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martedì 20 febbraio 2024

Good Morning Babilonia


"[...] uno scrittore messicano, Federico Campbell, mi ha dato la risposta: ricordare è lo stesso che immaginare. Non sono capace di scrivere romanzi, ma c'è forse qualcosa di più fantastico della realtà?" così si è espresso Federico Scianna, valente fotografo e grande amico di Leonardo Sciascia, con Michele Smargiassi, che ha riportato la frase nel suo articolo Scianna. Scrivere, che bella visione, apparso su il venerdì di Repubblica, n° 1730, del 14 maggio 2021.

Si tratta di un'espressione che spinge per ad attingere ai ricordi di racconti uditi in questo lembo di ponente ligure che va da Bordighera al confine con la Francia e comprensivo dell'entroterra: fatti non necessariamente accaduti da queste parti, ma in ogni caso rammentati da chi in questa terra era nato o era venuto ad abitare.

Piccole cose - ben inteso - ma anche inediti più o meno singolari.

Riemerge, in tale contesto, la spinta a proclamare - con alquanta spavalderia! - che la storia si compone di mosaici realizzati con tante minuscole tessere. A prescindere - logicamente - da attestazioni di ordine letterario o di afflato lirico.

Qualche esempio, allora, magari abborracciato.

La fuga di una coppia di giovani, poco più che adolescenti, a cavallo tra Ottocento e Novecento, da un paesello arroccato in altura per coronare un contrastato sogno d'amore. L'idillio finito. Un paio di figli in collegio ad Alassio. La fuga di lui negli Stati Uniti. Il suo ritorno per partecipare alla Grande guerra. Un altro viaggio, definitivo, oltre oceano. Quali intermezzi, alti e bassi di carattere economico. Una nuova famiglia negli States. Fratellastri e loro discendenti che tempo dopo si conoscono. Un trama degna, anche se più leggera, di Good Morning Babilonia dei fratelli Taviani.

Gli eventi di un bersagliere, non più di leva, di un altro nostro piccolo borgo. Ad iniziare dall'obbligo che più di un secolo fa questi soldati avevano di svolgere, una volta conclusa la ferma, ulteriori periodici addestramenti. Fu così che ebbe occasione di conoscere o di vedere da vicino i protagonisti del famoso caso della contessa Tiepolo. Nel grande conflitto portò in salvo sulle spalle il compaesano gravemente ferito della vicina vallata, il quale serbò sempre grata memoria anche ai suoi discendenti. Ebbe a compiere qualcosa del genere anche con un suo ufficiale a cui, quando presente al soggiorno militare in Sanremo, in seguito con una figlia faceva spesso visita, recando modesti doni prodotti nella sua campagna: seppe, poi, che da generale fu uno degli eroi tra gli italiani che si opposero ai tedeschi in Corsica dopo l'8 settembre 1943.

Cugini che durante la Grande guerra si ritrovarono insieme - come attesta la fotografia qui pubblicata (si vedano le crocette da loro, o da qualche loro familiare, apposte a ricordo!) - nella stessa truppa specializzata e che riuscirono a tornare indenni in questa Riviera: uno dei due si spostò poi a ponente di qualche chilometro per emigrare in modo definitivo a Nizza.

Il pescatore, in seguito floricoltore, destinato ad aiutare ebrei stranieri in fuga dall'Italia, che ai premilitari imposti dal fascismo si presentava scalzo, sostenendo che in famiglia non c'erano soldi per le scarpe, di modo tale che regolarmente veniva rimandato a casa.

Un bambino di cinque anni che dall'altura di Collasgarba assiste all'avvio del terribile bombardamento aereo su Nervia. Subito dopo, con la famiglia, sotto un robusto tavolo in un vano seminterato adiacente al soggiorno. Il nonno vuole vedere o chiudere ancora qualcosa. Una pioggia di microscopici pezzi di vetro lo investe in pieno (ed il medico avrà il suo bel da fare per rimuoverli tutti!): un ordigno aveva appena scavato una profonda buca davanti alla Villa.

Adriano Maini

mercoledì 24 gennaio 2024

Tanti immigrati alla costruzione delle strade militari nell'estremo ponente ligure

Magauda, Frazione di Camporosso (IM): una zona circondata a suo tempo da strade militari

Come è ben noto, durante la Grande guerra a Ventimiglia vennero adibiti a ospedali militari l'Orfanotrofio San Secondo e l'Ospizio di Latte; a Bordighera vennero adattati a simile scopo il nuovo Casinò e diverse ville private, anzi, fu persino impiantato un nosocomio attendato; e così via. Del personale inglese (infermiere, ufficiali, soldati) passato in zona si conoscono alcune vicende di battaglia, ma poco risulta scritto dei fatti d'arme che coinvolsero uomini di questa zona del ponente ligure (da segnalare nel contesto il bel lavoro di Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019, ma, trattandosi di una rassegna di quasi tutti i combattenti della zona intemelia partiti all'epoca per il fronte, le relative informazioni per forza di cose, fatte salve alcune eccezioni, sono necessariamente molto sintetiche), per cui in proposito nel secolo più o meno appena trascorso sono girati alcuni racconti orali, all'apparenza scarni ed imprecisi, anche quelli compiuti da successivi immigrati.

Alla metà degli anni Trenta - ed ancora poco prima - alla costruzione delle strade militari, che sarebbero dovute servire da infrastruttura alla cosiddetta (e presunta) Maginot fascista delle Alpi Marittime, parteciparono in prevalenza come operai e manovali tanti e tanti immigrati - non tutti provvisori - da altre parti d'Italia. Dovette occuparsene anche il poeta Salvatore Quasimodo, allora quadro del Genio Civile di Imperia.

Scoppiato il secondo conflitto mondiale, il regime pensò di prodursi in un altro gesto di propaganda dei suoi, facendo (obbligando a) rientrare tredicimila tra bambini e ragazzini, figli di connazionali trapiantati in Libia, da far vivere poi tra edifici di colonie estive, alberghi, costruzioni varie (in genere pertinenze della Gioventù Italiana del Littorio, la G.I.L.). Secondo il compianto presidente dell'ANPI di Bordighera, Vincenzo Ridi, che nel 2013 ne promosse la memoria, ben quattromila dimorarono a Bordighera. Diversi anche nella vicina Sanremo, ma chi scrive non ha ancora trovato cifre in merito. In ogni caso, su questa drammatica vicenda, poiché si trattava di piccoli lontani dalle famiglie, dei quali molti perirono sul suolo nazionale e tanti altri non rividero più i loro cari, ha ben scritto da adulta una protagonista, Grazia Arnese Grimaldi, nel suo "I tredicimila ragazzi italo-libici dimenticati dalla storia" (Marco Sabatelli Editore, Savona, 2012).

In alcuni diari di nostalgici, in genere bersaglieri repubblichini, dei loro trascorsi di guerra nei pressi di questo confine con la Francia emergono memorie goliardiche, ed anche sporadiche retoriche commemorazioni di camerati caduti, ma non risultano mai parole di pietà per le loro vittime.


Esempi di documentazione O.S.S.


Non saranno tutti così i documenti pertinenti in materia, contenuti negli archivi statunitensi, i N.A.R.A., ma da quello che si rinviene desegretato dalla CIA in Rete, tra interrogatori in italiano condotti - si presume - per le Corti d'Assise Straordinarie (C.A.S.) del secondo dopoguerra, confluiti in atti O.S.S. (antesignana della CIA) ed altri appunti della medesima Organizzazione, tutti afferenti in qualche modo la provincia di Imperia, non difettano, accanto alle certificazioni di efferatezze nazifasciste (qui, qui e qui qualche esempio), aspetti secondari che sconfinano nel pettegolezzo: non solo la presenza ridondante di amanti donne, cui si è fatto già cenno altra volta, ma anche azioni da profittatori di guerra, coinvolgimento in trame di contrabbando e di borsa nera di alcuni commercianti di fiori, incombenze pressoché usuali di domestici, albergatori ed autisti (con viaggi a destra e a manca, soprattutto attraverso il confine con la Francia, sinché non divenne il fronte, con meta prevalente - guarda caso! - Montecarlo), quasi a dimostrazione del fatto che da accusati e testimoni non si intendesse ricavare molto di più.

Adriano Maini

giovedì 4 gennaio 2024

Ufficiali garibaldini di Spagna a Vallecrosia

A destra, Cesare Menarini in Spagna. Fonte:  AICVAS

Giuseppe Mosca in Spagna. Fonte:  AICVAS

Di Cesare Menarini e di Giuseppe Mosca e della loro militanza come volontari delle Brigate Internazionali a difesa della Repubblica Spagnola si potevano rinvenire un tempo ampie citazioni non solo nel classico libro di Luigi Longo, ma anche in uno di Giorgio Amendola. Con l'avvento del Web si possono trovare su di loro ancora più notizie, come si riporta più avanti.

Menarini e Mosca hanno avuto la singolarità di avere vissuto a Vallecrosia; Mosca più a lungo, prima di tornare a Biella, sua zona natale;  Menarini, invece, per tanti anni rimase nel ponente ligure, prima a Sanremo, poi, come detto a Vallecrosia, infine a Ventimiglia.

Certo, nella Guerra Civile di Spagna furono una quarantina i combattenti antifascisti imperiesi, arruolati nelle Brigate Internazionali. Non ebbero, tuttavia, la notorietà di Menarini e di Mosca, a loro volta meno ricordati in provincia di Imperia rispetto a Lorenzo Musso (Sumi), che durante la lotta di Liberazione divenne Commissario Politico al Comando Operativo della I^ Zona Operativa Liguria, ma soprattutto a fronte di Giuseppe Vittorio Guglielmo (Vittò, Ivano), comandante della II^ gloriosa Divisione Garibaldi "Felice Cascione" e neppure in riguardo di Carlo Farini (Simon), anch'egli già in Spagna, vice comandante del Comando militare unificato ligure, in precedenza comandante della I^ Zona e della II^ Operativa Liguria, il quale in provincia di Imperia durante la Resistenza ci era arrivato, per così dire, da emigrato.

Menarini Cesare di Pietro e Malagoli Maria, 5/10/1907, Città  del Lussemburgo. Autista, comunista. Cittadino italiano nato in Lussemburgo, nel 1915 rientra a San Felice sul Panaro insieme alla famiglia, originaria del Modenese. Il 13 gennaio 1923 espatria con regolare passaporto in Francia, raggiungendo il padre, emigrato per lavoro l'anno precedente. Si stabilisce prima a Homécourt, nel dipartimento della Meurthe e Mosella, fino al 1926, poi a Le Plessis-Trévise, nel dipartimento della Valle della Marna, nella regione dell'Ile-de-France, dove nel 1926 entra nella Federazione giovanile del Partito comunista francese e poco dopo nei Gruppi di lingua italiana del PCF. Nel 1928 si trasferisce a Le Blanc-Mesnil, nel dipartimento della Senna-Saint-Denis, sempre nella regione dell'Ile-de-France, dove svolge un'intensa attività  antifascista tra l'emigrazione italiana fino all'ottobre 1936, quando decide di partire per difendere la Spagna repubblicana e si imbarca dal porto di Marsiglia sulla nave "Ciudad de Barcelona”. Sbarcato ad Alicante, raggiunge in treno Albacete, dove è arruolato nel battaglione Garibaldi, 1. compagnia, per poi passare alla 2. e alla 3. compagnia. A novembre combatte a Cerro de los Angeles e a Casa de Campo, dove il 20 novembre è ferito da una pallottola alla spalla sinistra. Dopo il ricovero negli ospedali di Madrid e di Valencia, nel gennaio 1937 torna al fronte e combatte alla Città  Universitaria, a Puente de Segovia, a Carabanchel, ad Arganda, sul Jarama, a Morata de Tajuna e a Guadalajara. Passato alla Brigata Garibaldi, il 31 maggio 1937 è promosso sergente e combatte a Huesca, a Brunete e in Catalogna. In seguito è al servizio della Delegazione della Brigate Internazionali a Valencia e poi, dal settembre 1937 al giugno 1938, alla Censura militare delle Brigate Internazionali, a Godella, in provincia di Valencia, e a Barcellona, nel quartiere di Sarrià. Il 10 novembre 1937 è promosso tenente e si reca alla base di Quintanar de la Republica, che lascia il 19 novembre per tornare in servizio. Nel febbraio 1938 è ferito al lato destro della testa da una scheggia durante un bombardamento aereo su Valencia ed è ricoverato all'ospedale militare cittadino. Il 4 aprile 1938 è promosso ancora e raggiunge il grado di capitano. In agosto si frattura il piede destro a causa di un bombardamento aereo su Barcellona ed è ricoverato in ospedale. Il 20 agosto 1938 esce dalla Spagna per infermità  e rientra nella sua abitazione a Le Blanc-Mesnil. Il 24 agosto gli viene tolto il gesso al piede all'ospedale di Versailles. Guarito, riprende il lavoro di operaio edile. Nel 1940 è responsabile del Partito comunista per il settore Parigi-Nord (Le Bourget, Le Blanc-Mesnil, Aubervilliers, Drouot, Bobignye e altri comuni) e durante il periodo dell'occupazione tedesca organizza un gruppo antinazista clandestino che distribuisce il bollettino ciclostilato "La Voce degli Italiani" e materiale di propaganda francese. Nel settembre 1940, la sua casa è perquisita dalla polizia, ma riesce a sfuggire l'arresto e viene ospitato per alcuni mesi da compagni di partito. Nell'agosto 1941 il Centro estero del Pcd'I lo invia in Italia con materiale di propaganda comunista nascosto in un baule con doppio fondo. Dopo un primo periodo presso dei parenti a Mirandola, il 7 marzo 1942 sposa Anna Polloni e si trasferisce a San Felice, dove lavora nel magazzino per l'ammasso della canapa, da dove diffonde materiale di propaganda comunista. Entrato nella Resistenza con il nome di battaglia "Andrea", è commissario politico di brigata della Divisione Modena Armando. Riconosciuto partigiano combattente dal 1 ottobre 1943 al 31 maggio 1945 (dal 1 ottobre 1943 al 24 febbraio 1944 con il grado di sergente maggiore, dal 16 marzo 1944 al 31 maggio 1945 con il grado di maggiore). Dal 1945 al 1948 è sindaco di San Felice sul Panaro. Successivamente impiegato comunale all'ufficio delle imposte di consumo, nel 1956 è licenziato per attività  sindacale e decide di tornare a lavorare all'estero, in Svizzera, Germania e Francia. Nel 1962 si stabilisce a Sanremo, poi si sposta a Vallecrosia e infine a Ventimiglia, dove muore l'11 aprile 2002.
Eventi a cui ha preso parte
[nella guerra civile spagnola]:
Battaglia di Cerro de los angeles (Cerro Rojo)
Battaglia di Casa de campo
Battaglia della Città  universitaria di Madrid
Battaglia di Arganda del Rey
Battaglia del Jarama
Battaglia di Morata de Tajuña
Battaglia di Guadalajara
Battaglia di Huesca
Battaglia di Brunete
Annotazioni: Secondo il "Dizionario storico dell'antifascismo modenese", vol. 2: "Biografie", nell'estate 1941 il gruppo antinazista organizzato da Menarini in Francia fu incorporato nel Front National clandestino.
Istituto Nazionale Ferruccio Parri

Mosca, Giuseppe
Di Giovanni e di Aurelia Cristianelli. Nato l'11 gennaio 1903 a Cossato, residente a Chiavazza (Biella) fin dall'infanzia, fonditore. Iscrittosi alla Camera del lavoro e successivamente alla gioventù comunista, fu un militante molto attivo. Costretto, dopo ripetuti scontri con i fascisti, alla vita clandestina, il 27 novembre 1927 fu arrestato a Torino con l'accusa di appartenenza al Partito comunista e diffusione di stampa sovversiva nelle fabbriche della città: deferito al Tribunale speciale, fu assolto in istruttoria il 6 luglio 1928 per insufficienza di prove. In seguito resse l'organizzazione del partito nel Biellese. In procinto d'essere arrestato, in seguito alla scoperta di un gruppo clandestino operante nel basso Biellese e nel Vercellese, cui aveva fornito materiale e direttive, nel novembre 1932 riuscì ad espatriare illegalmente in Francia, dove si stabilì a Villeurbanne. Fu iscritto nella "Rubrica di frontiera". Nel marzo 1934, in seguito ad indagini dell'Ovra che portarono all'arresto, in Piemonte e Lombardia, di ventisei comunisti, tra cui alcuni biellesi, fu denunciato al Tribunale speciale, in stato di latitanza, per attività comunista. Il 19 novembre 1936 si arruolò nel battaglione "Garibaldi". Combatté a Boadilla del Monte, Mirabueno, Arganda, Guadalajara, dove rimase ferito. Rientrato nella formazione, nel frattempo trasformatasi in brigata, fu inquadrato nella 2a compagnia del 2o battaglione, con il grado di sergente. Combatté ancora a Huesca, Brunete, Farlete, Belchite, Fuentes de Ebro, Caspe e, promosso tenente nell'aprile del 1938, in Estremadura e sul fronte dell'Ebro. Tornato in Francia nel febbraio del 1939, fu internato a Saint Cyprien, Gurs e Vernet d'Ariège. Rimpatriato il 23 settembre 1941 e tradotto, in stato di arresto, a Vercelli, il 19 novembre fu condannato a cinque anni di confino. Inviato a Ventotene (Lt), fu liberato dopo la caduta del fascismo. Partecipò alla Resistenza nella brigata Sap biellese "Graziola" come commissario di battaglione. Riportò una ferita. Dopo la Liberazione svolse attività sindacale nella Fiom e politica nella Federazione comunista di Biella. Morì il 18 luglio 1992 a Biella.  Fonti: Acs, Cpc, fascicolo personale; Acs, Confinati politici, fascicolo personale; Acs, Ps aaggrr, cat. K1b-45; Apci, I comunisti italiani nella guerra di Spagna, b. 7, vari elenchi; Anello Poma, Antifascisti piemontesi...; Quaderno Aicvas n. 7. Biografato anche nell'Enciclopedia dell'Antifascismo e della Resistenza e citato anche in: I comunisti biellesi nella lotta contro il fascismo; Giacomo Calandrone, La Spagna brucia; La Resistenza nel Biellese; Quaderno Aicvas n. 2; Quaderno Aicvas n. 3; 60 anni di vita della Federazione biellese e valsesiana del Pci... Si veda inoltre Autobiografia di una guerra civile. Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli 

Adriano Maini

martedì 26 dicembre 2023

Venne a Bordighera un ufficiale della Milizia Confinaria a prelevarmi con un'autovettura per trasportarmi a Ventimiglia

Bordighera (IM): Piazza Eroi della Libertà

A Ventimiglia in ambienti che gravitavano intorno alla stazione ferroviaria si formò una rete clandestina con l’obiettivo di sabotare i trasporti tedeschi e difendere le infrastrutture ferroviarie e stradali in concomitanza di un’eventuale sbarco alleato. A questa organizzazione aderirono una decina di ferrovieri assieme a carabinieri, poliziotti, civili. Il gruppo, che assunse il nome di Giovine Italia, riuscì a collaborare con un’altra organizzazione legata al partito comunista di Bordighera, la quale in clandestinità forniva documenti falsi a militari sbandati e antifascisti ritenuti sovversivi dalle autorità della Repubblica Sociale. Gli ufficiali dell’esercito e i carabinieri che aderirono avrebbero dovuto stabilire il controllo dell’ordine pubblico una volta il territorio fosse stato liberato. A causa di un incauto approccio da parte di Olimpio Muratore, tentato con due suoi compagni di scuola arruolatisi nella GNR ferroviaria, Carlo Calvi e Ermanno Maccario, questi rivelarono l’esistenza dell’organizzazione al loro comandante. Iniziarono subito le indagini portate avanti dalla G.N.R. e dal Commissario Capo della Polizia Repubblicana di Ventimiglia, Pavone. All’alba del 23 maggio 1944 una retata portò alla cattura di una trentina di persone, ventuno delle quali consegnate ai tedeschi, e di queste tredici furono successivamente inviate a Fossoli e poi a Mauthausen: Airaldi Emilio, Aldo Biancheri, Antonio Biancheri, Tommaso Frontero, Stefano Garibaldi, Ernesto Lerzo, Amedeo Mascioli, Olimpio Muratore, Giuseppe Palmero, Ettore Renacci, Elio Riello, Alessandro Rubini, Silvio Tomasi, Pietro Trucchi e Eraldo Viale. Solamente Elio Riello, Tommaso Frontero, Amedeo Mascioli, Aldo e Antonio Biancheri sopravvissero alla deportazione. Emilio Airaldi, invece, già sul carro merci destinato in Germania, riuscì a scardinare un finestrino del carro e a gettarsi di notte nel vuoto nei pressi di Bolzano: venne aiutato da ferrovieri che lo aiutarono a nascondersi e quindi a ritornare a casa dove giunse dopo 3 mesi. Giuseppe Palmero e Ettore Renacci furono fucilati a Fossoli, Olimpio Muratore, Silvio Tomasi, Alessandro Rubini, Eraldo Viale, Ernesto Lerzo e Pietro Trucchi morirono nel campo di Mauthausen. Di Antonio Biancheri - salvatosi dagli stenti e appena tornato dal campo di concentramento di Mauthausen - esiste all'Archivio di Stato di Genova (per l'informazione si ringrazia Paolo Bianchi di Sanremo) la denuncia presentata al locale C.L.N. in Bordighera il 6 luglio 1945 contro Salvatore Moretta già milite della Guardia Nazionale Repubblicana, nel documento siglata come G.R.F. anziché G.N.R. come più usuale. Il Moretta, in effetti, era stato molto attivo nel quadro delle operazioni che portarono all'arresto di Biancheri nella notte tra il 22 ed il 23 maggio 1944. Sottolineava, infatti, Biancheri che un mese circa prima del suo arresto, allorquando si trovava nell'attuale Corso Italia di Bordighera in compagnia di Stefano Garibaldi - un altro patriota antifascista, che a luglio 1945 all'amico sembrava ancora detenuto in Germania, mentre, in effetti era già deceduto -, si era accorto del pedinamento effettuato a suo danno dal Moretta: entrati nella farmacia del corso ebbero piena conferma dell'appostamento effettuato dal miliziano repubblichino. Per quanto attiene le modalità del suo arresto, Biancheri specificava i nomi degli uomini della G.N.R. intervenuti, tra i quali, logicamente, compariva il Moretta, ma anche un appuntato dei carabinieri della stazione di Bordighera. In questa circostanza, mentre Biancheri era riuscito in qualche modo a far sparire i documenti per lui più compromettenti, gli agenti sequestravano tutta la sua corrispondenza personale, anche quella vecchia di quattro anni. All'alba, Antonio Biancheri veniva portato - presente sempre il Moretta - nella sede G.N.R. in Piazza della Stazione [oggi Piazza Eroi della Libertà], accanto agli uffici delle Poste e Telegrafi, dove, circa un'ora dopo, venne un ufficiale della Milizia Confinaria a prelevarmi con un'autovettura per trasportarmi a Ventimiglia; e così ebbe inizio la mia lunga e terribile odissea che mi portò a  Mauthausen. In seguito Antonio Biancheri fu molto attivo in seno al Partito socialista, ma reticente - come tanti reduci dalle tragiche odissee del secondo conflitto mondiale - a parlare delle vicende personali più dolorose. Di lui tramanda un vivo ricordo Giorgio Loreti, dinamico animatore dell'Unione Culturale Democratica di Bordighera.

Adriano Maini

martedì 19 dicembre 2023

Hotel Angst - Posto degli sfollati - Terzo Piano 109 - Bordighera

Bordighera (IM): l'ex Hotel Angst

Roberto Muratore scriveva in una data non precisata, alla vigilia della sua esecuzione, alla moglie Antonietta Lorenzi una breve missiva così carica di dignità personale e di affetto per i suoi cari, che meriterebbe di essere citata tra le "Ultime Lettere dei Condannati a Morte della Resistenza Italiana".
Essa, tuttavia, non risulta sinora pubblicata nel sito "ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana".   
Ci sono diverse annotazioni da effettuare in proposito.
La prima consiste nel fatto che il documento in questione - rinvenuto da Paolo Bianchi di Sanremo - è conservato nell'Archivio di Stato di Genova insieme ad altri incartamenti riferiti a processi di epurazione antifascista dell'immediato secondo dopoguerra: se ne può dedurre, per analogia, ma anche alla luce di quanto segue, che lo scritto corrisponda alle ultime volontà di una vittima della furia nazifascista e non di un deliquente qualsiasi, che, anzi, difficilmente in quei tempi oscuri veniva perseguito.
La seconda che per quante altre ricerche - via Web, va da sè - si siano fatte, come nel caso degli elenchi delle persone morte a qualsiasi titolo nel conflitto, realizzati a suo tempo dal Comune di Ventimiglia, i cognomi Muratore e Lorenzi (tipici della città di confine e delle sue Frazioni) non appaiono o come nel caso del memoriale dei Martiri della Strage del Turchino, per la quale le vittime furono barbaramente selezionate tra detenuti nelle carceri di Genova (e nella quale vennero trucidate tre persone di Camporosso, un uomo di Olivetta San Michele, un partigiano di Oneglia ed il patriota antifascista Renato Brunati, che aveva la residenza alla Casa del Mattone di Bordighera). In verità, nell'archivio online dell'Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea "Raimondo Ricci", appare un Roberto Muratore, ma come partigiano della 4a Brigata Val Bormida Giuliani Divisione Autonoma Fumagalli: un caso a parte, dunque.
Ancora. Il biglietto di Roberto Muratore venne scritto a macchina con molti errori di ortografia e di grammatica. Ad esempio, la lettera era indirizzata a "Lorenzi Antonietta - Otel Lans Posto degli sfollati - Terzo Piano 109 - Bordighera". Viene il dubbio - dato il tragico contesto - che sia stato compilato da un'altra persona: si potrebbe persino supporre un furiere tedesco.
Sembra giusto riportarne qualche brano un po' aggiustato in italiano. "Cara moglie mi hanno fatto il processo e mi hanno condannato a morte... la colpa della mia pena è di tuo padrino che ha raccontato tutto quello che ha voluto per salvarsi lui stesso... io di male non ho mai fatto nulla come ben sa tutto il nostro paese. Noi siamo stati disgraziati perché la nostra vita di matrimonio é stata molto breve, ma pensa al bambino che ti conforta. Sono gli ultimi Saluti e baci a te ed al mio piccolo Tino che non ha potuto conoscere suo padre e che ha avuto la medesima sorte di me che non ho conosciuto la mamma. Saluti al fratello e al Padre..."

Uno stralcio del documento qui citato. Fonte: Archivio di Stato di Genova, come da ricerca effettuata da Paolo Bianchi di Sanremo (IM)

Segnalazione di un agente della polizia ausiliaria in data 14 giugno 1945 dello stato di arresto di Onorio Lorenzi, compiuto dagli Agenti di Polizia del Comitato di Epurazione di Ventimiglia, a seguito della denuncia fatta dalla signora Antonietta Lorenzi. Fonte: Archivio di Stato di Genova, come da ricerca effettuata da Paolo Bianchi di Sanremo (IM)

Per essere la signora con il figlioletto sfollata in albergo a Bordighera i coniugi dovevano per forza essere abitanti di un borgo della zona Ventimiglia-Bordighera. Forse di Villatella, Frazione di Ventimiglia (IM), stante l'accusa ("... di aver deposto contro di lui alla G.N.R. di Ventimiglia tanto da farlo fucilare...") fatta, finita la guerra, dalla vedova Antonietta Lorenzi a carico di tale Onorio Lorenzi, residente in quel paese. A Bordighera venivano fatti trasferire gli abitanti delle zone di confine con la Francia (quelli della val Roia addirittura anche a Torino, inoltre con marce forzate). Nelle strutture turistiche requisite furono, del resto, ricoverati gli abitanti della Città delle Palme che avevano avuto le case colpite dai bombardamenti, in genere navali. Tutto ciò lascia inquadrare la possibile data della missiva in oggetto nel periodo compreso tra l'assestamento (settembre 1944) delle forze armate alleate sulla vecchia linea di confine italo-francese e la fine della guerra.
La tragica vicenda di Roberto Muratore forse lascia aperto un altro interrogativo, assodata l'attuale giacenza in Genova del nominato biglietto: quello del suo arrivo o meno fra le mani della moglie e degli oggetti lì segnalati, la fede nuziale, l'orologio e le cento lire.

Adriano Maini

martedì 12 dicembre 2023

Sbiaditi racconti ed altri inediti di guerra

Richiesta alla Corte di Assise Straordinaria di Imperia da parte del governatore alleato Garigue per un rinvio di presenza in processo della teste Lina Meiffret. Documento in Archivio di Stato di Genova. Ricerca di Paolo Bianchi di Sanremo (IM)

Il giovane, inibito dall'Ovra rispetto allo sfollamento di tutta la popolazione locale, al terzo giorno di guerra riusciva ad eclissarsi su uno dei pochi treni in partenza da Ventimiglia (IM) in direzione - logicamente! - levante.

Sopra Bolzano in quell'estate del 1940 passavano anche aerei italiani diretti a nord: a bombardare l'Inghilterra?

L'ex coscritto della Regia Marina narrava da anziano di una deriva per mare di giorni e giorni, prima che egli e lo sparuto gruppo di compagni superstiti all'affondamento venissero tratti in salvo.

Nel viaggio in treno, che lo riportava alla nave di ritorno dalla breve licenza in Nervia di Ventimiglia, il furiere vedeva le fumanti rovine di una Genova appena colpita da uno dei terribili bombardamenti di quel conflitto. Forse doveva ancora assistere dalla plancia di comando della corazzata alla prima battaglia navale della Sirte, che non fece, invero, grandi danni.

Il futuro maresciallo di polizia, scampato alla ritirata di Russia, prima di andare ancora una volta in partenza, questa volta per cercare di unirsi agli Alleati in Costa Azzurra, ebbe la casa distrutta da ordigni  scagliati dall'alto.

Un semplice fante, neppure ferito, dal nord Africa in Italia rientrò misteriosamente in aereo poco prima che avvenisse la resa delle forze dell'Asse su quel teatro.

Non si commuoveva al ricordo della campagna di Russia, forse tenendo ben presente la fotografia che lo ritraeva in quelle lontane lande atletico ufficiale eretto superbamente a cavallo, ma nel rievocare il suo viaggio a piedi, iniziato ad Alessandria al momento dell'armistizio, per rientrare in famiglia in Irpinia, qualche luccicone agli occhi ad un Luigi ormai anziano veniva sul serio.

Dalla corazzata che prendeva il largo i marinai vedevano arrivare sulla banchina del porto di Pola i primi mezzi tedeschi: non potevano immaginare che di lì a breve gli stukas avrebbero tentato, senza riuscirci, di colpirli. In una certa saga familiare si vociferava di un ammutinamento di ufficiali affinché quella flotta dell'Adriatico andasse sul serio a consegnarsi agli inglesi a Malta.

Dopo l'8 settembre 1943 l'addetto, nei recessi dell'incrociatore Raimondo Montecuccoli, continuava imperterrito a sfornare pane, adesso mentre la superba nave faceva trasporti per conto degli Alleati.

Anche in Magauda di Bordighera era stato realizzato un rifugio artigianale antiaereo.

La seta dei paracadute dei bengala era un provvidenziale dono del cielo per i civili che riuscivano ad impossessarsene.

Alcune amanti dei gerarchetti nazisti di Sanremo in quel torno di tempo abitavano a Bordighera: per questo via vai si produceva un grande impegno di autisti, anche italiani, delle SS.

E sempre da Sanremo una spia dell'Abwehr da privato riusciva anche ad occuparsi della tentata vendita di un quadro del Tintoretto, attirando su di sé e sui suoi complici l'attenzione delle autorità doganali, ancora sussistenti, perché il dipinto in questione era transitato dal Principato di Monaco attraverso la frontiera francese con l'Italia.

D. del suo partigianato raccontava solo che una volta, dovendo raccogliere con un compagno del materiale, si erano divertiti a scivolare sulla neve sino a finire dentro ad un cumulo di letame, da loro erroneamente scambiato per un covone ammantato di bianco.

Una scena accaduta innumerevoli volte, ma era sempre della zona intemelia la madre che stringeva la figlioletta al seno, dove aveva nascosto documenti compromettenti, dinanzi a nazisti che cercavano il marito.

Padre e figli, proprietari di noto garage in Bordighera, collaboratori del capitano Gino, accorrevano allarmati per verificare a poche decine di metri dal loro luogo di lavoro come stessero le donne e la bambina dell'appartamento colpito dal mare, non sapendo che erano già sfollate.

Lina Meiffret, trattenuta da impegni di lavoro al governatorato alleato provinciale, doveva più volte giustificare alla corte d'assise straordinaria di Imperia i suoi impedimenti a poter testimoniare contro la persona, un tempo amica, che aveva contribuito a scatenare l'inferno contro di lei e contro il martire della Resistenza Renato Brunati.

La similare istanza giudiziaria di Sanremo condannava a pena blanda, solo per "furti" e non per partecipazione a rastrellamenti, un milite del Distaccamento di Bordighera della XXXII^ Brigata Nera Padoan, nato a Ventimiglia, ivi residente.

Il professore Mario Calvino, padre del più illustre Italo, attestava, finito il secondo conflitto mondiale, che un dattilografo della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana della R.S.I.) di Imperia, costretto a tale mansione dagli eventi, in realtà aveva passato clandestinamente svariate utili informazioni ai patrioti.

La polizia partigiana di Ventimiglia doveva inoltre registrare molte denunce di persone che intendevano riottenere certi loro beni affidati a dei vicini o a dei conoscenti nelle occasioni delle loro precedenti fughe, più o meno precipitose.

Adriano Maini

sabato 11 novembre 2023

Per i bombardamenti di Marghera la parrocchia fu invasa da sfollati che occuparono ogni locale libero

Salzano (VE): Chiesa di San Bartolomeo apostolo. Fonte: Wikipedia

Meno pericolosi, ma impegnativi in egual misura, i sacrifici, sia materiali che psicologici credo, sopportati dalle famiglie, per poter accogliere gli sfollati, provenienti a centinaia dalle zone bombardate di Marghera e Mestre; vere e proprie «acrobazie di adattamento» <384, così come definite da Gino Pizzato, necessarie al fine di alleggerire l’inevitabile disagio derivante dalla coabitazione fra estranei sotto lo stesso tetto. I numeri risultano impressionanti, se sommati insieme, e bastano da soli a spiegare le esortazione dei parroci a collaborare, nel momento in cui, inevitabilmente, i locali della parrocchia, compresi la canonica, l’asilo ed eventuali istituti religiosi, fossero al completo.
Don Boschin, ad esempio, si prodigò per gli sfollati che, stando a quanto riportato da don Volpato, affluirono a centinaia nei territori della parrocchia di Gardigiano, facendo «pressione presso parecchie famiglie per l’accoglimento di tutti» <385; dopo averne accolto egli stesso dodici, nella canonica, «ove rimasero per più di 1 anno», mentre altri dieci furono ospitati nella casa del cappellano, dove «rimasero fin dopo la fine della guerra» <386. «[…] per i bombardamenti di Marghera la parrocchia [di S. Maria di Sala] fu invasa da sfollati che occuparono ogni locale libero» <387, mentre «La parrocchia [di Robegano] ha dato alloggio a circa 400 sfollati e tre famiglie furono alloggiate nelle aule della Casa della Dottrina Cristiana» <388; altri 300 a Briana di Noale, provenienti, per la maggior parte, da Marghera e Mestre, ma anche da Treviso, Padova e Zara. Don Zandonadi scrisse anche come le Suore Missionarie d’Egitto, anch’esse sfollate di Marghera, accolte nella Casa della Dottrina Cristiana, avessero aperto un asilo infantile, mentre vi trovò temporanea sede anche la Scuola Interparrocchiale per i seminaristi delle classi seconda e terza ginnasiale, gestita dal prof. don Mario Carraro, che ricevette personale ospitalità in canonica.
Manca qualsiasi riferimento ad eventuali soccorsi prestati dall’autorità civile, forse perché realmente non vi furono, forse per l’elogio che un simile operato, privo di eguali, avrebbe ricevuto; sta di fatto, comunque, che ciò contribuì non poco al delinearsi di un nuovo e più forte ruolo sociale della parrocchia. Ci fu un’eccezione, nella parrocchia di Mirano, dove, ad affiancare don Muriago, nel tentativo di garantire agli sfollati e alle famiglie povere dei richiamati l’aiuto necessario al sostentamento, c’era l’Ente Comunale di Assistenza, «al quale l’Arciprete prestò la sua opera assidua encomiata dalla superiore Autorità locale» <389, oltre alle istituzioni di S. Vincenzo De’ Paoli e S. Antonio.
L’impegno dei sacerdoti non poteva comunque fermarsi alla mera assegnazione di un alloggio, bensì doveva comprendere necessariamente anche il reperimento dei generi di prima necessità, quali cibo e vestiario innanzitutto, senza contare l’aiuto per la ricerca di un eventuale impiego lavorativo: il parroco di Gardigiano indisse «giornate di carità [sottolineato nel testo]» per la raccolta di generi alimentari «a prezzo modico o di calmiere» <390, mentre a Salzano mons. Eugenio Bacchion mise a disposizione dei circa tremila sfollati che giunsero in quel comune, «tutto il grano raccolto colle questue per la Chiesa sempre al prezzo dell’ammasso e così il grano di loro proprietà» <391.
E come dimenticare infine, il compito principale e più importante del sacerdote, quello caratterizzante il suo ruolo ecclesiastico, quello, cioè, concernente la cura spirituale dei propri fedeli? Nelle suddette circostanze, i preti, si trovavano di fronte ad una comunità, talvolta più che raddoppiata, alla quale era d’obbligo garantire, alla stregua dei parrocchiani residenti, la confessione, la somministrazione dei sacramenti, le visite di routine. Molto probabilmente i parroci si avvalevano del supporto di cappellani (sporadicamente menzionati nelle cronistorie) nell’esercizio delle mansioni spirituali, forse le cifre pervenuteci sono state volutamente esagerate, sta di fatto, comunque, che simili parentesi, che ci riportano ad un vissuto più quotidiano, dunque concreto, legato alle necessità della vita reale, simili parentesi, dicevo, hanno il pregio, non solo di ricostruire, anche se parzialmente ed in modo frammentario, le vicissitudini di un paese, ma soprattutto di restituire l’immagine di un clero curato quasi risvegliatosi dal torpore di una vita tranquilla, qual era quella di molte parrocchie del Miranese prima dello scoppio della guerra, e fors’anche del 1943; un clero travolto dagli eventi, al pari di qualsiasi italiano comune, ma che, anche in forza del proprio ruolo, riuscì a trovare il coraggio e il dinamismo necessario (chi più chi meno), per ergersi a guida delle rispettive comunità e condurle così alla fine di quel tragico “tunnel” che fu la storia dell’Italia settentrionale tra la fine del 1943 e la primavera del ’45. Piccole sfide nella quotidianità, affrontate di volta in volta all’insegna della collaborazione o dell’ostilità, della trattativa o della cauta attesa, ma che spesso, proprio a causa del contesto così familiare, molti sacerdoti hanno trascurato di riportare, consegnandone, così facendo, il ricordo all’oblio. Certamente molto è andato perduto, ma attenzione a non trasformare questa indubbia certezza in una cantilena, da ripetere fra sé e sé ogniqualvolta, da documenti di questo tipo, nulla emerge di straordinariamente evocativo dell’epopea resistenziale; noi contemporanei, condizionati come siamo dalle insistenza di certa storiografia su storie di preti eroici, espostisi in prima persona per la salvezza dei parrocchiani dinanzi al pericolo di rappresaglie, informatori delle bande partigiane, se non addirittura torturati e uccisi, siamo propensi a dare marginale importanza a testi che magari si limitano a riportare lunghe liste di bombardamenti sul paese o di nomi di soldati periti al fronte, o peggio, dispersi. Ciò che ritengo doveroso precisare è come la sola presenza del sacerdote, responsabile, lo ricordiamo, di un organismo che andava rivestendo un significativo ruolo di supplenza, era di per sé estremamente importante e decisiva per gli abitanti, forse addirittura per l’equilibrio morale e, aggiungerei, psicologico, degli stessi: trattavasi spesso della sola figura autorevole rimasta, nel momento in cui qualsiasi altra, nell’ambito civile, aveva abbandonato le proprie responsabilità, e la sola autorità degna di rispetto quando il forestiero occupò i posti di comando, nazista o repubblicano che fosse. Forse è in questo senso che vanno lette le affermazioni di don Zandonadi, relativa ai brianesi, una «popolazione cristiana, docile alle direttive del Parroco» <392, aiutati a non perdere «la [sua] calma e fiducia in Dio nemmeno nei momenti cruciali della ritirata tedesca» <393.
Così come l’operato dei parroci fu l’elemento decisivo per la tenuta, sia fisica che morale, della comunità, allo stesso modo tale merito può essere evidenziato nel prodigarsi di quella per i bisognosi, sfollati o soldati renitenti. Dinanzi ai primi bombardamenti aerei, ai segnali, cioè, dell’approssimarsi degli orrori della guerra, con l’emergente consapevolezza di essere coinvolti in prima persona nei fatti che avrebbero deciso del destino del popolo italiano, possiamo solo immaginare quanto significativo sia stato questo soccorso, non solo al fine della sopravvivenza di quelli, ma probabilmente anche nell’operare la scelta di darsi alla macchia; i combattenti erano sostenuti nella loro scelta ed incoraggiati da quel ampio retroterra di solidarietà ed affetti che era il tessuto della comunità parrocchiale, garantendo un senso di continuità esistenziale che andava oltre i referenti familiari.
[NOTE]
384 G. Pizzato, Sotto il terrore (I fatti di Peseggia). Alle vittime innocenti dell’odio fraterno, op. cit., p. 2.
385 Don R. Volpato, Cronistoria, op. cit., pp. I-II.
386 Ibidem.
387 Don G. de Pieri, S. Maria di Sala, op. cit.
388 Don A. Semenzato, Cronistoria della parrocchia di Robegano. 1939-1945, op. cit.
389 Mons. F. Muriago, Parrocchia di Mirano. Relazione degli avvenimenti durante il periodo della guerra 1940-1945, op. cit.
390 Don R. Volpato, Cronistoria, op. cit., p. II.
391 Mons. E. Bacchion, Salzano durante l’ultima guerra, op. cit.
392 Don P. Zandonadi, Allegato alla Cronistoria di Briana durante la seconda guerra mondiale, op. cit., p. 1.
393 Idem, Allegato alla Cronistoria di Briana durante la seconda guerra mondiale, p. 2.
Daiana Menti, Il clero del Miranese dall’inizio del Novecento alla seconda guerra mondiale nelle sue relazioni con le pubbliche autorità, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari - Venezia, Anno Accademico 2012-2013

mercoledì 4 ottobre 2023

All'inizio dei tentativi di epurazione dei fascisti in Italia



Da ultimo, le nuove autorità politiche avrebbero dovuto far luce, anche attorno ai numerosi episodi di violenza realizzati nel periodo della guerra civile (8 settembre 1943- maggio 1945): con particolare riferimento alle feroci rappresaglie naziste realizzate nel centro-nord della Penisola <4, al trasferimento di civili e militari italiani nei campi di prigionia nazista (c.d. I.M.I. Internati Militari Italiani), alla sorte dei soldati del Regio Esercito, abbandonati senz'ordini alla vendetta dell'ex “fratello d'arme” tedesco <5. Numerosi aspetti oscuri riguardavano anche la lotta partigiana, nelle cui maglie vennero sovente ad innestarsi, regolamenti privati tra cittadini e scontri tra bande ideologicamente rivali, nonché l'opera di liberazione condotta dagli eserciti alleati, nel corso delle cui azioni non mancarono episodi di violenza e aggressione ai danni delle popolazioni civili dei territori di volta in volta liberati <6. Si trattava, come è evidente di incombenze imbarazzanti che difficilmente la giovane ed inesperta democrazia italiana avrebbe potuto realizzare nel breve periodo, specie se si consideri che essa era, in pari tempo, chiamata ad affrontare ulteriori prioritarie questioni: la ricostruzione del Paese distrutto dai bombardamenti, la crisi economica post-bellica, la riconversione dell'industria militare agli usi civili, la riorganizzazione, infine, dopo un vuoto durato vent'anni del pluralismo politico e culturale, operazioni alle quali avrebbe dovuto procedersi, peraltro, sotto le spinte di una popolazione che ampiamente rivendicava una maggiore giustizia sociale ed una più incisiva partecipazione alle scelte politiche del Paese.
In un simile quadro, i primi sforzi del Governo Badoglio furono indirizzati alla “defascistizzazione” dello Stato, divenuto nel corso del ventennio quasi un unicum con il Partito di Mussolini <7: con R.d.l. n. 668/1943 venne disposta, infatti, la soppressione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, con R.d.l. n. 706/1943 si provvide allo scioglimento del Gran Consiglio del fascismo, infine, con R.d.l. n. 704/1943 venne liquidato il P.N.F. e le sue organizzazioni. Ulteriori provvedimenti diedero luogo all'abolizione dell'ordine corporativo e alla Camera dei Fasci e delle corporazioni. Una volta demolite le strutture del vecchio regime, con l'insediamento dei Governi ciellenisti Bonomi e Parri furono riattivate le regole del gioco democratico: vennero soppresse le antiche limitazioni alla libertà di stampa, si ristabilirono le libertà politiche e sindacali (d.lg.lgt. n. 369/1944), fu convocata (nell'attesa dell'insediamento di un nuovo Parlamento) una Consulta Nazionale, incaricata di formulare pareri sui problemi generali e i provvedimenti legislativi sottoposti dal Governo <8.
Per quanto concerne gli aspetti più dichiaratamente discriminatori del passato, con R.d.l. n. 25/1944 si provvide all'abolizione di tutti i decreti, le leggi e le singole disposizioni regolamentari in cui era fatto esplicito riferimento “all'accertamento o alla menzione della razza”, reintegrando al contempo tutti i cittadini di fede ebraica nel pieno godimento dei diritti civili e politici. Con riferimento specifico alle loro sofferenze economiche, il R.d.l. n. 26/1944 precisò, inoltre, la reintegrazione dei suddetti nei loro precedenti diritti patrimoniali <9.
Una corretta gestione del passato, non poteva prescindere, tuttavia, dalla realizzazione di una significativa opera di epurazione del personale dell'esercito, dell'amministrazione pubblica e degli organi di giustizia, nonché dalla persecuzione dei c.d. «delitti collaborazionisti» e dei più efferati crimini perpetrati durante la lunga vigenza del regime, specie nei primi tumultuosi anni della sua affermazione con la marcia del 1922. Tale ufficio rappresentava, peraltro, una delle condizioni (art. 30) specificamente imposte dai rappresentanti dell'esercito anglo-americano al momento della concessione dell'armistizio lungo dell'3 settembre 1943.
Assumendosi detto impegno, il Governo provvide, già il 28 dicembre successivo, durante il c.d. Regno del Sud, all'emanazione del D.l. n. 28/1943, per mezzo del quale si dispose l'assoggettamento a giudizio di chiunque si trovasse, al momento dell'emanazione, insignito della qualifica di squadrista, marcia su Roma, gerarca o sciarpa littorio, o avesse, in ogni caso rivestito in passato ruoli dirigenziali nel quadro organizzativo del Partito nazionale fascista, attribuendo al Consiglio dei ministri, ai consigli di amministrazione o di disciplina degli enti nazionali, nonché a commissioni di nomina prefettizia appositamente istituite, il compito di emettere la decisione e comminare la relativa sanzione. Al di là delle categorie su richiamate furono ad ogni modo considerati colpevoli gli autori di episodi configurabili come “attentato alla libertà individuale” dei cittadini.
Era evidente, in ogni caso, che, stante la divisione del Paese in due Stati in conflitto e la perdurante lotta tra bande partigiane e milizie repubblichine del Governo saloino, il provvedimento in argomento non poté conoscere puntuale attuazione, dando origine a risultati significativamente distanti da quelli auspicati.
Sulla questione dovettero intervenire, perciò, numerose ulteriori disposizioni. Sotto la vigenza dell'Esecutivo Bonomi fu adottato, in particolare il d.lg.lgt. n. 159/1944, per mezzo del quale furono inasprite le pene comminate dal precedente intervento, venne fornita più esatta indicazione dei soggetti destinatari della sanzione, si provvide ad istituire, quali organi di giudizio nelle operazioni, l'Alta Corte di giustizia, le Corti d'assise e i Tribunali militari, integrati questi ultimi, con giudici non togati appartenenti agli ambienti resistenziali. A garanzia del corretto svolgimento delle operazioni venne istituito, altresì, l'Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo, organo destinato ad essere successivamente assistito da quattro Alti Commissari aggiunti, ciascuno dei quali incaricato alla supervisione di uno dei settori di intervento: punizione dei delitti, epurazione dell'amministrazione, avocazione dei profitti del regime, liquidazione dei beni fascisti <10. Il provvedimento in esame stabilì, altresì, che, avverso le sentenze, le ordinanze e i provvedimenti emessi dell'Alta Corte di giustizia non avrebbe potuto proporsi gravame in appello, ma solo il giudizio in Cassazione la valutazione dei vizi di legittimità nell'applicazione di esso. Secondo dette disposizioni si procedette all'epurazione del Senato <11, dei dipendenti militari e civili dello Stato in posizione apicale, dei vertici delle aziende di Stato e delle imprese private, specie se titolari di rapporti di fornitura o di appalto con le amministrazioni pubbliche.
Il sistema predisposto, stando al parere della più recente storiografia <12, conobbe nel complesso, un apprezzabile avvio, tale da consentire - nel caso in cui fosse stato portato effettivamente a compimento - un effettivo rinnovamento del sistema amministrativo centrale e periferico dello Stato (prefetti, podestà, dirigenti della burocrazia ministeriale), nonché una più facile rielaborazione del problematico passato da parte della generalità dei consociati.
Le operazioni in tal modo avviate dovettero subire, però, un radicale mutamento con l'approvazione del d.lg.lgt. n. 625/1945, per mezzo del quale fu disposta la soppressione dell'Alta Corte di giustizia ed il trasferimento di tutti i procedimenti allora pendenti ad una sezione speciale (rectius specializzata) delle Corti d'assise.
La magistratura ordinaria (che era riuscita nel complesso a sottrarsi alle misure di epurazione) si trovò, così, investita del non facile compito di “defascistizzare” la Pubblica amministrazione, assumendo su di sé l'incarico di comminare sanzioni penali e disciplinari a funzionari e dirigenti rei di aver assunto, nel corso della propria carriera, atteggiamenti non dissimili da quelli posti in essere da essi stessi durante il lungo interregno della dittatura fascista <13.
Nell'esercizio di tale attività, fu evidente, quindi, che i magistrati presero ad assumere atteggiamenti di maggior indulgenza rispetto a quelli fatti propri dai componenti delle precedenti commissioni d'epurazione governative, i quali, nel passato, avevano generalmente rivestito ruoli di primo piano nelle file dell'antifascismo e della guerra di liberazione partigiana.
Il frequente ricorso da parte del legislatore a clausole interpretative quali “delitto per motivi fascisti”, “atto rilevante”, “dolo”, “faziosità” consentì ai medesimi, infatti, di procedere ad interpretazioni giurisprudenziali salvifiche delle condotte poste in essere dai dirigenti e dagli impiegati della struttura amministrativa dello Stato e delle sue articolazioni, assicurando ai medesimi una generalizzata e pressoché totale impunità ogniqualvolta non fosse incontrovertibilmente dimostrato - sulla base delle risultanze istruttorie contro di essi prodotte - il ricorso ad atteggiamenti settari o faziosi (requisito esso stesso, come è evidente, suscettibile di ampia interpretazione) nell'esercizio delle funzioni per le quali erano preposti.
[NOTE]
4 L'occupazione dell'Italia da parte delle truppe naziste nel periodo compreso tra l'8 settembre 1943 ed il 2 maggio 1945 (data della resa tedesca in Italia), provocò più di diecimila vittime tra la popolazione civile. Tra l'8 settembre 1943 e l'aprile del 1945 in tutto il centro-nord si registrarono oltre 400 stragi, tra le quali gli eccidi delle Fosse Ardeatine (335 vittime) e di Marzabotto (770 vittime) furono solamente gli episodi più conosciuti. L'area dell'Appennino tosco-emiliano, data la sua posizione strategica lungo la linea Gotica, conobbe, il maggior numero di violenze: tra l'aprile e l'agosto del 1944 le stragi furono 280 e 83 i comuni interessati (tra cui Sant'Anna di Stazzema, Bardine S. Terenzo, Fivizzano, Fosdinovo, Padule di Fucecchio). Le stime più attendibili sono al momento quelle avanzate da Gerhard Schreiber secondo il quale i militari italiani giustiziati nel settembre-ottobre 1943 furono 6.800 tra Balcani, Grecia ed Egeo; 22.720 furono, invece, i partigiani “uccisi nel disprezzo delle disposizioni internazionali” e 9.180 civili i sterminati. Autori di tali esecuzioni collettive non furono soltanto i nazisti delle SS, ma anche i soldati della Wermacht e della Luftwaffe - l'aviazione militare tedesca - nonché le milizie regolari e irregolari del partito fascista inquadrate sotto le insegne della Repubblica sociale italiana. Alla base di tali stragi vi furono sicuramente: il pregiudizio nei confronti degli italiani per reazione psicologica al “tradimento” dell'8 settembre; la decisione del comando supremo della Wermacht e del feldmaresciallo Kesserling (Capo supremo delle forze armate tedesche in Italia) di difendere ad ogni costo il territorio italiano in un momento in cui la guerra all'Est era ormai perduta, il timore di un'attività partigiana che si faceva sempre più efficace e che intimoriva i giovani ed inesperti soldati provenienti direttamente dalla Hitlerjugend; la volontà di ricorrere a dimostrazioni di forza e di superiorità, legittimata con la serie di misure repressive adottate dalle autorità di occupazione.
5 L'esempio più emblematico è senza dubbio l'eccidio di Cefalonia, ma episodi analoghi ebbero a realizzarsi anche nelle altre isole greche: Lero, Coo, Rodi. Con la resa del Governo Badoglio agli anglo-americani, i soldati italiani della 33ª Divisione fanteria "Acqui" si trovarono ad assumere il ruolo di “traditori” agli occhi del co-occupante tedesco. Di fronte alla sua richiesta di disarmo, e senza più conoscere ordini dallo Stato maggiore, le truppe di stanza si trovarono a dover affrontare l'ex alleato, intenzionato a ridurli in prigionia e trasferirli in Germania. La guarnigione comandata dal generale Gandin si oppose ed aprì le ostilità contro quello che ora era diventato il nemico della fazione alleata. Ebbe inizio una sanguinosa battaglia (13-22 settembre) alla quale, in spregio a qualsiasi norma di diritto internazionale militare, l'esercito tedesco vincitore fece seguire il massacro di 4750 soldati e 341 ufficiali. Migliaia di militari furono, invece deportati su navi poi fatte saltare nell'Adriatico.
6 Tra le violenze alleate, emerse nel corso degli ultimi decenni, l'episodio certamente più emblematico è quello delle c.d. “marocchinate”, documentato in letteratura già nel 1957 dall'opera “La ciociara” di Alberto Moravia (e a cui fece seguito il più noto adattamento cinematografico di De Sica). Con tale espressione ci si riferisce all'insieme di stupri e sevizie realizzate nel basso Lazio - all'indomani della battaglia di Montecassino - dalle truppe coloniali franco-marocchine comandate dal generale Juin (c.d. Goumiers). Le vittime furono circa diecimila tra donne, uomini, bambini, anziani e religiosi. All'origine di tali violenze, delle quali era a conoscenza lo stesso generale de Gaulle, vi era un forte sentimento di rancore da parte dei francesi nei confronti degli italiani, considerati colpevoli del “coup de pugnace dans le dos” del giugno 1940. Casi di violenza analoghi si registrano anche in Sicilia, in Toscana ed in altre zone del Meridione.
7 Per un'analisi approfondita della trasformazione dello Stato italiano in senso autoritario successivamente all'affermazione del movimento fascista si rinvia all'ormai classico A. ACQUARONE, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965.
8 Per maggiori approfondimenti sul tema della transizione italiana si rinvia a U. DE SIERVO, La transizione costituzionale (1943-1946), in Diritto Pubblico, 1996; V. ONIDA, (a cura di), L'ordinamento costituzionale italiano dalla caduta del fascismo all'avvento della Costituzione repubblicana, 1991; A. SACCOMANNO, La transizione italiana: le costituzioni provvisorie, in L. GARLATI, T. VETTOR (a cura di), Il diritto di fronte all'infamia del diritto, cit., 397-414.
Per un quadro sulla riaffermazione dei diritti civili e politici nella neonata democrazia italiana si cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Torino, 2005
9 Come giustamente sottolinea Falconieri, la reintegrazione dei cittadini di fede ebraica nel pieno possesso dei diritti si iscrive «a pieno titolo nel percorso di rielaborazione e edificazione di una memoria condivisa che avrebbe dovuto
coinvolgere tanto le élites politiche e intellettuali quanto la popolazione italiana del dopoguerra». Cfr. S. FALCONIERI, Riparare e ricordare la legislazione antiebraica. La reviviscenza dell'istituto della discriminazione (1944-1950) in G. RESTA, V. ZENO-ZENCOVICH, Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, cit., p. 141.
10 Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo venne nominato il liberale Carlo Sforza. Ad esso si affiancarono il comunista Mauro Scoccimarro (epurazione nella Pubblica Amministrazione), il liberal-democratico Stangone (sequestro delle proprietà fasciste), il democristiano Cingolani (illeciti profitti del regime) e Mario Berlinguer del Partito Demo-laburista (persecuzione dei crimini fascisti). Le quattro commissioni per l'epurazione furono istituite,
invece, con d.lg.lgt. 198/1944 e 238/44. Per l'intera ricostruzione del processo di epurazione in Italia si rinvia ai dettagliati e completi: A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., 2012, pp. 72-92; P. BARILE., U. DE SIERVO, Sanzioni contro il fascismo e il neofascismo, in Novissimo digesto italiano, Torino, 1969, pp. 541-564 e in sede storiografica a H. WOLLER, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia (1943-1946), Bologna, 1997, C. PAVONE, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in AA. VV., Italia 1945-1948. Le origini della Repubblica, Torino, 1974 e M. FLORES, L'epurazione, in L'Italia dalla liberazione alla Repubblica. Atti del Convegno internazionale organizzato a Firenze il 26-28 marzo 1976 con il concorso della Regione Toscana, Milano, 1977, pp. 413-467, infine M. SALVATI, Amnistia e amnesia nell'Italia del 1946, in M. FLORES, Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Milano, 2001, pp. 141-161.
11 L'art. 8 del d.lg.lgt. 159/1944 prevedeva all'ultimo comma la decadenza dalla loro carica vitalizia per i senatori che «con i loro voti o atti contribuirono al mantenimento del regime fascista ed a rendere possibile la guerra». Furono deferiti all'Alta Corte di giustizia 394 senatori su 408, di questi 275 furono dichiarati decaduti dalla carica. I senatori sanzionati appellandosi alla Corte di Cassazione (che riconobbe l'assoluto difetto di giurisdizione dell'Alta Corte) riuscirono ad ottenere l'annullamento dei provvedimenti irrogati. Alla fine del processo di epurazione, solo 51 furono dichiarati decaduti. Su questi punti si rinvia ancora a A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., 82.
12 Il giudizio sull'epurazione in Italia da parte della storiografia tradizionale è stato nel complesso negativo. Secondo la terminologia più corrente esso è stato definito una «farsa legale», un processo al termine del quale le élite fasciste mantennero le funzioni pubbliche tradizionali. Tale valutazione, seppur in sostanza non inveritiera, è stata però rivisitata e sfumata negli ultimi anni da magistrati come Canosa e storici come Woller, Minetti e Argenio. A parere di questi ultimi, infatti, gli sforzi per realizzare un'effettiva epurazione vi furono ed anche considerevoli. Ad una prima intensa attività delle commissioni seguì, però, un esito deludente causato dall'adozione dell'amnistia e da un'opera di interpretazione salvifica degli ex fascisti da parte della magistratura. Per un'interpretazione tradizionale del processo di epurazione si rinvia a Z. ALGARDI, Processi ai fascisti, Firenze, 1973, per le più recenti interpretazioni si veda ancora H. WOLLER, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia (1943-1946), cit.
13 La magistratura, come qualsiasi altro potere dello Stato aveva subito nel corso del ventennio una significativa opera di fascistizzazione, che si era compiuta per gradi attraverso il progressivo allontanamento degli elementi togati non allineati al regime. Nel 1925 i giudici ostili alla dittatura furono dispensati dal servizio e l'Associazione generale magistrati sciolta di diritto. I vecchi togati furono rimpiazzati con elementi più favorevoli alla dittatura, mentre i più giovani furono crebbero in un clima che finì per plasmarli completamente alle direttive del duce. Il fascismo creò anche una singolare commistione tra apparato politico-amministrativo dello Stato e funzione giudicante: il Procuratore del Re divenne, infatti, membro delle commissioni per la disposizione del confino politico ai cittadini accusati di antifascismo. Come ha sottolineato Franzinelli, infine, «molti magistrati andarono molto in discesa sul versante dell'autorità, in parte per fanatismo o per senilismo, ma soprattutto per la troppo facile convinzione che la legalità corrispondesse all'autorità: chi aveva a cuore la legalità doveva favorire l'autorità, senza star troppo a sottilizzare la qualità e la legittimazione sostanziale di chi rappresentava l'autorità». La completa fascistizzazione della magistratura trovò conferma in ogni caso nella legge sull'ordinamento giudiziario deliberata nel 1941, con cui si riservò l'accesso ai ruoli requirenti e giudicanti ai cittadini di «razza italiana», di sesso maschile, iscritti al Partito nazionale fascista.
Mirko Della Malva, Diritto e memoria storica nell'esperienza giuridica comparata: il difficile bilanciamento tra tutela della dignità delle vittime, libertà di manifestazione del pensiero, protezione della democrazia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2013-2014

domenica 23 luglio 2023

Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill


Mentre gli eserciti alleati risalivano la penisola italiana, gli inglesi approfittando della situazione della resa italiana, stavano studiando uno sbarco in Istria, per dare la possibilità di effettuare operazioni militari attraverso la regione e la provincia di Lubiana in direzione dell'Europa centrale. Lo sbarco avrebbe avuto non solo conseguenze militari importanti, ma anche in ambito politico, e proprio per questo motivo rappresentava un problema, perché uno sbarco in quella parte della penisola dove viveva la gran parte della minoranza italiana, poteva provocare un peggioramento delle relazioni politiche, rendendo più difficili e sfavorevoli i rapporti e i problemi ancora irrisolti fra gli jugoslavi e gli italiani dell'Istria. Inoltre, lo sbarco venne respinto da Stalin e da Roosevelt alla conferenza di Teheran, perché ritenuto di poca importanza militare, giustificando la bocciatura classificando l'operazione di scarso valore militare, nascondendo le loro preoccupazioni politiche: gli americani consideravano la zona dei Balcani e il fronte italiano era considerato un fronte secondario, a differenza della Francia, mentre per i sovietici l'obiettivo, oltre a Berlino, era anche la presa di Vienna. <14
Mentre per la resistenza slovena e croata, la notizia dell'armistizio italiano, rappresentò una sorta di miracolo: perché da una parte i soldati italiani abbandonarono le caserme, lasciando l'Istria e la provincia di Lubiana sguarnite senza dare una presenza militare seria, permettendo così l'inizio della vendetta degli slavi contro i responsabili fascisti, che si macchiarono del tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia, durante il ventennio fascista, e delle violenze perpetuate dall'esercito italiano nei Balcani durante la guerra, ad esempio la circolare 3C del generale Mario Roatta <15: questa vendetta, verrà ricordata come i massacri delle foibe. In più da quella data le forze partigiane ampliarono il loro raggio delle operazioni militari, considerando che vennero abbandonate migliaia di armi, veicoli blindati e pezzi d'artiglieria italiani, riutilizzate dalle forze partigiane (secondo quanto detto dal generale cetnico Draza Mihajlović). Oltre al materiale bellico abbandonato, diversi reparti italiani si unirono ai partigiani jugoslavi, che subito diedero un contributo significativo nella battaglia di Turjak, contro i nazionalisti sloveni. Questi reparti si unirono alla resistenza, a seguito delle voci, fatte circolare dai titini, di uno sbarco alleato in Istria, che in realtà non ci sarebbe stato, e chiesero agli italiani in zona di unirsi alle forze partigiane e di affrontare il nemico comune, i tedeschi. <16
L'OF, “Osvobodilna fronta”, in sloveno fronte di liberazione, a seguito dell'ampliamento delle loro operazioni, divulgarono, tramite una commissione composta da diversi geografi, militari, politici e storici, teorie nazionalistiche tra la popolazione slava dell'Istria, dichiarando che i territori italiani, dall'Istria fino al fiume Tagliamento, erano territori storicamente appartenuti ai croati e agli sloveni, strappati dagli italiani dopo la Prima guerra mondiale. Queste rivendicazioni non  avevano solo motivi ideologici, ma anche strategici, nel senso che, dopo la sconfitta del nazi-fascismo, in previsione di un nuovo conflitto in Europa, la regione avrebbe svolto un ruolo cruciale per la difesa dello stato Jugoslavo. <17
Il Foreign Office aveva scoperto che se gli alleati avessero continuato a supportare militarmente sia le forze cetniche del governo jugoslavo in esilio a Londra, che le forze comuniste guidate da Tito, avrebbero creato due stati jugoslavi separati tra loro, provocando così una guerra civile, come avverrà nel caso della Grecia nel 1946. Pertanto, gli alleati da una parte avevano dei dubbi sulle forze cetniche guidate da Mihajlović, sospettando che collaborasse con le forze dell'Asse, ipotesi all'epoca falsa, ma che si rivelerà esatta in futuro a causa dell'abbandono del supporto degli inglesi a partire nel 1944. Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill usando la propaganda internazionale, dichiarando che il movimento comunista era l'unico che poteva fronteggiare i tedeschi e che godeva del pieno appoggio del popolo jugoslavo, anche se in realtà in quel momento, i titini non controllavano il Montenegro e la Serbia (roccaforte dei cetnici). <18
Il 28 novembre 1943, si tenne la conferenza di Teheran, per decidere sulle prossime operazioni alleate in Francia, sul fronte occidentale e sulla questione balcanica. Churchill e Stalin volevano che le forze jugoslave unissero le forze sotto un unico comando, per combattere contro i tedeschi. Secondo Churchill per cercare di trovare una tregua tra le forze partigiane, i cetnici dovevano unirsi sotto il comando di Tito e il re Pietro II doveva abdicare in favore delle forze comuniste. Stalin invece, dopo la conferenza, sollecitò i comunisti jugoslavi a prendere contatto con il governo in esilio di Šubasic, poiché l'AVNOJ (Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije - Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia) aveva stabilito che il re Pietro II non poteva più ritornare in patria, poiché ritenuto un traditore <19. Inoltre raccomandò ai comunisti jugoslavi di muoversi con discrezione per evitare di suscitare sospetti tra gli alleati sul nascere di un nuovo stato comunista nei Balcani. <20
Il 12 settembre 1944 re Pietro II, sotto la pressione di Churchill, esortò i serbi, croati e sloveni a riconoscere il nuovo governo sotto la guida di Tito. Il primo ministro inglese, dopo gli accordi, temeva che, non appena fosse arrivata l'Armata Rossa ai confini della Serbia, i sovietici avrebbero instaurato un regime comunista sotto la guida di Tito, per cui sospese i rifornimenti ai cetnici, nonostante la promessa di Mihajlović di continuare a combattere i tedeschi, e li indirizzò ai titini. Per questo motivo, chiese a Tito di incontrare il re per formare un nuovo governo in Jugoslavia per decidere quale sarebbe stato il nuovo sistema politico in Jugoslavia, ma Tito evitò l'incontro con il re, assicurando a Churchill che il suo sistema politico non sarebbe stato di stampo comunista. <21
Per cui, con le dimissioni del re, e con l'avanzata dell'Armata Rossa in Bulgaria e in Romania (che avevano firmato un armistizio con le forze sovietiche), Tito viaggiò segretamente in aereo, all'insaputa degli inglesi, per arrivare a Mosca per chiedere aiuti militari a Stalin e addestrare le sue truppe in modo da poter combattere efficacemente i tedeschi e cacciarli dalla Jugoslavia. Stalin approvò la richiesta <22, e il 20 ottobre 1944 l'Armata Rossa lanciò la sua terza offensiva verso l'Ungheria. In seguito divisioni sovietiche si riversarono su Belgrado e insieme alle forze titine la liberarono. Questa offensiva, l'offensiva di Belgrado, permise a Tito di stabilire il suo quartier generale nella capitale, diventando così il nuovo capo della Serbia, che insieme agli accordi diplomatici, già descritti, furono il suo primo grande successo in campo internazionale. <23 Tuttavia rimaneva la questione irrisolta della Venezia Giulia occupata.
[NOTE]
14 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
15 Rossi-Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, 2011, pp. 59-60
16 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
17 Pupo. Trieste '45. p. 42
18 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
19 Diego de Castro. Vol 1. p. 156
20 Novak, p. 96
21 Novak, pp. 97-99, ma non lo menzionò nei suoi discorsi politici al pubblico.
22 Consultare B. B. Dimitrijević and D. Savić (2011) Oklopne jedinice na Jugoslovenskom ratištu 1941-1945, Institut za savremenu istoriju, Beograd 23 Novak, p. 99
Matteo Boggian, La questione triestina 1945-1954, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2020-2021 

La crescente iniziativa dei partigiani dell'esercito di liberazione nazionale guidato da Tito e la sanguinosa guerra nazionale e civile delle diverse fazioni politiche attive in Jugoslavia, impegnate in una lotta senza quartiere al fianco o contro le forze di occupazione al fine di garantirsi una posizione di forza favorevole alla fine del conflitto, costrinsero Mussolini a dichiarare la Dalmazia, assieme al Montenegro, alla Slovenia e ai territori croati e bosniaci occupati, “zona di operazioniˮ. <187
In Dalmazia queste misure determinarono in primo luogo una selvaggia competizione per il potere tra il governatore Giuseppe Bastianini ed il generale Quirino Armellini, comandante del XVIII Corpo d'armata che si concluse a favore del primo. L'occupazione della Slovenia ebbe implicazioni cariche di conseguenze sulle sorti dei territori di confine: nella provincia di Lubiana il fascismo perseguì in un primo tempo una politica di moderazione nei confronti della popolazione civile.
Questa politica si differenziava notevolmente dalla prassi di germanizzazione violenta messa in atto dai tedeschi nella Slovenia settentrionale, in seguito alla quale circa 21.000 sloveni provenienti dalla zona di occupazione germanica si erano rifugiati nella zona italiana. Questi fatti suscitarono notevoli malumori da parte degli occupanti tedeschi della parte settentrionale della Slovenia, che dal canto loro andavano attuando un programma complessivo di germanizzazione delle aree adiacenti al confine austriaco attraverso deportazioni di massa della popolazione slovena. L'Italia venne accusata in tale frangente di aver favorito il formarsi a Lubiana del centro dell'irredentismo sloveno <188.
Lo stesso Mussolini in un primo tempo non intendeva procedere all'italianizzazione forzata della provincia: «Inizialmente le cose parvero procedere nel modo migliore. La popolazione considera il minore dei mali il fatto di essere sotto la bandiera italiana. Fu dato alla provincia uno statuto, poiché non consideriamo territorio nazionale quanto è oltre il crinale delle Alpi, salvo casi di carattere eccezionale» <189.
[...] Rispetto alla condizione in cui versava il paese, la situazione che venne a crearsi nell'area di confine fu ben diversa: qui andò dissolvendosi ogni simulacro di presenza statuale italiana; l'8 settembre non significò solo, nella Venezia Giulia, lo sbandamento di massa dell'esercito, ma anche la scomparsa delle articolazioni dello Stato italiano, cosicché il carattere di cesura vi si presentò in forme assai più accentuate che nel resto d'Italia <231 .
La firma dell'armistizio provocò un'accelerazione dei processi che erano andati delineandosi già a partire dal 1942, quando l'attività partigiana aveva trasformato la parte orientale del territorio in zona di guerra: i numerosi episodi di aggressione e disarmo di gruppi di soldati da parte di unità partigiane e le preoccupate reazioni degli alti comandi rappresentano infatti un indicatore dello stato di demoralizzazione delle truppe e delle conseguenze che avrebbero potuto sortirne. In seguito alla diffusione della notizia della firma dell'armistizio, varie unità si lasciarono sopraffare da contadini croati disarmati. Ad Albona, 1200 soldati si arresero a 30 croati, tra le quali diverse donne, mentre a Pisino circa 1000 effettivi si sbandavano, dopo aver abbandonato un armamentario composto da pezzi di artiglieria, mitragliatrici e mortai <232. Altri soldati si arresero nel villaggio dell'Istria interna di Pinguente, nella provincia di Lubiana, a Trieste, a Fiume e a Pola. A Gorizia si verificò invece un tentativo di resistenza e di cooperazione con le unità partigiane che circondavano la città: gli operai dei cantieri di Monfalcone, rifornitisi di armi raccogliticce, organizzarono la divisione Proletaria, che si oppose assieme ai partigiani sloveni all'avanzata tedesca; la maggioranza dei soldati che si arrendevano vennero internati in Germania, contro le precedenti assicurazioni dei comandi tedeschi. In Istria le cose andarono diversamente: qui ebbero luogo diverse sollevazioni, sia nei centri italiani sia in quelli croati; Giovanni Paladin, nel suo La lotta clandestina di Trieste, ricostruisce nei termini seguenti il passaggio dei poteri in Istria: «I partiti politici italiani non esistevano, la vecchia classe dirigente era scomparsa da lungo tempo, gli italiani dell'Istria, pur essendo in maggioranza, non disponevano più alcuna istituzione autonoma intorno alla quale raccogliersi e resistere. La disgregazione morale e politica aveva dissociato tutti i gangli vitali della comunità italiana dell'Istria. […] Nel vuoto lasciato libero, prima dal fascismo e poi dalle autorità civili e militari, si precipitarono dopo l'8 settembre i nuclei partigiani slavi, instaurando l'ordine nuovo per mezzo dei cosiddetti «poteri popolari» senza incontrare resistenza alcuna da parte degli italiani dell' Istria. La Venezia Giulia era diventata terra di nessuno…[…]. Quel giorno finiva di fatto la sovranità italiana sull'Istria e incominciava la dominazione balcanica che sovvertiva da cima a fondo l'ordine costituito <233».
Il 13 settembre 1943 si riunì a Pisino un'assemblea del neoistituito Comitato popolare di liberazione, composto da una trentina di quadri: il Comitato proclamava l'unione dell'Istria alla «madrepatria croata»; in seguito una più ampia assemblea, a cui parteciparono anche numerosi italiani, ratificò queste decisioni. Il 20 settembre, il Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia (Zavnoh), emise un decreto che dichiarava decaduti tutti i trattati e le convenzioni stipulate con l'Italia. L'Istria, la Dalmazia e le isole erano annesse ipso facto alla Croazia <234. Il proclama di Pisino era stato preceduto da numerose sommosse locali, in cui una prima rudimentale ossatura di contropotere partigiano, integrata poi da quadri comunisti provenienti dalla Croazia, aveva provveduto a disarmare le guarnigioni e le forze di polizia italiana, insediando i nuovi poteri e rafforzando le fila partigiane.
[NOTE]
187 M. Cantaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 216.
231 M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 241.
232 Ivi, p. 241 ss.
233 G. Paladin, La lotta clandestina di Trieste. Nelle drammatiche vicende del CLN della Venezia Giulia, Del Bianco, Udine 1960, p.74.
234 M. Pacor, Confine orientale. Questione nazionale e Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, cit., p. 211.

Margherita Sulas, Il confine orientale italiano tra contesto internazionale e lotta politica: 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2013

lunedì 10 luglio 2023

L'11 ottobre 1937, il presidente dell'Agip Puppini informava Mussolini sugli esiti della missione Agip in Libia


Le prime manifestazioni di petrolio in Libia risalivano al 1914, ma le ricerche vere e proprie risalivano agli anni Trenta, con le prime attività di ricerca del professor Ardito Desio <922. Nel 1936 Desio venne nominato sovrintendente geologico della Libia dal Governatore della Libia Italo Balbo, con l'incarico di eseguire gli studi e le ricerche nel sottosuolo libico della Gefara <923.
Nel 1937 venne affidata a Desio una missione permanente, allo scopo di analizzare il sottosuolo libico onde accertare le sue potenzialità minerarie. Ma per quanto riguardava le prospezioni geopetrolifere, Desio aveva raccomandato lo studio del territorio con larghi mezzi di ricerca, e nonostante l'aiuto manifestato da alcune compagnie petrolifere americane, l'Italia aveva declinato l'offerta. Ciononostante, nel luglio 1937, il gruppo guidato da Desio individuò, presso il pozzo di Mellaha, la presenza di olio greggio misto ad acqua, a soli 260 metri di profondità. Questa piccola scoperta aveva eccitato gli animi a Roma, dove Mussolini, una volta appresa la notizia, incaricava l'Agip di prendere contatto col ministro dell'Africa Italiana Lessona e con Italo Balbo, Governatore della Libia. Il presidente dell'Agip Puppini, già contattato dal professor Desio a Bologna il 16 luglio, metteva immediatamente l'Agip a disposizione per le ricerche geofisiche e le perforazioni <924.
Nel settembre 1937 l'Agip si dedicò alle ricerche petrolifere in Libia, dove inviò una missione geologica, composta dai geologi Ardito Desio, Michele Gortani e Carlo Migliorini, col compito di avviare i primi studi. Secondo la relazione dei tecnici la regione libica della Gefara Tripolina era meritevole di ulteriori ricerche approfondite:
"Gli studi e le ricerche indicati hanno lo scopo di procurare gli elementi necessari onde ubicare una o più perforazioni nelle eventuali strutture favorevoli. Riteniamo peraltro che la presenza di idrocarburi nella serie miocenica della Gefara Tripolina apra alle ricerche petrolifere un vasto campo, data la grande estensione che tale formazione presenta sia nella fascia costiera ad occidente, sia più largamente verso la Sirtica" <925.
L'Agip preparò immediatamente un programma di lavoro per eseguire i lavori di trivellazione a scopo di esplorazione geologica, insieme con il relativo piano finanziario, valutato dall'Ufficio Tecnico in 5.700.000 lire, da utilizzarsi nell'arco di due anni. L'11 ottobre 1937, il presidente dell'Agip Puppini informava Mussolini sugli esiti della missione Agip in Libia, e proponeva la collaborazione con il Governatorato della Libia sotto l'aspetto tecnico e finanziario <926. La partecipazione dell'Agip in Libia, pur accettata da Mussolini, non avrebbe comportato il medesimo impiego di risorse finanziarie e tecniche che furono invece impiegate nella colossale attività di valorizzazione dell'Africa Orientale.
Con mezzi ridotti l'Agip cominciò ad inviare in Libia tutti le apparecchiature meccaniche occorrenti per avviare i lavori di ricerca <927. A partire dal marzo 1938 due geologi dell'Agip giunsero in Libia, dove installarono le due sonde tipo Calix-Davis, la prima a Giama el Turk e la seconda ad Ain-Zara. Entrambe le località erano situate nella zona libica di Gefara Tripolina, e in tutto l'anno l'Agip aveva perforato solamente 1.270 metri. Nel primo semestre del 1938 erano stati inviati in Libia solamente tre apparecchi di tipo leggero, mentre la prima sonda rotary, capace di raggiungere 1.500 di profondità, era stata inviata a settembre. La perforazione dei pozzi era seguita attentamente dallo studio geologico degli strati attraversati, con analisi petrografiche ed una precisa determinazione dei fossili sui campioni che venivano estratti dai vari pozzi <928.
Dai sondaggi effettuati nel 1938-39 nella zona di Gefara Tripolina, era risultata l'opportunità di estendere le ricerche petrolifere verso la zona interna della Gefara stessa. In una relazione del luglio 1938, Desio suggeriva di estendere le ricerche petrolifere nella regione della Marmarica, dove erano stati riscontrati indizi petroliferi nella regione confinante con l'Egitto. L'attività dell'Agip in Libia, non adeguatamente supportata da mezzi ingenti, poteva consentire in quel momento una ricognizione limitata del territorio libico, destinata alla sola individuazione della stratigrafia e della tettonica del sottosuolo <929. Questa attività di ricerca preliminare era dimostrata proprio dalle profondità di perforazione dei pozzi, che ad eccezione di un sondaggio spinto oltre i 1.500 metri, erano rimaste piuttosto basse, intorno ai 500 metri.
Nel 1939 l'Agip cominciò l'analisi dei nuovi territori in cui vennero perforati 2.011 metri distribuiti fra sette pozzi <930. Nel 1940 l'Agip aveva predisposto un ulteriore programma di ricerche finalizzato all'intensificazione dei pozzi già individuati, mentre erano state tracciate a grandi linee le caratteristiche geopetrolifere di alcune regioni libiche, come la Marmarica, la Cirenaica, la Sirtica settentrionale ed i Tavolati Tripolitani <931.
L'attività di downstream in Libia era invece cominciata qualche anno prima delle ricerche Agip. Nel dicembre 1934 venne fondata a Genova la Azienda Commerciale Italiana Olii Minerali, Aciom, con capitale iniziale di centomila lire, con lo scopo di importare e commerciare i lubrificanti della azienda statunitense Sinclair Refining Co. di New York. Nei primi mesi del 1935, l'Aciom chiese al Ministero delle Colonie di essere autorizzata a costruire a Tripoli una raffineria in grado di lavorare una quantità giornaliera di petrolio greggio compresa tra le 100-200 tonnellate, per un totale annuo di circa 50.000 tonnellate. I prodotti ottenuti dalla raffineria sarebbero stati commercializzati in Libia, e quelli in eccesso nel mercato libico, in Tunisia <932. Per la costruzione e la gestione della raffineria, l'Aciom avrebbe costituito una nuova società, la Raffineria Olii Minerali per l'Africa del Nord Anonima, Romana, con sede a Genova e capitale di 15 milioni di lire.
Nel maggio 1935 il Ministero delle Colonie aveva avvisato il Ministero delle Corporazioni, e poi l'Agip, che l'Aciom intendeva costruire una raffineria a Tripoli, ed entrambi i ministeri richiedevano un parere all'Agip sull'intera questione, prima di decidere sull'accoglimento della domanda. Nella seduta del Consiglio di Amministrazione del 18 luglio 1935, il presidente dell'Agip Puppini informava i consiglieri sulla proposta della Aciom <933. Il presidente aveva subito espresso ai ministeri competenti i dubbi dell'Agip sull'opportunità di erigere una raffineria a Tripoli, per una serie di considerazioni di ordine economico, finanziario, logistico ed industriale. In primo luogo, notava Puppini, l'importazione in colonia di prodotti finiti dalla madre Patria era più facile rispetto alla importazione di materie prime dall'estero. In secondo luogo, l'impianto da erigersi in colonia, doveva corrispondere alla capacità di assorbimento del mercato libico, del tutto modesta, ed inoltre la possibilità di esportare parte dei prodotti in eccesso sul mercato tunisino era impossibile, a causa dell'eccessivo costo che avrebbero avuto. Il costo dei prodotti ottenuti dalla raffineria, continuava Puppini, sarebbe stato superiore al costo dei prodotti petroliferi lavorati nelle raffinerie operanti nei paesi produttori. In terzo luogo, l'Agip evidenziava l'aspetto finanziario della raffineria: con una raffineria della capacità di 35-40.000 tonnellate annue, i costi di lavorazione sarebbero stati talmente elevati che solo con una adeguata protezione doganale essa avrebbe potuto funzionare. Nonostante gli aspetti negativi esposti, il presidente ritenne che l'Agip potesse partecipare alla proposta.
"Siccome però, per altre considerazioni più vaste, la costruzione della raffineria è stata ritenuta opportuna dal Ministero delle Colonie, questa Azienda, data la sua natura ed i suoi fini, non ha ritenuto dover rimanere assente dall'impresa e, previ accordi con il Ministero delle Colonie, si è messa in contatto con la A.C.I.O.M. ed avrebbe raggiunto con essa un accordo di massima che prevede la costituzione di una società Anonima il cui capitale sarebbe stato sottoscritto per il 51% dall'Agip e per il 49% dalla Aciom" <934.
Il presidente Puppini analizzava l'aspetto fiscale, ritenendo utile modificare l'intera materia doganale riguardante la colonia, proponendo un'unica tassa di vendita sulla benzina importata e prodotta dalla raffineria, al fine di garantire al bilancio della colonia gli introiti che le derivavano dai dazi sulla benzina importata <935.
Dopo aver analizzato tutti i fattori inerenti la costruzione della raffineria, il Consiglio di Amministrazione approvava la partecipazione dell'Agip nella costituenda società, purché fosse adottata una adeguata protezione doganale tale da eliminare l'eventuale concorrenza di importatori di prodotti finiti <936. Il 30 settembre 1936, il ministro delle Colonie Lessona insieme col ministro delle Corporazioni Lantini, firmavano il decreto di autorizzazione governativa per la costruzione della raffineria a Tripoli da parte dell'Aciom, inserendo nel decreto delle agevolazioni fiscali e doganali <937. I prodotti della raffineria di Tripoli avrebbero avuto la preferenza, a parità di condizioni, rispetto ai prodotti nazionali ed esteri; il decreto stabiliva alcuni impegni per la società, quali la costituzione di una apposita rete di distribuzione, e fissava in due anni il termine massimo per la realizzazione della raffineria.
Tuttavia l'Aciom non aveva le necessarie competenze tecniche e finanziarie per realizzare gli impegni assunti, tanto che il sottosegretario di Stato per l'Africa Italiana, Teruzzi, rivolgeva al Ministero delle Corporazioni la richiesta di valutare la necessità di rescindere la concessione dell'Aciom <938. Le difficoltà incontrate dall'Aciom erano tali che il presidente della società, Armando Calcagno, avviò dei contatti con la Fiat per evitare di perdere la concessione <939. Ad oltre un anno dalla concessione la Aciom non aveva cominciato i lavori di costruzione della raffineria, e il ministro Lantini, considerata la situazione di impossibilità da parte dell'Aciom di ultimare l'impianto, come previsto dal decreto, stabilì di revocare la concessione come richiesto da Teruzzi <940. La concessione dell'Aciom fu rilevata dalla Fiat che, per evitare problemi, immediatamente invitò l'Agip a collaborare.
Nel frattempo, nel settembre 1937, l'Agip aveva deciso, autonomamente, di costruire a Tripoli un impianto costiero di deposito con serbatoi adeguato all'attività svolta in colonia, che per disposizioni di carattere militare cominciava ad aumentare <941. L'Agip aderì alla richiesta di compartecipazione formulata dalla Fiat, mostrando interesse per la costruzione della raffineria che doveva avere la capacità di trattamento di 100.000 tonnellate di petrolio greggio <942. La disponibilità dell'Agip derivava dal fatto che riteneva i progetti di sviluppo agricolo della Libia funzionali all'incremento dei consumi petroliferi libici. Il Consiglio approvava il progetto, e conferiva al presidente Puppini, oppure al direttore generale Carafa d'Andria, ampio mandato al fine di proseguire le trattative con la Fiat, fino alla sottoscrizione degli accordi necessari alla costituzione della società che avrebbe costruito e gestito la raffineria di Tripoli <943.
Nell'aprile 1939 il direttore generale dell'Agip, Ettore Carafa d'Andria e l'amministratore delegato della Fiat Vittorio Valletta, inviarono un documento al Governo generale della Libia, in cui illustravano il programma dei lavori da attuarsi in Libia: dapprima la costruzione dei depositi e poi la costruzione della raffineria. Nel documento venivano richieste diverse agevolazioni di natura fiscale e doganale a favore della costituenda società <944. Il 26 luglio 1939 veniva costituita la società S.A. Petroli Libia, Petrolibia, con sede a Tripoli, e capitale sociale di cinque milioni di lire, sottoscritto in parti uguali dalla Fiat e dall'Agip. La società cominciava immediatamente i lavori di costruzione, nei pressi di Tripoli di un primo deposito di quattro serbatoi metallici dalla capacità di 500 metri cubi ciascuno <945. La Petrolibia nel 1940 rilevò le attività commerciali dell'Agip in Libia ed avviò la costruzione di un deposito costiero a Tripoli <946. Il progetto della Petrolibia era stato accolto con favore dal Ministero dell'Africa Italiana, che riteneva la nuova società funzionale allo sviluppo economico ed industriale della Libia. Tuttavia il Ministero delle Corporazioni, aveva manifestato un atteggiamento molto cauto nei confronti della nuova azienda, per quanto riguardava la produzione, che come comunicato dalla Fiat-Agip avrebbe dovuto raggiungere le 200 mila tonnellate. La parte in eccesso della produzione della Petrolibia, secondo i vertici dell'azienda, si sarebbe potuta commercializzare in Italia, ma proprio questo aspetto raffreddava gli animi all'interno del Ministero delle Corporazioni, in quanto non si volevano alterare le produzioni delle raffinerie nazionali <947.
L'inizio della guerra e le vicende militari libiche ebbero l'effetto di ridimensionare notevolmente i programmi della Petrolibia, che dovette limitarsi alla gestione dei depositi di carburanti e della rete di distribuzione. L'attività di downstream della Petrolibia era continuata durante la guerra con risultati apprezzabili, come evidenziava il presidente Cobolli Gigli nella seduta del Consiglio di Amministrazione del 7 ottobre 1941, soprattutto per la gestione delle vendite ai militari <948. Nei primi mesi del 1942, la Petrolibia continuava il difficile lavoro di rifornimento per le forze armate italiane, nonostante gli avvenimenti militari, per i quali aveva ricevuto un riconoscimento particolare da parte del Comando Supremo <949. Dopo i rovesci militari delle forze armate italo-tedesche in nord Africa, la situazione generale della Petrolibia peggiorò fino alla completa cessazione di ogni attività, certificata dal Consiglio di Amministrazione Agip del 9 marzo 1943 <950.
[NOTE]
922 R. DE FELICE, Mussolini l'alleato I. L'Italia in guerra 1940-1943. Tomo primo. Dalla guerra «breve» alla guerra lunga, Torino 2006, p. 81; A. DEL BOCA, Gli italiani in Libia II. Dal fascismo a Gheddafi, Roma-Bari 1988, pp. 271 sgg.
923 Cfr. M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 73-76. Nel 1923, il ministro delle Colonie Federzoni, inviava a Mussolini una relazione sulle ricerche minerarie nei territori di sua competenza. In Tripolitania e Cirenaica erano state individuate copiose tracce di petrolio a piccole profondità. Pur non essendo indizi sicuri, Federzoni precisava che le ricerche non furono svolte in profondità, perciò si sarebbe potuta accertare la presenza di giacimenti con delle ricerche apposite. La relazione di Federzoni si basava sugli studi dell'ingegner Camillo Crema del Regio Ufficio Geologico, ibid., pp. 141-144.
924 Ibid., pp. 76-77.
925 Ibid., p. 78 e soprattutto l'appendice 1C a pp. 155-164, cioè la relazione integrale corredata dai preventivi di spesa.
926 Ibid., pp. 78-80.
927 AS ENI, Volume I. Bilanci e relative relazioni degli esercizi dalla fondazione al 1940, Assemblea Generale Ordinaria del 30 marzo 1938, pp. 17-18.
928 Ibid., Assemblea Generale Ordinaria del 30 marzo 1939, pp. 19-20.
929 Cfr. M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 81-82.
930 AS ENI, Volume I. Bilanci e relative relazioni degli esercizi dalla fondazione al 1940, Assemblea Generale Ordinaria e Straordinaria del 29 marzo 1940, p. 16.
931 Cfr. M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., p. 82.
932 AS ENI, Libro Verbali 3, CDA AGIP, 30 giugno 1931 - 18 luglio 1935, seduta del 18 luglio 1935, p. 192; C. ALIMENTI, La questione cit., pp. 59-60.
933 AS ENI, Libro Verbali 3, CDA AGIP, 30 giugno 1931 - 18 luglio 1935, seduta del 18 luglio 1935, pp. 192-194; M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 84-85.
934 AS ENI, Libro Verbali 3, CDA AGIP, 30 giugno 1931 - 18 luglio 1935, seduta del 18 luglio 1935, p. 193; M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., p. 86.
935 AS ENI, Libro Verbali 3, CDA AGIP, 30 giugno 1931 - 18 luglio 1935, seduta del 18 luglio 1935, pp. 193-194. Nel luglio 1935 in Libia vigeva un dazio per la benzina importata dall'Italia pari a 30 lire oro per quintale, mentre il dazio per la benzina importata dall'estero era di 20 lire oro per quintale. Poiché con la costituzione della raffineria si sarebbero eliminate totalmente le importazioni di materie finite, con conseguente annullamento degli introiti fiscali della colonia, Puppini proponeva la creazione di una tassa di vendita della benzina pari a 30 lire, sia che fosse importata, sia che fosse prodotta in colonia. In questo modo si tutelava il regime fiscale della colonia e la raffineria.
936 Ibid., p. 194. Il capitale necessario all'impresa non avrebbe superato i dieci o dodici milioni di lire, per cui l'Agip avrebbe partecipato con sei milioni di lire al massimo; M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 86-87.
937 Cfr. M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 87-88.
938 Ibid., pp. 88-89. Nel 1937 l'Aciom intendeva rilevare gli impianti della società Abcd di Ragusa, di proprietà dell'IRI, che lavorava le rocce asfaltifere estratte a Ragusa. Inoltre il presidente Aciom Calcagno chiedeva al Ministero delle Corporazioni di poter lavorare i greggi del ragusano nella nuova raffineria di Tripoli, risolvendo sia l'approvvigionamento della Libia che lo sfruttamento delle rocce asfaltifere di Ragusa. L'IRI rispose fortemente contrariata alla proposta, in quanto lo sfruttamento delle rocce ragusane era un compito molto difficile e le capacità tecnico-scientifiche della Aciom, su cui l'IRI si era adeguatamente informata, erano del tutto inesistenti ai fini della soluzione del problema ragusano.
939 Ibid., p. 89. Il presidente dell'Aciom, Armando Paolo Calcagno informò il 14 febbraio 1938 il ministro Lantini dei suoi contatti con la Fiat.
940 Ibid., p. 90.
941 AS ENI, Libro Verbali 4, CDA AGIP, 16 ottobre 1935 - 6 marzo 1940, seduta del 23 settembre 1937, pp. 91-92.
942 Ibid., seduta del 14 dicembre 1938, p. 140. L'opportunità di costruire una raffineria a Tripoli era stata messa in dubbio dall'Agip nel 1935, quando le fu prospettato il progetto dal Ministero delle Colonie su richiesta della società Aciom. Nel 1938 l'Agip riteneva invece la situazione della colonia in fase di sviluppo, e quindi necessaria una attività di raffinazione in Libia.
943 Ivi; M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., p. 91.
944 Cfr. M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 91-92, vedi il documento integrale nell'appendice 1D a pp. 165-168.
945 Ibid., p. 92; AS ENI, Libro Verbali 4, CDA AGIP, 16 ottobre 1935 - 6 marzo 1940, seduta del 12 settembre 1939, p. 178.
946 AS ENI, Libro Verbali 5, CDA AGIP, 6 marzo 1940 - 29 marzo 1943, seduta del 6 luglio 1942, pp. 138-139; AS ENI, Volume I. Bilanci e relative relazioni degli esercizi dalla fondazione al 1940, Assemblea Generale Ordinaria e Straordinaria del 29 marzo 1940, pp. 10-11.
947 Cfr. M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 92-93.
948 AS ENI, Libro Verbali 5, CDA AGIP, 6 marzo 1940 - 29 marzo 1943, seduta del 7 ottobre 1941, p. 90
949 Ibid., seduta del 2 febbraio 1942, p. 95.
950 Ibid., seduta del 9 marzo 1943, p. 190.
Giacinto Mascia, La nascita e lo sviluppo dell'Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP) negli anni fra le due guerre (1926-1940), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Cagliari, Anno Accademico 2012/2013