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giovedì 23 dicembre 2021

Fu quello di Visconti un magico apprendistato


Prendere in esame la produzione critica di Guido Aristarco durante “gli anni neri” con l’obiettivo di ricostruirne la linea di svolgimento, identificando le tappe di svolta che hanno segnato una progressiva presa di coscienza tutt’ad un tempo civile, politica e culturale, ripercorrere insomma uno dei «lunghi viaggi attraverso il fascismo» che costituirono il sofferto percorso di scoperta di sé di tanta parte di quella che sarebbe diventata la nostra migliore, più nobile intelligenza, significa perseguire un compito pieno di insidie, esposto a costanti pericoli di sviamento, di uscite fuori strada, di imbocco di sentieri che non conducono da nessuna parte. Soprattutto se si pretende di orientarsi seguendo esclusivamente la stella polare della folgorante chiarificazione umana conseguita in seguito all’esperienza della guerra e della Resistenza, se ci si serve di bussole tarate su un Nord troppo univocamente teleologico (la conquista del senso necessario di un nuovo impegno, di una nuova cultura, di un nuovo cinema, senza che di tutto ciò siano specificati gli esatti termini e le forme) sì da spalancare l’illusione, per usare le parole di Claudio Carabba, di un «cammino di solito considerato tutto in ascesa, una sorta di lungo viaggio attraverso la notte fino alla conquista del sole e delle altre stelle» <1. Al contrario si trattò, per Aristarco come per tanti altri, non di una radiosa corsa verso i rosei orizzonti della rinascita e del riscatto ma di un itinerario tortuoso, faticoso, complicato da lente curve, soste paralizzanti, improvvise accelerazioni e inaspettati ritorni sui propri passi, contraddizioni, stenti, bivi ingannatori. Un tragitto le cui tracce possono essere rinvenute e decifrate non da un olimpico sguardo satellitare, ma da una microscopia attenta a rinvenire i segni di un passaggio in due o tre rami spezzati, in un leggero infossarsi dell’erba, nella corteccia sbrecciata di un albero… Fuor di metafora, si tratta di individuare i cenni premonitori e le emergenze preparatorie di un dissenso che, nel suo significato pieno e consapevole, si manifestò non precedentemente alla prima metà del 1943, in particolare con la recensione e poi la polemica su Ossessione, leggendo tra le righe di una produzione critico-recensoria su cui gravavano molteplici condizionamenti di diversa natura, estrinseci ed endogeni, che non permettono la ricostruzione dell’evoluzione di un pensiero e di una personalità se non tramite spie a volte lievissime, determinate soltanto da un inspessirsi quasi impercettibile della figura che tuttavia la stacca dallo sfondo e le fa acquisire un rilievo: uno spostamento di accenti su questo o quel tema, una particolare coloritura di tono, delle crepe, delle incrinature lessicali che screpolano il grigio e compatto frasario fascista, aprendo nella struttura, nell’apparato linguistico predisposto dal regime, spazi attraverso cui trasparivano allusioni, messaggi segreti, riconoscimenti. Carlo Lizzani, rievocando appunto il carattere esopico di gran parte della produzione critica “frondista” di allora, scrive: «Nessuna censura poteva dirci niente, eppure quando tra noi si leggevano, anche sui giornali dei GUF, un certo tipo di parole, non so perché, si sentiva che squillava un campanellino differente»2. E particolarmente significativa appare la narrazione del suo “arruolamento” presso il gruppo di «Cinema»: «[…] era, in fondo, anche affascinante leggersi e scoprirsi delle parentele attraverso parole che a tentoni, proprio nel buio, noi riuscivamo a individuare e che ci facevano da radar per sentirsi gli uni con gli altri. Io fui reclutato, si può dire così, dal gruppo di Cinema attraverso alcune stroncature che facevo anch’io nella terza pagina di Roma Fascista […] Grazie a certe parole che usavo anche io - non può essere avvenuto altro che in questo modo, attraverso una lettura, una radiografia linguistica - fui avvicinato dal gruppo di Cinema […] e attraverso discorsi cauti e allusivi fui invitato a collaborare. E questo fu un prodigio: sentirci attraverso la parola e lo scritto, riconoscersi» <3.
[...] non crediamo arbitrario accostare a quella di Aristarco questa rievocazione di Massimo Mida Puccini:
«Era l’età, come per tutti i ragazzi, dei primi tentativi di composizioni poetiche, dei componimenti in prosa <19: la nostra scuola di stampo storico-umanistico, il nostro sofisticato liceo classico, gli anni delle avide letture in pressing […] si tenga conto che l’opera di condizionamento iniziava dalla scuola con la sottile distorsione operata sulla verità storica; il fascismo, secondo gli insegnamenti che ci venivano impartiti, non aveva sopraffatto i movimenti e le dottrine precedenti, ma li aveva “superati”. Nessuno di noi giovani, allora, aveva sentito pronunciare i nomi di Gramsci, di Salvemini o di Gobetti, o degli altri capi storici dell’opposizione, fuoriusciti o in galera o confinati nelle isole […] eravamo venuti crescendo in un clima di idealismo senza sbocchi: educazione scolastica umanistica, il nostro liceo classico nozionistico, enciclopedico, tutto rivolto ai valori, magari distorti, del passato, di una storia interpretata a senso unico. Un modo facile per i nostri insegnanti di evitare compromissioni con il presente (e da questo vuoto nacque comunque un primo rigetto di quanto avveniva nel paese, la prima sensazione di nausea verso quel fascismo fatto di parate, di salti nel fuoco dei gerarchi, di aquile sui berretti, di bandiere al vento e di atteggiamenti marziali); e, accanto, e in conseguenza di questo, sopravvalutazione - inconscia o meno - dell’individuo teso verso l’arte, dell’artista al di sopra delle parti e del mediocre presente, magari isolato nella sua classica e famosa torre d’avorio» <20;
Per un altro verso invece, probabilmente amplificata dalla supervalutazione che la dimensione artistica assumeva nell’esistenza mutilata di chi si formava in quel tempo, traspare dalla rievocazione aristachiana l’esaltata scoperta del cinema come di una salvifica via d’uscita dal conformistico grigiore culturale dominante, un amore quasi morboso, la cui intensità cresceva quanto più la fame di sapere restava priva di sbocchi, e che accumunava tanta parte della giovinezza più intellettualmente inquieta.
[...] Ed è difficile anche trasmettere il senso di una comunità generazionale fatta di interessi, affetti e, col tempo, di battaglie condivise che si va man mano costruendo intorno a questa passione, il calore di una fratellanza che cementa congenialità e sodalizi quasi con la mistica forza di una fede. Se ne trova un’eco forse nel tono emozionato e grato con cui Aristarco rammenta il suo primo incontro col gruppo di «Cinema» (il primo contatto, epistolare, viene ricondotto ad una lettera di De Santis a lui indirizzata, datata 19 maggio 1942 <22): «Non ho mai dimenticato la mia prima calata nella Capitale, il mio approdo di qualche ora a piazza della Pilotta al numero 3, sede della rivista, e l’incontro con gli amici, compagni maggiori: Gianni Puccini, Francesco Pasinetti, Domenico Purificato; quel giorno così magico, numinoso ai miei occhi, c’eri anche tu, Massimo; fosti tu ad indicarmi la via per raggiungere Stazione Termini (chi avrebbe immaginato allora che, nell’immediato dopoguerra, avrei ospitato a Milano te e altri del gruppo, che in via Andreani sarebbe nata la sceneggiatura de Il sole sorge ancora e che poi avrei dato avvio a Cinema nuova serie?) I ricordi di Mida svegliano in me altri ricordi: l’incontro con Visconti e Giuseppe de Santis a Ferrara, mentre si gira Ossessione; l’ansia con la quale, all’edicola della stazione di Mantova, attendevo l’uscita di «Bianco e nero»; la nascita del sodalizio con Francesco Pasinetti, aperto e generoso all’ascolto degli esordienti, autentico e sicuro “nostromo” di un agognato “capo di buona speranza” cui ero approdato, la sua squisita ospitalità nella casa veneziana a San Polo…» <23.
Ora, Aristarco riconosce due tournants fondamentali nella storia dell’evoluzione collettiva di quella generazione e della propria in due celeberrimi scritti di Luchino Visconti, Cadaveri e Il cinema antropomorfico, pubblicati su «Cinema» rispettivamente nel giugno del 1941 e nell’ottobre del 1943:
«Scritti corsari per i tempi che correvano, provocatori per chi avesse saputo leggerli ed interpretarli […] Fu quello di Visconti un “magico apprendistato” non soltanto per chi intendeva esordire nella pratica del cinema ma anche per chi si limitava a scriverne» <24.
Non è certo un caso che un esponente altrettanto importante tra i giovani leoni della critica cinematografica del tempo, Massimo Mida Puccini, prenda proprio quei due articoli come punti di riferimento ideali per fissare i due tempi ideali dell’evoluzione del dibattito cinematografico più progredito e dello stesso gruppo di «Cinema»: c’è il momento puramente “negativo” del rifiuto, del rigetto del prodotto-tipo del cinema ufficiale oramai decrepito, del cinema grossolanamente manifatturiero dei telefoni bianchi, delle segretarie, dei bon viveurs in abito bianco, di tutto un corpaccione pellicolare esangue, futilmente cariatideo, di cui si auspica il rinnovamento, secondo i classici moduli della polemica generazionale, tramite massice trasfusioni di sangue giovane:
«Andando per certe Società cinematografiche capita che s’intoppi troppo sovente in cadaveri che si ostinano a credersi vivi […] vivono già morti, ignari del progredire del tempo, del riflesso di cose tutte estinte, di quel loro mondo trascolorato, dove si circolava impuniti sui pavimenti di carta e gesso, dove i fondalini vacillavano al respirare d’un uscio improvvisamente aperto, dove in perpetuo fiorivano rosai in carta velina, dove stile ed epoche si fondavano e confondevano magnanimi, dove, per intederci, Cleopatre liberty in toupè vampireggiavano (mettendoli alla frusta) ombrosi pezzi di marcantoni in busto di balene […] Che i giovani d’oggi, che sono tanti e che vengono su nutrendosi, per ora, solo di santa speranza, tuttavia impazienti per tane cose che hanno da dire, si debbano trovare, come bastoni tra le ruote, codesti troppo numerosi cadaveri, ostili e diffidenti, è cosa ben triste […] come non deplorare che ancora oggi a troppi di costoro sia consentito di tenere in mano i cordoni della borsa e di fare la pioggia e il bel tempo? Verrà mai quel giorno sospirato, in cui alle giovani forze del nostro cinema sarà concesso di dire chiaro e tondo: “I cadaveri al cimitero”?» <25.
C’è quello “positivo” del passaggio dalla rottura alla proposta di un cinema nuovo che soddisfi «l’impegno di raccontare storie di uomini vivi: di uomini vivi nelle cose, non le cose per sé stesse […] un cinema antropomorfico» perché «il peso dell’essere umano, la sua presenza, è la sola “cosa” che veramente colmi il fotogramma; e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa ad un aspetto di non animata natura. Il più umile gesto dell’uomo, il suo passo, le sue esitazioni e i suoi impulsi da soli danno poesia e vibrazioni alle cose che li circondano e nelle quali s’inquadrano. Ogni diversa soluzione del problema sembrerà sempre un attentato alla realtà così come essa si svolge davanti ai nostri occhi: fatta dagli uomini e da essi modificata continuamente» <26.
Sempre Mida Puccini, ed è osservazione da tenere bene a mente, sente vibrare in questi due stadi di sviluppo l’influsso degli insegnamenti, rispettivamente, di Chiarini e di Barbaro (i quali furono, in modi molto diversi, i numi tutelari di questa generazione all’opposizione), precisando a ragione come la loro influenza e le linee di tendenza derivatene debbano essere comprese «naturalmente con tutte le ovvie diramazioni e differenziazioni del caso, che possono appunto riassumersi nell’essere soprattutto contro un certo modo di fare il cinema e nel pronunciarsi anche a favore di un particolare modo di farlo» <27. Si tratta di un secondo indicatore prezioso ai fini di un’esatta collocazione storica e della chiarificazione del significato di un’esperienza critica come quella aristarchiana.
Scrive Gian Piero Brunetta che il passaggio dal fascismo all’antifascismo di una generazione che toccava appena la maggiore età allo scoppio della seconda guerra mondiale non può essere pienamente inteso se non lo si considera anche come un processo di crescita naturale, un passaggio dalla minore alla maggiore età. Non per tutti la cosa avvenne nello stesso modo e contemporaneamente. Nella sua filogenesi questo tragitto è stato studiato fino alla saturazione. Quello che ci proponiamo, prendendo come oggetto di studio in questa tesi la linea di svolgimento della produzione critica aristarchiana, è dunque, seguendo l’auspicio di Brunetta, un’analisi ontogenetica di questo processo evolutivo; in tale prospettiva possiamo avanzare immediatamente, servendoci dei dati e dei punti di riferimento ideali reperiti nell’analisi fin qui condotta, una prima ipotesi di periodizzazione alla luce del quale organizzeremo la trattazione del materiale esaminato e la cui tenuta, coerenza e produttività verranno verificate nel proseguimento del nostro lavoro [...]
[NOTE]
1 C. Carabba, Il cinema del ventennio nero, Vallecchi, Firenze, 1974, p. 93.
2 C. Lizzani, De Santis e il gruppo «Cinema», in Il neorealismo nel fascismo, Ed. della tipografia Compositori, Quaderni della Cineteca n.5, Bologna, 1984, p.95.
3 Ivi, pp. 96-97.
19 Anche Aristarco si provò nella creazione letteraria, senza troppo successo a dire il vero: su «La voce di Mantova» del 15 aprile 1939 pubblica una breve novella, l’ingenua e patetica rievocazione di un primo amore giovanile finito in una triste disillusione, con la moralistica conclusione di rito. Segnaliamo come pura curiosità lo scritto, che non ha altro interesse se non forse quello di suscitare un’associazione con quanto Renzo Renzi scriverà ad Antonioni anni dopo, irritandolo non poco, circa il recondito significato politico di alcuni suoi film apolitici: «siccome alcuni di essi cominciavano con un amore andato a pezzi, constatando la qual cosa il protagonista iniziava un grande vagabondaggio nel nulla: perché non pensare che il primo amore è il fascismo e il resto un gioco che non torna più?» in R. Renzi, Al «Kinoglaz» in camicia nera, op. cit., p. 21. Antonioni rispose telegraficamente: «Del fascismo io ricordo soltanto mio padre picchiato dai fascisti».
20 M. Mida Puccini, L. Quaglietti, Dai telefoni bianchi al neorealismo, op. cit., p. 281.
22 «Roma, 19 maggio 1942. “Spero di conoscerti presto”, mi scriveva a Ferrara, dove allora risiedevo, Giuseppe de Santis. “Come avrai appreso dal “Padano”, in giugno inizieremo un film di ambiente ferrarese”», G. Aristarco, Il neorealismo italiano, op. cit., p. 189.
23 G. Aristarco, Prefazione a M. Mida Puccini, Compagni di viaggio, op. cit., p.II.
24 Ivi, p. III.
25 L. Visconti, I cadaveri al cimitero, in «Cinema», n.119, 10 giugno 1941.
26 L. Visconti, Il cinema antropomorfico, in «Cinema», n.173-174, 25 settembre-10 ottobre 1943.
27 M. Mida Puccini, L. Quaglietti, Dai telefoni bianchi al neorealismo, op. cit., p. 113.
Dario Portale, Ontogenesi di un linguaggio critico. La formazione cinematografica di Guido Aristarco tra dissoluzione del fascismo e rivoluzione neorealista, Tesi di Dottorato in Italianistica (Lessicografia e Semantica del Linguaggio Letterario Europeo), Università degli Studi di Catania, 2011

martedì 16 novembre 2021

I due film hanno in comune un tipo di linguaggio cinematografico sontuoso e barocco

Foto di amici di Gian-Maria Lojacono

Federico Fellini è uno dei registi italiani più conosciuti a livello internazionale. Con le sue pellicole ha portato il nome del cinema italiano in giro per il mondo. Ha iniziato come disegnatore, per poi divenire sceneggiatore e infine regista. Ha diretto, per trenta anni, più di venti film di grande successo. Nelle sue pellicole costruisce un ipertrofico parco delle meraviglie e la sua macchina da presa fa muovere i personaggi come nelle montagne russe, dando sensazioni di esaltazione e vuoto improvviso <1. Tra i film da lui diretti Luci del varietà, I vitelloni, La strada, La dolce vita, Otto e mezzo, Roma. Tutti lungometraggi che raccontano storie e posti vissuti dal regista. I suoi lavori vogliono far conoscere l’Italia e gli italiani. Una delle caratteristiche delle sue pellicole, è quella di forzare le immagini fotografiche nella direzione che porta dal caricaturale al visionario <2. Il lavoro di Fellini non era solo raccontare ciò che vedeva o lo circondava, ma andare oltre, scoprire il lato introspettivo della società di quel tempo. La svolta nel suo lavoro, e forse anche la consapevolezza di ciò che poteva fare nei suoi set, avviene con La dolce vita. Uno dei suoi film che ha vinto premi importanti, descrivendo gli ambienti caratteristici della bella vita romana. Qui, Fellini, parte dal boom economico mostrando un Paese pieno di speranze e di attese. Questa pellicola non rappresenta più, solo, la semplice evoluzione cinematografica del regista, ma è anche il sunto di un intero periodo della storia italiana del secondo dopoguerra. Il film è un ritratto agrodolce della società “in” di quel tempo. Il successo de La dolce vita e arrivato in maniera insolita. Infatti, la pellicola all’interno del nostro Paese ha fatto discutere tanto, dividendo il mondo della critica in due. Nonostante i pesanti giudizi, il film ha registrato grandi incassi. Molte le disapprovazioni che sono state rivolte al film, in particolare l’opinione pubblica si è mostrata molto contrariata per delle scene che andavano, a loro parere, contro il buon costume. Federico Fellini in questo lavoro va oltre il neorealismo che si era sviluppato solo qualche anno prima, con registi di grande fama come Luchino Visconti e Roberto Rossellini, raccontando di un paese che guarda avanti nonostante restava ancora ancorato al passato.
[...] La dolce vita. Con quest’opera il nome di Fellini diventò celebre in tutto il mondo. La dolce vita racconta i pensieri, i sentimenti, e quello che vede intorno il regista in quel periodo. La sua “poetica” in quaranta anni di esperienza si è evoluta, ma in tutti i suoi set si accostò sempre con la semplicità di autodidatta <14. Un elemento caratteristico e fondamentale nei film di Fellini, ma anche di altri registi di quel periodo è la riflessione sulla realtà sui comportamenti e sull’indole umana, affidata, con toni critici alle donne che sono le sole capaci di autentici sentimenti e vere passioni <15. Ed è proprio il personaggio femminile che acquista nelle opere di Fellini una peculiare importanza, senza tralasciare l’aspetto seducente. <16
[NOTE]
1  G. P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, 19052003, Bologna, Piccola Biblioteca Einaudi, 2003, p. 325.
2  I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in F. Fellini (a cura di), Fare un film, Torino, Einaudi, 1980, p. XXII.
14 G. P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, 1905-2003, Bologna, Piccola Biblioteca Einaudi, 2003, p. 189.
15 L. Miccichè, S. Bernardi (a cura di), Storia del cinema italiano 19541959, Roma, Marsilio Edizioni di Bianco & Nero, 2001, vol. IX, p. 166.
16 Ivi, p. 245.
Paolo Sorrentino a soli quarantasette anni è uno dei registi più giovani, e di maggior successo nell’ambito del panorama internazionale contemporaneo. Scoprì il suo amore per il cinema all’età di 19 anni, con i film di Sergio Leone e Bernardo Bertolucci, ma a folgorarlo furono le pellicole di Federico Fellini, autore che da sempre ha considerato uno dei maggiori maestri per la sua carriera di regista. Il suo approccio con la settima arte avvenne contro il parere di chiunque <1, ma fin da subito si è fatto notare per le sue doti nello scrivere sceneggiature <2.
[...] La grande bellezza, uno dei film che ha ottenuto maggiori riconoscimenti. In un cinema atrofizzato come il nostro, Sorrentino è uno dei pochi registi di questa generazione che racconta il brutto come se fosse bello <4. Il suo stile narrativo si compone di frammenti e simboli che si rivelano le funzionali allo svolgimento del film <5. Nei suoi film mette in scena una società deformata da ciò che la circonda. Il regista, più che enfatizzare un passaggio particolare della storia, tende a epicizzare un frangente apparentemente banale e quotidiano, imponendo all’evento trattato, un’inaspettata etichetta di visione. In questo modo cerca di evidenziare la dimensione simbolica di un certo evento e nasce la necessità di guardare la scena oltre la superficie della sua temporalità fenomenica, riuscendo a scolpire gli spazi, iconizzare le figure, caricando tutte le immagini di una tensione fuori dal comune <6. Appare difficile incasellare Sorrentino nel contesto del cinema italiano <7. Di sicuro il suo è un cinema, per molti, di cui non se ne può fare a meno <8.
[NOTE]
1  P. Sorrentino, La grande bellezza. Diario del film, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 9.
2  P. De Sanctis, D. Monetti e L. Pallanch, Divi & Antidivi. Il cinema di Paolo Sorrentino, Roma, Laboratorio Gutenberg, 2010, p. 7.
4  Ivi, p. 125.
5  Ivi, p. 126.
6  Ivi, p. 35-36.
7  F. De Bernardinis, La poetica della solitudine e dei rapporti di forza, in P. De Sanctis, D. Monetti e L. Pallanch (a cura di), Divi & Antidivi. Il cinema di Paolo Sorrentino, Roma, Laboratorio Gutenberg, 2010, p. 15.
[...] Uno dei maggiori “oratori” dagli anni Cinquanta è stato Federico Fellini, che con i suoi film ha rappresentato meccanismi e dinamiche delle tappe dell’evoluzione del paese concentrando lo sguardo soprattutto sulla capitale, divenuta la sua città adottiva. Una città che è stata più volte scelta, da molti registi, come luogo in cui ambientare le proprie pellicole. Fellini, nello specifico, ha raffigurato nei suoi lavori, non solo i momenti di ricostruzione, industrializzazione ed esplosione delle periferie urbane, ma anche associato la condizione della società e del singolo, in una situazione di stallo per tutti gli italiani. Spesso questi mutamenti sono divenuti topoi classici dell’immaginario comune, grazie alla potenza dei suoi film. Il cinema del regista riminese si definisce modernista, riaffermando le prerogative di controllo e manipolazione dell’attenzione e dello spettatore, senza però tralasciare la sottile prospettiva postmoderna che sembra volere mettere in luce come lo spettatore è capace di divenire “editor” di sè stesso. In questo modo il regista fornisce sia una creazione artistica, che una critica al valore di tale operazione. Le sue opere hanno tratti autobiografici, raccontano la storia del nostro paese, attraverso eventi che il regista, molte volte, ha sentito, visto o, addirittura, vissuto. Sono storie che vogliono porre l’accento sulla diversità apparente dei vari stati sociali, che coesistono nello stesso luogo e non possono fare a meno l’uno dell’altro.
Forse proprio perché affascinati da questa idea di fare cinema, alcuni giovani artisti contemporanei hanno deciso di intraprendere la settima arte e raccontare l’uomo dei nostri giorni e la realtà circostante. Tra questi spicca Paolo Sorrentino che con le sue pellicole ha dato testimonianza della società logorata e decadente dei nostri giorni, attirato a sè il mondo della critica.
3.1 Un maestro chiamato Fellini
Diversi i termini di paragone che più volte sono stati utilizzati tra l’opera di Paolo Sorrentino La grande bellezza, e quelle di Federico Fellini. Quest’ultimo è spesso preso a modello soprattutto per le idee che riguardano il suo sviluppo nel campo della cinematografia, una svolta che non si sofferma solo al suo modo di fare cinema, ma che influenza tutta l’industria cinematografica italiana. Infatti, il regista riminese, con La dolce vita segna un cambio nel suo modo di fare cinema che approfondisce con le pellicole successive. Roma, 8 ½ e Intervista, sono di sicuro alcuni dei film che indubbiamente hanno influenzato e ispirato Sorrentino e il suo lavoro. Lavoro, che è considerato innovativo dai i critici contemporanei.
Il film di Sorrentino, spesso, fa ritornare alla mente, in diversi momenti, le pellicole di Fellini, ma questo non vuol dire che sia un remake, o la brutta copia dei suoi film, come spesso è stato definito. Di seguito, è riportata l’analisi del confronto tra l’opera di Sorrentino e quelle di Fellini. Uno studio basato sulle analogie riscontrate tra le opere prese in esame, prendendo come punto di riferimento l’influenza cui è stata soggetta La grande bellezza e non in base alla loro prima proiezione nelle sale cinematografiche.
3.1.1 La dolce vita VS La grande bellezza
Uno tra i film, di Fellini, in cui si trova maggiore assonanza, indubbiamente è La dolce vita. Un film che ha segnato un cambiamento nel cinema del regista riminese. Una pellicola che è divenuta un nuovo punto di partenza per tutto il cinema italiano. I due cineasti condividono, nonostante la distanza di sessant’anni, un’idea di cinema come territorio di esplorazione visionaria e surreale. Sia ne La dolce vita che ne La grande bellezza ogni singolo particolare è significativo. Federico Fellini e Paolo Sorrentino non hanno lasciato nulla al caso durante la stesura delle loro opere, né tanto meno durante la loro messa in scena. Due registi che prima di cimentarsi nelle loro rispettive pellicole, si sono “spogliati” di tutto quello che li poteva coinvolgere nella composizione dell’opera cinematografica, così da immedesimarsi nello spettatore facendogli scoprire nuovi ambiti dell’animo umano. Entrambi hanno deciso di ritrarre Roma, la coprotagonista delle pellicole, sotto un profilo nuovo insolito, osservando non solo la città, ma soprattutto chi la vive. Roma è vista come da un turista ammaliato dalla città eterna. Un luogo in cui convivono la borghesia, il clero e la nobiltà, che si lascia trascinare dagli eventi, e dalla moda. I due cineasti mettono in scena la loro realtà contemporanea, una visione non così distante, nonostante La dolce vita ritrae la Roma del boom economico, mentre La grande bellezza quella decadente del nostro periodo. Una società che mescola il sacro con il profano che si perde e non riesce più a trovare la strada del ritorno. In entrambe le pellicole emerge una Roma di straripante grandiosità e malinconia, antica ma moderna, nobile ma volgare, solenne ma miseranda <2. Ne La dolce vita il regista rileva l’impossibilità e il fallimento dei propri personaggi di sperimentare una conversione. In questa pellicola si mette in scena uno spettacolo multiplo, l’espressione di una cultura onnivora con una grande fame arretrata di esperienze negate <3. Mentre Sorrentino si focalizza su un ambiente caratterizzato da scorci di personaggi e una babele di linguaggi diversi, in cui Jep si fa osservatore distaccato. Fellini nella sua opera mette in scena come un “diario notturno”, di un personaggio qualunque di mezza strada tra il gusto e il disgusto per l’ambiente in cui vive <4. I due protagonisti sono simili ma allo stesso tempo molto diversi. Poiché Marcello rappresenta un personaggio che fin da subito si mostra sensibile, e aspira ad una vita diversa. Si scorge già dalle prime scene il suo sentirsi inadatto alla realtà che lo circonda. Marcello cerca di attorniarsi da persone importanti della società “in” di Roma, alle quali vorrebbe cercare un aiuto che non possono dargli, finendo così a mescolarsi in un turbinio di gente cercando di capire chi è lui, e la strada da intraprendere. Ben diversa è la descrizione di Jep, fin dalle scene iniziali, è raffigurato come un cinico, come il re dei mondani.
Io non volevo essere, semplicemente, un mondano. Volevo diventare il re dei mondani. E ci sono riuscito. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire <5.
Il suo personaggio appare sicuro di sé, solo durante il film si scopre il lato sensibile e i dubbi che lo assalgono. I due film sono molto simili nella trama, ma anche nella concatenazione delle scene. Sia La dolce vita che La grande bellezza sono caratterizzati da un montaggio complesso, episodi a tratti frammentari che si alternano ad altri completi che balenano solitari e splendenti durante la pellicola. I diversi episodi hanno una funzione simbolica, che per Marcello rappresentano le vie offertegli per arrivare alla pace con sè stesso e con il mondo: ma sono tutte strade da cui non trova via di uscita. Differente per Jep che si ritrova a far i conti con il passato, riuscendo a riflettere e a ritrovare la sua sensibilità, che sembrava perduta.
Sono forti gli echi che richiamano al capolavoro degli anni Sessanta, anche in alcune scene. Rappresentativa la sequenza che inquadra la scala a chiocciola, in entrambe le pellicole, intimando nello spettatore un senso di vuoto e in ambedue i casi sono preludio di morte. Ne La dolce vita è ripresa poco prima della scoperta del suicidio di Steiner. Marcello sale di corsa questa scala tortuosa fino ad arrivare davanti alla porta di casa dell’amico di vecchia data. Una scena che segna una svolta nell’animo del protagonista che ritorna a smarrirsi. Anche ne La grande bellezza lo spettatore si trova di fronte alla stessa inquadratura, la scala ripresa dal basso, ma non c’è quella tensione che si percepisce nell’opera di Fellini. Anche in questo caso l’inquadratura segue una brutta notizia: la morte di Elisa, il grande amore di Jep Gambardella. Una scena inaspettata che vede il protagonista piangere come un bambino e lascia nello spettatore sbigottito e con un senso di vuoto interiore. Proprio da questa sequenza cambia la visione del pubblico nei confronti del protagonista, riemerge il suo lato umano, quello debole che ha cercato sempre di nascondere. Altre scene sembrano rifarsi alla pellicola di Fellini come ad esempio il circolo d’intellettuali a casa di Steiner, in cui erano presenti letterari, musicisti, gente che voleva cambiare il mondo stando comodamente seduti a discutere nei salotti. Così anche Sorrentino propone il suo “cenacolo”, ma non più formato da letterari, ma dalla gente mondana di Roma che discute del più e del meno, finendo a parlare di cose vacue, pettegolezzi, sciocchezzuole <6, consapevoli delle loro fragilità e debolezze. Punti in comune che non si limitano solo ai temi delle scene, ma anche nella realizzazione delle inquadrature. Infatti, sia nell’opera di Fellini che quella di Sorrentino, sono presenti dei quadri molto simili. Tra tutte, la falsa soggettiva è forse quella più significativa. Infatti, tutti e due i registi, hanno deciso di utilizzare questa inquadratura, per sottolineare un momento clou del film. Ne La dolce vita è adoperata nel momento in cui Marcello con Emma entra per la prima volta a casa Steiner. Un episodio che immette il protagonista in un ambiente da lui sempre ammirato, ma che ben presto scoprirà pieno di vacuità. Mentre Sorrentino si avvale della scelta di una falsa soggettiva, per rendere più efficace l’azione introspettiva nei confronti del protagonista. La scena si svolge all’interno del Chiostro del Bramante, in cui si sente la voce di una bambina che domanda a Jep chi è, e la sua stessa risposta che gli dice che è nessuno. Un episodio che colpisce l’animo del protagonista.
I due film hanno in comune un tipo di linguaggio cinematografico sontuoso e barocco. Una scelta che evidenza ancora di più tutte le bellezze di Roma, i luoghi principali visitati dai turisti, ma anche Via Veneto, una delle vie maggiormente frequentate dalla società mondana. Un’ambientazione questa, che, più volte, ha posto i due colossi del cinema italiano come il primo continuazione dell’altro. In realtà, nei due film sembrano due vie completamente diverse. Ne La dolce vita è raffigurata una strada piena di gente importante, dove da un lato sono presenti i vip e dall’altro i giornalisti e i fotografi pronti a immortalare una rissa, o un bacio rubato. Uno scenario che non combacia con quello presente ne La grande bellezza. La scena riprende Jep mentre cammina solo con le mani dietro la schiena osservando le vetrine dei locali e una limousine con gente altolocata della società romana, accompagnata da delle escort.
Una sostanziale differenza tra i due registi sta nell’idea di realizzazione dell’opera. Fellini basa i suoi racconti per lo più su eventi realmente accaduti che danno vera testimonianza del mondo che lo circonda, di un’Italia a volte soprafatta dal boom economico. Mentre con La grande bellezza ci troviamo di fronte a un’opera del tutto immaginata dove ogni singolo personaggi, ogni episodio è stato studiato nei dettagli, arrivando quasi a esasperare la situazione e la realtà che lo circonda. È evidente come ambedue i registi hanno deciso di dare un ritratto agrodolce, ma essenzialmente comicheggiante della vita “in” del loro tempo. Non hanno tralasciato nulla al caso e ciò si nota anche nella cura dei dettagli, dalla stravaganza e dalla particolarità degli abiti indossati dalle protagoniste femminili. Basti pensare all’abito talare di Anita Ekberg e al soprabito di Sabrina Ferilli con un ampio rivolto che le fascia il collo e avvolge parte della testa.
In conclusione si può affermare che La dolce vita è il manifesto di quella che si potrebbe chiamare “la seconda liberazione”, contrassegnata agli inizi degli anni Sessanta, che rifiuta ogni schema moralistico nel giudicare eventi e personaggi. Una scelta simile viene sviluppata da Sorrentino, poiché anche lui volge lo sguardo alla vuotezza su cui si basa la società borghese di oggi.
[NOTE]
2 F. Vigni, La maschera, il potere, la solitudine. Il cinema di Paolo Sorrentino, Firenze, Aska, 2014, p. 204.
3 T. Kezich, Federico Fellini, la vita e i film, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 202.
4 Ivi, p. 200.
5 P. Sorrentino, U. Contarello, La grande bellezza, Milano, Skira, 2013, p. 60.
6 Ivi, p. 78.
Melania Abbate, Dalla Roma di Fellini a quella de La grande bellezza di Paolo Sorrentino, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, 2018

giovedì 1 aprile 2021

Enrico Ghezzi da Genova a...


[...] A pensarci bene, restando su questa linea riflessiva ghezziana, si potrebbe mettere in rilievo che sebbene il medium fosse freddo (la Tv), per di più con Ghezzi che adottò la straniante asincronia del commento sulle sue immagini pre-registrate molto tempo prima, il suo esprimersi arruffato era caldo, proprio perché appassionato, in bilico tra faceta critica ed elucubrata cinefilia.
Spedita scheda anagrafica e professionale di Enrico Ghezzi.
Nasce a Lovere, un piccolo comune di Bergamo, il 26 giugno 1952, per poi trasferirsi in giovane età con la famiglia a Genova. È nel capoluogo ligure che si plasma la sua cultura cinematografica, frequentando il cineclub Filmstory e aderendo al gruppo cattolico Agesci.
Per inciso, la Liguria ha dato i natali ad alcune fondamentali colonne della critica cinematografica, come Roberto Chiti, Claudio G. Fava o Gianni Amico, ed è nella seconda metà degli anni Sessanta che si forma una generazione di futuri giovani turchi-liguri che lasceranno un marcato segno nel mondo della critica cinematografica e nei palinsesti Rai: Tatti Sanguineti (Savona, 1946), Carlo Freccero (Savona, 1947), Oreste De Fornari (Genova, 1951) e Marco Giusti (Grosseto, 1953 - ma trasferitosi già bambino a Genova).
Il tipo di esegesi critico-cinefila proposta da Enrico Ghezzi si può comprendere sia dalle assidue frequentazioni di cineclub d’essai e di sale di terza categoria, e sia dal suo percorso di studi, culminato con una tesi in Filosofia morale. Nel 1974, assieme a Marco Giusti e Teo Mora, fonda la rivista Il falcone maltese, con cui il gruppo propone una critica espansa, che non sia legata a usuali schemi bacchettoni. Purtroppo la rivista sopravvive tenacemente soltanto per due anni. Nel 1978 Ghezzi vinse il concorso di programmista-regista indetto dalla Rai per creare il polo ligure per la nascente terza rete, e nel 1980 si trasferì a Roma, iniziando a curare la programmazione cinematografica di Rai 3, ad esempio ideando cicli di film. Dal 1987 cominciò ad occuparsi del palinsesto della terza rete Rai, dando spazio a nascenti talenti (Ciprì e Maresco) e ideando alcuni programmi che hanno fatto la storia della televisione italiana. Nel 1985, assieme a Marco Giusti, creò una portentosa personale su Walt Disney al Festival del cinema di Venezia. Nel 1988 esordì dietro la macchina da presa realizzando l’episodio Gelosi e tranquilli del film collettivo Provvisorio quasi d’amore.
Nel suo percorso professionale, fondamentale fu la stretta collaborazione con Marco Giusti, conosciuto durante le scorribande cinefile a Genova, che durò fino alla prima metà degli anni Novanta, per poi infrangersi con una furente litigata.
[...]
Tappe ghezziane fondamentali
Enrico Ghezzi ha messo il suo zampino filosofico su alcuni capisaldi della critica cinematografica e della televisione italiana, e un paio di essi ancora sono lì a (di)mostrare il loro sfavillio.
Cominciamo dai libri:
Paura e desiderio. Cose (mai) viste, 1974-2001 (1995). Come già accennato contiene una mole enorme degli scritti di Ghezzi. Se si vuole conoscere l’autore e il suo stile, questo è il primo passo per comprenderlo, facendo gincane mentali - comunque piacevoli e costruttive - per capire nel profondo le sue riflessioni. Il titolo è il sunto perfetto delle sue ossessioni: Paura e desiderio, poli indiscussi del genere cinematografico (Thanatos ed eros), ma soprattutto omaggio alla sua passione per Kubrick, citando il suo lungometraggio d’esordio, per decenni visionabile solamente in copie clandestine; Cose (mai) viste, auto-citazione del sottotitolo del suo programma di punta; 1974-2001, le datazioni degli scritti, che iniziano con una data vera (1974) e terminano con l’anno domini cinematografico per eccellenza, immortalato da Stanley Kubrick. Infine, la data di pubblicazione del volume, uscito proprio nell’anno del centenario del cinematografo.
Stanley Kubrick (1999). Tra i diversi volumi che compongono la collana Il Castoro Cinema, il tomo dedicato a Kubrick è stato uno dei più venduti.
Ghezzi si è appropriato, sin dalla prima edizione del 1977, del regista per eccellenza, e nelle pagine di questo saggio il critico ha dato sfogo alle sue elucubrazioni, filosofeggiando con costrutti ermetici su tutte e 13 le pellicole, cominciando in medias res, ossia da 2001: Odissea nello spazio (2001 - A Space Odyssey 1968), pellicola spartiacque della carriera del regista. In 20 anni il volume non ha subito modifiche o correzioni di pensiero, e ha subito poche aggiunte, anche perché da quel lontano 1977, Kubrick ha realizzato solo 3 pellicole: Shining (The Shining, 1980), Full Metal Jackett (1987), Eyes Wide Shut (1999).
L’ossessione per Kubrick si è manifestata, attraverso la stesura della prefazione, anche nel libro Ladro di sguardi - Fotografie di fotografie 1945-1949 (1995), raccolta dei giovanili scatti fotografici del regista; e nell’introduzione, per l’edizione italiana, del libro/sceneggiatura Lolita (1997) di Vladimir Nabokov.
I programmi televisivi:
La magnifica ossessione (1985). Maxi maratona di 40 ore, curata assieme a Irene Bignardi e Marco Melani, per rendere omaggio ai primi 90 anni del cinematografo. Andata in onda su Rai 3, tra il 28 dicembre e il 30 dicembre, questo programma espanso si potrebbe definire il primo assaggio di quello che sarà poi Fuori orario, ossia riflessioni critiche e messa in onda di pellicole rare. Anche il titolo, che ossequia il melò per eccellenza Magnificent Obsession (1954) di Douglas Sirk, serve a corroborare la mania cinefila che vibra in questo straordinario evento televisivo. Per inciso, gli interventi critici erano tutti pre-registrati.
Schegge (1988-1995). Ideato assieme a Marco Giusti, era un programma di montaggio che prevalentemente attingeva, rispolverando i materiali rari sparsi, dal ricco magazzino Rai.
La struttura Rai teche, creata per mettere in ordine la mole di materiale, sarebbe stata creata solo nel 1995. Come avverte il titolo, è solo una brevissima riproposizione di qualcosa proveniente dal passato, un frammento di memoria.
Schegge, usualmente programma notturno, era un erudito momento nostalgico che riorganizzava per tematica gli spezzoni proposti.
Famoso quello denominato Schegge Jazz, andato in onda tra il 31 agosto 1992 e l’11 dicembre 1992, che riproponeva vecchi filmati di concerti dal vivo di alcuni tra i più grandi jazzisti del Novecento.
Fuori orario. Cose (mai) viste (1988-presente).
Dal 20 febbraio 1988, è la piccola oasi del cinema d’essai televisivo. La canzone Because the Night di Patty Smith che commenta le scene oniriche de L’Atalante sono ormai leggenda, e non ci si stanca mai di rivederle/riascoltarle.
Lontano dalle mode e dallo spietato share, è stato per moltissimi anni l’unico luogo dove poter “reperire” pellicole rare o, per citare il sottotitolo, cose mai viste. Un appuntamento notturno fondamentale, non sempre rispettoso degli orari di palinsesto, ma saziante per quello che proponeva.
[...] Purtroppo Fuori orario con gli anni si è ridimensionato, da un lato perché Rai 3 gli concede meno spazio, e dall’altro per l’arrivo di internet delle nuove piattaforme di streaming, senza dimenticare il Peer to Peer, che consente il rispecaggio di cose mai viste. In ogni modo Fuori orario rimane a tutt’oggi l’unico vero atto d’amore verso il cinema.
P.s.: anche questo programma ha un titolo cinefilo, prendendo in prestito quello di Fuori orario (After Hours, 1985) di Martin Scorsese.
Blob (1989-presente). Ideato assieme a Marco Giusti (e tanti altri collaboratori succedutisi negli anni), la prima puntata andò in onda il 17 aprile 1989. L’intento di questo magmatico programma, che va in onda quotidianamente in fascia pre-serale, è quello di montare insieme i più bizzarri momenti televisivi del giorno prima (o della settimana), creando connessioni discorsive tra il variegato materiale televisivo scelto, a cui a volte si innestano clip cinematografiche. Come nei sopracitati programmi, anche questo recupera il titolo di un famoso cult, ovvero dallo Sci-Fi (anti-comunista) Blob - Fluido mortale (The Blob, 1958) di Irvin S. Yeaworth, e come la massa gelatinosa di quel B-Movie, anche il programma Blob è una creatura che lorda e soffoca lo schermo televisivo.
Negli anni il programma ha avuto anche “puntate speciali”, creando delle beffarde monografie su un determinato personaggio.
Roberto Baldassarre, Enrico Ghezzi tra paura e desiderio cinefilo, Diari di Cineclub, Anno X, N. 93, Aprile 2021