpi». Il contenuto di questi quattro fogli, che si presentano come relazione al Comitato di Liberazione Nazionale, fa supporre che l’autore sia Duccio Galimberti, comandante regionale delle formazioni GL del Piemonte, poiché soprattutto all’iniziativa di lui, uomo di fede mazziniana e combattente per la libertà nel senso europeo, si dovettero i primi tentativi di riallacciare i rapporti con l’organizzazione clandestina francese. Nel suo pensiero e in quello di coloro che gli erano vicini era giunto il momento che gli italiani liberi, che nel giugno del 1940 avevano sofferto tutta la vergogna dell’assalto proditorio alla Francia, collaborassero con quei francesi liberi che, nel silenzio, preparavano la resurrezione della loro patria, in un nuovo spirito di fraternità fra i due popoli al di sopra e al di fuori della corrotta realtà politica.
In questo documento, che evidentemente è del maggio 1944, sono narrati successivamente i due momenti più importanti di questi accordi: il primo avvenne il 12 maggio quando il Comandante del terzo settore a capo di un gruppo di ufficiali delle formazioni GL della Val Maira, si incontrò al Colle del Sautron a 2800 m., in una baracca affondata nella neve, con il Comandante francese delle Basse Alpi, rappresentante del comando del sud-est della Francia: «Il nostro ufficiale sapeva energicamente eliminare un iniziale atteggiamento di alterigia del delegato francese e mettere in degna luce l’importanza del nostro movimento, tanto che quegli dimostrando per esso particolare considerazione, stima ed interesse, palesava l’intento di addivenire al più presto e con carattere di estrema urgenza ad un colloquio conclusivo con un rappresentante del C.L.N. italiano il quale fosse munito di poteri per stringere concreti accordi generali ed operativi». <2.
Il nuovo incontro, decisivo, ebbe luogo il 20 maggio, con la partecipazione di Duccio Galimberti, che prese su di sé la responsabilità e il peso della pericolosa missione: «Tra il 19 ed il 20 maggio, con una marcia notturna e diurna durata 15 ore, abbiamo valicato un colle sui tremila metri, nonostante la presenza di mezzo metro di neve fresca, ed abbiamo percorso una trentina di chilometri nella Valle della Ubaye, controllata da numerosi e forti presidi tedeschi che fanno oggetto di particolare vigilanza la fascia prossima al confine e vi avevano, il giorno innanzi, arrestato un gruppo di contrabbandieri, fucilandone due. Al ritorno fu necessario marciare per 23 ore consecutive, evitando gli speciali controlli disposti anche nel versante italiano in vista delle operazioni di rastrellamento allora giudicate imminenti, data la scadenza del bando di franchigia (21-22 maggio). Ritengo peraltro che l’esito sia stato tale da compensare i rischi e le fatiche. Partecipavano alla riunione: da parte francese il Comandante del Sud-Est col suo Vice Comandante, un inviato (paracadutato) della Commissione Interalleata di Algeri, i Comandanti di Settore ed i rappresentanti dei Comitati di Liberazione della zona; mentre io ero assistito dal Comandante del III Settore, dal Com. Mil. della Val Varaita e dal ricordato Ten. P.C. <3. È interessante notare che, aprendo la seduta, il capo della delegazione francese dichiarava che quanto fossimo per fare e concludere sarebbe stato di grande utilità per noi italiani, onde cancellare l’eredità fascista e dimostrare il nostro diritto alla libertà. Dovevo, quindi, interromperlo per precisare che i progettati accordi avrebbero giovato non esclusivamente a noi ma per ristabilire la solidarietà latina e rafforzare la comune lotta per l’affermazione delle libertà democratiche. Su quest’ultimo punto ho particolarmente insistito sempre indicandolo come fondamentale, caratteristica finalità della nostra lotta, di cui ho fatto notare tutta la pericolosità, lo slancio audace ed i significativi risultati, ottenuti a prezzo di così gloriosi e cruenti sacrifici» <4.
Il convegno si concluse su questi punti precisi:
«1) riconoscimento di identità dei fini della lotta, non solo per la materialità della liberazione dallo straniero, ma anche per l’aspirazione politica (instaurazione delle libertà democratiche); 2) intensificazione dei contatti fra tutte le vallate confinanti. A questo proposito giova notare che noi confiniamo quasi esclusivamente colla R. 2 il cui capo conferiva con me. Con l’altra regione confinante (R. 1) il solo punto di contatto è il Piccolo S. Bernardo, ove sono avvenuti accordi locali meramente ufficiosi, mentre si studieranno collegamenti a carattere ufficiale e preciso; 3) collaborazione permanente ai fini di operazioni militari concordate. Si era pensato all’invio di un nostro ufficiale in Francia e viceversa. Ma si è concluso esser più pratica la collaborazione diretta dei due elementi. Siccome la R. 2 confina con noi da Ventimiglia al Monte Tabor, è stato necessario suddividerla in due sottozone: alpina l’una (nord) marittima l’altra (sud). Per ogni sottozona un delegato nostro ed uno francese stabiliranno una collaborazione a carattere permanente, onde studiare quali azioni militari coordinate si possano eseguire nel comune interesse.
Per quanto riguarda la zona nord il delegato francese è già stato designato ed ha raggiunto il comando del III Settore» <5.
Per dare un carattere ufficiale fu concordata la seguente comunicazione radio: «Fra il Comitato di Liberazione Nazionale Italiano e le F.F.I. si sono raggiunti concreti accordi ufficiali, sulla base del riconoscimento della identità di intenti nella lotta per la liberazione dai tedeschi e per la instaurazione delle libertà democratiche» <6.
Qui finisce la narrazione contenuta nel documento citato, e già altrimenti nota; racconta poi Livio Bianco <7 che il 30 maggio successivo, per iniziativa del cap. Lippmann, un avvocato lorenese amico dell’Italia, destinato a cadere per mano dei tedeschi, un nuovo convegno avvenne a Saretto, al fine di suggellare la collaborazione; convegno che si chiuse con un importante documento sottoscritto dal capo della II Regione francese Max Jouvenal e dallo stesso Bianco, commissario politico del II Settore; alcuni punti dell’accordo sono fondamentali per comprendere lo spirito della rinnovata intesa:
« ... entre les peuples français et italien il n’y a aucune raison de ressentiment et de heurt pour le recent passé politique et militaire, qui engage la responsabilité des respectifs gouvernements, et non pas celle de ces mêmes peuples, tous les deux victimes de régimes d’oppression et de corruption;
... Affirment la pleine solidarité et fraternité franco-italienne dans la lutte contre le fascisme et le nazisme et contre toutes Jes forces de la réaction, comme nécessaire phase préliminaire de l’instauration des libertés démocratiques et de la justice sociale, dans une libre communauté européenne;
... S’accordent pour engager les forces des respectives organisations dans la poursuite des buts comme ci-dessus definis, dans un esprit de pleine entente et sur un plan de réconstruction européenne» <8.
Una dichiarazione supplementare proposta da Livio Bianco si concludeva con queste parole:
«D’ores et déjà est prévue une étroite collaboration entre les respectives forces de la résistance dans la phase insurrectionnelle qui devra assurer la conquête des libertés démocratiques» <9.
Animato da questo spirito il piano di collaborazione divenne concreto: «Sulle montagne e nelle valli del Cuneese, era un lembo della nuova Europa che emergeva dalle torbide acque dell’oppressione nazifascista». <10
La naturale identificazione della Resistenza francese col generale De Gaulle che volle esclusivamente rappresentare l’antica tradizione nazionalista della Francia, i cui accesi spiriti egli si apprestava a restaurare, non tardò, dopo la liberazione di Parigi e l’arrivo del generale in patria nell’agosto 1944, a far sì che questi accordi, pur conservando il loro valore ideale, venissero a perdere gran parte della loro forza concreta, soprattutto perchè dopo l’agosto 1944 nei rapporti con la Francia si inserirono quelli assai più complessi e determinanti con i Comandi Anglo-americani.
Perciò il 15 novembre con una deliberazione del CVL, il cui documento porta la firma autografa di Maurizio, il dott. Eugenio Dugoni, rappresentante del Comando Militare del Piemonte, che già aveva partecipato alla fine di agosto 1944 ad una missione preliminare in Savoia allo scopo di prendere contatti col Maquis <12, riceve il mandato di mettersi in rapporto con le Organizzazioni Speciali Alleate (Special Force n. 1 e O.S.S.) e collaborare con esse; lo stesso mandato gli è affidato per quanto riguarda le autorità locali francesi, non appena possano essere stabiliti con esse rapporti normali.
[...] È noto che fra i problemi che rendevano irte di difficoltà le relazioni con la Francia, due in particolare premevano: la questione valdostana e il trattamento di tutti i partigiani italiani sconfinati in seguito a rastrellamento; sia che fossero tenuti in campo di concentramento, sia che fossero ammessi al lavoro in territorio francese.
Per facilitare i rapporti fra il Governo di Roma e la Francia e quindi affrettare la soluzione dei molti problemi contingenti, era stato nominato quale ufficiale di collegamento presso il Ministero della Guerra italiana il cap. Roger Guirche, che avrebbe dovuto fare in modo che il Governo francese riconoscesse il Dugoni quale delegato del CVL nella zona sud-est della Francia, perchè costui, che circolava coperto da un documento dell’O.S.S., fosse posto in condizioni di collaborare con le autorità militari francesi e con le speciali Missioni Militari Anglo-americane, al fine di provvedere al riarmo, all’assistenza, all’addestramento di reparti di Volontari della libertà, passati temporaneamente al di là delle Alpi.
In quel tardo autunno 1944 i problemi organizzativi della Resistenza italiana erano resi più difficili dal fatto che gli Alleati non avevano ancora concesso il riconoscimento ufficiale al C.L.N.A.I. e al suo Comando Militare, il CVL, cosa che, come è noto, si effettuò il 7 dicembre 1944 con i Protocolli di Roma firmati dal generale inglese Maitland Wilson, comandante Supremo Alleato del teatro operazioni Mediterraneo e dai componenti la Missione Sud: Ferruccio Parri, Alfredo Pizzoni, Giancarlo Pajetta ed Edgardo Sogno.
[NOTE]
1 Archivio C.L.N.A.I., documento n. 27, s.d., non firmato.
2 Vedi nota 1.
3 Costanzo Picco.
4 Vedi nota 1.
5 Vedi nota 1.
5 Vedi nota 1.
7 Livio BIANCO, Guerra partigiana, Einaudi, Torino, 1954.
8 L. Bianco, op. cit., pag. 77.
9 L. Bianco, op. cit., pag. 78.
10 L. Bianco, op. cit., pag. 79.
11 Archivio C.L.N.A.I., doc. 10 - XXI.
12 Archivio C.L.N.A.I., doc. Personale C.L.N.A.I. a firma II Delegato del C.G.A.I. in Svizzera
Bianca Ceva, Le trattative della delegazione del CLNAI con la Resistenza francese (dicembre 1944) sulla base dei documenti conservati nell'Archivio dell'Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia [Testo della comunicazione presentata al Convegno su «Forme e metodi dell’occupazione nazista in Italia» organizzato dall’Amministrazione provinciale di Roma (23-24 ottobre 1964)] in  Italia contemporanea (già Il Movimento di liberazione in Italia dal 1949 al 1973), n° 75, 1964, Rete Parri

Al termine della guerra iniziò, però, a emergere da parte francese la volontà di annettere la Valle Roja: l’Italia, responsabile del conflitto, era un paese sconfitto e quindi avrebbe dovuto soddisfare quelle modifiche territoriali considerate irrinunciabili dalla Francia per la sicurezza dei propri confini. A ciò si aggiungevano altri tre elementi: il primo riguardava il prestigio gollista teso a far pagare all’Italia «la pugnalata alla schiena» (ovvero l’aggressione) che aveva scavato un solco piuttosto profondo dai due paesi.
Il secondo affondava le proprie ragioni nel quadro della politica internazionale che vedeva la Francia - questa la posizione di De Gaulle - circondata dall’ostilità degli anglo-americani, che miravano a disfarne l’impero coloniale, e inserita in uno schieramento occidentale non sufficientemente coeso e deciso per fronteggiare la minaccia sovietica.
Il terzo verteva invece sul piano economico, con l’intenzione francese di sottrarre all’Italia rilevanti risorse industriali che nel caso della Valle Roja erano rappresentate dalle centrali idroelettriche.
L’Italia, come vedremo in seguito, aveva dal canto suo poche e flebili motivazioni per opporsi nelle sedi istituzionali a una Francia così determinata.
Enrico Miletto, «L’italianissima valle». L’annessione di Briga e Tenda alla Francia (1945-1947) in (a cura di) Francesco Panero, Le comunità alpine dell'arco occidentale: culture, insediamenti, antropologia storica, Atti del Convegno «Le comunità dell’arco alpino occidentale: culture, strutture socio-economiche, insediamenti, antropologia storica» (Torino e La Morra 27 e 28 aprile 2018 - CISIM e Università di Torino), Centro Internazionale di Studi sugli Insediamenti Medievali (CISIM), Cherasco, 2019

[n.d.r.: ma i problemi tra partigiani italiani e francesi insorsero subito, ancor prima che le alte sfere golliste avanzassero o facessero intendere le loro richieste di annessione di territori italiani: in tale senso risulta significativa la relazione di un comandante partigiano di Giustizia e Libertà che si pubblica in stralcio qui di seguito a conclusione di questo articolo; cui fa seguito la chiusura dell'articolo di Bianca Ceva, che aggiunge altri pesanti aspetti dell'atteggiamento francese verso la Resistenza italiana]

FORMAZIONI "GIUSTIZIA E LIBERTÀ"
II DIVISIONE ALPINA
COMANDO III SETTORE - BRIGATA VALLE MAIRA
"R. BLANCHI DI ROASCIO". "GIUSTIZIA E LIBERTÀ"
Sede, 14 settembre 1944
AL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE PER IL PIEMONTE - SEDE
Relazione sul trattamento riservato dai francesi agli italiani profughi in Francia.
ALLEGATO: Copia del memorandum presentato alle FFI.
II sottoscritto Aurelio, Commissario politico della Brigata "Val Maira della II Divisione Alpina "GIUSTIZIA E LIBERTÀ", inviato in Francia dal proprio Comandante di Divisione in missione speciale per prendere collegamento e accordi con i Comandi Alleati e i Comandi delle Forze Francesi dell'interno (FFI), doveva constatare, colà giunto, alcuni gravi fatti commessi a danno dei patrioti e dei civili italiani, profughi in quel paese in seguito allo sbandamento di alcune valli sotto la preponderante pressione germanica. Ecco una minuta esposizione di quanto egli potè accertare:
Non appena oltrepassato il confine nella zona del Passo San Veran, che mette in comunicazione la Valle Varaita con la Francia, egli e la sua guida furono fermati da due elementi delle FFI, muniti di bracciale di riconoscimento, i quali affermarono di aver ricevuto preciso ordine dal comandante il distretto Guillestre - Queyras - Vars di aprire il fuoco senza preavviso di sorta su qualunque individuo, partigiano o civile non importa, che tentasse di passare la frontiera in direzione della Francia, e che soltanto per il fatto che il sottoscritto era munito di bracciale tricolore, che per la lontananza non avevano distinto se italiano o francese, non avevano aperto il fuoco.
Stupefatto per quest'ordine di cui nessuno mai aveva avvertito i Comandi italiani, il sottoscritto si recava al primo comando delle FFI della zona, precisamente al villaggio di San Veran, dove gli veniva confermata non solo l'esistenza di tale ordine, ma pure di un secondo, secondo cui le FFI dovevano disarmare ogni italiano che si presentasse nella zona e internarlo in fortezza (esattamente nel castello-prigione di Mont-Dauphin situato a 5 chilometri da Guillestre). Egli si recava allora immediatamente a Guillestre, sede del comando FFI della zona Guillestre-Queyras-Vars e di alcuni comandi alleati.
Munito delle credenziali consegnategli dal proprio comandante, che gli permettevano di stringere come rompere accordi con le FFI, egli veniva accolto molto freddamente dal tenente George, comandante la zona, e fu grazie se costui si decise, dietro richiesta, di offrirgli ospitalità.
Interrogato il suddetto ten. George, chi fosse ad aver emanato gli ordini suesposti, egli, con tono violento e sprezzante, caratteristico della boriosa e megalomane mentalità del borghese francese, diceva di averli emanati egli stesso, di assumersene la responsabilità e di avere l'approvazione del proprio generale. Richiesto poi del motivo dell'emanazione di tali ordini le sue parole furono esattamente le seguenti: "Car tous ces italiens viennent à immerder le sol de nôtre Patrie!"
Superato il primo impulso di riempirgli il volto di schiaffi, volendo il sottoscritto evitare incidenti troppo clamorosi essendo egli in missione ufficiale, credette opportuno limitarsi a rifiutare l'ospitalità offerta dalle FFI a lui e alla sua guida, gettando sul viso del tenente George i suoi buoni alberghieri, a ricordare in termini molto recisi, ma pur sempre corretti, l'esistenza di accordi di mutua assistenza fra le FFI e i partigiani italiani, di rinfacciargli l'ospitalità offerta a centinai di profughi francesi nel giugno c.a. nei migliori alberghi della Valle Stura e della Valle Maira, a rendergli ufficialmente noto che dal suo ritorno in Italia, analoghi provvedimenti sarebbero stati presi contro tutti i francesi ospiti delle nostre formazioni, e alle nostre pattuglie di confine sarebbe stato dato ordine di aprire il fuoco contro tutti gli sconfinanti francesi in Italia.
A questo punto il Maggiore inglese Hamilton Cross, che assisteva alla discussione, richiese perché ancora i nostri feriti che erano attesi dalle loro ambulanze, non fossero ancora giunti dall'Italia. Il sottoscritto credette bene di rispondere (esprimendo effettivamente l'opinione generale) che noi preferivamo far morire i nostri feriti sulle rocce delle nostre montagne per una pallottola tedesca che farli vivere in Francia, vista la mentalità delle FFI.
Il Tenente George, frattanto, che evidentemente aveva compreso di aver fatto un passo falso, richiese al sottoscritto se fosse pronto ad assumersi la responsabilità di quanto affermava e se fosse pronto a sostenerlo davanti al generale comandante la zone delle Hautes Alpes.
Il sottoscritto accettô tutte le responsabilità e si fece introdurre presso il generale, cui consegnò il memorandum in calce allegato. Il generale, molto conciliante, e soprattutto più educato del suo dipendente ten. George, pretese che quest'ultimo porgesse ufficialmente le sue scuse al sottoscritto per l'espressioni usate verso l'Italia, e cercò di spiegare a suo modo il motivo degli ordini emanati dal suo dipendente.
A giustificazione produsse:
1°) Motivi di sicurezza della frontiera, in seguito alla presenza di elementi tedeschi e fascisti su taluni valichi, che un'infiltrazione insieme ai profughi italiani di spie nazifasciste, essendo la zona percorsa da importanti formazioni alleate.
Di fronte a questo stato di cose, per salvaguardare il nostro prestigio, il sottoscritto rimase così inteso col Comando FFI.
1) Per un tratto di frontiera pari a quella in precedenza stabilita dai francesi anche da parte nostra si sarebbe aperto il fuoco contro tutti gli sconfinanti, perché anche per noi sussiste il pericolo di infiltrazioni germaniche dalla zona dei paesi e non solo per i francesi.
2) II transito attraverso la zona di confine è permesso in appositi corridoi determinati sulla carta topografica e soltanto per persone autorizzate, o per gruppi di patrioti guidati dai loro ufficiali, che preavvisino del loro passaggio e abbiano modo di farsi riconoscere.
3) Un rappresentante nostro verrà inviato presso il Comando francese, onde poter prendere in esame il caso dei partigiani italiani internati, e, sotto la sua responsabilità, far rilasciare e riarmare coloro che egli riconosca come appartenenti alle nostre formazioni e che desiderino rientrare in Italia.
La richiesta di questo rappresentante verrà fatta dai magg. Hamilton Cross incaricato per gli affari riguardanti l'Italia, in modo da non dover chiedere il gradimento delle FFI.
Il generale presentò inoltre le sue scuse per non aver avvertito le nostre formazioni degli ordini impartiti di aprire il fuoco sulla linea di confine, mentre, dianzi, alla stessa domanda il tenente George aveva risposto che i francesi avevano ben altro da fare che preoccuparsi di avvertire degli italiani.
In questi termini l'incidente fu chiuso: sussiste però il fatto di una profonda ostilità dell'opinione pubblica, in particolare delle FFI nei riguardi degli italiani, su cui non si esita a gettar il discredito sino a considerare dei paurosi fuggiaschi quei patrioti che sono stati costretti a sconfinare solo dopo aver sostenuto per giorni e settimane l'urto di forze nemiche enormemente superiori e di aver esaurito sin l'ultima cartuccia.
Resta il fatto che gli internati vengono trattati come comuni prigionieri, sfilano per il paese sotto scorta armata e vengono utilizzati in lavori servili a vantaggio delle FFI [...]

Quanto sia stata aspra l'ostilità dei francesi contro i nostri rappresentanti, lo prova un episodio che avvenne nella seconda metà di dicembre 1944, durante il ritorno della missione italiana, quando all’aeroporto del Bourget Ferruccio Parri si trovò accolto da un reparto schierato della polizia francese, che lo minacciava d’arresto se fosse sceso dall’apparecchio.
Una volta di più apparve chiaro quanto grave e triste fosse per gli uomini della Resistenza il compito di dissipare quei rancori che la dichiarazione di guerra alla Francia il 10 giugno 1940 aveva addensato non solo contro il governo fascista, ma contro tutti gli italiani.
Bianca Ceva, art. cit.