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giovedì 1 aprile 2021

Enrico Ghezzi da Genova a...


[...] A pensarci bene, restando su questa linea riflessiva ghezziana, si potrebbe mettere in rilievo che sebbene il medium fosse freddo (la Tv), per di più con Ghezzi che adottò la straniante asincronia del commento sulle sue immagini pre-registrate molto tempo prima, il suo esprimersi arruffato era caldo, proprio perché appassionato, in bilico tra faceta critica ed elucubrata cinefilia.
Spedita scheda anagrafica e professionale di Enrico Ghezzi.
Nasce a Lovere, un piccolo comune di Bergamo, il 26 giugno 1952, per poi trasferirsi in giovane età con la famiglia a Genova. È nel capoluogo ligure che si plasma la sua cultura cinematografica, frequentando il cineclub Filmstory e aderendo al gruppo cattolico Agesci.
Per inciso, la Liguria ha dato i natali ad alcune fondamentali colonne della critica cinematografica, come Roberto Chiti, Claudio G. Fava o Gianni Amico, ed è nella seconda metà degli anni Sessanta che si forma una generazione di futuri giovani turchi-liguri che lasceranno un marcato segno nel mondo della critica cinematografica e nei palinsesti Rai: Tatti Sanguineti (Savona, 1946), Carlo Freccero (Savona, 1947), Oreste De Fornari (Genova, 1951) e Marco Giusti (Grosseto, 1953 - ma trasferitosi già bambino a Genova).
Il tipo di esegesi critico-cinefila proposta da Enrico Ghezzi si può comprendere sia dalle assidue frequentazioni di cineclub d’essai e di sale di terza categoria, e sia dal suo percorso di studi, culminato con una tesi in Filosofia morale. Nel 1974, assieme a Marco Giusti e Teo Mora, fonda la rivista Il falcone maltese, con cui il gruppo propone una critica espansa, che non sia legata a usuali schemi bacchettoni. Purtroppo la rivista sopravvive tenacemente soltanto per due anni. Nel 1978 Ghezzi vinse il concorso di programmista-regista indetto dalla Rai per creare il polo ligure per la nascente terza rete, e nel 1980 si trasferì a Roma, iniziando a curare la programmazione cinematografica di Rai 3, ad esempio ideando cicli di film. Dal 1987 cominciò ad occuparsi del palinsesto della terza rete Rai, dando spazio a nascenti talenti (Ciprì e Maresco) e ideando alcuni programmi che hanno fatto la storia della televisione italiana. Nel 1985, assieme a Marco Giusti, creò una portentosa personale su Walt Disney al Festival del cinema di Venezia. Nel 1988 esordì dietro la macchina da presa realizzando l’episodio Gelosi e tranquilli del film collettivo Provvisorio quasi d’amore.
Nel suo percorso professionale, fondamentale fu la stretta collaborazione con Marco Giusti, conosciuto durante le scorribande cinefile a Genova, che durò fino alla prima metà degli anni Novanta, per poi infrangersi con una furente litigata.
[...]
Tappe ghezziane fondamentali
Enrico Ghezzi ha messo il suo zampino filosofico su alcuni capisaldi della critica cinematografica e della televisione italiana, e un paio di essi ancora sono lì a (di)mostrare il loro sfavillio.
Cominciamo dai libri:
Paura e desiderio. Cose (mai) viste, 1974-2001 (1995). Come già accennato contiene una mole enorme degli scritti di Ghezzi. Se si vuole conoscere l’autore e il suo stile, questo è il primo passo per comprenderlo, facendo gincane mentali - comunque piacevoli e costruttive - per capire nel profondo le sue riflessioni. Il titolo è il sunto perfetto delle sue ossessioni: Paura e desiderio, poli indiscussi del genere cinematografico (Thanatos ed eros), ma soprattutto omaggio alla sua passione per Kubrick, citando il suo lungometraggio d’esordio, per decenni visionabile solamente in copie clandestine; Cose (mai) viste, auto-citazione del sottotitolo del suo programma di punta; 1974-2001, le datazioni degli scritti, che iniziano con una data vera (1974) e terminano con l’anno domini cinematografico per eccellenza, immortalato da Stanley Kubrick. Infine, la data di pubblicazione del volume, uscito proprio nell’anno del centenario del cinematografo.
Stanley Kubrick (1999). Tra i diversi volumi che compongono la collana Il Castoro Cinema, il tomo dedicato a Kubrick è stato uno dei più venduti.
Ghezzi si è appropriato, sin dalla prima edizione del 1977, del regista per eccellenza, e nelle pagine di questo saggio il critico ha dato sfogo alle sue elucubrazioni, filosofeggiando con costrutti ermetici su tutte e 13 le pellicole, cominciando in medias res, ossia da 2001: Odissea nello spazio (2001 - A Space Odyssey 1968), pellicola spartiacque della carriera del regista. In 20 anni il volume non ha subito modifiche o correzioni di pensiero, e ha subito poche aggiunte, anche perché da quel lontano 1977, Kubrick ha realizzato solo 3 pellicole: Shining (The Shining, 1980), Full Metal Jackett (1987), Eyes Wide Shut (1999).
L’ossessione per Kubrick si è manifestata, attraverso la stesura della prefazione, anche nel libro Ladro di sguardi - Fotografie di fotografie 1945-1949 (1995), raccolta dei giovanili scatti fotografici del regista; e nell’introduzione, per l’edizione italiana, del libro/sceneggiatura Lolita (1997) di Vladimir Nabokov.
I programmi televisivi:
La magnifica ossessione (1985). Maxi maratona di 40 ore, curata assieme a Irene Bignardi e Marco Melani, per rendere omaggio ai primi 90 anni del cinematografo. Andata in onda su Rai 3, tra il 28 dicembre e il 30 dicembre, questo programma espanso si potrebbe definire il primo assaggio di quello che sarà poi Fuori orario, ossia riflessioni critiche e messa in onda di pellicole rare. Anche il titolo, che ossequia il melò per eccellenza Magnificent Obsession (1954) di Douglas Sirk, serve a corroborare la mania cinefila che vibra in questo straordinario evento televisivo. Per inciso, gli interventi critici erano tutti pre-registrati.
Schegge (1988-1995). Ideato assieme a Marco Giusti, era un programma di montaggio che prevalentemente attingeva, rispolverando i materiali rari sparsi, dal ricco magazzino Rai.
La struttura Rai teche, creata per mettere in ordine la mole di materiale, sarebbe stata creata solo nel 1995. Come avverte il titolo, è solo una brevissima riproposizione di qualcosa proveniente dal passato, un frammento di memoria.
Schegge, usualmente programma notturno, era un erudito momento nostalgico che riorganizzava per tematica gli spezzoni proposti.
Famoso quello denominato Schegge Jazz, andato in onda tra il 31 agosto 1992 e l’11 dicembre 1992, che riproponeva vecchi filmati di concerti dal vivo di alcuni tra i più grandi jazzisti del Novecento.
Fuori orario. Cose (mai) viste (1988-presente).
Dal 20 febbraio 1988, è la piccola oasi del cinema d’essai televisivo. La canzone Because the Night di Patty Smith che commenta le scene oniriche de L’Atalante sono ormai leggenda, e non ci si stanca mai di rivederle/riascoltarle.
Lontano dalle mode e dallo spietato share, è stato per moltissimi anni l’unico luogo dove poter “reperire” pellicole rare o, per citare il sottotitolo, cose mai viste. Un appuntamento notturno fondamentale, non sempre rispettoso degli orari di palinsesto, ma saziante per quello che proponeva.
[...] Purtroppo Fuori orario con gli anni si è ridimensionato, da un lato perché Rai 3 gli concede meno spazio, e dall’altro per l’arrivo di internet delle nuove piattaforme di streaming, senza dimenticare il Peer to Peer, che consente il rispecaggio di cose mai viste. In ogni modo Fuori orario rimane a tutt’oggi l’unico vero atto d’amore verso il cinema.
P.s.: anche questo programma ha un titolo cinefilo, prendendo in prestito quello di Fuori orario (After Hours, 1985) di Martin Scorsese.
Blob (1989-presente). Ideato assieme a Marco Giusti (e tanti altri collaboratori succedutisi negli anni), la prima puntata andò in onda il 17 aprile 1989. L’intento di questo magmatico programma, che va in onda quotidianamente in fascia pre-serale, è quello di montare insieme i più bizzarri momenti televisivi del giorno prima (o della settimana), creando connessioni discorsive tra il variegato materiale televisivo scelto, a cui a volte si innestano clip cinematografiche. Come nei sopracitati programmi, anche questo recupera il titolo di un famoso cult, ovvero dallo Sci-Fi (anti-comunista) Blob - Fluido mortale (The Blob, 1958) di Irvin S. Yeaworth, e come la massa gelatinosa di quel B-Movie, anche il programma Blob è una creatura che lorda e soffoca lo schermo televisivo.
Negli anni il programma ha avuto anche “puntate speciali”, creando delle beffarde monografie su un determinato personaggio.
Roberto Baldassarre, Enrico Ghezzi tra paura e desiderio cinefilo, Diari di Cineclub, Anno X, N. 93, Aprile 2021


 

sabato 27 marzo 2021

Moreschi considera molto democratica la fotografia

In uno degli archivi dello Studio Moreschi - Foto: Silvana Maccario

Lunedì scorso, nella Sala degli Specchi di Palazzo Bellevue, Unitre Sanremo ha riscoperto le origini dell’immagine che ormai molta importanza nella nostra società ormai definita la cività dell’immagine. La Presidente Forneris ha introdotto Alfredo Moreschi che appartiene ad una dinastia di fotografi sanremesi e lo Studio Moreschi custodisce una memoria visiva degli eventi e dei personaggi celebri che a Sanremo sono stati numerosissimi.
Ma Alfredo Moreschi ha delle curiosità storiche della tecnica fotografica ed ha esposto numerosi oggetti legati alla fotografia che risalgono proprio agli albori di questa scoperta il cui anno di nascita è il 1839. 

In uno degli archivi dello Studio Moreschi - Foto: Silvana Maccario

Gli inventori della fotografia sono stati più d’uno e non è facile discernere chi vi ha maggiormente contribuito, anche perché, come ricorda Moreschi, paradossalmente non sapevano di averla inventata. Il bisogno di vedere la propria immagine e possibilmente riprodurla è antica quanto l’uomo. Quando ancora le tecniche figurative erano rozze, in alcune grotte preistoriche i nostri antenati lasciavano l’impronta delle proprie mani in negativo colorandone il contorno e Narciso addirittura s’innamorò della propria immagine riflessa nello stagno. Le tecniche figurative si sono sempre più evolute e nel Rinascimento la raffigurazione dei corpi e dei paesaggi raggiunge espressività mirabili. La parola scritta con l’invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Gutenberg verso la fine del 1400, ha potuto raggiungere un sempre maggior numero di lettori, mentre la fotografia ha dovuto aspettare altri quattro secoli.


In uno degli archivi dello Studio Moreschi - Foto: Silvana Maccario

Eppure le prime intuizioni risalgono addirittura ad Aristotele e poi al grande Leonardo da Vinci. Eppure qualcosa che registri le immagini come l’occhio umano sembra sempre sfuggire. Si perfezionano le lenti e col canocchiale di Galileo si punterà al cielo, diventeranno d’uso abbastanza comune complicati aggeggi detti camere oscure anche portatili dotate di gruppi ottici, periscopi e pantografi per disegnare agevolmente paesaggi e figure. Per il fissaggio delle immagini su di una superficie dovrà però venire in soccorso la chimica. La transizione dalla pittura alla fotografia è avvenuta grazie a Louis Daguerre, singolare figura di pittore appassionato di chimica che inventerà il dagherrotipo, primitivo parente della fotografia. Nel dagherrotipo la superficie è una lastra metallica ricoperta d’argento e cosparsa di iodio inserita in una camera oscura dotata di obiettivo. Poi con vapori di mercurio avviene lo sviluppo e si ottiene una immagine positiva non riproducibile. Altri contemporaneamente lavoravano a far nascere la fotografia senza comunicare fra loro, soprattutto William Talbot, John Herschel e Hippolyte Bayard, con l’utilizzo della carta, nuovi metodi di fissaggio a base iposolfito e l’immagine in negativo sviluppabile in positivo in numerose copie.


In uno degli archivi dello Studio Moreschi - Foto: Silvana Maccario

L’importanza della riproduzione delle immagini non fu subito compresa anzi per alcuni anni si continuò a privilegiare il costoso dagherrotipo. Il perfezionamento dei materiali sensibili, dei procedimenti di sviluppo e degli strumenti ottici porterà verso la fine dell’ottocento a rendere obsoleto il dagherrotipo ed a rendere la fotografia sempre più popolare, gli studi fotografici prosperarono e nel secolo scorso si diffusero apparecchi portatili per professionisti e dilettanti che veramente faranno diventare la storia recente una sequenza di immagini. Le macchine avevano le pellicole sensibili, che andavano sviluppate in laboratorio, ma arrivò anche la POLAROID che addirittura sviluppava in pochi secondi la fotografia. L’ultima rivoluzione è quella digitale con cui scattiamo foto con macchine sofisticate oppure anche con un telefonino e possiamo conservare decenni di nostri ricordi su di un computer. Moreschi dopo tutte queste informazioni storiche non ha mancato di fare qualche riflessione sulla fotografia come attività umana.
Egli considera molto democratica la fotografia perché consente a tutti di raffigurare il mondo e le persone anche senza avere il talento del pittore o del disegnatore.
Tuttavia per chi ne fa una professione, senza scomodare l’arte figurativa, è possibile esprimere un buon artigianato, perché al di là dei mezzi tecnici, dietro l’obiettivo c’è l’occhio di un esperto che sa cogliere gli attimi giusti, i sentimenti e le situazioni. Anzi Moreschi ritiene che non a caso il novecento è stato il secolo della innovazione artistica e della pittura astratta perché ormai la realtà era appannaggio della fotografia e l’artista poteva liberamente dedicarsi a rappresentare sulla tela puramente le emozioni.
 

Chiara Salvini, ... scuserete l'amore del paesello, anche voi l'avrete, è un signore che conosco bene, anzi, lo conoscono tutti a Sanremo, "è il fotografo"..., neldeliriononeromaisola, 27 novembre 2014

lunedì 1 febbraio 2021

L'occhio magico di Carlo Mollino

Una fotografia di Carlo Mollino - Fonte: Il Manifesto

Progettista di interni, scrittore, designer, architetto, automobilista, fotografo. Carlo Mollino è stato tutto questo e molto altro. Nato a Torino nel 1905, fin da bambino rimase affascinato del mezzo fotografico, passione trasmessa dal padre Eugenio che aveva allestito una camera oscura in una stanza della casa di famiglia.
Consapevole e sedotto delle possibilità di ricreazione del reale proprie della fotografia, è stato tra i primi architetti a «ritrarre» gli edifici e gli interni da lui stesso progettati. Già nel 1937, alcuni suoi scatti di Casa Miller furono scelti da Gio Ponti per essere pubblicati sulla copertina di Domus, consacrandolo non solo come architetto ma anche come fotografo. Negli interni di Casa Miller - così come in altre sue decorazioni d’interni - Mollino ha realizzato scatti al confine con il surreale e il metafisico, in cui corpi, specchi e oggetti d’arredamento creano un universo organico. Passato e futuro, apparati anatomici e manufatti di design si contaminano tra loro.
Mollino ha al suo attivo migliaia di scatti con tecniche e i formati diversi, dal negativo su lastra a quello su pellicola, dal bianco e nero al colore, al fotomontaggio, fino alla polaroid per quelli più privati [...] i, come dimostra l’esposizione a Torino L’occhio magico di Carlo Mollino. Fotografie 1934-1973, visitabile a Camera - Centro Italiano per la Fotografia, fino al 13 maggio [2018].
LA RASSEGNA RACCOGLIE oltre cinquecento immagini tra le quindicimila conservate nelle collezioni del Fondo Carlo Mollino presso il Politecnico di Torino, dove l’architetto aveva insegnato Composizione architettonica per più di vent’anni.
«Con questa mostra abbiamo voluto indagare e riflettere sull’atteggiamento curioso di Mollino, vorace, colto - ma a tratti anche caotico e disordinato - nei confronti della fotografia», ha affermato il curatore Francesco Zanot. «Ci siamo chiesti come fosse possibile mostrare materiali tanto diversi. Abbiamo deciso di rinunciare a una selezione di highlights  e scelto immagini con tipologie eterogenee: opere d’arte, documentazioni, fotografie personali, immagini tecniche, per permettere al visitatore un’immersione totale in quel suo universo fotografico, la cui unica possibilità di comprensione sta proprio nella sua assunzione per intero, senza suddivisioni né artificiose frammentazioni».
L’esposizione è una sorta di biografia iconografica, in cui si ripercorrono gli eventi più importanti della sua vita, dalle prime fotografie di architettura degli anni ’30, alle immagini di viaggio, in cui ritraeva sia dettagli di edifici iconici di Le Corbusier o di Frank Lloyd Wright, sia frammenti di esistenze e luoghi anonimi della campagna rumena o olandese, fino alle polaroid degli ultimi anni.
«MOLLINO UTILIZZAVA la fotografia per prendere appunti sulla sua vita. Anche se le immagini ritrovate dopo la sua morte, nello studio professionale di Pamparato a Torino, nel 1973, non erano organizzate in modo ordinato e non erano accompagnate da annotazioni, avevano sempre un aspetto diaristico», ha sottolineato il curatore. Era considerato un outsider, sia come fotografo, sia come teorico della fotografia. Nel 1949 venne pubblicato il libro Il messaggio dalla camera oscura, da lui scritto durante la guerra in pressoché totale isolamento, un epocale trattato di storia ed estetica fotografica, in cui elevava la fotografia al rango di arte, in dialogo con l’evoluzione del gusto estetico del tempo. Mollino rimase però sempre fuori da qualsiasi gruppo o movimento codificato. Anche se nelle sue opere fotografiche è possibile individuare alcune influenze surrealiste, non vi sono stati contatti diretti con il movimento perché Mollino, pur a conoscenza di quello che accadeva a Parigi, estraeva dalla poetica e dalla pratica surrealista simboli come ombre, specchi, orologi, e autori di riferimento come Atget e Man Ray, per farli propri.
VISITANDO LA MOSTRA, si possono scoprire le tante passioni di questo misterioso artista. Amava l’automobilismo: nel 1955 aveva partecipato alla gara automobilista 24 ore di Le Mans in Francia con l’auto da corsa Bisiluro Damolnar, progettata insieme a Mario Damonte ed Enrico Nardie, l’aeronautica, l’alpinismo e lo sci. Nel 1951 viene pubblicato Introduzione al discesismo, un testo audace, illustrato con disegni e fotografie, ristampato nella sua forma originale alcuni anni fa, in cui lo statement «lo stile plasma la tecnica», come da lui scritto nella premessa al volume, è in perfetta sintonia con i suoi oggetti di design e le opere architettoniche.
Carlo Mollino è stato anche autore di una decina di edifici. Alcuni di questi, come la Società Ippica Torino, sono stati demoliti; altri – la stazione per slittovia con albergo al Lago Nero e l’Auditorium Rai di Torino – restaurati, ma landmark della città sabauda come la Camera di Commercio, struttura di acciaio in vetro che sembra sospesa nel vuoto, il nuovo Teatro Regio e la Sala da ballo Lutrario, sono ancora attivi e visitabili.
L’ULTIMA E LA PIÙ AMPIA sezione della mostra - «L’amante del duca» - è dedicata al tema del corpo e della posa. Sono messi a confronto sciatori e ritratti femminili, i primi colti in posizioni che evidenziano la perfezione del gesto tecnico (Mollino fu anche direttore della commissione delle scuole e dei maestri di sci), le donne ritratte negli interni delle abitazioni da lui progettati con pose che ricordano quelle della statuaria antica, nelle stampe in bianco e nero, e con le Polaroid, in cui il gusto del boudoir, sempre elegante e sofisticato, viene amplificato dalla ricerca delle messe in scena.
Prima di scattare Mollino faceva molti preparativi, era attento agli arredi e acquistava personalmente gli abiti che lasciava indossare alle modelle per creare un’unità compositiva tra abiti, corpi, luci e interni domestici. Sembra quasi che cercasse un ideale di bellezza, continuamente da perfezionare, senza riuscirvi mai completamente, provando con nuove modelle e abiti originali. Si tratta di un lavoro privato, che Mollino voleva tenere per sé, ritrovato dopo la morte da Fulvio Ferrari, come racconta lo stesso Ferrari nel testo pubblicato in catalogo. Un lavoro difficilmente classificabile e che non può essere inserito nella storia della fotografia erotica o pornografica.
In mostra ci sono anche documenti, lettere, manoscritti, cartoline e memorabilia come il «drago da passeggio» di carta che l’architetto regalò ad alcuni amici per il capodanno del 1964 accompagnato dagli scatti fotografici di una donna velata, in compagnia dell’animale.
NONOSTANTE TUTTI questi materiali, Mollino rimane un autore enigmatico. Amava circondarsi di letture e oggetti esoterici non è un caso che la copertina de Il messaggio dalla camera oscura presenti un ritratto della regina egizia Tiy, moglie del faraone Amenofi III. Come suggerisce Ferrari è una sorta di consapevole mise en abyme, in cui il sarcofago, dove il corpo del Faraone è contenuto, non è una tomba ma una dimora divina che proietta il faraone nella vita ultraterrena, una sorta di «camera oscura», che ne riflette la presenza. Un’ulteriore indicazione di quante suggestioni e possibilità di lettura offra il lavoro di Mollino, tanto vasto e multiforme da aprirsi a più interpretazioni.
Lorenza Pignatti, L’esoterica perfezione del gesto - Fotografia. Una mostra dedicata a Carlo Mollino, figura poliedrica di artista tra immagini, oggetti di design, architetture e scrittura, in Il Manifesto, 27 febbraio 2018, articolo ripreso in pari data da neldeliriomaisola
Lorenza Pignatti è docente del corso di Fenomenologia dell’arte contemporanea alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Ha insegnato alla Supsi (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana) di Lugano e all’Università di Urbino e Bologna. Ha curato il libro Mind the Map. Mappe, diagrammi e dispositivi cartografici (Postmedia Books), e Errore di sistema. Teoria e pratiche di Adbusters con Franco “Bifo” Berardi e Marco Magagnoli (Giangiacomo Feltrinelli Editore). Ha curato la retrospettiva di Pere Portabella al Festival Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, la rassegna su Home Movies, Archivio filmico della memoria familiare per neon>campobase e l’omaggio a Mika Taanila per il festival I boreali. Ha collaborato con ART for The World Europe e ha scritto per numerosi volumi collettivi. Collabora con “D la Repubblica”, “Il Manifesto”, “Il Corriere della Sera”, “Art Review”, “No Order, Art in a Post-fordist Society”.

giovedì 31 dicembre 2020

In realtà, Talbot aveva praticato a lungo la pittura

William Henry Fox Talbot, fotografato nel 1864 da John Moffat -
Fonte: Wikipedia

Nei primi decenni dell’Ottocento, fra i grand-touristi che esplorano in lungo e in largo l’italica penisola, c’è anche William Henry Fox Talbot: è sul Lago Maggiore con la moglie, che è un’abile pittrice. Talbot assai meno, e cercando di riprendere gli ambienti che gli si parano davanti agli occhi inciampa in notevoli difficoltà tecniche. Non si sa se per sconforto o ira ma - così si racconta - decide di gettar via l’armamentario da pittore e di studiare un metodo automatico per riprodurre ambienti e paesaggi.

In realtà, Talbot aveva praticato a lungo la pittura (e fu anche un letterato e un decifratore di scritture cuneiformi) ma era infine giunto all’idea che questo mezzo non riusciva a rappresentare il mondo nella sua complessità.

Pensò allora - come in quegli anni anche altri stavano pensando - di percorrere la “strada della luce”, cioè di utilizzarne l’azione diretta per creare immagini foto-chimiche.

L’uso della luce per creare immagini era studiato già da secoli, e ce ne racconta qualcosa Francesco Ginatta (“giovine molto competente in questa materia, per aver frequentato riputati stabilimenti fotografici della Francia e dell’Austria”, come spiega …, e specialista degli ingrandimenti indelebili al carbone, secondo quanto egli stesso dichiarava), fotografo nella Sanremo del XIX secolo: La fotografia è fondata sull’azione della luce, e quest’azione fu riconosciuta prima dai greci. Vitruvio aveva rimarcato che il sole alterava certi colori e metteva i suoi quadri in una sala esposta al nord. Però il trovato del Porta, il quale inventò la camera oscura fu l’origine della fotografia. Nel 1556, poco tempo dopo dell’invenzione della camera oscura, un alchimista, Fabricio, trovò il cloruro d’argento, osservò la proprietà di quel sale di annerire sotto l’azione della luce, e per mezzo d’una lente egli prospettò sul cloruro d’argento un’immagine che vi rimase impressa. Era già un bel risultato, ma quello scienziato ricercava la pietra filosofale e passò quindi oltre […]

Nel 1834 William Henry Fox Talbot fa esperimenti sull’immagine latente, da rivelare grazie a particolari sostanze, esperimenti che sono già un primo esempio di quel processo che in seguito sarà chiamato “sviluppo”: Proposi di spargere sopra un foglio di carta una sufficiente quantità di nitrato d’argento, e di porlo alla luce del sole, avendo prima collocato avanti la carta qualche oggetto che vi gettasse una ben decisa ombra. La luce agendo sul rimanente del foglio, naturalmente lo annerirebbe, mentre le parti ombreggiate riterrebbero la loro bianchezza.

I fogli risultano sorprendentemente colorati: Le immagini ottenute in questo modo sono bianche; ma il fondo, sul quale si disviluppano è variamente e piacevolmente colorato.
Tale è la varietà, di cui il processo è capace, che soltanto col cambiare le proporzioni, e qualche lieve dettaglio di manipolazione si ottengono varj dei seguenti colori:

Bleu Celeste
Giallo
Color di rosa
Bruno di varie gradazioni
Nero

Il verde unicamente non è compreso, ad eccezione di un’ombra oscura di esso, che si approssima al nero.

Talbot, Disegno fotogenico, 1839
Fonte: Wikipedia

Realizza icone “in negativo”, ponendo foglie o spighe su un foglio particolarmente trattato - un gesto che chissà quanti avevano già fatto e chissà quanti altri poi faranno, dai facitori di erbari a Man Ray - ed esponendo il tutto ai raggi solari.

Sono i disegni fotogenici: Il primo genere di oggetti, che provai di copiare con questo processo furono fiori e foglie freschi e scelti dal mio erborario, ed apparvero della maggiore verità e fedeltà, offrendo anche le diramazioni delle foglie, i minuti peli, le tessiture delle piante, ecc.

Talbot, Latticed window, immagine ricavata dal più antico negativo esistente, 1835
Fonte: Wikipedia

All’inizio non riesce a stabilizzare queste immagini che per poche ore soltanto: le foto da lui ottenute continuano ad essere suscettibili alla luce. Occorreva bloccare il successivo annerimento. Nel 1835 studia la qualità dei sali d’argento, le concentrazioni necessarie, le procedure per eliminare l’argento non ossidato. Grazie a Sir Frederick William Herschel conoscerà le proprietà fissative del tiosolfato e quindi troverà un metodo sicuro per arrestare l’annerimento. E nel 1841 mette a punto la tecnica della calotipia (detta poi talbotipia): adoperando carta resa trasparente dalla paraffina e sensibilizzata con bagni in soluzioni di cloruro di sodio e nitrato d’argento e sviluppando poi l’immagine con acido pirogallico: otteneva così un negativo dal quale era possibile trarre un qualsivoglia numero di copie.

Nel 1844-46 Talbot darà alle stampe il fotolibro The Pencil of Nature, a cui seguirà, nel 1848, Sun Pictures in Scotland.

Lo studio di Talbot a Reading
Fonte: Wikipedia

Quel che è certo, dunque, è che, quando viene inventato il dagherrotipo, lo scienziato inglese già da molti anni stava sperimentando le sue mouse traps, cioè le prime box fotografiche, riuscendo a riprodurre scorci del “mondo vero”.

Marco Innocenti in Sanremo e l’Europa. L’immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018



 

[  Marco Innocenti è collaboratore de IL REGESTO, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM) ed autore di diversi lavori, tra i quali: Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d’occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006  ]