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martedì 23 agosto 2022

Trattasi di una comune bomba a mano tipo Balilla

Roma: Corso Vittorio Emanuele II. Fonte: mapio.net

L'assimilazione verso la scelta legalitaria prospettata dalla nascita del MSI per lo più spense i fuochi dei Fasci d'azione rivoluzionaria. “Già alla fine del 1947 - ha scritto Mario Tedeschi - solo pochissimi elementi, non più organizzati ma collegati sulla base di rapporti personali, restavano ancora fermi su quelle che erano diventate pian piano posizioni di natura puramente estetica” <87. La sigla FAR infatti ricomparirà nelle cronache cittadine soltanto nell'ottobre del 1948, in occasione dell'anniversario della marcia su Roma.
"Mentre la Polizia era intenta a rastrellare fascisti in Corso Vittorio, quattro bombe-carta sono state fatte esplodere dal MSI a Porta Pia, a P. Ungheria, a P. Flaminia [sic] e sotto la Galleria Colonna. Le bombe, esplodendo, hanno diffuso manifestini dei FAR (fasci di azione rivoluzionaria) di cui da tanto tempo non sentivamo più parlare. Il testo dei manifestini somiglia assai a una predica […]" <88.
Il rastrellamento cui accenna l'articolo de «l'Unità» era seguito al malriuscito tentativo di tre neofascisti, nella mattinata di quel 28 ottobre, di affiggere dal “fatidico balcone [di Palazzo Venezia] un tricolore con in mezzo disegnato a inchiostro un fascio repubblichino” <89. Per l'affissione e le esplosioni delle bombe carta la Questura arrestò e denunciò una dozzina di persone <90.
Quelle dei FAR tuttavia non erano le uniche micce della città. Tra il dicembre del 1947 e il gennaio del 1948, infatti, Roma fu teatro di cinque attentati tutti perpetrati dallo stesso gruppo che appare essere per lo più scollegato dal resto del contesto neofascista romano.
Il 25 novembre '47, verso le dieci di sera “un giovane dall'apparente età di 16 anni <91 lanciò una bomba a mano di tipo SRCM contro il palazzo di via IV novembre dove aveva sede la tipografia che stampava «l'Unità» e l'«Avanti», allontanandosi poi a bordo di una macchina scura. La bomba esplose sul marciapiede a mezzo metro dal portone, provocando la rottura di una vetrata" <92.
L'indomani su «l'Unità» il governo veniva rabbiosamente accusato di acquiescenza: “È chiaro che i neo fascisti si fanno forti dell'impunità e della compiacente tolleranza del governo. E l'attentato di ieri sera, compiuto a pochi giorni di distanza dall'approvazione della legge per la difesa della Repubblica, assume un evidente carattere di sfida e di provocazione” <93.
Meno di un mese dopo, il 19 dicembre, poco dopo le nove di sera, veniva lanciata un'altra bomba all'ingresso della sezione “Italia” del PCI in via Catanzaro. “Le caratteristiche di questo ennesimo criminale attentato - viene fatto notare ancora da «l'Unità» - sono identiche a quelle dell'ultimo, compiuto contro la nostra tipografia, e dimostrano l'esistenza dì una organizzazione clandestina che si prefigge lo scopo di colpire sistematicamente le sedi dei partiti democratici” <94.
La dinamica dell'attentato, in effetti, è estremamente simile, come si legge nel rapporto stilato la sera stessa dalla Questura:
"svolte le prime indagini, è risultato che nell'ora anzidetta un'automobile, secondo alcuni testimoni, tipo Augusta, ma della quale non sono state rilevate altre caratteristiche, proveniente da via Padova traversava lentamente via Catanzaro diretta via Belluno, rallentando ancor più la marcia all'altezza della sezione comunista. Intanto un individuo, dall'apparenza giovanile, che indossava un trence [sic], ignorasi se sia disceso dalla macchina o già in sosta nei pressi della sede comunista si arrampicava sulla ringhiera antistante l'ingresso di questa, lanciando la bomba. Subito dopo, mentre la macchina accelerava la corsa costui si aggrappava allo sportello sinistro della vettura, dileguandosi con essa verso via Belluno. […] Non si hanno a lamentare danni alle persone. Trattasi di una comune bomba a mano tipo Balilla. Disposte attivissime indagini. Sul posto si sono recati anche l'On. D'Onofrio e il Dr. Natoli segretario della federazione comunista" <95.
L'esplosione mandò in frantumi i vetri della porta della sezione e di una finestra dell'appartamento al piano superiore e provocò la caduta di un metro di cornicione all'interno della sezione <96. Cinque giorni dopo venne identificato il modello dell'auto ma non la targa <97.
La sequenza di attentati si protrasse dunque anche nell'anno nuovo. Nella notte tra il 12 ed il 13 gennaio una carica di tritolo detonò nei pressi di una finestra della sezione Mazzini del PCI in via Monte Zebio, distruggendo la finestra stessa e mandando in pezzi i vetri delle finestre circostanti nel raggio di circa quindici metri. Un ordigno “di scarsa potenzialità” osservava il commissario capo del commissariato di P.S. Piazza d'Armi, posto unicamente a scopo dimostrativo, anche in considerazione del fatto che la sezione era chiusa <98. Due settimane dopo, nella notte tra il 26 ed il 27 gennaio, un altro ordigno a basso potenziale esplose sotto la porta di accesso della sezione “Saverio Tunetti” del Partito Socialista Italiano in via Tiepolo, al quartiere Flaminio, scardinando la porta e infrangendo i vetri della sezione e delle finestre attigue per un raggio di circa cinquanta metri <99. Ancora, nella notte tra il 13 ed il 14 febbraio un ciclista lanciò una bomba, di maggiore potenza rispetto alle due precedenti, nel giardino circostante la sede nazionale dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia (ANPI) in via Savoia.
" Impiegato ANPI - comunicò la Questura - che ivi pernotta Zelli Giuseppe […], che si era appartato in lavori di ufficio aveva modo di notare fumo nel cortile e raccolto involucro circa 600 grammi dal quale sprigionava miccia accesa, lo lanciava per strada, preoccupandosi con gesto lodevole di correre fuori at avvertire pericolo ai passanti rimasti sconosciuti, coadiuvato in ciò da guardia notturna Ficini Benedetto fu Leopoldo nato a Subiaco il 22-8-1893. Dopo circa quattro minuti verificavansi esplosione sul margine esterno del marciapiede frantumando lo stesso e molti vetri abitazioni circostanti. Nessun danno alle persone. Nei pressi sede veniva rinvenuta qualche cartolina raffigurante militare con mitra et elmetto con la scritta “SAM - GC Barbarigo - Buon sangue non mente” " <100.
Nel giro di un mese la Questura, rafforzando il suo convincimento di un'unica organizzazione a monte di questa sequela di attentati, orientò le indagini verso “una combriccola di individui dall'attività sospetta” di stanza nei rioni Ponte e Sant'Eustachio, che si aggirava attorno all'ex Colonnello della milizia, per breve tempo Questore di Forlì durante la RSI, Riccardo Voltarelli <101. Il dirigente dell'ufficio politico della Questura di Roma Tommaso Audiffred spiegò in proposito che
"L'Ufficio politico teneva d'occhio il Voltarelli a causa del passato politico; l'idea che egli, e le persone che lo frequentavano, potessero sapere qualche cosa [degli attentati] alle sedi dei Partiti di Sinistra, non aveva una base sicura e concreta, ma cominciò a consolidarsi quando dai servizi normali di vigilanza nei confronti del Voltarelli, emerse che il suo atteggiamento era molto equivoco […]" <102.
L'ex questore di Forlì, nativo della provincia di Catania (1895), era noto all'ufficio politico per essere uno dei dirigenti del Movimento anticomunista rivoluzionario italiano (MACRI) <103, costituito clandestinamente nella seconda metà del 1946 e rimasto per lo più inerte fino al dicembre 1947. Nell'estate dell'anno successivo, pur mantenendo l'acronimo, l'associazione aveva mutato nome in Movimento di azione cristiana per la ricostruzione italiana al fine di assumere una veste legale, e ne venne stabilita la sede presso il convento degli agostiniani, in piazza S. Agostino. Presidente e vicepresidente ne erano, riferisce sempre il dirigente dell'ufficio politico, i generali, entrambi massoni, Fulgenzio Dall'Ora e Giuseppe Pieche, che tuttavia comunicarono le dimissioni dalle loro cariche sociali nel novembre 1947. "Fino a quell'epoca, continua Audiffred, animatore del movimento sarebbe stato padre Prisco, rettore del convento di S. Agostino, sede che sempre in quel periodo il MACRI abbandonò per mancanza di fondi. Ciò nonostante non è risultato che Voltarelli abbia intrapreso quei due mesi di fuoco per “mandato dei dirigenti del MACRI […] sta di fatto però che egli ha svolto una attività nell'orbita del MACRI, servendosi di uomini che a questo erano iscritti” <104.
Tra il 10 e il 15 di marzo, dunque, sei (di nove) membri della “combriccola di individui dall'attività sospetta” vennero arrestati: il 10 Domenico Palladino, Marcello Carini e lo stesso Voltarelli, il 12 Angelo Lispi e Saverio Capogreco, il 13 Cesare Monti, il 15 Luigi Arione. Il 5 maggio verrà arrestato Aldo Baroni mentre Cristoforo Marullo non sarà arrestato (verrà poi assolto per insufficienza di prove) <105. Al gruppo vennero attribuiti tutti e cinque gli attentati, giacché “sebbene si sia riusciti ad accertare in modo inequivocabile solo alcune precise loro responsabilità, non si ha dubbio date le modalità di esecuzione riscontrate in altri attentati congeneri, che essi siano di loro opera” <106. Durante gli interrogatori, infatti, gli arrestati confessarono la responsabilità degli attentati alle sezioni del PCI di via Catanzaro e di via Monte Zebio, entrambi organizzati da Voltarelli e compiuti il primo da Barone, Capogreco, Lispi e Palladino, il secondo dal solo Voltarelli <107.
Diversamente da quanto osservato nel caso dei FAR (e dei gruppi di persone che vi si avvicinarono, anche per poco), questo gruppo riunitosi attorno a Voltarelli appare decisamente disomogeneo sia sotto l'aspetto anagrafico, sia, conseguentemente, sotto quello della condivisione di esperienze nella RSI, sia ancora da un punto di vista di appartenenza politica. Si può infatti notare che i cinque confessi esecutori degli attentati alle due sezioni del PCI avevano cinque età diverse, e tra il più giovane ed il più anziano vi erano ventisette anni di differenza. I soli ad aver militato insieme nei corpi della RSI risultano essere Palladino e Carini nella GNR nel veronese <108 e la stessa formazione del gruppo sembra essere abbastanza casuale; Lispi ad esempio confessò di aver conosciuto Voltarelli, Palladino e Capogreco nella sede dell'Associazione Nazionale Arditi d'Italia nell'autunno 1947 <109. Quanto all'identità politica si noti che Marullo, l'unico fra gli imputati ad essere assolto per insufficienza di prove, avrebbe avuto un ruolo di collegamento tra il MACRI e “le squadre d'azione che erano state costituite in seno al Movimento Monarchico” <110.
Elementi di un certo interesse si rilevano invece nei primi interrogatori di Voltarelli (che poi ritratterà sistematicamente), in cui spavaldamente sostenne essere nelle sue intenzioni la formazione di una “organizzazione terroristica a sistema cellulare del tipo slavo e allo scopo organizzavo singoli attentati contro sedi comuniste, per addestrare gli uomini ad una maggiore e più grande impresa. Tale impresa consisteva nella distruzione della nuova sede del P.C.I. di via delle Botteghe Oscure” <111. Un proposito ai limiti del delirio di onnipotenza, anche in considerazione del fatto che gli attentati realmente compiuti avevano evidentemente uno scopo meramente dimostrativo. Al riguardo, è anche interessante l'opinione di Salvatore Immè, commissario della Pubblica Sicurezza presso la Squadra politica della Questura, laddove rileva che lo scopo della campagna di Voltarelli fosse “quello di dimostrare ai partiti di sinistra esistere ancora una forza capace di fronteggiarli se fossero passati all'azione diretta” <112, il che rappresenterebbe, oltre al generico anticomunismo, il vero dato politico espresso dal gruppo: un dato fortemente conservatore, tutt'altro che rivoluzionario. Ciò che appare mancare del tutto, e l'assenza di elementi di coesione interna ne è un aspetto, è proprio quell'urgenza identitaria che s'è vista invece nel caso dei FAR, la condizione morale e psicologica dell'azione clandestina; non è un caso che la banda di Voltarelli, che ha compiuto azioni ben più rumorose di quanto non abbiano fatto i FAR, sia svanita del tutto dalla memoria neofascista.
[NOTE]
87 M. Tedeschi, Fascisti dopo Mussolini, cit., p. 163.
88 Una povera pazza fermata dalla P.S. mentre accende un cero al “salmone”, in «l'Unità», 29/10/1948.
89 Ibidem.
90 Cfr. ACS, MI, GAB (1950-1952), b. 18, fasc. “Roma. Omicidio di Billi Achille (del MSI) (6.4.1949)”, rapporto della Questura di Roma n. 0596643/UP, cit. Gli arrestati furono Antonio Grande, Famiano Capotondi e Luciano La Face (condannati a cinque mesi e venti giorni di reclusione); Giovanni Inzani, Giorgio Luparini, Gastone Proietti, Gabriele Fusco, Augusto Procesi, Giannangelo De Merulis e Giuseppe Berti (condannati a quattro mesi e venti giorni); Salvatore Vancati e Luigi Capotorti, cui venne concesso il perdono giudiziale in quanto minorenni.
91 ASR, Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, rapporto della Questura di Roma n. 064048/UP, Esplosione bomba via IV Novembre, Roma, 26/11/1947, ff. 83-84.
92 Cfr. ibidem e ACS, MI, GAB (1947), b. 2, fasc. “Roma. Incidenti (III fascicolo)”, fonogramma della tenenza dei carabinieri S. Lorenzo in Lucina n. 50/255, Roma, 25/11/1947
93 L'attentato all'Unità e all'Avanti,in «l'Unità», 26/11/1947. Il riferimento normativo è alla legge 11 novembre 1947, n. 1317, “Modificazioni al codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato”.
94 Una bomba lanciata contro la Sezione P.C.I. del quartiere Italia, in «l'Unità», 20/12/1947. Va rilevato che un mese prima, il 21 novembre (due giorni dopo le bombe contro «l'Unità»), nello stesso quartiere Italia erano state lanciate due bombe, a un quarto d'ora di distanza l'una dall'altra, contro le sezioni della Democrazia cristiana di via Ravenna e dell'Uomo qualunque di via Giovanni da Procida. Cfr. Due bombe al quartiere Italia nelle sedi democristiana e U.Q., in in «l'Unità», 21/11/1947.
95 ACS, MI, GAB (1947), b. 2, fasc. “Roma. Incidenti (III fascicolo)”, fonogramma della Questura di Roma n. 208490/Gab., 19/12/1947.
96 Cfr. anche ASR, Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, , Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, fonogramma del commissariato di P.S. Porta Pia n. 06448, 20/12/1947, f. 100.
97 Cfr. ivi, rapporto del commissariato di P.S. Porta Pia [protocollo illeggibile], 25/12/1947, ff. 101-102.
98 Cfr. ivi, rapporto del commissariato di P.S. Piazza d'Armi n. 0277/Gab., Esplosione di ordigno presso la Sezione del P.C.I. a via Monte Zebio n. 9, Roma, 19/1/1948, f. 93. Cfr. anche ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), s. fasc. “Sezione partito comunista di Monte Zebio. Esplosione ordigno”, fonogramma della Questura di Roma n. 5442/Gab., 13/1/1948.
99 ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), s.fasc. “Sezione Partito Socialista di via Tiepolo. Esplosione ordigno”, fonogramma della tenenza dei Carabinieri Flaminio, n. 5442/Gab., 27/1/1948 e fonogramma della Questura di Roma n. 13540/01000/UP, 27/1/1948.
100 ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), s.fasc. “Roma. Attentato alla sede dell'ANPI”, fonogramma della Questura di Roma n. 23396/Gab., 14/2/1948.
101 ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), rapporto della Questura di Roma n. 053748/UP, Attentati terroristici compiuti nella Capitale, 12/3/1948.
102 ASR, Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, Verbale di istruzione sommaria, 5/4/1948, ff. 139-140.
103 Parlato ha sciolto l'acronimo in “Movimento anticomunista reduci italiani”, sigla di cui tuttavia non si è trovata altra traccia. Cfr. G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, cit., p. 265.
104 Ibidem. È opportuno sottolineare come questa descrizione fatta agli inquirenti dal dirigente l'ufficio politico della Questura coincida nel dettaglio con quella pubblicata da «l'Unità» più di venti giorni prima. Cfr. Un questore repubblichino e un prete a capo della banda di terroristi fascisti, in «l'Unità», 13/3/1948. Il generale dei carabinieri Giuseppe Pieche è stato, secondo lo studioso dell'intelligence italiana De Lutiis, “la figura che più di ogni altro rappresenta emblematicamente, con la propria carriera, la continuità dei servizi segreti dal periodo fascista alle strutture civili di sicurezza del Ministero dell'Interno del dopoguerra […]. Capo della terza sezione del Sim dal 1932 al 1936, nel 1937 coordinò gli aiuti militari italiani all'esercito franchista. Fu poi incaricato da Mussolini di svolgere un controllo discreto e riservato dei gerarchi e delle loro personali strutture occulte. […] con il primo governo De Gasperi, Pieche fu richiamato in servizio dal ministro degli interni Scelba, che gli affidò l'incarico di Direttore Generale dei servizi antincendi, carica solo apparentemente di secondo piano”. G. De Lutiis, Storia dei servizi: guerra fredda, stragismo, depistaggi, in Storia, sicurezza e libertà costituzionali. La vicenda dei servizi segreti italiani, Atti del convegno del 23/24 marzo 2007, Casa memoria di Brescia, Brescia, 2008, pp. 25-39. La citazione è alle pp. 29-30.
105 Cfr. ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), rapporto della Questura di Roma n. 053748/UP, Attentati terroristici compiuti nella Capitale, 22/3/1948.
106 Ibidem.
107 I componenti del commando furono condannati il 26/7/1948 rispettivamente: Voltarelli a 3 anni di reclusione, Palladino, Lispi e Capogreco a 2 anni e 6 mesi, Baroni a 1 anno e 8 mesi, Carini, Monti e Arione a 1 anno e 4 mesi. La sentenza sarà poi confermata in appello il 26/2/1949. Cfr. ASR, Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, 9/19 registro Sentenze, 26/2/1949, ff. 1-21.
108 Cfr. ivi, verbale di interrogatorio di Domenico Palladino, 11/3/1948, f. 41 e verbale di interrogatorio di Marcello Carini, 16/3/1948, f. 53.
109 Cfr. ivi, verbale di interrogatorio di Angelo Lispi, 12/3/1948, f. 46.
110 Ivi, verbale di interrogatorio di Riccardo Voltarelli, 15/3/1948, f. 35.
111 Ivi, verbale di interrogatorio di Riccardo Voltarelli, 15/3/1948, f. 35.
112 Ivi, verbale di istruzione sommaria, 6/4/1948, f. 146.
Carlo Costa, "Credere, disobbedire, combattere". Il Neofascismo a Roma dai FAR ai NAR (1944-1982), Tesi di Dottorato, Università degli studi della Tuscia - Viterbo, 2014

giovedì 23 giugno 2022

Dall’ambasciata statunitense capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni»


Il rapporto Italia-Stati Uniti sulla crisi del ’60 è stato in gran parte trascurato dalla storiografia <85, tuttavia il comportamento di Tambroni, che tentò di rilanciare il condizionamento del conflitto bipolare sulla politica italiana, <86 impone un’attenzione ben maggiore. L’incarico, come ha ricordato Nuti, non fu accolto dall’ambasciata con particolare soddisfazione, soprattutto per la vicinanza di Tambroni a Gronchi <87. «Nel breve periodo - ha scritto Zellerbach - non c’era motivo di preoccuparsi, visto che la cooperazione con gli Usa e con la Nato non sarà molto diversa da quella di Segni». Addirittura le prospettive sulla politica estera italiana venivano definite «eccellenti». Tuttavia la scelta non era giudicata «una soluzione felice». Tra i maggiori pericoli legati al nuovo esecutivo c’erano la possibilità di altre «scorribande» neutraliste in politica estera e l’opportunismo del nuovo capo del Governo. Nello stesso tempo la solidarietà di Gronchi, a cui erano legati il futuro e la stabilità del governo, era tutt’altro che assicurata. <88 A fronte della nuova maggioranza, furono immediate le dimissioni dei ministri della sinistra democristiana Bo, Sullo e Pastore. Poi seguì un tentativo - fallito - di Fanfani, che rispecchiava lo stato di confusione in cui versava la Dc, più volte rilevata dagli osservatori statunitensi. Alla fine di aprile Gronchi invitò Tambroni a completare la procedura e presentarsi al Senato. La direzione Dc approvava e l’ampia maggioranza democristiana confermava il nuovo, tormentato governo. Commentando l’investitura, i funzionari di via Veneto non erano in grado di stimare le probabilità che l’esecutivo arrivasse all’estate. Il presidente del Consiglio, in una formula efficace e sintetica, veniva descritto come un uomo «temuto da molti, ma di cui nessuno si fidava». Tambroni, da par suo, considerava il plauso americano un fattore non secondario per la durata del suo governo. Fu Francesco Cosentino - segretario generale della Camera e consigliere legale di Gronchi - a “sponsorizzare” il governo, ma dall’ambasciata capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni».
[...] In varie città italiane salirono la tensione e il nervosismo <104. I comizi missini nelle città di Reggio Emilia, Parma e Messina furono impediti <105. A Bologna, invece, era stato il discorso di Pajetta, pronunciato in piazza Malpighi il 21 maggio, a provocare l’intervento della polizia <106. Gli scontri durarono quaranta minuti provocando numerosi feriti, tra cui Giovanni Bottonelli, deputato del Pci, che riportò gravi ferite <107.
L’episodio, secondo quanto annotava un funzionario del consolato, rifletteva ancora una volta la «prontezza comunista nello sfruttare gli scontri con le pubbliche autorità» <108. Era questo uno dei tratti maggiormente sottolineati dalle relazioni americane. In più, il giudizio sul partito era a dir poco lapidario. Il Pci non era più in grado di «cavalcare le agitazioni e la propaganda come faceva una volta». La sede dei disordini non poteva che dare credito all’intuizione. Dopotutto, si era trattato di uno scontro in una roccaforte del Pci dove un deputato comunista era stato arrestato e ferito. «Qualche anno fa - ha scritto il segretario d’ambasciata Lister - avremmo assistito a dimostrazioni di massa, scioperi e altre azioni contro il governo in tutta Italia» <109.
Altrettanto attivo era il partito neofascista, galvanizzato dall’appoggio esterno al governo. Il Msi aveva indetto il VI congresso nazionale a Genova, dal 2 al 4 luglio. In quell’occasione, avrebbe dovuto dichiarare fedeltà al metodo democratico e alla Costituzione, anche se la Carta non sarebbe stata accettata come documento intoccabile.
Com’è noto, la scelta di Genova, peraltro conosciuta da tempo <110, fu un’opzione poco felice.
Molti esponenti missini, negli anni successivi, avrebbero fatto autocritica sia sull’effettiva maturità del partito che sulla scelta della sede <111. A suscitare la protesta del fronte antifascista furono soprattutto due elementi. L’oltraggio di un congresso neofascista in una città medaglia d’oro della Resistenza e la presenza - più vociferata che accertata - dell’ex prefetto della città ai tempi di Salò, Carlo Emanuele Basile. Secondo alcuni avrebbe addirittura dovuto presiedere i lavori. Il nome di Basile bastava ad evocare lo spettro dei non lontani massacri di guerra, rendendo l’affronto missino insostenibile.
Sulla scelta di Genova e sulle voci che riguardavano Basile, però, rimangono forti perplessità. Il 15 maggio, quando vennero resi noti i giorni e la sede del congresso le reazioni furono piuttosto blande <112. Genova, inoltre, non era la prima città fortemente legata alla Resistenza in cui il Msi convocava il suo raduno nazionale. Quattro anni prima la sede prescelta era stata Milano. In più, dal 1956, la giunta comunale della città ligure era appoggiata dai voti missini. Certamente Genova era «più contaminata dal Msi con il voto determinante del governo cittadino che con un congresso di tre giorni» <113.
[...] Veniamo ai fatti. Una prima grande mobilitazione contro il Msi ebbe luogo il 25 giugno. Protagonisti - ed è una costante delle proteste anti-tambroniane - furono i movimenti giovanili dei partiti antifascisti e di altre associazioni <121. Il 28 giugno, poi, venne indetto un comizio in piazza della Vittoria a Genova, che si svolse senza problemi.
Per il 30, la Camera del Lavoro proclamava uno sciopero generale con una manifestazione autorizzata dal prefetto. Quel giorno, una volta giunti in via XX settembre al monumento ai partigiani caduti, i manifestanti andavano in piazza della Vittoria, dove avrebbe dovuto terminare il tutto. Qui, la processione tornò indietro al sacrario, con in testa comunisti e socialisti. Poi il grosso della folla si fermava in Piazza De Ferrari, dove cominciava la battaglia.
Gli ordini alla polizia e ai carabinieri e le misure che poteva aver indicato lo stesso Tambroni sono tuttora un punto oscuro. Per Baget Bozzo la polizia «non reagisce». <122 Citando i rapporti dei carabinieri, Garibaldi ha posto l’accento sul fatto che la polizia avesse le armi scariche, e fu maggiormente presa di mira dai manifestanti, che ne erano a conoscenza <123. Il tenente colonnello Gaetano Genco ha scritto che il comportamento della polizia fu molto diverso da quello dei carabinieri. Questi, infatti, non fecero uso delle armi «nemmeno a scopo intimidatorio» ed ebbero solo cinque feriti. E avrebbero addirittura fraternizzato con i manifestanti <124.
Secondo Adalberto Baldoni, l’unica spiegazione per l’atteggiamento così poco collaborativo dei carabinieri, risiederebbe in una «garanzia militare sull’apertura a sinistra». Tale strategia sarebbe stata ispirata dalla coppia Moro-De Lorenzo e dagli Stati Uniti. A Roma, Reggio Emilia e in Sicilia, sempre secondo Baldoni, si doveva esasperare lo scontro e i carabinieri parteciparono attivamente. Tuttavia, non è azzardato nutrire qualche dubbio sulle fonti utilizzate per avvalorare l’ipotesi del coinvolgimento statunitense nella vicenda <125.
Murgia e Del Boca hanno scritto invece di una polizia «in completo assetto da guerra» pronta a scagliarsi sulla folla, senza menzionare i comportamenti delle altre forze dell’ordine <126. Più equilibrate le posizioni di alcune opere di sintesi sulla storia della prima Repubblica, in cui emerge con una certa continuità la sorpresa degli agenti, almeno in un primo momento <127. Tale sorpresa, poi, era dovuta non tanto alla scarsa prevenzione delle autorità locali, quanto alla sottovalutazione delle autorità centrali, che non diedero il «dovuto peso» alle informazioni provenienti da Genova.
Non si negava, infine, «qualche sintomo di nervosismo» tra gli organi di polizia <128.
L’ambasciatore Zellerbach considerò le proteste «in buona parte giustificate». E definì «stupido» il prefetto Pianese per aver concesso l’autorizzazione ai missini <129. Comprensibilmente, però, prese corpo l’ipotesi di una maggiore irrequietezza della piazza rispetto alle forze dell’ordine, che, non a caso, subirono i danni maggiori <130.
[NOTE]
85 Se ne sono in parte occupati solo Nuti e Gentiloni Silveri, si vedano L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 285-299; U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centro-sinistra 1958-1965, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 49-58.
86 Si veda G. Formigoni, A. Guiso (a cura di), Tambroni e la crisi del 1960, cit., p. 368. Significativo è il fatto che Murgia, citando un editoriale del «New York Times», scrive che «sembra uscito dall’ufficio stampa di Tambroni», si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 139. Sfogliando «L’Unità» e «Il Secolo d’Italia» del luglio 1960 si trova una selezione degli editoriali di molti quotidiani stranieri. Naturalmente la stampa internazionale veniva usata per avvalorare la tesi dell’aggressione da parte delle forze dell’ordine o della provocazione di piazza. Era comunque indicativo dell’attenzione rivolta a quanto scrivevano all’estero per comprovare le proprie idee.
87 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
88 Si veda L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 288-289.
104 Sul generale inasprimento delle autorità pubbliche nei confronti dell’opposizione di sinistra si veda P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., pp. 365-367.
105 G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia, cit., p. 138. Per le reazioni sulla stampa missina si veda Preordinate provocazioni dei socialcomunisti a Parma, «Il Secolo d’Italia», 1 maggio 1960.
106 A. Barbato, Da Bologna il primo squillo di tromba, «L’Espresso», 29 maggio 1960, p. 6. Si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 62.
107 Si veda G. Fanti, G.C. Ferri, Cronache dall’Emilia rossa: l’impossibile riformismo del Pci, Pendragon, Bologna, 2001, pp. 67-68.
108 Police breakup of Bologna communist meeting arouses strong reaction, M. Cootes (American Consul General) to the Department of State, May 30, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/5-3060.
109 Communists provoke incidents in Chamber June 1 over clash with police in Bologna, G. Lister (First Secretary of Embassy) to the Department of State, June 10, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-1060. Tuttavia, proprio in relazione ai fatti di Bologna, il parlamentare democristiano Elkan parlò di una grande quantità di armi detenute nelle case di alcuni arrestati o in luoghi vicini. Erano tutti esponenti del Pci e le armi facevano parte, secondo Elkan, di «oscuri e gravi ricordi di guerra civile», si veda AP, CdD, III Legislatura, Discussioni, Seduta del 1° giugno 1960, p. 14423.
110 «L’autorizzazione era stata data da tempo, addirittura da Segni come ministro degli Interni del suo governo», si veda L. Radi, Tambroni trent’anni dopo, cit., p. 105. La notizia del congresso apparve sul quotidiano neofascista a metà maggio, si veda In difesa dello Stato e della nazione insostituibile la funzione del Msi, «Il Secolo d’Italia», 15 maggio 1960. La mozione congressuale fu pubblicata, sempre sul quotidiano neofascista, il 3 giugno.
111 A. Baldoni, La destra in Italia, cit., p. 553; Servello ha scritto di un partito «completamente impreparato», della «sottovalutazione delle capacità di mobilitazione delle sinistre» e della «sopravvalutazione della capacità del governo Tambroni di gestire la situazione». I tempi, comunque, non erano ancora giudicati maturi, F. Servello, 60 anni in fiamma. Dal Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006, pp. 63-68. Sull’autocritica di Almirante si veda A. Pitamitz (a cura di), Tre protagonisti 25 anni dopo, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 47. Particolarmente netto e amaro fu il giudizio di Anfuso, che nel 1962 arrivò a dire che il Msi avrebbe potuto anche sparire, se la Dc si fosse sforzata di comprendere le intenzioni del partito neofascista, A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 202. La questione delle intenzioni missine è peraltro molto dibattuta. Ne «Il Secolo d’Italia» del 30 giugno ’60 si legge «il Msi rappresenta dunque, e assume apertamente di voler rappresentare, la continuazione del Fascismo». Tarchi ha ricordato la «classica connotazione bicefala del Msi», alla luce della quale l’obiettivo ultimo restava la costruzione di «un regime destinato a richiamare - sia pure in forme che nessuno avrebbe saputo indicare con precisione - quello mussoliniano», M. Tarchi, Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Intervista di A. Carioti, Rizzoli, Milano, 1995, p. 66
112 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 39-41; F.M. Solo la Dc a Genova non protesta contro il congresso dei neofascisti, «L’Unità», 11 giugno 1960; Per le reazioni missine si veda La farsa rossa dell’indignazione popolare contro il Congresso nazionale del Msi a Genova, «Il Secolo d’Italia», 11 giugno 1960. Il console Joyce rimase colpito dalla durezza della campagna che poi iniziò. A tal proposito citò un manifesto con la scritta: «Msi uguale fascismo, fascismo uguale nazismo, nazismo uguale camere a gas», Growing opposition to planned Msi convention in Genoa, R. Joyce (American Consul General, Genoa) to the Department of State, June 27, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-2760.
113 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., pp. 287-288. Pombeni ha scritto che lo «scandalo» per il congresso a Genova «era credibile fino a un certo punto», P. Pombeni, L’eredità degli anni Sessanta, in F. Lussana, G. Marramao (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 46. Secondo Cooke le difficoltà sul nascere del governo Tambroni si erano subito riversate a livello locale. Genova fu una delle prime città in cui i missini votarono contro importanti provvedimenti, provocando così la crisi della giunta, si veda P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 26-27.
121 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
122 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, p. 288; P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., pp. 76-77.
123 Il rapporto è il n. 113 del 30 giugno 1960, L. Garibaldi, Due verità per una rivolta, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 49.
124 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 85-88.
125 A. Baldoni, Due volte Genova, cit., pp. 97-104. L’ipotesi del coinvolgimento dei carabinieri - voluto da Moro - nella caduta di Tambroni non pare priva di fondamento. Ma sembra ragionevole, stando a quanto reperito negli archivi statunitensi e alle più recenti indagini storiografiche, non dare credito a dietrologie un po’ azzardate. In particolare l’autore pone all’origine dell’accordo Sifar-Cia contro Tambroni il piano Demagnetize, in realtà esauritosi nel ’53 senza risultati apprezzabili, si veda M. Del Pero, Gli Stati Uniti e la «guerra psicologica» in Italia (1948-56), «Studi Storici», a. XXXIX, n. 4, ottobre-dicembre 1998, pp. 961-974. In più Baldoni si rifà a opere giornalistiche (R. Trionfera, Sifar Affair, Reporter, Roma, 1968 e R. Faenza, Il malaffare, Mondadori, Milano, 1978) smentite da successivi lavori scientifici.
126 A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”, cit., pp. 200-201; P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., pp. 81-82.
127 «La violenza dei dimostranti, diversi dei quali erano armati, fu tale che le forze di polizia si trovarono a mal partito e lamentarono diverse perdite in uomini feriti e materiale distrutto», G. Mammarella, L’Italia contemporanea, cit., p. 260.
128 File with subject file copy of Genoa’s D-2 (in italiano), July 11, 1960, RG 84, Italy, US Consulate, Genoa, Box 3, f.300/500 Polit/Econ reporting 1960. Nello stesso documento si parla di azioni condotte con molta decisione, forse perché «era stata diffusa la voce che da parte delle forze dell’ordine non si sarebbe fatto uso di armi». Sui timori dei poliziotti si veda S. Medici, Vite di poliziotti, Einaudi, Torino, 1979, pp. 55-57.
129 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 295.
130 L. Garibaldi, Due verità per una rivolta, cit., p. 50. Si veda «Il Secolo XIX», 1 luglio 1960, articolo molto ricco citato interamente in P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 91-95; Sul trattamento riservato ad alcuni agenti, in particolare sul tentativo di annegamento e sull’utilizzo di uncini si vedano G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 288; L. Fazi, Un comando rosso ha diretto l’insurrezione, «Il Secolo d’Italia», 2 luglio 1960.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009/2010