Pagine

lunedì 8 febbraio 2021

My God! Potevamo esplodere tutti!

Francesco Garini e Ampelio Bregliano, partigiani a Negi, Frazione di Perinaldo (IM) - Fonte: Fiorucci, Op. cit. infra

Nell'autunno del 1943 ricevetti la cartolina di arruolamento nell'esercito della RSI fascista. Proprio non mi andava di fare una guerra che si rivelava sempre più sbagliata.
Mi nascosi - io di Vallecrosia (IM) - in una casa di amici di famiglia a Rocchetta Nervina [in Val Nervia], dove incontrai il figlio del maestro Garibaldi, ufficiale dell'esercito con il quale andai a Carmo Langan ad arruolarmi nei partigiani.
Partecipai alla occupazione di Perinaldo [(IM)] dove sequestrai un... toro! La fame nel paese era tanta e di cavoli e rape ne avevo fin sopra ai capelli. Un fascista di Perinaldo possedeva un toro: glielo requisii. Fu macellato e diviso con la popolazione. Finalmente un po' di carne per tutti!
La fame è il ricordo indelebile di quel periodo.
Un giorno stavamo cuocendo qualcosa, quando si sentì urlare: "Allarme! Allarme! I tedeschi!".
Tutti scapparono e Girò [Pietro Girolamo Marcenaro] ordinò di salvare le armi: io salvai la pignatta che cuoceva sul fuoco!
 

Fonte: Fiorucci, Op. cit. infra

Un giorno mi fu ordinato di sorvegliare la strada per Pigna perché dovevano scendere dei partigiani, forse perché accompagnavano ufficiali alleati [primi di ottobre 1944]. Mi lasciarono sul ponte del Nervia al bivio per Rocchetta [Nervina (IM)] con due pecore e due  capre per fingermi pastore al pascolo. Tutto andò bene, solo che alla sera le bestie non volevano saperne di ritornare al paese.  Anche altre volte usai lo stesso stratagemma del pastore per visionare luoghi e sentieri e tracciare così percorsi alternativi per eludere i tanti posti di controllo fascisti.
Dopo quella avventura, Girò mi disse che occorreva mandare dei partigiani dagli alleati nella Francia liberata per stabilire rapporti e trasportare armi per i garibaldini. Come? Di notte, con un gozzo, remando da Vallecrosia a Monaco.
I Lilò [i Fratelli Biancheri di Bordighera (IM), Bertù Bartolomeo ed Ettore, martiri della Resistenza] avevano "agganciato" i bersaglieri che erano passati dalla nostra parte. Fregammo una barca dal deposito sottostrada vicino alla Casa Valdese [di Vallecrosia (IM)] e la portammo al mare. Con molta circospezione e furtivamente mettemmo in acqua la barca che ... affondò.
In attesa di poter fare qualcosa, la ancorammo sul fondo riempiendola di pietre per non farla portar via dalla corrente.
 

Il citato presidio dei bersaglieri e, al centro, il vecchio macello di Vallecrosia - Fonte: Fiorucci, Op. cit. infra

I due edifici prima citati, al giorno d'oggi

Intanto stava albeggiando e non potevo ritornare né in montagna né a casa, perché era in corso un vasto rastrellamento dei fascisti. Con Renzo [Gianni] Biancheri "u Longu" ci nascondemmo nel macello a fianco della ... caserma [invero, un semplice presidio] dei bersaglieri.
Passammo due giorni appollaiati e nascosti sulle travi del tetto tra le catene, le carrucole e i ganci.
Poi finalmente Girò e gli amici prepararono la barca e partimmo. Era dicembre [1944] e tra i compagni di viaggio ricordo sicuramente Luciano "Rosina" Mannini.

Ampelio "Elio" Bregliano, in Giuseppe Mac Fiorucci, Gruppo Sbarchi Vallecrosia <ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia - Comune di Vallecrosia (IM) - Provincia di Imperia - Associazione Culturale "Il Ponte" di Vallecrosia (IM)>, 2007  

Rosina (Luciano Mannini) racconta: “Il servizio di informazioni militari, esplicato dalla missione «Leo» in Italia con i comandi alleati, ebbe inizio alla fine del settembre 1944, con l’arrivo nella zona della V^ Brigata [d’Assalto Garibaldi “Luigi Nuvoloni” della II^ Divisione “Felice Cascione”] di ufficiali americani ed inglesi giunti attraverso i passi montani dal Piemonte, ove erano stati paracadutati. Il capitano Leo [Stefano Carabalona], attestato allora a Pigna, comandante del distaccamento che li ospitava e che provvide in seguito a farli condurre - parte attraverso i valichi alpini e parte via mare - in Francia, stabilì col capo della missione alleata [Missione Flap] i primi accordi che dovevano condurre alla formazione di un gruppo specializzato che collegasse, per mezzo di una rete segreta, la nostra zona a quella occupata dagli alleati e fungesse da centro di raccoglimento e di smistamento di notizie militari e politiche interessanti la lotta”. La missione Leo alla quale appartenevano Rosina, Lolli [Giuseppe Longo], Giulio [Corsaro/Caronte] Pedretti, ed alcuni altri giovani che si erano temprati nelle lotte di montagna, si portò a Nizza nel [il 10] dicembre 1944, dopo due mesi di utile lavoro preparatorio, per mezzo della leggendaria imbarcazione guidata dall’infaticabile «Caronte» Giulio Pedretti e da Pascalin [Pasquale Pirata Corradi, di Ventimiglia (IM), come Pedretti]. A Nizza, Leo si incontra con i responsabili dei servizi speciali alleati e prepara il piano definitivo di lavoro, che comportava, fra l’altro, l’uso di apparecchi radio trasmittenti, per i quali la missione aveva già predisposto gli operatori. Nel gennaio 1945 la missione rientra in Italia, dove il terreno era già stato preparato in anticipo. Si organizza e comincia a funzionare in pieno… 
Mario Mascia, L’Epopea dell’Esercito Scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia

In parallelo agli aviolanci alleati, ma con con maggiore assiduità, avevano luogo sbarchi di materiale bellico nella zona di Vallecrosia-Bordighera. I volontari che si occuparono di tali trasporti appartenevano al gruppo di “Leo“, che fungeva da tramite tra i garibaldini e la missione alleata in Francia. Giulio Pedretti fu il partigiano che più di ogni altro si impegnò in tali operazioni, al punto che alla fine della guerra aveva effettuato 27 traversate per recapitare armi e uomini attraverso il tratto di mare prospicente la zona di confine italo-francese.     Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945),  Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia,  Anno Accademico 1998-1999

Remammo a turno e sbarcammo a Monaco Principato bagnati fradici, perché durante il viaggio aveva cominciato a piovere. Tre o quattro volte alla settimana ci conducevano oltre Nizza, a Gattières, per addestrarci all'uso degli esplosivi al plastico e alla esecuzione di sabotaggi. In mezzo agli ulivi avevano anche costruito un breve tratto di ferrovia per insegnarci a far saltare i binari.
Alla fine del corso ci avvisarono che alla prossima lezione avremmo dovuto presentare una sintesi, un rapporto di quello che avevamo imparato.
Avevo imparato,  ma scrivere non è mai stato il mio forte. Con un panetto di plastico modellai un bel  portacenere che colorai di bianco con della farina. La mattina dell'esame lo posi sul tavolo in bella mostra con cenere e 4 o 5 mozziconi di sigarette.
Fumando una sigaretta dietro l'altra Lamb [ufficiale alleato] cominciò a esaminare i lavori dei miei compagni, poi mi chiese dove era il mio lavoro. "L'ho già consegnato!". Il maggiore [Lamb] sfogliò i fogli alla ricerca del mio scritto. Si inalberò e mi chiese duramente dove era. Indicando il portacenere ormai colmo delle sue  cicche, risposi che ce lo aveva proprio davanti.
"Ma questo è un portacenere!"
"Si! Però è fatto con esplosivo al plastico!"
Il self-control tipico degli inglesi non lo soccorse. Scattò dalla sedia balzando all'indietro: "My God! Potevamo esplodere tutti!"
"In questo caso, signor maggiore, sarebbe stata colpa sua, perché lei ci ha insegnato che il plastico esplode solo se innescato con un detonatore e non per contatto con la semplice fiamma."
Promosso a pieni voti!
 

Bregliano a Le Petit Rocher - Fonte: Fiorucci, Op. cit.

Vicino a Le Petit Rocher [a Villefranche-sur-Mer, Alpes-Maritimes] c'era un'altra villa disabitata, Villa Iberia. Dalle finestre vedevamo il salone spoglio di ogni mobilio con solo un grande pianoforte a coda al centro.
 


Quasi tutti i giorni veniva un signore. Secondo me era il Principe Ranieri di Monaco e se non era lui era il suo sosia! Suonava per ore il pianoforte.
Il giardino era pieno di alberi di mandarino colmi di frutti. Un giorno gli chiesi se potevo prenderne un po'. Faceva finta di non capire. Glielo ripetei in dialetto: "Te cunvegne dameli, senunca ti i fregu! ("Ti conviene darmeli, se no te li frego!")". Capì e acconsentì.
Chiamai Girò e gli proposi di raccogliere qualche borsa di mandarini e andare a venderli al mercato di Nizza con la jeep che lui aveva a disposizione. Subito rifiutò in nome degli ideali, poi si convinse.
Guadagnammo dei bei soldi, che spendemmo nei bistrot di Villafranca [Villefranche-sur-Mer].
Gli ufficiali inglesi erano divertiti della cosa, però non riuscivano a capire come gli alberi fossero spogli dei mandarini e le mine disseminate nella piantagione non fossero esplose.
Insieme agli altri miei compagni disinnescavamo le mine, lasciando i contenitori senza l'esplosivo, con il quale confezionavamo qualche piccola bomba che usavamo per... pescare.
Feci parecchi viaggi avanti ed indietro portando armi, radio, medicinali e altro materiale bellico.
Il motoscafo sul quale erano imbarcati due soldati inglesi si fermava a qualche centinaio di metri dalla riva, trasbordavamo il carico su canotti o piccole bettoline di legno (queste ultime erano collegate al motoscafo con una lunga fune), raggiungevamo pagaiando la riva e scaricavamo sulla costa di Vallecrosia. Dopodiché dalla barca recuperavano le bettoline con la fune.
Imbarcammo anche soldati alleati scappati dai campi di prigionia che ci venivano affidati dai partigiani piemontesi. Ricordo un francese di colore che patì il mare in maniera incredibile. Pensai: "questo qui non l'ha ammazzato la guerra e muore dal mal di mare".
Una volta che c'era da trasportare un carico di un cospicuo numero di casse, ci imbarcammo su un motoscafo più grosso, quasi un panfilo. Era più rumoroso dei soliti usati prima di allora; gli vennero adattati ai tubi di scarico due silenziatori grandi come angurie rendendolo abbastanza silenzioso. Era però più lento e non sarebbe riuscito a sfuggire se fosse stato intercettato dalla flottiglia che pattugliava la costa italiana, come invece riuscivano a fare gli altri motoscafi che solitamente erano pilotati da Giulio "Corsaro/Caronte" Pedretti.
Per fronteggiare l'eventualità di una intercettazione, fu sistemata a poppa una mitragliera pesante piazzata sul piedestallo sostenuto da due gambe di forza fissate al battello. Evidentemente il lavoro non fu collaudato, perché, appena preso il largo con i motori adeguatamente silenziati, la mitragliera cominciò a vibrare e sbattere sulla coperta del battello. Blan-Blen!Blen-Blan! I motori erano silenziosi, ma noi sembravamo un campanile che suonava le campane a festa accompagnato da un'orchestra di tamburi!
C'era una sola cosa da fare. Esaminai la mitragliera (l'addestramento a Gattières era servito a qualcosa!) e poi con fare concitato segnalai a Girò e ai due inglesi un punto della costa indicandolo con un dito.
"Laggiù! Guarda!"
Mentre loro scrutavano attentamente nel buio staccai la mitragliera dal piedistallo e la cacciai in mare.
Il concerto cessò. Uno dei soldati inglesi si arrabbiò non poco, minacciandomi di tutto.
Girò cercò di calmarlo. Di ritorno dalla missione, i soldati inglesi fecero rapporto e fui anche processato a Nizza davanti a una specie di corte marziale, composta da ufficiali inglesi e americani.
Quando descrissi loro l'accaduto scoppiarono quasi a ridere e mi assolsero.
 



Arrivammo salvi alla costa di Vallecrosia, dove sbarcammo tutte le casse che nelle notti successive, un po' alla volta, portammo a Negi. Anche a me toccò il compito di fare la staffetta con Negi a portare e prendere, avanti e indietro.
 

La Via Aurelia di levante, poco prima del "ponte" di Vallecrosia

Una delle ultime volte che fregammo una barca dal deposito vicino al ponte di Vallecrosia me la vidi proprio brutta. Con Achille ["Andrea" Lamberti] ed altri, che adesso non ricordo, caricammo su un carretto la barca per portarla al solito posto nella villa di via S. Vincenzo. La spingemmo su per la salitella che si innesta sulla via Aurelia e svoltammo a destra. Dopo pochi metri, scorgemmo al di là del ponte tre soldati tedeschi, all'altezza del "carruggio" di via Maonaira. Chi era con me fece in tempo a dileguarsi. Io rimasi con le stanghe del carretto in mano. Non potevo scappare e lasciare il carretto perché sarebbe scivolato all'indietro e avremmo combinato un disastro. Con il cuore in gola proseguii. Avvicinandomi mi accorsi che i tedeschi stavano mangiando, meglio: si stavano abbuffando di salame e formaggio. Erano anche un po' bevuti, un po' tanto. Intuii che avevano rubato tutto quel ben di Dio dal vicino magazzino del salumiere Giraudo. Quando mi intimarono l'alt! chiedendomi spiegazioni per la barca, un po' in dialetto, un po' in italiano e tanto con le mani, con fare severo, li accusai di aver rubato salame e formaggio, mentre per i civili non c'era niente, neanche la legna per accendere una stufa, tanto è vero che per scaldarci dovevamo usare il legname della barca. I crucchi accusarono il colpo, come bambini sorpresi con le dita nella marmellata. "Kamarade! Kamarade!" e mi lasciarono proseguire.
Belin! Avevo messo paura ai tedeschi!
Ampelio "Elio" Bregliano, in Giuseppe Mac Fiorucci, Op. cit. 

lunedì 1 febbraio 2021

L'occhio magico di Carlo Mollino

Una fotografia di Carlo Mollino - Fonte: Il Manifesto

Progettista di interni, scrittore, designer, architetto, automobilista, fotografo. Carlo Mollino è stato tutto questo e molto altro. Nato a Torino nel 1905, fin da bambino rimase affascinato del mezzo fotografico, passione trasmessa dal padre Eugenio che aveva allestito una camera oscura in una stanza della casa di famiglia.
Consapevole e sedotto delle possibilità di ricreazione del reale proprie della fotografia, è stato tra i primi architetti a «ritrarre» gli edifici e gli interni da lui stesso progettati. Già nel 1937, alcuni suoi scatti di Casa Miller furono scelti da Gio Ponti per essere pubblicati sulla copertina di Domus, consacrandolo non solo come architetto ma anche come fotografo. Negli interni di Casa Miller - così come in altre sue decorazioni d’interni - Mollino ha realizzato scatti al confine con il surreale e il metafisico, in cui corpi, specchi e oggetti d’arredamento creano un universo organico. Passato e futuro, apparati anatomici e manufatti di design si contaminano tra loro.
Mollino ha al suo attivo migliaia di scatti con tecniche e i formati diversi, dal negativo su lastra a quello su pellicola, dal bianco e nero al colore, al fotomontaggio, fino alla polaroid per quelli più privati [...] i, come dimostra l’esposizione a Torino L’occhio magico di Carlo Mollino. Fotografie 1934-1973, visitabile a Camera - Centro Italiano per la Fotografia, fino al 13 maggio [2018].
LA RASSEGNA RACCOGLIE oltre cinquecento immagini tra le quindicimila conservate nelle collezioni del Fondo Carlo Mollino presso il Politecnico di Torino, dove l’architetto aveva insegnato Composizione architettonica per più di vent’anni.
«Con questa mostra abbiamo voluto indagare e riflettere sull’atteggiamento curioso di Mollino, vorace, colto - ma a tratti anche caotico e disordinato - nei confronti della fotografia», ha affermato il curatore Francesco Zanot. «Ci siamo chiesti come fosse possibile mostrare materiali tanto diversi. Abbiamo deciso di rinunciare a una selezione di highlights  e scelto immagini con tipologie eterogenee: opere d’arte, documentazioni, fotografie personali, immagini tecniche, per permettere al visitatore un’immersione totale in quel suo universo fotografico, la cui unica possibilità di comprensione sta proprio nella sua assunzione per intero, senza suddivisioni né artificiose frammentazioni».
L’esposizione è una sorta di biografia iconografica, in cui si ripercorrono gli eventi più importanti della sua vita, dalle prime fotografie di architettura degli anni ’30, alle immagini di viaggio, in cui ritraeva sia dettagli di edifici iconici di Le Corbusier o di Frank Lloyd Wright, sia frammenti di esistenze e luoghi anonimi della campagna rumena o olandese, fino alle polaroid degli ultimi anni.
«MOLLINO UTILIZZAVA la fotografia per prendere appunti sulla sua vita. Anche se le immagini ritrovate dopo la sua morte, nello studio professionale di Pamparato a Torino, nel 1973, non erano organizzate in modo ordinato e non erano accompagnate da annotazioni, avevano sempre un aspetto diaristico», ha sottolineato il curatore. Era considerato un outsider, sia come fotografo, sia come teorico della fotografia. Nel 1949 venne pubblicato il libro Il messaggio dalla camera oscura, da lui scritto durante la guerra in pressoché totale isolamento, un epocale trattato di storia ed estetica fotografica, in cui elevava la fotografia al rango di arte, in dialogo con l’evoluzione del gusto estetico del tempo. Mollino rimase però sempre fuori da qualsiasi gruppo o movimento codificato. Anche se nelle sue opere fotografiche è possibile individuare alcune influenze surrealiste, non vi sono stati contatti diretti con il movimento perché Mollino, pur a conoscenza di quello che accadeva a Parigi, estraeva dalla poetica e dalla pratica surrealista simboli come ombre, specchi, orologi, e autori di riferimento come Atget e Man Ray, per farli propri.
VISITANDO LA MOSTRA, si possono scoprire le tante passioni di questo misterioso artista. Amava l’automobilismo: nel 1955 aveva partecipato alla gara automobilista 24 ore di Le Mans in Francia con l’auto da corsa Bisiluro Damolnar, progettata insieme a Mario Damonte ed Enrico Nardie, l’aeronautica, l’alpinismo e lo sci. Nel 1951 viene pubblicato Introduzione al discesismo, un testo audace, illustrato con disegni e fotografie, ristampato nella sua forma originale alcuni anni fa, in cui lo statement «lo stile plasma la tecnica», come da lui scritto nella premessa al volume, è in perfetta sintonia con i suoi oggetti di design e le opere architettoniche.
Carlo Mollino è stato anche autore di una decina di edifici. Alcuni di questi, come la Società Ippica Torino, sono stati demoliti; altri – la stazione per slittovia con albergo al Lago Nero e l’Auditorium Rai di Torino – restaurati, ma landmark della città sabauda come la Camera di Commercio, struttura di acciaio in vetro che sembra sospesa nel vuoto, il nuovo Teatro Regio e la Sala da ballo Lutrario, sono ancora attivi e visitabili.
L’ULTIMA E LA PIÙ AMPIA sezione della mostra - «L’amante del duca» - è dedicata al tema del corpo e della posa. Sono messi a confronto sciatori e ritratti femminili, i primi colti in posizioni che evidenziano la perfezione del gesto tecnico (Mollino fu anche direttore della commissione delle scuole e dei maestri di sci), le donne ritratte negli interni delle abitazioni da lui progettati con pose che ricordano quelle della statuaria antica, nelle stampe in bianco e nero, e con le Polaroid, in cui il gusto del boudoir, sempre elegante e sofisticato, viene amplificato dalla ricerca delle messe in scena.
Prima di scattare Mollino faceva molti preparativi, era attento agli arredi e acquistava personalmente gli abiti che lasciava indossare alle modelle per creare un’unità compositiva tra abiti, corpi, luci e interni domestici. Sembra quasi che cercasse un ideale di bellezza, continuamente da perfezionare, senza riuscirvi mai completamente, provando con nuove modelle e abiti originali. Si tratta di un lavoro privato, che Mollino voleva tenere per sé, ritrovato dopo la morte da Fulvio Ferrari, come racconta lo stesso Ferrari nel testo pubblicato in catalogo. Un lavoro difficilmente classificabile e che non può essere inserito nella storia della fotografia erotica o pornografica.
In mostra ci sono anche documenti, lettere, manoscritti, cartoline e memorabilia come il «drago da passeggio» di carta che l’architetto regalò ad alcuni amici per il capodanno del 1964 accompagnato dagli scatti fotografici di una donna velata, in compagnia dell’animale.
NONOSTANTE TUTTI questi materiali, Mollino rimane un autore enigmatico. Amava circondarsi di letture e oggetti esoterici non è un caso che la copertina de Il messaggio dalla camera oscura presenti un ritratto della regina egizia Tiy, moglie del faraone Amenofi III. Come suggerisce Ferrari è una sorta di consapevole mise en abyme, in cui il sarcofago, dove il corpo del Faraone è contenuto, non è una tomba ma una dimora divina che proietta il faraone nella vita ultraterrena, una sorta di «camera oscura», che ne riflette la presenza. Un’ulteriore indicazione di quante suggestioni e possibilità di lettura offra il lavoro di Mollino, tanto vasto e multiforme da aprirsi a più interpretazioni.
Lorenza Pignatti, L’esoterica perfezione del gesto - Fotografia. Una mostra dedicata a Carlo Mollino, figura poliedrica di artista tra immagini, oggetti di design, architetture e scrittura, in Il Manifesto, 27 febbraio 2018, articolo ripreso in pari data da neldeliriomaisola
Lorenza Pignatti è docente del corso di Fenomenologia dell’arte contemporanea alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Ha insegnato alla Supsi (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana) di Lugano e all’Università di Urbino e Bologna. Ha curato il libro Mind the Map. Mappe, diagrammi e dispositivi cartografici (Postmedia Books), e Errore di sistema. Teoria e pratiche di Adbusters con Franco “Bifo” Berardi e Marco Magagnoli (Giangiacomo Feltrinelli Editore). Ha curato la retrospettiva di Pere Portabella al Festival Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, la rassegna su Home Movies, Archivio filmico della memoria familiare per neon>campobase e l’omaggio a Mika Taanila per il festival I boreali. Ha collaborato con ART for The World Europe e ha scritto per numerosi volumi collettivi. Collabora con “D la Repubblica”, “Il Manifesto”, “Il Corriere della Sera”, “Art Review”, “No Order, Art in a Post-fordist Society”.