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mercoledì 21 agosto 2024

Francesco Biamonti svolse la sua relazione in un'afosa serra a mezza collina in Ospedaletti

Ospedaletti (IM)

La sede del Partito comunista ad Imperia era in Via Repubblica quando segretario provinciale della F.G.C.I., la Federazione Giovanile Comunista, era Lorenzo Muratore. Lorenzo Trucchi ha ben vivo il ricordo di quando, nei primi anni Sessanta, da Ventimiglia si misero in auto, una scassata utilitaria, per una assemblea che si svolgeva nel capoluogo lui, l'altro Lorenzo, Angelo Oliva ed un quarto giovanotto, che fece poi carriera a Roma, allontanandosi forse dalla politica, ma rimanendo sempre in contatto con Giorgio Loreti.
Erano tutti - i ragazzi cui sin qui si è accennato - amici di Francesco Biamonti, che non era ancora lo scrittore oggi ben noto, anche se qualche suo breve scritto era già apparso. Così come era avvenuto per Angelo Oliva, il quale subito dopo si sarebbe cimentato in ben altro genere di carte e di esperienze, ma di cui - sottolineatura di quanto si è appena detto - è stato di recente pubblicato a cura dell'Unione Culturale di Bordighera il racconto "Una grossa porcheria" in un opuscolo corredato da affettuose memorie di persone che lo avevano conosciuto bene.
Il viaggio citato probabilmente coincise con il congresso in cui venne eletto segretario provinciale della F.G.C.I. Mauro Torelli, futuro segretario provinciale del PCI e deputato, che nel suo libro di memorie politiche avrebbe dedicato righe intense non solo ai compagni di partito Trucchi (il curriculum di questo Lorenzo vede in ordine di tempo le cariche di segretario della Camera del Lavoro di Ventimiglia, segretario provinciale della C.G.I.L., consigliere regionale) e Muratore (assente o quasi, stranamente, Angelo Oliva, ma il ruolo "agli esteri" di quest'ultimo lo tenne sempre per i rapporti ufficiali lontano da questa Riviera), ma anche - per gli impegni culturali e sociali degli anni Sessanta - ai socialisti Loreti e Biamonti.
 

Giorgio Loreti era attivamente impegnato nell'Unione Culturale Democratica di Bordighera, ma anche, in Sanremo nella Federazione Giovanile del PSI, con altri giovani, tutti incoraggiati da Adolfo Siffredi, patriota antifascista (Fifo), che era stato il primo sindaco di Sanremo alla Liberazione. Loreti era molto preso in particolare dal redigere bollettini di informazione, tutti rigorosamente stampati a ciclostile, così da poter anche stampare in un'occasione i complimenti e le esortazioni a proseguire sulla strada imboccata, ricevuti dall'ex comandante partigiano Vitò.
 

Francesco Biamonti fu brevemente segretario provinciale del Partito socialista, quando la sede del PSI era in via Foce ad Imperia. Il suo discorso di commiato dalla carica venne sviluppato in un congresso che si tenne in un'afosa serra a mezza collina in Ospedaletti: fece un discorso dall'ampio respiro, molto colto, pressoché inusuale per gli astanti, cui minimamente poté competere per qualità quello di un insegnante di musica di Pieve di Teco.
 

Poco prima, allo svolta degli anni Sessanta, giovani democristiani di Ventimiglia, tutti universitari, si attrezzavano per le loro carriere professionali e politiche a venire in... feste danzanti - a capodanno indossando in genere berretti da goliardi -, intrattenimenti vari, pranzi e cene da post-sciate, escursioni in campagna, cacce al tesoro e così via, non disdegnando di accompagnarsi a veri figli e figlie del popolo.  
 

Alla svolta successiva, quella degli anni Settanta, usciva da una tipografia un periodico progressista, alla cui redazione partecipava almeno un dirigente locale democristiano, un altro amico di Francesco Biamonti, lo stesso che a gennaio 1973 insieme al Presidente Provinciale ACLI - anche questi abitante nella città di confine - si sarebbe dato molto da fare - insieme ad attivisti comunisti, socialisti ed indipendenti - per la buona riuscita della Marcia per la Pace in Vietnam, da Ventimiglia a Bordighera. Quella pubblicazione portava il nome di "La Goccia" e vedeva tra i suoi redattori anche il parroco di Airole: forse, risentiva di un clima particolare, contrassegnato anche un po' prima dalla presenza attiva tra Ventimiglia e Vallecrosia di preti e diaconi, nonché di una sorta di missionari laici, tutti impegnati nel sociale e tutti (o quasi) venuti da fuori, a titolo di paradigma chi dalla Lombardia, chi dalla Toscana, dei quali pochi ricordano qualcosa, se non una certa definizione riferita ad alcuni di loro, non si sa più se amichevole o irriverente, di "preti comunisti".
 

Adriano Maini

mercoledì 11 ottobre 2023

Il compromesso degasperiano si inserisce nella tradizione del moderatismo italiano che non esclude l’utilizzo della forza e della violenza


Come abbiamo già visto sui temi economici, Mario Del Pero ha invece sottolineato nel suo lavoro sulla natura del rapporto DC-USA all’inizio della Guerra fredda che parlare di totale subalternità di De Gasperi e dei suoi all’alleato americano non è storicamente del tutto corretto: le venature autonomiste e nazionaliste presenti in buona parte della coalizione governativa tesero sempre ad accettare l’influenza atlantica, ma utilizzando la presenza e le pressioni americane spesso per fini dettati dalle logiche nazionali. D’accordo si dice anche Scoppola, in un paragone con il partito moderato risorgimentale che condividiamo e, dal nostro punto di vista, racchiude un significato storico molto più denso: "Non eravamo pienamente liberi ma non eravamo neppure del tutto dipendenti dalle decisioni altrui: influire sulle decisioni americane era l’unica via possibile e responsabile che un uomo politico illuminato potesse seguire. Cosa aveva fatto, negli dell’unificazione, Cavour se non utilizzare il quadro internazionale ai suoi fini, prendendo atto realisticamente dei rapporti di forza esistenti?" <554
Così sul piano economico, su quello militare e, anche, sulle misure di contenimento anticomunista che, in particolare dopo lo scoppio del conflitto coreano, assunsero sempre più caratteri anticostituzionali, De Gasperi resistette e non solo per opportunismo: "Valutando la posizione di De Gasperi sulla base delle pressioni interne ed esterne che egli ricevette affinché venisse promossa una più decisa azione anticomunista, non si può però fare a meno di notare una certa moderazione nelle scelte dello statista trentino. Da questo punto di vista sia il contenuto dei provvedimenti dell’autunno 1950 (con il rigetto dell’ipotesi di utilizzare volontari per svolgere funzioni di polizia) che la gestione dell’iter di approvazione dei medesimi testi di legge (che si arenarono in parlamento o non vennero nemmeno presentati) sembrano costituire un tipico compromesso degasperiano. Un compromesso finalizzato non solo a soddisfare le pressioni statunitensi, ma anche ad attutire posizioni più radicali presenti all’interno dell’alleanza di governo così come nel mondo cattolico organizzato". <555
'Compromesso degasperiano' che si inserisce nella tradizione del moderatismo italiano che non esclude l’utilizzo della forza e della violenza, senza tuttavia compromettere gli equilibri a suo favore, correndo il rischio di cedere quote di potere troppo elevate ai settori oltranzisti poi difficilmente controllabili: "È difficile sfuggire alla sensazione che questa scarsa disponibilità non fosse determinata anche dal timore che la pedissequa applicazione delle misure chiaramente anticostituzionali richieste da Washington avrebbe finito per travolgere la democrazia italiana, portando il paese sull’orlo della guerra civile e ponendo le premesse per una svolta autoritaria di cui potevano essere vittime anche De Gasperi e la stessa Democrazia Cristiana". <556
Sostanzialmente d’accordo si dice anche Bertucelli quando riflette sui motivi del rifiuto, da parte della classe dirigente centrista, dell’alternativa salazariana: "I comunisti vengono esclusi da ogni ruolo di governo o di direzione nella struttura dello Stato, ma continuano a partecipare alle istituzioni della democrazia rappresentativa. La realizzazione di questo delicato equilibrio […] richiede però alleanze forti e impone l’anticomunismo come fattore di coesione irrinunciabile. Un anticomunismo variegato e polimorfo, spesso connotato socialmente, che diviene un tratto distintivo della democrazia del dopoguerra, in grado di relegare in posizione subalterna le culture riformatrici dei partiti di governo e le spinte modernizzatrici nella società". <557
È l’esperienza antifascista, il coinvolgimento profondo di una parte significativa di popolazione e di paese nella guerra di Liberazione, la tendenza ancora embrionale ma manifestatasi di settori non comunisti della società a fare causa comune con PCI e PSI, a impedire tra le altre cose la svolta autoritaria: "La stessa Costituzione, esito alto del tormentato passaggio dal fascismo alla Repubblica e cifra straordinaria di discontinuità con il passato, può essere sospesa, limitata, forzata, ma non se ne possono oltrepassare le norme fondamentali, non tanto perché l’opposizione comunista ne fa una bandiera, ma perché da quella carta trae legittimità lo stesso ceto di governo del dopoguerra che si identifica con la libertà e il nuovo Stato italiano, sorto dalle ceneri dell’otto settembre, e inserito ora in un nuovo ordine internazionale". <558
Queste considerazioni che negano l’asservimento totale e l’imperialismo come categorie utili, in questo contesto, a spiegare l’equilibrio centrista tra costituzione formale (prodotto della Resistenza, fondata sul nesso democrazia-antifascismo) e costituzione materiale (prodotto della Guerra fredda, fondata sul nesso democrazia-anticomunismo), servono a problematizzare il quadro: la sociologia dei conflitti tende a suddividere le modalità di svolgimento e gestione del conflitto da parte degli attori in campo secondo categorie che distinguono chiaramente tra contesto democratico e contesto non-democratico.
Questo ci pone una domanda: è possibile considerare così nettamente separate le due dimensioni? Probabilmente è più corretto ammettere la presenza di sfumature: l’esperienza storica ha dimostrato come diversi gradi di democrazia interna si basino su eccezioni alla norma democratica ufficiale, che intaccano la struttura delle opportunità politiche anche per coloro che sono riconosciuti come cittadini a pieno titolo. Le discriminazioni de iure, soprattutto in presenza di un conflitto interno, che si manifesti sia nelle forme delle campagne dei movimenti sociali, sia del conflitto letale o armato, comportano spesso restrizioni alle libertà politiche e aumento di potere nelle mani di forze dell’ordine e apparati di sicurezza. Si tratta dunque di una potenziale causa di de-democratizzazione. Contrariamente a quanto osservato da C. Tilly e S. Tarrow <559, però, questo processo non è necessariamente innescato da governi democratici a bassa capacità, né tantomeno che hanno subìto un trauma o un indebolimento: paradossalmente sono proprio le democrazie segmentate forti <560 a disporre dei dispositivi dell’eccezione e ad applicarli. In questo, il condizionamento culturale è centrale nell’interpretazione dei fatti sociali e nella percezione del nemico.
Quella che costruisce la classe dirigente neo-popolare e centrista appare a tutti gli effetti una democrazia limitata più che protetta: la molteplicità degli apparati di sicurezza e il peso dell’esercito (che vedremo nelle prossime pagine) non rappresentano infatti un potere capace di dettare l’agenda politica e determinare l’azione di governo (non in modo complessivo quanto meno); è un complesso intreccio tra attori e soggetti, spesso in conflitto tra loro, fatto di condizionamenti e azioni di diversa natura, che però non giunge mai a sollevare il governo dalle proprie prerogative costituzionali. Il sistema di ordine pubblico e agibilità politica che costruiscono Scelba e De Gasperi dunque non tende tanto a proteggere i diritti costituzionali, quanto a limitarne l’accesso per ampi settori sociali e politici. E questa è una tendenza di lungo periodo: "le tradizioni dell’Italia unita sia al livello istituzionale sia al livello delle strategie prevalenti verso gli sfidanti sono di tipo esclusivo. Le istituzioni del regno sabaudo erano caratterizzate da un forte centralismo, un’accentuata supremazia del governo di fronte a un parlamento debole, e una forte influenza dell’esecutivo anche sul potere giudiziario. La domanda che da parte del potere politico giungeva alle forze di polizia, anch’esse tenute sotto stretto controllo, era generalmente quella di una rigida protezione dell’ordine costituito, utilizzando anche le strategie più brutali. […] Il regime fascista portò a un’ulteriore accentuazione dei tratti esclusivi delle istituzioni statali. La legislazione (il codice penale, la legge di Pubblica sicurezza) varata durante il fascismo restò a lungo in vigore anche nella repubblica democratica, con conseguenze durature in termini di un riconoscimento debole dei diritti democratici. […] La forte correzione introdotta dalla costituzione repubblicana nel campo delle istituzioni formali ebbe inizialmente effetti solo parziali a causa dell’ostruzionismo della maggioranza che ostacolò l’introduzione delle nuove istituzioni di controllo e di decentramento del potere come la corte costituzionale, il consiglio superiore della magistratura, le regioni e il referendum". <561
Limitazione che diventa conferma dell’esclusione tradizionale delle classi subalterne: "Queste limitazioni, giustificate proprio con un presunto pericolo per la democrazia, si riflessero in una continuità nella strategia di esclusione del movimento operaio, delle sue organizzazioni e dei suoi partiti, che si cercava di confinare nello spazio della subcultura rossa". <562
Su questo punto non si trova d’accordo Scoppola, che invece ha sottolineato la differenza tra il paternalismo prefascista e il neopopolarismo degasperiano, soprattutto sulla questione sociale e sul ruolo delle classi subalterne: "per De Gasperi la giustizia sociale non discende nella realtà solo in virtù della sua forza morale, non è affidata ad uno Stato attento, dall’alto, al benessere delle plebi […], ma è il frutto di una presenza nuova, attraverso la democrazia politica e il suffragio universale su cui essa si fonda, di operai e contadini nella vita politica. […] La classe lavoratrice nella sua concezione è protagonista e non oggetto di un’azione di rinnovamento sociale […]". <563
Bisogna operare qui, secondo noi, una distinzione tra quella che è la teoria politica, la consapevolezza, che lo statista trentino dimostra e quella che risulta essere la prassi seguita dai suoi governi. Per le ragioni sopra riportate e che ritroveremo nel seguito dell’esposizione, ritroviamo i medesimi motivi da cui nacque, storicamente, la particolare 'subcultura rossa' italiana, e che nel secondo dopoguerra contribuiscono al riprodursi dei suoi caratteri antagonisti e rivoluzionaristi; elementi dovuti anche alla rottura tra i poteri pubblici e le istanze del lavoro, o meglio al rifiuto dei primi nei confronti delle richieste contenute nella politica del conflitto dei ceti subalterni. Costante di lungo periodo che, unitamente al nuovo contesto geopolitico e interpretativo della Guerra fredda, produce il "paradosso - giustificato con costanti richiami all’eccezionalità della situazione italiana - di uno Stato democratico costretto ad affidare le sue sorti ai rigori di una vigilanza autoritaria". <564
[NOTE]
554 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, 1978, p. 181
555 M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Carocci, 2001, p. 106
556 Ibidem, p. 156
557 L. Bertucelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, Unicopli, 2012, p. 84
558 Ibidem, p. 85
559 C. Tilly, S. Tarrow, La politica del conflitto, pp. 81-84, Mondadori 2008
560 Regimi politici democratico-parlamentari che presentano al loro interno diversi gradi di concessione della cittadinanza politica e di accesso ai diritti civili, producendo così segmenti interni di democrazia. L’esclusione o la limitazione può derivare da criteri etnici, religiosi, politici.
561 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., pp. 24-25
562 Ibidem, p. 25
563 P. Scoppola, op. cit., pp. 91-92
564 G.C. Marino, op. cit., p. 57
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

sabato 19 novembre 2022

L’affermazione della "Settimana Incom" giunse in un periodo di grande espansione del cinema in Italia


Il primo numero della "Settimana Incom" uscì il 15 febbraio del 1946. Chi lo mise in piedi non poteva sapere che il cinegiornale sarebbe andato avanti sino al n. 2554 del 1965.
La Industria Corto Metraggi, con sede a Roma in via Bellini 27, dopo una pausa di quasi tre anni, tornò sul mercato con un prodotto nuovo <45. Se in epoca fascista, come sappiamo, il regime aveva riservato all'Istituto Luce il settore dei film d'attualità, lasciando alla Incom e agli altri privati uno spazio di produzione solo nell'ambito del documentario, nel dopoguerra il vincolo cadde <46 e il direttore, che era sempre Sandro Pallavicini, decise di puntare sul cinegiornale per rilanciare la società <47.
Ad agevolare l'iniziativa privata, giungeva l'articolo 8 del decreto luogotenenziale n. 678 del 5 settembre 1945, che garantiva al cinegiornale il rimborso dei diritti erariali per il 3 per cento dell'introito lordo sugli spettacoli cui il breve filmato era abbinato. Il passaggio dal regime fascista al periodo di transizione fino alla repubblica, non danneggiò Pallavicini, anzi, con la fine della guerra, il potere del direttore crebbe. Egli intratteneva ottimi rapporti con i nuovi alleati d'oltreoceano, non tanto per motivi di parentela <48, che seppe peraltro certamente sfruttare, quanto per la sua capacità di presentarsi come l'artefice di un nuovo tipo di informazione. Pur facendo tesoro dell'esperienza maturata sotto il fascismo, Pallavicini sposò la causa dell'antifascismo e della difesa della democrazia come se fossero sempre stati i suoi valori fondanti. Il nuovo successo della Incom fu il risultato di una serie di fattori: in primo luogo, come vedremo, lo smaccato filo-atlantismo, evidente sin dal primo numero; in secondo luogo, la capacità di farsi espressione di quella parte politica del paese che già si intuiva dominante; in terzo luogo, lo stile «disinvolto, un po' superficiale ma spettacolarmente vivace» <49 che affondava le radici nelle produzioni realizzate sotto il regime; infine, un'aggressiva campagna di distribuzione, che si avvalse di una serie di concorsi a premi <50, appetibili al pubblico e, di conseguenza, agli esercenti.
La società riuscì ad occupare quasi per intero lo spazio di mercato dei cinegiornali, nonostante il decreto luogotenenziale del 1945 aprisse le sale italiane anche all'invasione straniera. «Negli anni che seguono, accadde un fatto abbastanza insolito - almeno non registrato negli altri paesi, Stati Uniti compresi -, che solo in parte è da imputare alla mancanza di informazione visiva libera del pubblico italiano durante il periodo fascista. Ci sono anche fattori di interesse, economici e politici insieme, che portano ad una vera e propria invasione delle testate di cinegiornali, molti dei quali però vivono per breve tempo» <51. Nella seconda metà degli anni '40 uscirono in Italia 9 cinegiornali, soprattutto edizioni nazionali di prodotti inglesi e statunitensi <52: "Notizie da tutto il mondo" della Eagle Lion, "Notizie del giorno" della M.G.M., "Fox Movietone" della 20th Century Fox, "Colpi d'obbiettivo" sul mondo della Paramount, "Universal News" della Universal, che diventerà poi "Film Giornale Universale" realizzato su commissione dalla Sedi. E' invece lo sport il tema di fondo di uno dei primi cinegiornali interamente “made in Italy” del dopoguerra: "Cinesport", edito dalla Compagnia Italiana Attualità Cinematografiche, dal 1945 fu prima quindicinale, per i primi tre anni, poi settimanale. Nel 1944 erano usciti tre numeri di "Attualcine", con il titolo di "Giro d'Orizzonte", in una Venezia appena liberata: erano dedicati all'insurrezione di Venezia, alla liberazione della città e alla manifestazione del primo maggio <53. Del 26 luglio 1945 è il primo numero del "Notiziario Nuova Luce", realizzato dall'Istituto Luce, che aveva cambiato denominazione in “Istituto Nazionale Nuova Luce”: i suoi cinegiornali andarono avanti per 22 numeri sino al 1947, quando il governo decise di fermarne la produzione <54.
Nonostante i numerosi concorrenti, la "Settimana Incom" riuscì a conquistarsi progressivamente un posto di primo piano. Lo staff della società <55 era rimasto pressoché invariato dai tempi del Ventennio: Sandro Pallavicini ne era ancora, come abbiamo visto, il direttore; Alfonso Cedraschi, altro membro della ricca famiglia di imprenditori italo-svizzeri, prese il posto del fratello Erminio come consigliere delegato; Domenico Paolella <56, che era stato uno dei registi, divenne redattore capo, e, dopo il 1948, direttore artistico; Guido Notari <57, una delle voci fuori campo dei documentari di epoca fascista, fu nel dopoguerra “la voce” della "Settimana Incom". Figura del tutto nuova era, invece, Giacomo Debenedetti <58, intellettuale di estrazione comunista, chiamato personalmente da Pallavicini a scrivere i testi dei cinegiornali. Debenedetti svolse questo compito per dieci anni e, almeno sino al 1950, fu l'unica attività retribuita dell'intellettuale. Questa informazione è importante, perché configura la sua collaborazione, che non risulta da nessun contratto e che non fu mai pubblicamente dichiarata nè da Debenedetti né dalla Incom <59, come un lavoro dettato dalle necessità della sopravvivenza, e contribuisce a spiegare l'adattamento del fine uomo di cultura allo stile superficiale e propagandistico del cinegiornale <60.
Le preziose dichiarazioni di Paolella chiariscono le modalità attraverso le quali avveniva la ricerca del compromesso all'interno della redazione: «Per cominciare, d'accordo con Pallavicini, io avevo fatto una redazione politicamente composita, in cui eravamo rappresentati un po' tutti. I commenti parlati, che sono un po' la chiave dei cinegiornali, li faceva Giacomo Debenedetti, grandissimo saggista, un comunista col quale ho avuto dimestichezza per cinque anni. Tra i redattori c'era un socialista e uno dell'Uomo Qualunque, che allora era un gruppo politico importante. Pallavicini era un po' al disopra e al di fuori, e naturalmente l'indirizzo lo dava lui, ma non poteva evitare che i collaboratori esprimessero un certo tipo di opinioni.» <61
Le indicazioni venivano date a Debenedetti anche in fase di preparazione del servizio, nel momento in cui si visionavano le immagini <62. A guidare la realizzazione del cinegiornale era l'idea che l'immagine e il commento dovessero procedere in sincronia: «La perfetta armonia di parlato e immagine resta una delle caratteristiche della Incom e una delle ragioni del successo» <63. L'impostazione data era di carattere giornalistico, con un occhio ai rotocalchi: La "Settimana Incom" proponeva cronache politiche, servizi sulla ricostruzione e sulle relazioni con gli americani, curiosità italiane e dal mondo, interviste a uomini politici, filmati sulle tradizioni religiose locali, cronache sportive e rubriche di moda. I filmati dovevano avere una lunghezza standard <64, e le inquadrature e il montaggio richiedevano la massima cura. Anche l'organizzazione interna ricalcava quella di un quotidiano a stampa <65: una volta ricevuta, dall'Ufficio Informazioni, la segnalazione di una serie di appuntamenti, questi venivano selezionati dal capo redattore, in accordo col regista che effettuava un sopralluogo. L'ufficio lavorazione organizzava la troupe <66, indicando circostanze, luoghi e persone da filmare, per poter procedere con la stesura del commento. Presso lo stabilimento sviluppo e stampa, che si occupava anche della catalogazione, venivano individuati i temi che potevano essere interessanti per l'esportazione all'estero <67.
«Avevamo adottato un certo tipo di comportamento verso le richieste di riprese che tutti ci facevano. È chiaro che i nostri telefoni erano bombardati dai partiti, dalle industrie, perché tutti ci volevano, e il problema era di convincerli che solo i grossi avvenimenti nazionali avevano senso, e non i tagli dei nastri. Ci avvalevamo di una serie di registi-giornalisti un po' in tutta Italia, una rete che avevo messo su perché funzionasse non solo in rapporto alla cronaca, ma anche rispetto agli avvenimenti politici importanti, e mi pare di aver reso in sostanza uno specchio veritiero dell'Italia di allora, con tutto quello che di difettoso c'era.» <68
L'affermazione della "Settimana Incom" <69 giunse in un periodo di grande espansione del cinema in Italia: nel '48 il numero delle sale era quasi il doppio rispetto a dieci anni prima e i biglietti venduti erano saliti del 75%. Nel settore dello spettacolo, il cinema non lasciava spazio ad alcun altro tipo di intrattenimento: nel 1949 su 70 miliardi incassati dagli spettacoli, il grande schermo se ne era aggiudicati 54. Dopo appena tre anni dalla fine della guerra, in Italia si contavano 6500 sale private e oltre 5000 sale parrocchiali. La crisi della guerra che aveva portato distruzione anche nel mondo del cinema era in via di superamento.
Nel 1948 la fisionomia della Incom si definì ulteriormente con l'ingresso di Teresio Guglielmone, in qualità di Presidente. Personaggio chiave della Dc, il finanziere piemontese diventò senatore con le elezioni del 18 aprile 1948, dotando la Incom di un potente sostegno politico <70. Parallelamente, il controllo sulla società da parte di Guglielmone garantì alla Democrazia Cristiana un efficace strumento di propaganda. «Il successo della Incom fu capillare e straordinario. E della Incom cominciò a interessarsi la Democrazia Cristiana, nella persona del senatore Guglielmone, che non so se da sé o attraverso comitati diversi, riuscì ad avere, proprio nel '48, il 51% delle azioni della società. Naturalmente le cose cambiarono, anche se, debbo dire, con una certa gradualità. […] A poco a poco però il cinegiornale peggiorò. Cominciarono a entrarci i tagli dei nastri […]» <71.
Il filo-atlantismo della Incom, portato quasi all'esasperazione, come vedremo, nei primi mesi del 1948, e che si esercitava anche attraverso l'utilizzo di materiali forniti direttamente dagli americani, che esaltavano gli effetti del sostegno statunitense sullo sviluppo economico italiano, valse a Pallavicini il plauso del rappresentante Usa a Roma, e qualcosa di più: «Già all'indomani della vittoria elettorale del 1948 egli si presenta agli americani per riscuotere i suoi crediti. L'ambasciatore americano a Roma, in una lettera del 27 aprile del 1948 al Dipartimento di stato, ne sottolinea caldamente i meriti filoamericano e sollecita da parte del governo, aiuti più continui e sostanziosi e soprattutto filtrati da canali governativi» <72. Il sostegno politico della Dc e quello finanziario degli americani garantirono alla società Incom il dominio incontrastato per quasi vent'anni. Soltanto l'affinamento dell'informazione televisiva, che era in grado di proporre uno stile giornalistico con il quale la vecchia formula del cinegiornale non poteva competere, decretò il tramonto della società Incom: <73 «La cultura della transizione al capitalismo dei consumi non poteva accontentarsi della formula dello stereotipo. La televisione fu la grande innovazione tecnologica in grado di coniugare valori morali, innovazione formale e modernità, lasciando al giornalismo rosa dei rotocalchi popolari la
parte più effimera e “luccicosa” che era stata propria dell'offerta dei cinegiornali, e appropriandosi, con ben altra consapevolezza, nel bene e nel male, di quel segmento dell'informazione sociale e politica sul quale si sarebbero giocati i destini del paese.» <74
[NOTE]
45 «L'aggettivo “nuovo” è la foglia di fico che consente di conciliare capra e cavoli, tradizione e cambiamento. Guardiamo i giornali. Solo in rarissimi casi si cambia la testata radicalmente […] Ma ancor più minuscolo e irriconoscibile è il travestimento quando la testata rimane proprio la stessa e si aggiunge sopra o sotto l'aggettivo “nuovo”. È quel che accade all'Istituto Nazionale Luce ritinteggiato appena nell'insegna che ora è Istituto Nazionale Luce Nuova.», E.G. Laura, op. cit., p. 235. La Incom, dal canto suo, non cambiò neanche la propria sigla.
46 Dopo la liberazione di Roma si era costituito il Film Board, una sorta di commissione tra alleati occupanti e italiani, che si riunì per decidere il destino del cinema in Italia. Il Board si componeva di 5 membri rappresentanti i vari interessi in gioco: l'ammiraglio americano Stone, a presiedere la commissione, Pilade Levi, in rappresentanza dell'esercito americano, Stephen Pallos, di quello britannico, Alfredo Guarini, come rappresentante dei lavoratori dello spettacolo, Alfredo Proia, a tutelare gli interessi degli industriali del cinema. All'interno del Board i tentativi statunitensi di ridurre ai minimi termini il cinema italiano, considerato troppo compromesso con il fascismo, trovarono un argine nelle posizioni del rappresentante britannico, che aveva interesse a contenere l'influenza statunitense, spalleggiato da Guarini. Nel 1945, in sede di Commissione paritetica sulla cinematografia, istituita dal governo provvisorio, fu messo insieme un progetto di legge che garantiva l'obbligatorietà per 84 giorni all'anno del film italiano nei cinematografi italiani, ma, in sede di Consiglio dei ministri, al posto della legge preparata dalla Commissione paritetica, venne fuori il decreto n. 678, che escludeva il contingentamento. Il Board, nella persona dell'ammiraglio Stone, aveva fatto pressione sul governo affinché venisse approvata una legge che, accanto al sostegno ai produttori cinematografici, garantisse l'apertura alle pellicole straniere delle sale italiane. Cfr., Lorenzo Quaglietti, Storia economico-politica del cinema italiano. 1945-1980, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 37 e sgg.
47 Paolella afferma: «Quello che […] a me interessava presso la Incom, era che si facesse un cinegiornale, una mia idea fissa, anche perché ero veramente stato scandalizzato dall'Istituto Luce, dalla sua struttura rigidamente piramidale. Un cinegiornale giornalistico. L'incontro con il buon Pallavicini, che era ancora militare, fu abbastanza positivo. […] Comunque si convinse subito che bisognava fare un cinegiornale “giornalistico”, con tutte le regole: direttore, caporedattore, gli inviati; e che ci fosse la libertà di girare delle cose vere.», F. Faldini e G. Fofi, op. cit., p. 132.
48 Il matrimonio con Margaret Roosevelt stava probabilmente naufragando: la donna tornò in America nel 1945 e nel 1949 Pallavicini sposò, a Roma, un'altra donna, Gaea. Come abbiamo ricavato dall'articolo del «New York Times», il matrimonio con Margaret era stato celebrato con rito protestante; inoltre alla cerimonia religiosa non era seguita, per espressa volontà del padre della sposa, la cerimonia civile. Probabilmente questi fatti consentirono a Pallavicini di convolare a nuove nozze con rito cattolico. La Settimana Incom dedica al matrimonio del direttore un servizio nel numero 258 del 3 marzo 1949, dal titolo “Auguri al nostro direttore”, in cui nessun riferimento viene fatto alle precedenti nozze.
49 E.G. Laura, op. cit., p. 240.
50 Uno di questi concorsi fu “Aurora della rinascita”. Cfr. p. 55 di questa tesi.
51 Cfr. Franco Cocchi, C'erano una volta i cinegiornali italiani, in «Cinema nuovo», luglio-ottobre 1992, p. 29.
52 Cfr. Franco Cocchi, Il tempo dei cinegiornali annullato dalla televisione, in «Problemi dell'informazione», anno XVIII, n. 3, settembre 1993, p. 342.
53 Ibid., p 341.
54 Il destino dell'Istituto Luce venne discusso in una delle prime sedute del Consiglio dei ministri del governo Parri. Si decise di rifondare l'Istituto e di affidarne la gestione, in qualità di commissario straordinario, al socialista Vernocchi. Questi rimise in funzione l'attività cinegiornalistica del Luce, ribattezzato “Istituto Nazionale Luce Nuova”, con il Notiziario Nuova Luce, il cui primo numero uscì il 26 luglio 1945. La produzione fu però molto limitata: uscirono appena 22 numeri, dal luglio 1945 all'ottobre 1946. Il Notiziario aveva uno stile asciutto, antiretorico e puntava sui contenuti. Quando il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani rifondò, nel 1946, i “Nastri d'argento”, Il documentario prodotto dal Luce Nuova, La Valle di Cassino di Giovanni Paolucci, ottenne il premio per il miglior documentario. Alla Manifestazione del Cinema di Venezia dello stesso anno, il Notiziario Nuova Luce ottenne, dalla commissione internazionale dei giornalisti, la segnalazione per il miglior cinegiornale d'attualità dell'anno. Nonostante questi importanti riconoscimenti, l'Istituto venne messo in liquidazione, con il decreto legislativo n. 305 del 10 maggio 1947. Dietro le insinuazioni di continuità con il Luce fascista, si celava la volontà di agevolare la Incom, che si rivelava in maniera sempre più esplicita un utile strumento di propaganda democristiana e filoamericana. Del nastro d'argento al Notiziario Nuova Luce, la Settimana Incom dà sbrigativamente notizia nella chiusura del servizio “Nel mondo del cinema. Il nastro d'argento”, Settimana Incom n. 19, 14 agosto 1946. Un breve cenno al documentario premiato a Venezia è nel servizio “Il mondo del cinema. La Mostra di Venezia”, Settimana Incom n. 22, 6 settembre 1946.
55 «La società era piccola ma solida, finanziata da un gruppo di signori svizzero-milanesi di grande intelligenza affaristica, soprattutto i Cedraschi. E facemmo in quegli anni un cinegiornale che era l'unico mezzo audiovisivo che avessero gli italiani per vedere le cose, se si pensa che la televisione è cominciata nel '53. Io mi sono occupato della Incom dal '46 al '51, e in quei cinque anni ho fatto, credo, seicento numeri come redattore capo.», D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 132-133.
56 Nel n. 38 del 23 dicembre 1946, Pallavicini presenta i suoi collaboratori: “[…] Paolella, per chi non lo sapesse, è il redattore capo. Per lui l'avvenimento è un nastro di celluloide: dal suo ufficio, come da un posto di blocco ferroviario, egli manovra cataclismi, eruzioni, incendi, e altre piccolezze del genere, nel preciso instante in cui stanno trasformandosi in celluloide. […]”, “Parliamo un po' di noi”, La Settimana Incom n. 38, 23 dicembre 1946. Paolella fu anche sceneggiatore e regista. Negli anni '50 si dedicò soprattutto a pellicole musicali e mitologiche. Tra i suoi film più celebri, Destinazione Pievarolo, con Totò.
57 Nel sopracitato n. 38 della Settimana Incom, Guido Notari è presentato attraverso un brevissimo spezzone di film in cui figura come attore, nella parte di un uomo che suona il pianoforte, in stato di ebbrezza. Questo spezzone è lo stesso che la Incom aveva inserito nel documentario Cinque minuti con… Cinecittà del 1939, preceduto da brevi immagini del film - di propaganda coloniale - Abuna Messias. Nel servizio della Settimana Incom compaiono infatti anche le immagini del film fascista, senza, ovviamente, che ne sia citata l'origine. La voce fuori campo, che è quella dello stesso Notari, dice: “Beh! Ma cosa mi stanno combinando? Io, Guido Notari, che in questo momento vi sto parlando, non vesto affatto lo smoking, ma una giacca marrone! Io non bevo, non faccio il gagà! E Guido, Guido, non me li fare questi scherzi! Ma ecco che Gervasio [colui che metteva in musica le immagini] inverte la marcia della moviola [anche
quest'“inversione di marcia”, sulle scene di Abuna Messias, proviene dal documentario del 1939]. Quante signore e signori di nostra conoscenza vorrebbero possedere questa macchina per tornare indietro! Stop, bloccato! Beato Gervasio, che può bloccare il corso degli avvenimenti![…]”. È forse azzardato affermare che ci sia un messaggio di sapore nostalgico in questa parte del servizio, ma, considerando che la provenienza di quelle immagini poteva essere colta solo dagli autori stessi (o dai grandi estimatori del film Abuna Messias), la scena potrebbe rappresentare un “gioco” tutto interno, tra le righe di un servizio brioso e innocente. Un'altra ipotesi è che, in modo meno celato e in linea con la nuova professione di antifascismo della Incom, si facesse riferimento alla nostalgia altrui (“Quante signore e signori di nostra conoscenza […]”).
58 Per una ricostruzione dettagliata della figura di Debenedetti cfr. P. Frandini, Il teatro della memoria. Giacomo Debenedetti dalle opere e i documenti, Manni, Lecce, 2001. A questo lavoro si deve il recupero delle frammentarie notizie sulla collaborazione di Debenedetti alla Incom e il riconoscimento dell'importante ruolo che egli ebbe come unico autore dei commenti parlati.
59 Nei nn. 38 e 107, rispettivamente del 23 dicembre 1946 e del 27 dicembre 1947, che concludono gli anni 1946 e 1947, viene presentata la redazione del cinegiornale, ma Debenedetti non è citato.
60 La Frandini, in Giacomo Debenedetti e la «Settimana Incom» (in «Strumenti critici», a. XXII, n. 2, maggio 2007), tende ad evidenziare i riferimenti “colti” presenti nei testi dei servizi Incom, non solo come palese firma dell'intellettuale, ma anche come espressione degli spazi di autonomia che egli era in grado di ritagliarsi. Se consideriamo poi la politica del Pci di Togliatti nei primi due anni del dopoguerra, tesa a mantenere in piedi l'alleanza con la Dc, obiettivo al quale i comunisti sacrificarono più di una battaglia, il ruolo di Debenedetti all'interno della Incom risulta meno incomprensibile.
61 D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 132.
62 I testi dattiloscritti, che abbiamo inserito in appendice, evidenziano il controllo operato, presumibilmente, da Pallavicini e le correzioni apposte a mano. In alcune note rivolte a Debenedetti compare il suo nome: nel testo dattiloscritto relativo al n. 173 del 22 luglio 1948, sulla campagna elettorale americana, troviamo un appunto in cui l'autore dei testi viene caldamente invitato a correggere il tiro (“Niente spirito Giacomo, per favore… Spiegare il duello fra i due e essere chiaro. Solo una spiritosaggine finale.”). Nel n. 339 troviamo un riferimento ancora più esplicito: “Il signor Debenedetti, nel redigere il commento parlato, è pregato di mettere in evidenza […]”.
63 P. Frandini, Il teatro della memoria, op. cit., p. 233.
64 Ogni numero è costituito da 6-7 servizi, la cui durata è compresa tra i 40 secondi e i due minuti (salvo notizie di particolare rilievo, che occupano un tempo maggiore). Alcuni eventi “cruciali”, come le elezioni, impegnano l'intero numero.
65 “[…] Primatista tra i divoratori di scatolame [scatole di pellicole sugli avvenimenti ripresi] Borracetti: ogni giorno riceve a chilometri il mondo in scatola, e lo passa al capo cronista Cancellieri, martire delle forbici e del telefono [possibile riferimento alla censura] L'ignaro passante domanda atterrito: «Cos'è, una caserma dei pompieri? [i cronisti escono dalla sede Incom e si infilano veloci nelle auto]», «No!», riponde Giovanni, l'olimpico usciere, «Ma sta succedendo un avvenimento, signore». D'improvviso, un colpo di silenzio [uomo alla moviola]. Eppure è proprio qui che nasce il suono: Gervasio è il maestro che mette in musica le notizie […]”, “Parliamo un po' di noi”, La Settimana Incom n. 38, 23 dicembre 1946.
66 In ogni regione era presente una troupe, formata da regista, operatore, aiuto operatore e organizzatore. Nella capitale le troupe a disposizione erano addirittura cinque.
67 La Presidenza del Consiglio, che aveva la necessità di fornire anche all'estero un immagine positiva dell'Italia nel pieno fermento della ricostruzione, commissionò alla Incom alcuni numeri destinati all'esportazione.
68 D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 133.
69 Fin dal 1948, la Settimana Incom godette di una distribuzione capillare, che, grazie a un accordo che riduceva il prezzo del noleggio, portava il cinegiornale anche nei cinema di bassa categoria. Le attualità di Pallavicini erano maggiormente diffuse al nord e in particolare in Emilia Romagna e Piemonte.
70 Alla morte di Guglielmone la Incom dedicò un lungo servizio celebrativo: “L'ultimo viaggio terreno del senatore Guglielmone”, La Settimana Incom n. 1732, 28 gennaio 1959. La Incom cita Guglielmone in 87 servizi dal 1946, quando egli era Presidente della Commissione economica del Cln, al 1960 in occasione del primo anniversario della morte.
71 D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 133. I legami politici e finanziari della Incom erano noti: quando, nel 1950, si discusse al senato della possibilità o meno di consentire all'Istituto Luce di produrre nuovamente cinegiornali (dopo la sua messa in liquidazione nel 1947), arrivò puntuale la denuncia del parlamentare Menotti, nella seduta del 21 novembre: «La Incom è nelle mani di un gruppo finanziario e bisogna dire che questa Incom presenta gli spettatori una produzione deteriore e, quel che è peggio ancora, una produzione volutamente tendenziosa, di propaganda politica di parte».
72 G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano 1945-1980, Editori Riuniti, Roma, 1982, pp. 47-48.
73 «La Incom finì perché, in Italia, tutto diventa presto senile; perché le persone che l'hanno fatta a un certo punto l'hanno abbandonata.», D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 133. L'ultimo numero della Settimana Incom è il 2554 del 1° marzo 1965.
74 F. Monteleone, Dalla pellicola alla telecamera: l'informazione per immagini tra stereotipo sociale e controllo politico, in A. Sainati (a cura di), op. cit., p. 126.
Giulia Mazzarelli, L'Italia del secondo dopoguerra attraverso i cinegiornali della "Settimana Incom" (1946-1948), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2011

sabato 16 luglio 2022

Ma le due riunioni non permisero l'approvazione del piano politico presentato dai comunisti

Milano: tra Corso Sempione ed Arco della Pace

Tornato a Bologna informai Roasio, e insieme ci recammo a Milano per esaminare la situazione e portare le notizie raccolte a Padova.
Il 10 giugno [1943] si avvicinava, senza che potesse prendere corpo il vago disegno di utilizzare l'anniversario della entrata in guerra dell'Italia e della uccisione dli Giacomo Matteotti, per scatenare uno sciopero generale politico con manifestazioni di strada e pronunciamenti anche di reparti dell'esercito. Un manifesto, firmato PCI e PSI, chiamava i lavoratori ad azioni dimostrative: due minuti di silenzio al fischio della sirena delle ore 10 del mattino, non comprare i giornali, non uscire la sera dopo le 20,30. Ma non mi risulta quale diffusione tale manifesto abbia effettivamente avuto. In Emilia non credo che sia arrivato. Comunque l'invito non fu raccolto. In realtà mancavano le premesse politiche e organizzative di una tale iniziativa. I socialisti e gli azionisti opponevano la pregiudiziale repubblicana a una intesa unitaria con le forze liberali e cattoliche. Questi, attraverso i loro esponenti più autorevoli, erano sempre fermi su posizioni attesiste. La liquidazione della guerra spettava alla monarchia che l'aveva dichiarata. Il prezzo della sconfitta sarebbe stato durissimo, essi affermavano, e non conveniva che i partiti antifascisti dovessero assumersi questa responsabilità. Quindi, secondo la destra, bisognava limitarsi a promuovere l'intervento del re. Si sapeva che tentativi in questo senso, per ottenere questo intervento, erano già stati compiuti a Roma, da parte del gruppo di Bonomi e di certi ambienti militari, ma il re non si era impegnato o compromesso con affermazioni precise. Così era impossibile preparare, come avremmo voluto, un manifesto unitario di tutte le opposizioni per il 10 giugno. E del resto, anche se ci fosse stato l'accordo politico, mancavano le basi organizzative per tradurlo in azione. Dove stampare l'appello e in quanti esemplari diffonderlo? Ancora una volta si faceva sentire la sproporzione tra le necessità e le possibilità del momento e il grave ritardo organizzativo.
La venuta di Marchesi a Milano ci obbligò come centro interno a esaminare la situazione e a prendere delle decisioni. Negarville ed io fummo incaricati di avere con Marchesi un incontro, che si svolse nella sede della casa editrice Principato in corso Sempione. Convincemmo Marchesi a partire per Roma, dove avrebbe dovuto prendere contatto con i senatori Casati e Bergamini. Egli aveva già visto Casati a Milano, nella stessa sede della casa Principato. A Roma egli doveva insistere perché le pressioni sul re aumentassero in modo da ottenere al più presto un intervento per liquidare il governo fascista, con l'arresto di Mussolini e degli altri gerarchi, e promuovere la formazione di un governo di coalizione antifascista presieduto da Bonomi. I comunisti avrebbero dato il loro appoggio a tale iniziativa ed erano pronti anche a partecipare ad un governo di unità nazionale. Marchesi andò a Roma, prese contatto con i senatori Casati e Bergamini e assunse in questi colloqui le posizioni convenute con noi. Questo viaggio deve avere avuto luogo, secondo i miei ricordi, ai primi di giugno. Al ritorno a Milano ci riferì che la sua missione aveva suscitato una grande impressione. A Roma si parlava anche di un intervento dell'esercito e si facevano i nomi di Badoglio, Caviglia, Ambrosio.
Il mese di giugno passò in affannosi preparativi. Contemporaneamente, su tre piani diversi, si muovevano le iniziative per tentare di uscire dalla guerra.
In seno al partito fascista si andava raccogliendo quella che sarebbe stata la maggioranza del 24 luglio al Gran Consiglio. Era ancora presente l'illusione che, accantonando Mussolini, magari col suo consenso, sarebbe stato possibile agli stessi gerarchi fascisti trattare con gli inglesi e con gli americani il rovesciamento della alleanza. Il compromesso raggiunto da Churchill e Roosevelt con Darlan, nell'Africa del nord, costituiva un esempio, al quale gruppi di dirigenti fascisti si richiamavano. In verità, questa soluzione appariva sempre più irrealizzabile di fronte agli sviluppi de!le operazioni militari, e alle stesse reazioni politiche provocate dal compromesso fatto con Darlan. Comunque i gerarchi marciavano su questa linea, pensando di poter godere dell'appoggio del re e di certi collegamenti politici e finanziari mantenuti su scala internazionale.
Il re, muovendosi con estrema prudenza e senza mai compromettersi, teneva i contatti con tutti. Manifestava sempre a Mussolini la sua fiducia. Lasciava credere a Grandi di poter raccogliere la successione di Mussolini. Aveva ricevuto esponenti liberali, Bonomi e Orlando, ma soprattutto si orientava per la formazione di un governo di militari e di tecnici, contando sull'intervento all'ultima ora dell'esercito e della polizia.
Per evitare una successione fascista (Grandi), o una soluzione militare, bisognava che le forze antifasciste sapessero e potessero prendere in tempo una loro iniziativa politica e promuovere un intervento delle masse popolari.
Dopo il viaggio di Marchesi a Roma si arrivò, non senza ulteriori difficoltà, alla convocazione a Milano di una riunione con i rappresentanti dei partiti antifascisti. Questa si tenne il 24 giugno in corso Sempione presso l'editore Principato. Facemmo un ultimo pressante tentativo perché alla riunione andasse uno di noi due, o Negarville o io. Ma non ci fu modo di vincere la forza delle obiezioni di carattere cospirativo. Così, alla mattina del 24 noi due ci incontrammo con Marchesi, con il quale concordammo la scaletta del suo intervento e il programma di azione che doveva esporre ai rappresentanti degli altri partiti antifascisti. Alla riunione parteciparono: Casati per il PLI (allora Ricostruzione Liberale), Gronchi per la DC, Lombardi per il Partito d'azione, Basso per il MUP, Veratti per il PSI e Marchesi per il PCI. Marchesi espose, a nome del partito, il seguente piano di azione:
a) costituire un fronte nazionale, con un comitato direttivo a cui fosse affidata la direzione di tutto il movimento popolare;
b) lanciare un manifesto al paese per sollecitare l'azione insurrezionale;
c) organizzare un grande sciopero generale con manifestazioni di strada;
d) fare intervenire l'esercito a sostegno del popolo contro il governo fascista;
e) determinare, sulla base di questo movimento insurrezionale di popolo e di esercito, un intervento della monarchia, l'arresto di Mussolini e la formazione di un governo democratico che rompesse immediatamente il patto di alleanza con la Germania, concludesse un armistizio con gli alleati e ristabilisse le libertà democratiche. Questo governo doveva essere composto dai rappresentanti di tutti i partiti antifascisti, compresi i comunisti.
Ho preso l'elenco delle proposte comuniste, per non essere tratto in inganno dai ricordi, dal testo della relazione presentata al V Congresso del partito, del gennaio 1946. Il secondo capitolo, che riporta questo testo, «Dal 25 luglio all'occupazione tedesca», fu redatto personalmente da me; e allora, a poco più di due anni, i ricordi erano ancora freschi. Nessuno, del resto, ha mai smentito questa parte della relazione.
Le proposte di Marchesi suscitarono una viva discussione. I due elementi che caratterizzavano il piano politico presentato dai comunisti erano, contemporaneamente, l'appello al popolo, per una sua azione diretta, e la preparazione concreta di questa azione, e, d'altro lato, l'appoggio a un intervento del re che, premuto dall'iniziativa popolare, incalzato dal precipitare degli eventi militari, sarebbe stato obbligato a prendere un'iniziativa per formare un governo di unità nazionale, incaricato di fare l'armistizio, e di preparare la resistenza alle prevedibili reazioni tedesche.
Una seconda riunione si svolse il 4 luglio in via Poerio. Vi erano gli stessi partecipanti, con l'eccezione della DC, che mandò Mentasti al posto di Gronchi, e del PLI, che mandò Leone Cattani al posto di Casati. Ma le due riunioni non permisero l'approvazione del piano politico presentato dai comunisti. Marchesi si urtò sempre contro le stesse obiezioni. Socialisti e azionisti non vollero rinunziare alla pregiudiziale repubblicana (anche se si doveva fare una distinzione tra la posizione rigidamente attesista assunta da Basso del MUP, e quella più duttile presa da Veratti del PSI), e democratici cristiani e liberali al loro proclamato attesismo.
Invano si cercò, con colloqui separati, di persuadere le sinistre socialista e azionista che da soli non ce la facevamo a intervenire dal basso nelle prossime settimane, in tempo utile per condizionare lo sviluppo degli avvenimenti. E invano si cercò di convincere le destre, democratici cristiani e liberali, che rinunciare a premere apertamente sul re, anche con manifestazioni dal basso, significava lasciargli le mani libere per organizzare il colpo di Stato come avrebbe voluto, giungere a un governo di militari e di tecnici, ed essere tagliati via dalla partecipazione alle trattative per la conclusione dell'armistizio. Meglio così, rispondevano i liberali e i democratici cristiani, così non ci assumeremo delle responsabilità molto gravi che non ci spettano. Ma noi siamo interessati, incalzavamo, perché le trattative per l'armistizio procedano in un certo modo e giungano a determinati risultati, in modo da permettere all'Italia di partecipare alla guerra contro la Germania, guerra che non sarà evitabile perché i tedeschi cercheranno in ogni modo di mantenere il controllo del paese.
Le discussioni erano rese più difficili dall'orientamento personale di Marchesi, che tracciava una netta delimitazione tra le proposte che egli faceva a nome del partito e che riguardavano l'attualità, e le considerazioni che a titolo individuale faceva sugli sviluppi dell'azione comunista, da lui presentata come tutta orientata alla presa del potere con la violenza. Quando, dopo la prima riunione, Marchesi ci fece la relazione sull'andamento della discussione, fu candidamente sorpreso dalla nostra reazione critica. Perché non dovevo dire queste cose? Non riuscimmo a persuaderlo che non si trattava di non dire «queste cose», di nasconderle diplomaticamente, ma di non pensarle, perché esse erano fuori della prospettiva strategica del PCI, che era quella di avanzare al socialismo per una via di democrazia progressiva.
La «doppiezza», di cui tanto si è poi parlato nelle discussioni suscitate dal XX Congresso, non è stata una invenzione tattica di Togliatti, ma il risultato della sovrapposizione, non criticamente meditata, della linea di unità nazionale elaborata dall'Internazionale comunista a partire dal VII Congresso sulla vecchia visione di un'azione diretta per l'instaurazione della dittatura del proletariato. Il fatto che il PCI si andasse ricostituendo e riorganizzando con militanti restati per anni tagliati via dalle esperienze di elaborazione del centro del partito e dell'Internazionale comunista faceva sì che in questi compagni le due linee, la vecchia e la nuova, coesistessero, si intrecciassero, si confondessero in un rapporto variabile da compagno a compagno, secondo la diversa formazione culturale e le diverse esperienze (emigrazione, carcere, attività illegale all'interno o, addirittura, prolungata forzata inattività). La lotta per affermare coerentemente la linea politica della direzione assumeva una crescente importanza. Ma l'urgenza dei tempi ci diceva che questa lotta doveva essere condotca essenzialmente nella pratica esperienza della battaglia politica, ponendo concretamente i militanti e le organizzazioni di fronte alla necessità di attuare i compiti indicati dalla direzione e corrispondenti alla gravità della situazione in cui si trovava il paese.
La discussione con gli altri partiti era resa anche più difficile dalla necessità di osservare le norme cospirative. Gli arresti di compagni e degli altri militanti antifascisti continuavano, e ciò ci ricordava la esigenza della cautela, anche se l'urgenza dei tempi esigeva una maggiore scioltezza di movimenti. In fondo, malgrado le nostre impazienze, dovevamo riconoscere che Francesco aveva ragione di essere severo e puntiglioso nell'esigere il rispetto di certe elementari norme cospirative.
Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, 1973, pagg. 105-109

giovedì 23 giugno 2022

Dall’ambasciata statunitense capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni»


Il rapporto Italia-Stati Uniti sulla crisi del ’60 è stato in gran parte trascurato dalla storiografia <85, tuttavia il comportamento di Tambroni, che tentò di rilanciare il condizionamento del conflitto bipolare sulla politica italiana, <86 impone un’attenzione ben maggiore. L’incarico, come ha ricordato Nuti, non fu accolto dall’ambasciata con particolare soddisfazione, soprattutto per la vicinanza di Tambroni a Gronchi <87. «Nel breve periodo - ha scritto Zellerbach - non c’era motivo di preoccuparsi, visto che la cooperazione con gli Usa e con la Nato non sarà molto diversa da quella di Segni». Addirittura le prospettive sulla politica estera italiana venivano definite «eccellenti». Tuttavia la scelta non era giudicata «una soluzione felice». Tra i maggiori pericoli legati al nuovo esecutivo c’erano la possibilità di altre «scorribande» neutraliste in politica estera e l’opportunismo del nuovo capo del Governo. Nello stesso tempo la solidarietà di Gronchi, a cui erano legati il futuro e la stabilità del governo, era tutt’altro che assicurata. <88 A fronte della nuova maggioranza, furono immediate le dimissioni dei ministri della sinistra democristiana Bo, Sullo e Pastore. Poi seguì un tentativo - fallito - di Fanfani, che rispecchiava lo stato di confusione in cui versava la Dc, più volte rilevata dagli osservatori statunitensi. Alla fine di aprile Gronchi invitò Tambroni a completare la procedura e presentarsi al Senato. La direzione Dc approvava e l’ampia maggioranza democristiana confermava il nuovo, tormentato governo. Commentando l’investitura, i funzionari di via Veneto non erano in grado di stimare le probabilità che l’esecutivo arrivasse all’estate. Il presidente del Consiglio, in una formula efficace e sintetica, veniva descritto come un uomo «temuto da molti, ma di cui nessuno si fidava». Tambroni, da par suo, considerava il plauso americano un fattore non secondario per la durata del suo governo. Fu Francesco Cosentino - segretario generale della Camera e consigliere legale di Gronchi - a “sponsorizzare” il governo, ma dall’ambasciata capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni».
[...] In varie città italiane salirono la tensione e il nervosismo <104. I comizi missini nelle città di Reggio Emilia, Parma e Messina furono impediti <105. A Bologna, invece, era stato il discorso di Pajetta, pronunciato in piazza Malpighi il 21 maggio, a provocare l’intervento della polizia <106. Gli scontri durarono quaranta minuti provocando numerosi feriti, tra cui Giovanni Bottonelli, deputato del Pci, che riportò gravi ferite <107.
L’episodio, secondo quanto annotava un funzionario del consolato, rifletteva ancora una volta la «prontezza comunista nello sfruttare gli scontri con le pubbliche autorità» <108. Era questo uno dei tratti maggiormente sottolineati dalle relazioni americane. In più, il giudizio sul partito era a dir poco lapidario. Il Pci non era più in grado di «cavalcare le agitazioni e la propaganda come faceva una volta». La sede dei disordini non poteva che dare credito all’intuizione. Dopotutto, si era trattato di uno scontro in una roccaforte del Pci dove un deputato comunista era stato arrestato e ferito. «Qualche anno fa - ha scritto il segretario d’ambasciata Lister - avremmo assistito a dimostrazioni di massa, scioperi e altre azioni contro il governo in tutta Italia» <109.
Altrettanto attivo era il partito neofascista, galvanizzato dall’appoggio esterno al governo. Il Msi aveva indetto il VI congresso nazionale a Genova, dal 2 al 4 luglio. In quell’occasione, avrebbe dovuto dichiarare fedeltà al metodo democratico e alla Costituzione, anche se la Carta non sarebbe stata accettata come documento intoccabile.
Com’è noto, la scelta di Genova, peraltro conosciuta da tempo <110, fu un’opzione poco felice.
Molti esponenti missini, negli anni successivi, avrebbero fatto autocritica sia sull’effettiva maturità del partito che sulla scelta della sede <111. A suscitare la protesta del fronte antifascista furono soprattutto due elementi. L’oltraggio di un congresso neofascista in una città medaglia d’oro della Resistenza e la presenza - più vociferata che accertata - dell’ex prefetto della città ai tempi di Salò, Carlo Emanuele Basile. Secondo alcuni avrebbe addirittura dovuto presiedere i lavori. Il nome di Basile bastava ad evocare lo spettro dei non lontani massacri di guerra, rendendo l’affronto missino insostenibile.
Sulla scelta di Genova e sulle voci che riguardavano Basile, però, rimangono forti perplessità. Il 15 maggio, quando vennero resi noti i giorni e la sede del congresso le reazioni furono piuttosto blande <112. Genova, inoltre, non era la prima città fortemente legata alla Resistenza in cui il Msi convocava il suo raduno nazionale. Quattro anni prima la sede prescelta era stata Milano. In più, dal 1956, la giunta comunale della città ligure era appoggiata dai voti missini. Certamente Genova era «più contaminata dal Msi con il voto determinante del governo cittadino che con un congresso di tre giorni» <113.
[...] Veniamo ai fatti. Una prima grande mobilitazione contro il Msi ebbe luogo il 25 giugno. Protagonisti - ed è una costante delle proteste anti-tambroniane - furono i movimenti giovanili dei partiti antifascisti e di altre associazioni <121. Il 28 giugno, poi, venne indetto un comizio in piazza della Vittoria a Genova, che si svolse senza problemi.
Per il 30, la Camera del Lavoro proclamava uno sciopero generale con una manifestazione autorizzata dal prefetto. Quel giorno, una volta giunti in via XX settembre al monumento ai partigiani caduti, i manifestanti andavano in piazza della Vittoria, dove avrebbe dovuto terminare il tutto. Qui, la processione tornò indietro al sacrario, con in testa comunisti e socialisti. Poi il grosso della folla si fermava in Piazza De Ferrari, dove cominciava la battaglia.
Gli ordini alla polizia e ai carabinieri e le misure che poteva aver indicato lo stesso Tambroni sono tuttora un punto oscuro. Per Baget Bozzo la polizia «non reagisce». <122 Citando i rapporti dei carabinieri, Garibaldi ha posto l’accento sul fatto che la polizia avesse le armi scariche, e fu maggiormente presa di mira dai manifestanti, che ne erano a conoscenza <123. Il tenente colonnello Gaetano Genco ha scritto che il comportamento della polizia fu molto diverso da quello dei carabinieri. Questi, infatti, non fecero uso delle armi «nemmeno a scopo intimidatorio» ed ebbero solo cinque feriti. E avrebbero addirittura fraternizzato con i manifestanti <124.
Secondo Adalberto Baldoni, l’unica spiegazione per l’atteggiamento così poco collaborativo dei carabinieri, risiederebbe in una «garanzia militare sull’apertura a sinistra». Tale strategia sarebbe stata ispirata dalla coppia Moro-De Lorenzo e dagli Stati Uniti. A Roma, Reggio Emilia e in Sicilia, sempre secondo Baldoni, si doveva esasperare lo scontro e i carabinieri parteciparono attivamente. Tuttavia, non è azzardato nutrire qualche dubbio sulle fonti utilizzate per avvalorare l’ipotesi del coinvolgimento statunitense nella vicenda <125.
Murgia e Del Boca hanno scritto invece di una polizia «in completo assetto da guerra» pronta a scagliarsi sulla folla, senza menzionare i comportamenti delle altre forze dell’ordine <126. Più equilibrate le posizioni di alcune opere di sintesi sulla storia della prima Repubblica, in cui emerge con una certa continuità la sorpresa degli agenti, almeno in un primo momento <127. Tale sorpresa, poi, era dovuta non tanto alla scarsa prevenzione delle autorità locali, quanto alla sottovalutazione delle autorità centrali, che non diedero il «dovuto peso» alle informazioni provenienti da Genova.
Non si negava, infine, «qualche sintomo di nervosismo» tra gli organi di polizia <128.
L’ambasciatore Zellerbach considerò le proteste «in buona parte giustificate». E definì «stupido» il prefetto Pianese per aver concesso l’autorizzazione ai missini <129. Comprensibilmente, però, prese corpo l’ipotesi di una maggiore irrequietezza della piazza rispetto alle forze dell’ordine, che, non a caso, subirono i danni maggiori <130.
[NOTE]
85 Se ne sono in parte occupati solo Nuti e Gentiloni Silveri, si vedano L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 285-299; U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centro-sinistra 1958-1965, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 49-58.
86 Si veda G. Formigoni, A. Guiso (a cura di), Tambroni e la crisi del 1960, cit., p. 368. Significativo è il fatto che Murgia, citando un editoriale del «New York Times», scrive che «sembra uscito dall’ufficio stampa di Tambroni», si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 139. Sfogliando «L’Unità» e «Il Secolo d’Italia» del luglio 1960 si trova una selezione degli editoriali di molti quotidiani stranieri. Naturalmente la stampa internazionale veniva usata per avvalorare la tesi dell’aggressione da parte delle forze dell’ordine o della provocazione di piazza. Era comunque indicativo dell’attenzione rivolta a quanto scrivevano all’estero per comprovare le proprie idee.
87 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
88 Si veda L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 288-289.
104 Sul generale inasprimento delle autorità pubbliche nei confronti dell’opposizione di sinistra si veda P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., pp. 365-367.
105 G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia, cit., p. 138. Per le reazioni sulla stampa missina si veda Preordinate provocazioni dei socialcomunisti a Parma, «Il Secolo d’Italia», 1 maggio 1960.
106 A. Barbato, Da Bologna il primo squillo di tromba, «L’Espresso», 29 maggio 1960, p. 6. Si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 62.
107 Si veda G. Fanti, G.C. Ferri, Cronache dall’Emilia rossa: l’impossibile riformismo del Pci, Pendragon, Bologna, 2001, pp. 67-68.
108 Police breakup of Bologna communist meeting arouses strong reaction, M. Cootes (American Consul General) to the Department of State, May 30, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/5-3060.
109 Communists provoke incidents in Chamber June 1 over clash with police in Bologna, G. Lister (First Secretary of Embassy) to the Department of State, June 10, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-1060. Tuttavia, proprio in relazione ai fatti di Bologna, il parlamentare democristiano Elkan parlò di una grande quantità di armi detenute nelle case di alcuni arrestati o in luoghi vicini. Erano tutti esponenti del Pci e le armi facevano parte, secondo Elkan, di «oscuri e gravi ricordi di guerra civile», si veda AP, CdD, III Legislatura, Discussioni, Seduta del 1° giugno 1960, p. 14423.
110 «L’autorizzazione era stata data da tempo, addirittura da Segni come ministro degli Interni del suo governo», si veda L. Radi, Tambroni trent’anni dopo, cit., p. 105. La notizia del congresso apparve sul quotidiano neofascista a metà maggio, si veda In difesa dello Stato e della nazione insostituibile la funzione del Msi, «Il Secolo d’Italia», 15 maggio 1960. La mozione congressuale fu pubblicata, sempre sul quotidiano neofascista, il 3 giugno.
111 A. Baldoni, La destra in Italia, cit., p. 553; Servello ha scritto di un partito «completamente impreparato», della «sottovalutazione delle capacità di mobilitazione delle sinistre» e della «sopravvalutazione della capacità del governo Tambroni di gestire la situazione». I tempi, comunque, non erano ancora giudicati maturi, F. Servello, 60 anni in fiamma. Dal Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006, pp. 63-68. Sull’autocritica di Almirante si veda A. Pitamitz (a cura di), Tre protagonisti 25 anni dopo, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 47. Particolarmente netto e amaro fu il giudizio di Anfuso, che nel 1962 arrivò a dire che il Msi avrebbe potuto anche sparire, se la Dc si fosse sforzata di comprendere le intenzioni del partito neofascista, A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 202. La questione delle intenzioni missine è peraltro molto dibattuta. Ne «Il Secolo d’Italia» del 30 giugno ’60 si legge «il Msi rappresenta dunque, e assume apertamente di voler rappresentare, la continuazione del Fascismo». Tarchi ha ricordato la «classica connotazione bicefala del Msi», alla luce della quale l’obiettivo ultimo restava la costruzione di «un regime destinato a richiamare - sia pure in forme che nessuno avrebbe saputo indicare con precisione - quello mussoliniano», M. Tarchi, Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Intervista di A. Carioti, Rizzoli, Milano, 1995, p. 66
112 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 39-41; F.M. Solo la Dc a Genova non protesta contro il congresso dei neofascisti, «L’Unità», 11 giugno 1960; Per le reazioni missine si veda La farsa rossa dell’indignazione popolare contro il Congresso nazionale del Msi a Genova, «Il Secolo d’Italia», 11 giugno 1960. Il console Joyce rimase colpito dalla durezza della campagna che poi iniziò. A tal proposito citò un manifesto con la scritta: «Msi uguale fascismo, fascismo uguale nazismo, nazismo uguale camere a gas», Growing opposition to planned Msi convention in Genoa, R. Joyce (American Consul General, Genoa) to the Department of State, June 27, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-2760.
113 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., pp. 287-288. Pombeni ha scritto che lo «scandalo» per il congresso a Genova «era credibile fino a un certo punto», P. Pombeni, L’eredità degli anni Sessanta, in F. Lussana, G. Marramao (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 46. Secondo Cooke le difficoltà sul nascere del governo Tambroni si erano subito riversate a livello locale. Genova fu una delle prime città in cui i missini votarono contro importanti provvedimenti, provocando così la crisi della giunta, si veda P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 26-27.
121 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
122 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, p. 288; P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., pp. 76-77.
123 Il rapporto è il n. 113 del 30 giugno 1960, L. Garibaldi, Due verità per una rivolta, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 49.
124 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 85-88.
125 A. Baldoni, Due volte Genova, cit., pp. 97-104. L’ipotesi del coinvolgimento dei carabinieri - voluto da Moro - nella caduta di Tambroni non pare priva di fondamento. Ma sembra ragionevole, stando a quanto reperito negli archivi statunitensi e alle più recenti indagini storiografiche, non dare credito a dietrologie un po’ azzardate. In particolare l’autore pone all’origine dell’accordo Sifar-Cia contro Tambroni il piano Demagnetize, in realtà esauritosi nel ’53 senza risultati apprezzabili, si veda M. Del Pero, Gli Stati Uniti e la «guerra psicologica» in Italia (1948-56), «Studi Storici», a. XXXIX, n. 4, ottobre-dicembre 1998, pp. 961-974. In più Baldoni si rifà a opere giornalistiche (R. Trionfera, Sifar Affair, Reporter, Roma, 1968 e R. Faenza, Il malaffare, Mondadori, Milano, 1978) smentite da successivi lavori scientifici.
126 A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”, cit., pp. 200-201; P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., pp. 81-82.
127 «La violenza dei dimostranti, diversi dei quali erano armati, fu tale che le forze di polizia si trovarono a mal partito e lamentarono diverse perdite in uomini feriti e materiale distrutto», G. Mammarella, L’Italia contemporanea, cit., p. 260.
128 File with subject file copy of Genoa’s D-2 (in italiano), July 11, 1960, RG 84, Italy, US Consulate, Genoa, Box 3, f.300/500 Polit/Econ reporting 1960. Nello stesso documento si parla di azioni condotte con molta decisione, forse perché «era stata diffusa la voce che da parte delle forze dell’ordine non si sarebbe fatto uso di armi». Sui timori dei poliziotti si veda S. Medici, Vite di poliziotti, Einaudi, Torino, 1979, pp. 55-57.
129 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 295.
130 L. Garibaldi, Due verità per una rivolta, cit., p. 50. Si veda «Il Secolo XIX», 1 luglio 1960, articolo molto ricco citato interamente in P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 91-95; Sul trattamento riservato ad alcuni agenti, in particolare sul tentativo di annegamento e sull’utilizzo di uncini si vedano G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 288; L. Fazi, Un comando rosso ha diretto l’insurrezione, «Il Secolo d’Italia», 2 luglio 1960.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009/2010

domenica 30 gennaio 2022

Tutti uniti attorno al democristiano dissidente Silvio Milazzo


Proprio in occasione dell’inaugurazione del nuovo Palazzo di Giustizia di Palermo, il 2 marzo 1958, Giuseppe Togni, ministro dei Lavori pubblici, teneva così un comizio, dal tema "La Democrazia cristiana risponde ai suoi avversari", dove precisava che, in merito al risanamento dei quattro mandamenti, presto sarebbero stati stanziati 10 miliardi da parte del governo e 10 dalla Regione. Le sue dichiarazioni servivano, in primo luogo, ad attenuare l’impressione sconfortante suscitata dal fallimento della Legge speciale e, in vista delle elezioni politiche, più che altro ad avere un effetto psicologico sulla cittadinanza. <190
L’inizio della campagna elettorale richiedeva la mobilitazione di tutti gli iscritti della DC. Dalla caduta di De Gasperi, infatti, cinque anni difficili avevano caratterizzato la legislatura, a causa delle ripetute crisi di governo, dell’instabilità e dell’incertezza della situazione parlamentare. <191 Un decreto del presidente della Regione, in Sicilia, apriva la campagna suscitando però non poche perplessità: l’ex sindaco Cusenza, un otorinolaringoiatra, veniva nominato alla presidenza della Sicilcassa in sostituzione di Restivo, dimesso perché candidato alla Camera. <192 Era il frutto di un evidente compromesso elettorale, perché la designazione del suocero di Gioia arrivava da Piazza del Gesù come merce di scambio, visto che anche il segretario provinciale si apprestava a candidarsi. A nulla valevano le proteste dei comunisti, che per salvare il nome dell’istituto chiedevano all’ARS l’annullamento della nomina. <193 In attuazione delle norme stabilite dal Consiglio nazionale DC sui candidati al Parlamento, dopo cinque anni Gioia si dimetteva pertanto dalla Segreteria palermitana per far posto a Giuseppe Lo Forte. <194 Nel frattempo non si placavano gli attacchi contro Lima, ritenuto responsabile di aver tenuto vacanti duemila alloggi popolari, negandoli a chi ne aveva diritto, per prometterli in cambio del voto. <195 Il PCI protestava anche per l’invadenza della Chiesa. Nella dichiarazione della CEI, che aveva ribadito la necessità dell’unità dei cattolici per costruire «un argine valido ai gravissimi pericoli» che gravavano sul Paese, rilevava infatti una minaccia alla laicità dello Stato. Nel timore che le elezioni venissero trasformate in una sorta di censimento religioso, contro l’intromissione dei vescovi protestavano pure Il Mondo, che parlava di «assalto allo Stato» da parte dei ministri del culto, e L’Espresso, che indirizzava al presidente della Repubblica una lettera aperta di protesta. <196
Già incandescente, la situazione precipitava in occasione della celebrazione dei dodici anni dell’Autonomia, il 15 maggio 1958, quando Fanfani teneva un comizio a Palermo. La scelta dell’oratore scatenava le polemiche perché il segretario della DC era ritenuto il principale responsabile degli ostacoli che da Roma si erano frapposti alla Legge speciale. Il senso di fastidio era avvertibile già alla vigilia, perché Lima aveva fatto allestire una grande parata con i preparativi durati più di una settimana. Di proporzioni gigantesche, il palco era stato addobbato con metri di stoffa e velluti, e lungo l’impalcatura correva un impianto d’illuminazione a formare a grandi lettere il nome di Fanfani. Il tutto era stato preceduto dalla distribuzione di quintali di manifestini, alcuni dei quali lanciati da un aereo appositamente noleggiato dalla Segreteria provinciale. Accolto da tale contesto celebrativo, quando iniziava il suo discorso Fanfani non si aspettava dunque di essere contestato: nel momento in cui invitava gli ascoltatori a ringraziare la DC, infatti, alcuni militanti comunisti confusi tra la folla iniziavano a fischiarlo, finché, persa la calma, il segretario invitava il questore a ristabilire l’ordine accusandolo platealmente di avere la «spina dorsale di pastafrolla». Chiudeva il suo discorso maledicendo tutti coloro che il 25 maggio non avrebbero votato per la DC. Le critiche, verso un tale atteggiamento autoritario, erano unanimi: "il Giornale di Sicilia" lanciava comunque un appello perché la libertà di dissenso non degenerasse in provocazione e sopraffazione. <197 Poco dopo Domenico Modugno, noto simpatizzante socialista, citava tuttavia in giudizio la DC, perché, invitando a "votare…sì, sì / votare… per la DC", aveva sfruttato senza autorizzazione la sua celebre "Nel blu dipinto di blu". <198
Alle elezioni la DC guidava l’area centrista alla maggioranza assoluta dei voti. Rispetto al 1953 recuperava il 2,2% alla Camera e l’1,3% al Senato, guadagnando dieci seggi in entrambi i rami del Parlamento. Smentendo le previsioni della vigilia, che sull’onda della rivoluzione ungherese del 1956 ritenevano probabile un crollo dei comunisti, anche il PCI e il PSI aumentavano i consensi. L’incremento dei liberali era più contenuto rispetto alle previsioni, mentre il PSDI e il PRI mantenevano invariate le posizioni. Soltanto le destre subivano pertanto un arretramento, sia il MSI che i monarchici, che oltretutto si erano presentati divisi in due movimenti (PNM e PMP). <199 I dati nazionali venivano confermati a Palermo, dove la DC guadagnava 31mila voti danneggiando le destre - 18mila in meno al PNM e 13mila al MSI - mentre i due partiti di sinistra ne guadagnavano 16mila. Gioia veniva eletto alla Camera con 82.492 voti, quarto nella lista democristiana dopo Mattarella (120.392), Restivo (102.550) e Aldisio (89.310). Con 47mila voti, veniva eletto anche Barbaccia. <200
Il giorno prima del voto, improvvisamente, era venuto a mancare Luciano Maugeri, il sindaco settantenne. Secondo il PCI, la scelta del nuovo primo cittadino avrebbe pertanto dovuto tenere conto dei risultati elettorali. Scongiurando le «solite manovrette di corridoio», i comunisti si auguravano che il Comune potesse rimettersi sulla strada della buona amministrazione grazie alla loro collaborazione. Senza nemmeno consultare gli altri gruppi consiliari e zittendo gli oppositori interni che proponevano una soluzione più aperta e condivisa, la DC sosteneva invece l’elezione di Lima. Non solo appariva a molti acerbo e sprovveduto per il compito, ma la sua stessa attività a capo dell’assessorato ai LL.PP. non era stata esente da critiche. Queste le opinioni raccolte da "L’Ora" intorno alla sua candidatura: per il liberale Nicola Sanguigno, assessore all’Igiene, non avrebbe ottenuto il consenso degli stessi democristiani poiché, data la particolare gravità della situazione, serviva un uomo di esperienza; rammaricandosi per la mancata consultazione, Giuseppe Ingrassia, capogruppo del PNM, affermava che il sindaco della sesta città italiana non poteva essere un cittadino qualsiasi, ma una personalità conosciuta e con un passato di notorietà politica e professionale; il socialista Purpura parlava dell’ennesima prova, in seno alla DC, di «un inguaribile spirito di faziosità intorno a qualsiasi considerazione di interesse cittadino»; Ferretti aggiungeva infine che la DC voleva nominare il sindaco tramite «i soliti colpi di maggioranza», quando un riesame dei fallimenti precedenti avrebbe dovuto indurre a nuove scelte. Al di là delle riserve legate alla sua età, la candidatura di Lima poneva soprattutto la questione di come la corrente fanfaniana, carica dopo carica, si stesse ormai impossessando di tutte le leve del potere cittadino. <201 A Sala delle Lapidi la candidatura superava comunque abbondantemente i 31 voti necessari alla maggioranza assoluta: Lima veniva così proclamato la sera del 7 giugno 1958. Condividendo le incertezze di quanti vedevano in lui un sindaco privo di esperienza - era il più giovane capo di un’amministrazione capoluogo di provincia in tutta Italia - nell’accettare la carica si limitava a dire che avrebbe fatto del suo meglio. <202 La sua prima giunta era di centrodestra, sostenuta da una maggioranza composta da 27 democristiani, 7 monarchici (4 PNM, 3 PMP), 2 socialdemocratici e 1 liberale. Per la presenza del monarchico Antonino Sorci, la conferma di Ciancimino e l’ingresso di Giuseppe Trapani e Giuseppe Brandaleone, la presenza della mafia, a Palazzo delle Aquile, rimaneva pressoché inalterata. <203
All’estate del 1958 la Sicilia arrivava carica di tensione anche perché, caduto a Roma il monocolore DC retto da Adone Zoli, il 1° luglio Fanfani aveva presentato un gabinetto nel quale la componente siciliana aveva subito un forte ridimensionamento. L’unico ministro era Giardina (per la Riforma della pubblica amministrazione, peraltro senza portafoglio), mentre erano assenti esponenti come Mattarella e Scelba, che in qualità di leaders locali avevano contribuito al successo democristiano. <204 Considerato che la rappresentanza siciliana era la più numerosa in Parlamento (22 senatori e 57 deputati), a molti sembrava inaccettabile. Secondo Mario Ovazza, capogruppo comunista all’ARS, era preoccupante l’orientamento antisiciliano ripetutamente manifestato da Fanfani. Il socialista Michele Russo parlava di un’accentuata settentrionalizzazione del governo, mentre l’indipendente di sinistra Paolo D’Antoni lamentava che l’isola era ormai «una colonia a disposizione delle regioni del Nord». <205 La convinzione che fanfanismo e poteri forti del capitalismo italiano si apprestavano a restringere gli spazi delle libertà e delle competenze attribuite all’Autonomia era dunque largamente diffusa. Gli attacchi allo Statuto erano iniziati un anno prima con la soppressione di uno dei pilastri dell’edificio autonomista, l’Alta corte per la Sicilia, assorbita dalla Corte costituzionale con la sentenza 9 marzo 1957, n. 38. <206 Quando La Loggia si dichiarava vicino ai monopoli del Nord si giungeva così alla clamorosa rottura tra la Sicindustria, guidata da Domenico La Cavera, e Confindustria. <207 All’interno della DC non vi era spazio per gli oppositori, tanto che Fanfani incitava il presidente della Regione ad andare avanti con o senza voti. Preso alla lettera il suggerimento, La Loggia rifiutava così di dimettersi, il 2 agosto, nonostante il bilancio veniva bocciato dall’Assemblea. Con spavalderia, sfidava anzi l’aula ripresentando lo stesso documento la settimana successiva. In un’incandescente seduta, a Palazzo dei Normanni, le sinistre dichiaravano illegittimo il governo, dando inizio a un ostruzionismo che si sarebbe protratto per due mesi. Per la sua ostinazione a restare a tutti i costi, quello di La Loggia veniva ritenuto un «ostruzionismo alla rovescia». <208 Sfiancato dalla dura opposizione parlamentare, rassegnava le dimissioni dopo due mesi esatti, il 2 ottobre. Piazza del Gesù aggiungeva ulteriore benzina sul fuoco quando, in contrasto con la volontà del gruppo parlamentare della DC siciliana, imponeva come candidato Barbaro Lo Giudice, un fanfaniano suggerito da Gullotti. <209 Questa ennesima forzatura, di fatto, consegnava il candidato ai franchi tiratori. La mattina del 23 ottobre, gli italiani apprendevano infatti che in Sicilia la DC era stata estromessa dal governo regionale. <210 L’avvenimento era senza precedenti, perché, anomalia dei tradizionali valori politici, un inedito patto autonomista dava corpo a una maggioranza composta da socialisti e comunisti, da un lato, e missini e monarchici, dall’altro, tutti uniti attorno al democristiano dissidente Silvio Milazzo. <211
Alla lettura dei risultati, se nei banchi democristiani si rimaneva in sbigottito silenzio, le opposizioni si levavano al grido: «Viva Milazzo! Viva la Sicilia! Viva l’autonomia!». Per i socialisti e i comunisti era la vittoria del Parlamento siciliano contro le intimidazioni, le coercizioni esterne e la prepotenza dei fanfaniani. Per il gruppo democristiano, la sconfitta era invece talmente cocente che nessuno era in grado di esprimere un giudizio sulla vicenda. Poiché la congiuntura assembleare aveva fatto confluire su Milazzo i suffragi di due schieramenti contrapposti, fin da subito la Direzione democristiana sosteneva che quel «ponte fra le estreme ali assembleari» avrebbe avuto una durata effimera. <212 Convocato Milazzo, pena l’esclusione dal partito, il segretario gli intimava le dimissioni. Era però l’ennesimo atto di prevaricazione da parte della Segreteria nazionale, tanto che il calatino opponeva un coraggioso rifiuto e tornava a Palermo intenzionato a formare un governo su base assembleare. Nominata la giunta con i voti di PCI, PSI, PNM, MSI e democristiani dissidenti, già il 31 ottobre Fanfani annotava nei suoi "Diari" che la DC avrebbe fatto di tutto per «rendere la vita impossibile ad un simile governo». <213
Sul settimanale diocesano palermitano il cardinale Ernesto Ruffini non tardava a far apparire la sua condanna. Poiché la giunta era nata da un’ibrida coalizione di ideologie e interessi, gli esponenti DC che ne avevano favorito la costituzione avevano assunto comportamenti «politicamente e moralmente gravi». Il «console di Dio», figura forte e discussa della Chiesa siciliana, definiva quegli uomini «pavidi e schizzinosi», avendo occultato le proprie responsabilità nel segreto dell’urna. <214 Gli inviati dei principali giornali nazionali si precipitavano così a Palermo, e "L’Espresso" titolava: "Roma ha paura di Caltagirone". <215 La situazione aveva ripercussioni anche al Consiglio nazionale della DC (15-18 novembre 1958), dove, giustificando il suo comportamento, Fanfani sosteneva apertamente di non aver sbagliato nulla nei confronti della Sicilia. Per lui i transfughi erano mossi unicamente da interessi personalistici, perciò era doverosa la sua decisione di espellere chi aveva accettato di entrare in un governo appoggiato dai comunisti. La sua autodifesa non veniva tuttavia condivisa da parecchi colleghi: Scelba non condivideva nulla, rimproverando al segretario d’aver messo in soffitta l’alleanza con i liberali per inseguire il PSI e aver quindi provocato la crisi del partito nell’isola; Pella e Andreotti denunciavano la mancanza di fraternità interna e di unità d’intenti, mentre Colombo esprimeva il timore che la frana potesse allargarsi alle altre regioni; il più critico era comunque Roberto Lucifredi, che senza mezzi termini attaccava il malcostume dei «gerarchetti» fanfaniani. <216
Il primo effetto dell’operazione Milazzo era perciò uno scossone alla posizione del segretario e del suo apparato. Se il caso avrebbe appassionato l’opinione pubblica per un anno e mezzo, conclusa l’esperienza e placatosi il fervore polemico che ne avrebbe accompagnato l’«epilogo non certo edificante», molto poco però si sarebbe discusso e ancor meno scritto negli anni successivi. Solamente alla fine degli anni Settanta un convegno organizzato dall’Istituto socialista di studi storici avrebbe affrontato il tema col necessario rigore critico e documentario. <217 Un primo bilancio era stato tracciato da Macaluso, per il quale con l’esperienza milazziana l’Autonomia aveva vissuto i suoi momenti più esaltanti: il merito principale dell’operazione, infatti, era quello di aver risvegliato nell’animo dei siciliani «uno spirito di fierezza e di ribellione alla prepotenza esterna». Momento di rottura della preclusione anticomunista, il milazzismo aveva inoltre rappresentato il più serio tentativo di creare un fronte, seppur composito ed eterogeneo, contro il malgoverno democristiano. <218 Su questa scia interpretativa si inseriva la ricostruzione di Alberto Spampinato, giornalista de "L’Ora", che più avanti avrebbe ripercorso le tappe della vicenda arricchendo la narrazione con l’utilizzo di fonti allora inedite quali le testimonianze di Ovazza e di Francesco Pignatone, segretario dell’USCS. <219 Un taglio diverso avrebbero avuto gli scritti di Pasquale Hamel, storico di formazione cattolica, che non circoscrivendo l’analisi in un ambito esclusivamente regionale ha evidenziato i nessi con la situazione nazionale. <220 Il missino Dino Grammatico, assessore all’Agricoltura del primo governo Milazzo, avrebbe infine considerato l’operazione come una lezione alla DC, una clamorosa protesta contro la partitocrazia che Fanfani aveva legalizzato attraverso l’occupazione sistematica delle istituzioni. <221
[NOTE]
190 ACS, MI Gab. 1957-1960, Attività dei partiti, b. 55, f. Palermo, Telegramma del prefetto, 2 marzo 1958.
191 Democrazia cristiana - SPES, 5 anni difficili, SPES, Roma 1958.
192 Sulla Cassa di risparmio, la cui storia si è chiusa nel 1997 con la messa in liquidazione, cfr. Dino Grammatico, Sicilcassa: una morte annunciata. La svendita del sistema creditizio siciliano e la crisi delle banche in Italia, Sellerio, Palermo 1998.
193 ARS, Leg. III, Resoconti parlamentari, interrogazione n. 1403, 25 marzo 1958, pp. 1538-1539.
194 Giuseppe Lo Forte segretario provinciale della DC, in «Sicilia del Popolo», 25 aprile 1958.
195 Lanciata una sfida ai DC Lima e Cacopardo, in «La Voce della Sicilia», 5 maggio 1958.
196 E. Scalfari, Chi comanda in Italia?, in «L’Espresso»; L’assalto allo Stato, in «Il Mondo», 11-13 maggio 1958.
197 L’on. Fanfani segretario politico della DC ha pronunziato l’annunciato discorso a Palermo, in «Giornale di Sicilia»; Mario Farinella, Clamorosa protesta di Palermo durante il comizio di Fanfani, in «L’Ora», 16 maggio 1958.
198 Ugo Ugolini, Modugno querela la DC, in «L’Ora», 21 maggio 1958. La DC parodiava così la canzone vincitrice del Festival di Sanremo: «Penso che un tempo così / non ritorni mai più / Se non votiamo lo scudo / dipinto nel blu / Che tutto il bene che abbiamo / verrebbe abolito / Da chi di falce e martello / si è sempre servito... Votare… sì, sì… / Votare… per la DC / lo scudo dipinto nel blu / E non ascoltare Palmiro che lo devi votare anche tu! / dice: Ti dono la luna e anche più! / Mentre al mondo pian piano / aiuta a donar schiavitù / E con la lusinga vorrebbe / il tuo voto per sé…Votare… sì, sì… / Votare… per la DC / lo scudo dipinto nel blu / lo devi votare anche tu!».
199 Sulle elezioni cfr. P. Pombeni, Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea. 1830-1968, il Mulino, Bologna 1994, p. 518. Per le tabelle cfr. M. S. Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 433.
200 ACS, MI Gab. 1957-1960, Elezioni politiche 1958, b. 415, f. voti di preferenza.
201 Lima sindaco? È un po’ troppo…, in «L’Ora», 6 giugno 1958.
202 ASMPa, DCC, Elezione del sindaco, 7 giugno 1958.
203 O. Cancila, Palermo, cit., p. 292.
204 F. Malgeri, Storia della Democrazia cristiana, cit., III, pp. 146-153.
205 Delusione e disappunto negli ambienti regionali, in «L’Ora», 2 luglio 1958.
206 Sull’Alta corte e sui difficili rapporti Stato-Regione cfr. R. Menighetti - F. Nicastro, Franco Restivo, cit., pp. 195-241.
207 Sulla linea confindustriale al Sud negli anni Cinquanta, in generale, cfr. Anna Lucia Denitto, Confindustria e Mezzogiorno (1950-1958), Congedo, Lecce 2001; sul caso Sicindustria cfr. Nino Amadore, L’eretico. Mimì La Cavera un liberale contro la razza padrona, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012.
208 V. Nisticò, Diabolicum perseverare, in «L’Ora», 1° ottobre 1958.
209 C. Pumilia, La Sicilia al tempo della Democrazia cristiana, cit., p. 38.
210 ARS, Leg. III, Resoconti parlamentari, 23 ottobre 1958, pp. 4863-4873.
211 Fin da giovane attivista del Partito popolare di Caltagirone, Milazzo aveva frequentato il liceo con Scelba. Durante il fascismo era sfuggito all’esilio andando a presiedere la cassa di San Giacomo, una banca di credito agrario fondata da don Sturzo. Nel 1947 era stato segretario della DC catanese, poi, eletto deputato regionale, era stato assessore ai LL.PP. e all’Agricoltura. Cfr. Felice Chilanti, Chi è Milazzo. Mezzo barone e mezzo villano, Parenti, Firenze 1959.
212 Enzo Passiglia, Sicilia ’58. Nascita e declino del milazzismo e dei cristianosociali, Acropoli, Palermo 2006, pp. 27-30.
213 A. Fanfani, Diari, cit., p. 385.
214 Giuseppe Petralia, Ibrida coalizione nel governo regionale, in «Voce Cattolica», 7 novembre 1958. Sull’anticomunismo di Ruffini cfr. Francesco Michele Stabile, I consoli di Dio. Vescovi e politica in Sicilia, 1953-1963, Sciascia, Caltanissetta 1999, pp. 245 sgg.
215 Manlio Del Bosco, Roma ha paura di Caltagirone, in «L’Espresso», 9 novembre 1958.
216 A. Damilano, Atti e documenti della Democrazia cristiana, cit., I, pp. 968-975; F. Malgeri, Storia della Democrazia cristiana, cit., III, pp. 168-173.
217 Rosario Battaglia - Michela D’Angelo - Santi Fedele (a cura di), Il Milazzismo. La Sicilia nella crisi del centrismo, atti del Convegno organizzato dalla sezione di Messina dell’Istituto socialista di studi storici, Messina, marzo 1979, pp. 99-106.
218 Emanuele Macaluso, I comunisti e la Sicilia, Editori riuniti, Roma 1970, p. 109.
219 Alberto Spampinato, Operazione Milazzo. Cronaca della rivolta siciliana del 1958, Flaccovio, Palermo 1979. Pignatone era deputato alla Camera nelle prime due legislature. Non rieletto nel 1958, per la difficoltà di sopravvivere alla lotta tra Alessi e Volpe nello scudocrociato nisseno, passava all’USCS, di cui diveniva segretario (1959-1963). Tornato nella DC al termine del milazzismo, veniva nominato presidente dell’ESPI. Per i suoi scritti cfr. Nella crisi dell’autonomia siciliana e del cattolicesimo politico. Testi da L’Unione Siciliana (1959-1961), Centro studi A. Cammarata, San Cataldo 1994.
220 Pasquale Hamel, Dalla crisi del centrismo all’esperienza milazzista (1956-1959). Cronaca della terza legislatura dell’Assemblea regionale Siciliana, Vittorietti, Palermo 1978; Da Nazione a Regione. Storia e cronaca dell’autonomia regionale siciliana (1947-67), Sciascia, Caltanissetta 1984.
221 D. Grammatico, La rivolta siciliana del 1958. Il primo governo Milazzo, Sellerio, Palermo 1996.
Vincenzo Cassarà, Salvo Lima. L’anello di congiunzione tra mafia e politica (1928-1992), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2019