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venerdì 30 dicembre 2022

Nei confronti dell'Italia il polo di rigidità era in Washington, piuttosto che Londra


Il 26 settembre 1944, a margine della seconda conferenza di Quebec, i leader anglo-americani concordavano una dichiarazione programmatica che prometteva l’avvio di una nuova fase nelle relazioni tra gli Alleati e l’Italia, in conseguenza delle dimostrazioni di parziale affidabilità offerte da quest’ultima dopo aver combattuto al fianco delle forze antifasciste e partecipato attivamente alla rinascita di una parvenza di sistema democratico rappresentata dal governo di coalizione insediatosi in giugno nella capitale liberata <603. Le potenze occupanti, dunque, stabilivano che una «increasing measure of control will be gradually handed over to the Italian administration» mediante il ripristino di normali relazioni diplomatiche e un progressivo ridimensionamento delle funzioni e delle ingerenze dell’ACC nella vita istituzionale italiana, simboleggiato dalla nuova denominazione di Allied Commission (AC) <604.
L’impressione che una maggiore attenzione all’elemento liberale della politica alleata per l’Italia provenisse dal versante americano dell’alleanza era diffusa tra i contemporanei e confermata in sede storiografica. Nella versione tradizionale, il cambio direzionale operato dagli anglo-americani nella penisola era da ascriversi interamente o quasi all’atteggiamento progressista e amichevole manifestatosi tra le fila americane con maggiore evidenza sin dal gennaio 1944 quando, come si è raccontato nel capitolo precedente, la politica di non intervento preferita dagli statunitensi prendeva la forma di una agevolazione della formazione di un gabinetto marcatamente antifascista e dell’estromissione della figura del monarca dalla scena pubblica italiana. La storiografia, fosse questa di matrice britannica, americana o italiana, ha sottolineato quanto americani e inglesi avessero affrontato la sconfitta dell’Italia e le responsabilità che ne erano seguite con prospettive alquanto differenti, tratteggiando una contrapposizione di fondo tra una Washington interessata alla ricostruzione democratica dell’Italia e una Londra dedita alla conservazione dei propri interessi regionali, per la quale un’Italia debole risultava un fattore indispensabile. Se per gli americani la concentrazione militare nella penisola era stata prevalentemente una tappa nella guerra contro la Germania, «a defeat administered more in sorrow that in anger», per gli inglesi l’eliminazione del nemico mediterraneo, cercata con una determinazione vicina all’ossessione per l’intera durata del conflitto anglo-italiano, costituiva un traguardo a conclusione di un lungo periodo di confusione politica e ansie strategiche, «the elimination of a local rival who had come dangerously close to making good his boasts» <605. Uno tra i maggiori storici dell’occupazione, David Ellwood, sosteneva che il rifiuto britannico di prendere atto del drastico mutamento nella reale consistenza della minaccia rappresentata dagli italiani nel Mediterraneo ora che lo status di potenza era stato annientato da una doppia occupazione aveva portato Londra all’incapacità di definire «in any precise, non-arbitrary way a positive role for Italy in a post-war international system» <606. Secondo Varsori, il fallimento della linea conciliatoria britannica era dovuto alla constatazione della relativa inutilità dell’apporto fornito dalla macchina amministrativa e militare brindisina allo sforzo alleato, che aveva fatto svanire la disponibilità londinese a compiere concessioni modulate sul principio del “payment by results”. Nella delusione provocata dallo scontro dei progetti britannici con la sconfortante realtà del governo provvisorio in fuga da Roma, «i motivi, già emersi in precedenza, che giustificavano un atteggiamento duro verso l’Italia, ripresero il sopravvento» <607.
La differenza sostanziale, insomma, stava nell’importanza che si dava, nelle due capitali alleate, alla lettera dell’armistizio e alle azioni compiute dal governo italiano nelle fasi successive al cambio di campo. Gli inglesi, in una accurata descrizione del loro stato d’animo tracciata dal Dipartimento di Stato, consideravano quella italiana una nazione sconfitta che si era arresa senza condizioni, facendovi riferimento come ad un nemico e insistendo su una rigida applicazione dello strumento di resa, mentre dall’altra parte dell’Atlantico si era preso con serietà lo status della cobelligeranza, traendo le conseguenze dovute dalla cessazione de facto dello stato di guerra tra i due paesi <608. Al forte supporto fornito dagli americani al recupero dell’Italia, rifletteva Gat, faceva da contrappeso la rigidità britannica che, volendo mostrare al mondo che una politica di aggressione non avrebbe pagato, «was not willing to forget Italy’s deeds during three years of war» <609. L’approccio americano, in sostanza, come evidenziano le conclusioni cui giunge lo storico Buchanan, sembrava offrire un’alternativa allo spirito punitivo patrocinato dagli inglesi: «America’s paternalistic intervention in Italian politics had a fundamentally redemptive rather than punitive thrust»; laddove Londra minacciava, Washington offriva speranza <610.
La percezione condivisa da protagonisti e storici aveva raggiunto anche gli ambienti italiani, dove si credeva che gli inglesi, in particolar modo il Foreign Office di Eden, «tenderebbero a mantenere un’Italia debole, che non pensi e non possa dar ulteriori fastidi nel Mediterraneo», mentre gli americani sarebbero invece convinti «della necessità di un’Italia forte che possa riprendere in Europa la sua missione di civiltà e dunque il suo posto, che non può in nessun caso che essere quello di una potenza dirigente»611. Da parte italiana si tendeva a denunciare lo spostamento semantico operato da Churchill, sempre più portato ad addossare alla popolazione italiana la colpa delle condizioni drammatiche nelle quali questa si trovava a vivere, quando invece, in diverse occasioni precedenti, aveva enfatizzato come la responsabilità della guerra italiana fosse da attribuire esclusivamente alle azioni di Mussolini <612.
In sede di analisi conclusiva si possono discutere le possibili accezioni e sfaccettature che la mitezza attribuita alla politica sviluppata in Italia dagli americani a partire dal 1944 poteva assumere, ma l’insistenza sulla natura diretta del controllo da imporre nei territori occupati e il netto rifiuto di una collaborazione con le autorità italiane nella gestione dell’amministrazione che avevano caratterizzato la posizione americana nel periodo precedente al luglio 1943 erano segnali inconfondibili a dimostrazione di un’alleanza che aveva, quantomeno nelle sue fasi iniziali, il suo polo di rigidità in Washington, piuttosto che Londra. Il fatto che a partire dai primi mesi del 1944 le posizioni si fossero soltanto in parte invertite non giustifica la convinzione, piuttosto diffusa, come si accennava, che ad un atteggiamento morbido scelto dagli americani se ne contrapponesse uno duro da parte degli inglesi. La critica alla condotta britannica nel trattamento riservato all’Italia occupata faceva il paio con quella riguardante la strategia mediterranea tradizionalmente articolata in modo esclusivo e autonomo dagli inglesi che tendeva ad escludere dal ragionamento l’attiva collaborazione americana alla definizione di un progetto a lungo termine, anch’essa determinata da interessi e considerazioni strategiche che, seppur diversi da quelli inglesi, rispondevano comunque ad esigenze di carattere nazionale <613. La strategia alleata per l’Europa occupata non era certamente frutto di una elaborazione solitaria compiuta da Londra: Washington aveva iniziato a contribuire ben prima del 1944, riuscendo in più occasioni ad intervenire con l’intento di arginare l’incontinenza strategica mostrata dagli alleati. Con lo sguardo volto agli sviluppi futuri, le posizioni erano destinate a ribaltarsi ancora una volta: gli inglesi mostravano sì un intento punitivo nei confronti dell’Italia, una necessità geopolitica di neutralizzare il pericolo italiano nel Mediterraneo britannico, ma, almeno a detta degli stessi protagonisti della politica londinese in diverse occasioni, l’Italia non rientrava nei piani postbellici inglesi né era considerata una pedina fondamentale nella scacchiera strategica britannica <614. Londra aveva convinto l’alleato d’oltreoceano a partecipare attivamente alla gestione del Mediterraneo e aveva incentivato lo sviluppo di una presenza militare ed economica americana in Italia; l’emergere di particolari interessi nella regione aveva definitivamente legato Washington all’Italia e coinvolto gli americani nella conduzione degli affari locali.
Che il governo inglese avesse mantenuto una posizione a tratti ostile nei confronti del nemico finalmente sconfitto e riportato alla sua condizione di potenza minore è fuor di dubbio. Tra l’aprile e il maggio 1944, quando nelle capitali alleate si discuteva della richiesta riguardante la revisione dello status italiano avanzata da Badoglio, la politica londinese si opponeva con fermezza all’innalzamento della cobelligeranza in alleanza, mostrando scarso interesse ad incoraggiare «too rapidly a marked tendency in her part to forget altogether her position as a defeated enemy or to claim privileges of an ally at the expense of an armistice». Nella visione inglese, quanto più abbondanti le concessioni fatte nel momento di minore capacità italiana, tanto più difficile sarebbe stato imporre le sanzioni desiderate una volta liberata la penisola dalla presenza tedesca <615. Il Foreign Office in particolare non era pronto a intaccare le fondamenta delle relazioni intrattenute con gli italiani e metteva in guardia il War Cabinet dal rischio di essere indotti a fare sempre nuove concessioni dietro la minaccia di una caduta del governo qualora queste non fossero state soddisfatte. Accanto ad un incontrovertibile elemento di verità, secondo l’interpretazione che se ne dava a Londra, nelle lamentele italiane si trovava anche «an unpleasant flavor of blackmail». La linea da adottare, dunque, doveva consistere in un netto rifiuto «even to consider the question of giving Italy Allied status during the war», e subordinare il miglioramento delle condizioni armistiziali al soddisfacimento delle richieste alleate <616. Gli italiani, d’altra parte, secondo la visione condivisa da larghe parti dello schieramento britannico, dovevano considerarsi fortunati ad aver ricevuto la grazia di una permanenza in posizioni di responsabilità governative e amministrative e Londra «shall be very lucky if we never have anything worse than the present Italian government to deal with» <617.
A seguito del rovesciamento di Badoglio in giugno, il fastidio per le macchinazioni degli italiani portava a rigurgiti di quel risentimento che aveva contraddistinto alcune delle reazioni britanniche all’ingresso in guerra dell’Italia. Riflettendo sulla ambigua realtà della resa incondizionata nella sua applicazione al caso italiano, Churchill si chiedeva «whether it was they who had unconditionally surrendered to us or whether we were about unconditionally to surrender to them», richiamando il trattamento di favore riservato agli italiani e il mancato intervento alleato nelle evoluzioni del quadro politico del paese occupato <618. In aggiunta, gli eventi del marzo, con l’avvicinamento sovietico al governo italiano, determinavano un duplice effetto che, spinto dalla paura per la perdita della posizione di predominio nella regione, istigava da una parte una politica di concessioni che motivasse l’Italia a rimanere nella sfera d’influenza anglo-americana, e dall’altra restringesse ulteriormente la morsa del controllo alleato per evitare che si lasciasse libero il governo italiano di passare volontariamente sotto la protezione dell’alleato/nemico sovietico. Pur riconoscendo l’importanza in prospettiva futura di avere un’Italia con la quale poter collaborare in armonia per il mantenimento di un Mediterraneo prospero e pacifico, il Foreign Office era convinto della necessità imperativa di rifiutare «the Italian threat that if we do not go fast enough in transforming Italy from a defeated enemy into a new-made ally, she will at once go Communist and throw herself into the arms of the Soviet government» <619. In considerazione del turbolento passato recente condiviso con l’Italia, gli inglesi intendevano combinare i piani strategico e geopolitico in una politica che impedisse la ricostituzione di una Italia «with an exaggerated sense of her own strength, for that leads to trouble» <620, sviluppando una strategia che indebolisse il paese «so as to deprive her of the capacity for future aggression, while leaving her sufficient power to check the spread of communism» <621.
La situazione sembrava abbastanza chiara. Gli inglesi intendevano tenere a bada le aspirazioni italiane intervenendo con una politica repressiva che rendesse improbabile, se non impossibile, una riemersione dell’imperialismo mediterraneo fascista. Qualche dubbio sulla monoliticità del giudizio generalmente espresso, tuttavia, rimane. L’ostilità manifestata da Londra in diverse occasioni e in particolare nel periodo successivo alla perdita del punto di riferimento rappresentato da Badoglio era essa stessa espressione di valutazioni non unanimemente condivise da tutti gli agenti politici e militari britannici, o comunque figlia di un lungo periodo di inimicizia avviato da una decisione unilaterale italiana che, come si è visto, gli inglesi avevano tentato in ogni modo di scongiurare. Accanto alla fazione capeggiata da Eden, tendenzialmente contraria al riconoscimento di privilegi e scorciatoie agli italiani, ancora ritenuti nemici tout court, nella politica britannica per l’Italia vi era una seconda anima, moderata e pragmatica, che, prendendo atto della precaria posizione inglese nella regione e dell’effettivo rischio di perdere il controllo della situazione italiana in mancanza di gesti concreti in aiuto della popolazione e delle forze liberali, guidava Londra in direzione di un controllo meno duro, partecipando in maniera decisiva alla costruzione di una politica che, nel giro di pochi mesi, si sarebbe rivelata vincente, culminando nell’enunciazione di una nuova direzione alleata in Italia.
I primi segnali di ammorbidimento venivano inviati da Londra già in occasione della pianificazione per la commissione di controllo nelle settimane immediatamente successive all’imposizione dei termini di resa. Con gli sviluppi post-armistiziali, la concezione britannica del controllo sul governo italiano cambiava radicalmente, in considerazione del fatto che l’Italia non aveva passivamente accettato la capitolazione, ma si era offerta di cambiare campo. Il 7 settembre, ancor prima dell’annuncio ufficiale, Churchill mostrava un atteggiamento assai più accomodante di quanto fatto in precedenza riflettendo sul fatto che le guerre non si vincessero «in order simply to pay off old scores but rather to make beneficial arrangements for the future» <622. Un mese più tardi, il Foreign Office, proponendo una mitigazione delle clausole armistiziali sulla base dei servizi resi dagli italiani nella lotta contro il nemico comune, riteneva la rigida struttura della commissione di controllo inadeguata alle esigenze di promozione di una massima collaborazione con gli italiani, anche nel contesto dell’occupazione militare <623.
Il terreno di coltura di questa nuova politica consisteva, oltre che delle considerazioni strategiche tornate all’attenzione dei leader britannici con la penetrazione sovietica e il sorpasso subito dagli americani in Italia, delle precarie condizioni in cui il governo italiano si trovava ad operare e la popolazione civile a vivere. Una serie di rapporti provenienti dai territori occupati ricordavano ai policy-maker britannici che la situazione istituzionale dell’Italia alleata era ancora tutt’altro che stabile. Nonostante la mancata esecuzione di diverse clausole e il processo di costante rafforzamento della macchina amministrativa italiana, ragionava il Foreign Office, «the Italian government are still not masters in their own house» ed era in ultima istanza costretto ad uniformarsi agli ordini esecutivi del Comandante Supremo, oltreché a dovere la propria sopravvivenza economica alla carità dei governi anglo-americani <624. Lo scontento italiano derivava anche e soprattutto, stando all’analisi di Caccia da Brindisi, dal visibile distacco creatosi tra la propaganda effettuata dagli Alleati in Italia nel periodo pre-armistiziale, con la promessa di un trattamento giusto ed equo, e il trattamento imposto dopo l’8 settembre, segnato da un atteggiamento scarsamente conciliante nei confronti delle richieste e delle esigenze italiane <625. In gennaio, Macmillan denunciava un certo dualismo nella politica adottata dagli inglesi verso il governo italiano che rendeva difficili consistenti progressi e invitava di conseguenza Londra a svolgere un ruolo costruttivo che evitasse di affiancare al rafforzamento di Badoglio e del suo governo la tendenza «to deal him fresh blows», sperando che la ricezione della nuova entità governativa italiana presso le opinioni pubbliche e i governi alleati fosse determinata dall’osservazione della sua performance presente tanto quanto dal ricordo dei suoi misfatti passati. Ricorrendo ad una analogia religiosa, il Resmin, pur valorizzando la funzione di confessione e penitenza nella conversione di un peccatore, riteneva sbagliato «to refuse absolution altogether, however tactfully» e, riferendosi al rifiuto opposto dal Foreign Office all’inclusione dell’Italia nella Carta Atlantica, commentava che se Paolo di Tarso avesse adottato un atteggiamento analogo nei confronti dei gentili, «Christianity would have remained a small Jewish sect» <626. Le contraddizioni presenti nella produzione politica britannica nel contesto dell’occupazione italiana erano inconciliabili con gli obiettivi che questa stessa politica si prefiggeva: talvolta si consideravano gli italiani nemici, talaltre cobelligeranti; «sometimes we wish to punish them for their sins; sometimes to appear as rescuers and guardian angels. It beats me» <627.
Il riconoscimento dei limiti della politica restrittiva britannica, considerata parzialmente responsabile degli aspetti più negativi della situazione italiana, generava una istanza di rinnovamento che veniva portata avanti dai tre uomini inviati da Londra ad operare a stretto contatto con gli italiani, Caccia, Macmillan e, ad uno stadio più avanzato delle relazioni, Charles. La prima concreta proposta di allentamento dei legacci armistiziali giungeva nel marzo 1944 sotto forma di una lunga riflessione sulle complicazioni imposte dall’esistenza di un doppio armistizio in Italia sviluppata da Caccia con la collaborazione del collega americano Reber. Le difficoltà esperite dal governo italiano erano da imputare in gran parte al fatto che i termini di resa erano stati preparati con tanto anticipo «that it bore little relation to the conditions of the Italian capitulation and Allied requirements thereafter». La reale applicazione delle clausole si limitava infatti ad una serie di articoli, approssimativamente la metà di quelli previsti dai long terms, che erano eseguiti al massimo delle potenzialità governative, che in quei mesi equivaleva ad un rinvio della piena esecuzione alla fine della guerra, quando l’intero territorio italiano sarebbe stato sottoposto al controllo dell’amministrazione italiana. La mancanza di una politica costruttiva che prevedesse quantomeno l’abolizione delle clausole in disuso, non rispondenti alla realtà militare e istituzionale dell’Italia occupata, era da considerarsi alla radice dell’iniziativa sovietica e soprattutto della felice ricezione di questa nel campo italiano. Come sottolineato dai due emissari anglo-americani, «if by accident or fortuitous circumstances our treatment of a conquered people grows severer, the result is the same as if this had been a considered policy» <628.
[NOTE]
603 La Second Quebec Conference aveva luogo, con il nome in codice Octagon, tra il 12 e il 16 settembre 1944 nella città di Quebec.
604 Il testo integrale della dichiarazione in FRUS, Conference at Quebec, 1944, Washington D.C., U.S. Government Printing Office, 1944, p. 494. L’assunzione della carica di ambasciatore da parte di Charles, già Alto Commissario britannico in Italia, sarà annunciata a Bonomi il 10 ottobre, mentre il rappresentante americano a Roma, Alexander Kirk, ne portava già il titolo; il governo italiano era contestualmente invitato a nominare propri rappresentanti presso le capitali alleate. Pur non essendo ancora possibile la ripresa delle normali relazioni diplomatiche tra i due paesi, veniva stabilito un contatto diretto con il governo italiano per le questioni riguardanti interessi politici tra Italia e Gran Bretagna, cfr. Charles a Bonomi, MAE, SG, vol. XXII.
605 Cit. Reitzel, The Mediterranean, p. 26.
606 Ellwood, Italy, 1943-45, cit., pp. 100-1.
607 Varsori, L’atteggiamento britannico verso l’Italia, cit., p. 156.
608 La posizione americana nel telegramma di Dunn a Offie, Office of US Political Adviser, del 14 febbraio 1945, riportato in Ellwood, Italy, 1943-45, p. 31.
609 Gat, Britain and Italy, 1943-49, cit., p. 89.
610 Cfr. Buchanan, “Good morning, Pupil!”, cit., p. 240.
611 Cit. l’appunto di Prunas del 29 settembre 1944 su un colloquio avuto con Kirk, in cui si riportava la convinzione di Kirk che durante le conversazioni di Quebec fossero affiorati in tutta la loro evidenza due atteggiamenti radicalmente diversi tra i due alleati circa l’Italia, MAE, AP, Stati Uniti, b. 89.
612 Il 6 settembre 1944, il quotidiano della comunità italiana negli Stati Uniti, Il Progresso Italo-Americano, pubblicava un editoriale dal titolo Italy and Churchill nel quale si denunciava l’inconsistenza della politica del Primo Ministro nei confronti dell’Italia. Nel saluto trasmesso agli italiani alla partenza dal suo viaggio nella penisola, Churchill aveva ricordato come gli italiani non potessero ritenersi immuni da biasimo per essersi lasciati governare per un ventennio dal regime fascista. Secondo il giornale, tuttavia, questa era una conclusione radicalmente diversa da quella presentata da Churchill nel messaggio del 23 dicembre 1940, quando si era proceduto a scindere il giudizio del popolo italiano dalle colpe del Duce. PREM 3/243/15. Altri riferimenti ad una politica britannica tendente a separare i mali del regime dalla popolazione italiana si trovano nei documenti riguardanti la definizione della propaganda politica da adottare in Italia prima dell’invasione, FO 898/163.
613 Per citare Leighton, lo stereotipo consolidato che voleva gli inglesi intenti a manovrare dietro le quinte per indebolire Overlord al fine di dare precedenza alle operazioni mediterranee per poi essere costretti, soltanto in extremis, ad allinearsi controvoglia alla posizione americana non era coerente con le indicazioni della documentazione anglo-americana, Leighton, Overlord Revisited, cit., p. 922.
614 In un discorso ai Comuni del 18 gennaio 1945, Churchill dichiarava che per il governo britannico non vi erano «political combinations in Europe or elsewhere in which we need Italy as a party», MAE, ADG, b. 48.
615 Si vedano il memorandum del Foreign Office del 20 aprile 1944, poi trasmesso a Washington il 24, FO 115/3604; e il telegramma di Churchill a Eden del 26 aprile, in cui si definiva un errore la prematura liberazione del governo italiano dai vincoli armistiziali, CAB 120/584.
616 Cit. la nota di Sargent dell’11 maggio, FO 371/43911. Sulla questione del rancore nutrito da Eden nei confronti dell’Italia, significativa la riflessione di Ellwood, secondo il quale il ministro inglese, «who apparently had not yet heard that Mussolini is dead and is no longer running Italy», era considerato dagli stessi suoi subordinati all’interno del ministero «most unreasonable on subject of Italy and indeed almost psychopathic», Ellwood, Italy, 1943-45, p. 208.
617 Cit. il messaggio di Churchill a Eden del 26 maggio 1944, CAB 120/584.
618 Il commento di Churchill è ripreso dal discorso del gennaio 1945 già citato.
619 Cit. il telegramma di Eden a Charles del 14 agosto 1944, FO 954. Cfr. anche quello di Churchill a Macmillan del giorno precedente, in cui si leggevano le perplessità del Primo Ministro circa la concessione intempestiva all’Italia di uno status che avrebbe affrancato le relazioni anglo-italiane dalle costrizioni dell’armistizio, CAB 120/584.
620 Cit. il Memo on British Long Term Interests in Italy preparato da Caccia e inviato il 26 ottobre 1944 da Charles al Foreign Office, FO 371/43915.
621 Gat, op. cit., p. 89.
622 La citazione nella lettera di Churchill a Eden e ai COS del 7 settembre 1943, PREM 3/245/7.
623 Cfr. la nota FO del 4 ottobre 1943, Relations with the Italian Government and Control Commission in Italy, FO 371/37310. Con questo suggerimento Whitehall non rinunciava alla creazione dell’ACC, ritenuta comunque necessaria alla supervisione del governo italiano, ma intendeva limitare l’insistenza su alcune clausole dell’armistizio che, nelle circostanze di quel periodo, risultavano inapplicabili (l’esempio evidenziato riguarda quella sul disarmo italiano mentre si tentava di formare divisioni italiane per combattere i tedeschi al fianco delle forze alleate).
624 Si veda la nota FO (Williams) del 21 novembre 1944, British Policy Towards Italy, FO 371/43916.
625 Cfr. il rapporto di Caccia al Foreign Office del 27 dicembre 1943, FO 371/43909.
626 24 gennaio 1944, Macmillan a Eden, PREM 3/243/8.
627 Il telegramma di Macmillan a Eden del 10 settembre 1944 è riportato in Ellwood, Italy, 1943-45, cit., p. 105.
628 Cfr. il memorandum inviato a Londra e Washington il 31 marzo 1944, in ACC, b. 959. Secondo Caccia e Reber, gli articoli 16, 25, 28, 29, 30, 33 e 34 dei long terms non erano mai stati eseguiti o in modo soltanto parziale; gli articoli 1-27 (con l’eccezione del 16) erano stati o continuavano ad essere eseguiti dal governo al massimo delle sue potenzialità, il che però significava che non sarebbero stati pienamente eseguiti fino a quando il governo italiano non avrebbe governato l’intero paese.
Marco Maria Aterrano, “The Garden Path”. Il dibattito interalleato e l’evoluzione della politica anglo-americana per l’Italia dalla strategia militare al controllo istituzionale, 1939-1945, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli Federico II, Anno Accademico 2012-2013

venerdì 16 dicembre 2022

Romita e soprattutto De Gasperi iniziano quella riconversione in senso democratico dell’immagine pubblica del prefetto come pilastro dell’unità statale e del ripristino della legalità


Luigi Einaudi fin dal 1944 aveva lanciato il suo durissimo atto d’accusa verso il prefetto, con il celebre grido: "Il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze!" <619
Aggiungendo la sua visione (condivisa da antifascisti di diverso orientamento) di radicale antitesi tra figura prefettizia e democrazia: "Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell’interno. […] Democrazia e prefetto ripugnano profondamente l’una all’altro". <620
L’identificazione tra prefetto e fascismo è profonda, soprattutto per il movimento partigiano del centro-nord e in particolare per i gappisti impegnati nella resistenza urbana; mentre il dibattito politico, che vede contrapporsi per i primi mesi [del secondo dopoguerra] un’opzione più sensibile alle autonomie locali, anticentralista, alla centralizzazione dello Stato post-fascista, ha tra i suoi temi principali proprio il ruolo prefettizio. Questo è dunque antitetico alla democrazia, rappresenta il pericolo permanente della degenerazione se non in dittatura, quanto meno in uno stato di polizia. Tuttavia, per i medesimi motivi per cui il governo Parri non sceglie la strada della rottura, optando invece per la continuità attraverso la depoliticizzazione, allo stesso modo il prefetto è visto come uno strumento di garanzia e tutela: di fronte a una situazione di emergenza sociale, debolezza statale, scarso controllo dell’ordine pubblico, Romita e soprattutto De Gasperi iniziano quella riconversione in senso democratico dell’immagine pubblica del prefetto come pilastro dell’unità statale e del ripristino della legalità: "Percepito solo come strumento della politica di controllo e di repressione dello Stato fascista, non ha possibilità di ottenere la riconferma. Invece, man mano che passa il tempo, questa rappresentazione si trasforma e il prefetto appare, a una parte della classe politica, come un mezzo importante di garanzia dell’ordine pubblico ma anche come organo fondamentale nell’opera di ricostruzione, sia del paese concreto che della legalità". <621
Nei mesi che precedono le elezioni per la costituente, il fronte abolizionista perde progressivamente forza e iniziativa, mentre la riconversione democratica dell’immagine prefettizia si impone; la democrazia cui si fa riferimento è quella che emerge dall’egemonia del partito moderato, di cui si fanno interpreti i liberali (che infatti causano la caduta del governo Parri) e il nuovo presidente del consiglio democristiano. Per i primi, che presentano un decalogo programmatico durante la crisi di governo, "la revoca dei prefetti e dei questori dei CLN figurava tra i punti più insistiti (insieme allo svuotamento totale dei CLN e alla fine dell’epurazione). Così, mentre un autorevolissimo liberale come Einaudi aveva lanciato il grido di battaglia 'via il prefetto!', grido tutt’altro che privo di eco fra le stesse file liberali, nel governo di cui era stato la mosca cocchiera il PLI avrebbe interpretato quel grido quale 'via i prefetti della Liberazione!" <622
De Gasperi invece, prima ancora di prendere in mano il Viminale, con l’appoggio di Romita, avrebbe avviato l’allontanamento di tutti i prefetti CLN dai loro incarichi (uno dei punti chiave del piano rivendicativo del ciclo conflittuale in questo periodo, fino al suo momento più importante rappresentato dal caso Troilo), avvalendosi tra l’altro del decreto fascista del 1937 ancora in vigore, relativo al ripristino dei funzionari di carriera. In piena discussione sulla redazione della Carta, di fronte a tutti i prefetti riuniti a Roma nel novembre ’46, dirà "Dalla Costituente molti organismi potranno uscire trasformati, ma oggidì ancora i prefetti sono gli organi più immediati del governo, i responsabili più diretti dell’amministrazione; e, in ogni caso, i criteri fondamentali ch’essi devono seguire, frutto dell’esperienza ed emanazione d’immutabili norme di diritto ravvivato dallo spirito democratico, potranno essere rifusi in altre forme, ma non essere distorti o rinnegati, a scanso di portare lo Stato alla dissoluzione o all’assorbimento nella dittatura di parte". <623
Da strumento della possibile distorsione autoritaria a garanzia invalicabile dell’ordinamento democratico repubblicano: la metamorfosi così realizzata a livello culturale e di immagine pubblica permette anche di giustificare il permanere delle prerogative forti del prefetto, proprio partendo dal presupposto che la democrazia e lo Stato devono dimostrare la propria forza e capacità di controllo.
La prima legge post-fascista relativa ai poteri prefettizi (9 giugno 1947) conferma il cosiddetto 'controllo di legittimità', ovvero la prerogativa di controllo sul rispetto del principio di legalità da parte degli enti locali. La fine del dibattito costituzionale conferma di fatto lo status quo.
In secondo luogo, il mantenimento del TULPS comporta anche la sopravvivenza di quelle norme sui poteri speciali del ministro degli Interni e dei prefetti in caso di 'pericolo pubblico'; paradossalmente proprio Scelba aveva proposto in un primo momento, nel ’48-’49, di abolire quelle norme considerate di netto marchio autoritario, ovvero "per quanto riguarda il prefetto, si tratta di sopprimere l’articolo 2 che gli consente, in caso di urgenza, di emettere ordinanze normative e soprattutto il titolo IX che dà la facoltà, negli articoli 214 e 215, al ministro dell’Interno e ai prefetti di istituire lo stato di pericolo pubblico. In questo caso, 'durante lo stato di pericolo pubblico il Prefetto può ordinare l’arresto o la detenzione di qualsiasi persona, qualora ciò ritenga necessario per ristabilire o per conservare l’ordine pubblico', secondo la legge del 1926". <624
È poi lo stesso Scelba che, poco tempo dopo, nel corso del dibattito parlamentare del marzo ’50, propone di ristabilire il titolo IX, coerentemente con il proprio progetto di legislazione speciale, dove la figura teorizzata del 'superprefetto', di cui parlerà sempre nella famosa intervista del 1988, si avvicinava molto a quanto previsto dalla legge fascista del ’26: "Già nei primi tre mesi del 1948 era stata messa a punto un’infrastruttura capace di far fronte ad un tentativo insurrezionale comunista. L’intero Paese era stato diviso in una serie di grosse circoscrizioni e alla loro testa era stato designato in maniera riservata, per un eventuale momento di emergenza, una specie di prefetto regionale […], un uomo di sicura energia e di assoluta fiducia. L’entrata in vigore di queste prefetture allargate sarebbe stata automatica nel momento in cui le comunicazioni con Roma fossero state, a causa di una sollevazione, interrotte: allora i superprefetti da me designati avrebbero assunto gli interi poteri dello Stato sapendo esattamente, in base ad un piano preordinato, che cosa fare". <625
L’idea dello Stato propria del clerico-moderatismo, di cui fu espressione il ministro degli Interni poi presidente del consiglio, era legata a una 'ideologia' neutralista e impolitica della macchina statale per cui l’intervento governativo poteva, anzi doveva essere per l’interesse generale; un altro paradosso dello scelbismo fu dunque la piena trasformazione degli strumenti di controllo e governo al servizio di una parte (l’anticomunismo e la DC in particolare) in nome dell’imparzialità.
"La sua concezione della statualità, infatti, coniugava i valori definiti dalla tradizione della borghesia liberale con la dottrina ecclesiologica del potere come servizio da rendere alla società con umile e ferma dedizione. Ne conseguiva un’interessante simbiosi tra i princìpi di autorità riconfermati a tutela dell’ordine ('perché la vita sociale è fatta di gerarchie') e i compiti paternalistici e filantropici ancora attribuiti allo Stato da un certo pensiero cattolico, dal fondo tradizionalista, convertitosi di recente alla fede nella democrazia. […] Il suo proposito ideologico […] si richiamava alla forma classica della statualità borghese per piegarla ai contenuti del suo pensiero di cattolico-popolare: in particolare, all’idea di un bene pubblico e di una verità politica (il 'sano' e 'giusto' ordine sociale, la 'vera' democrazia) di cui le funzioni statali avrebbero dovuto farsi interpreti e difensori inflessibili". <626
[NOTE]
619 L. Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia politica (1897-1954), p. 59, Laterza 1973, cit. in Virgile Cirefice, Prefetti e dottrina dello Stato di diritto nei dibattiti, p. 9, in P. Dogliani, M.A. Matard-Bonucci (a cura di), Democrazia insicura, Donzelli editore 2017, p. 5
620 Ivi
621 Virgile Cirefice, op. cit., p. 7
622 C. Pavone, op. cit., p. 154
623 Dichiarazione del presidente del consiglio ministro dell’Interno ai prefetti del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e della Liguria, 19 novembre 1946 in Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio, Gabinetto, 1944-1947, cit. in V. Cirefice, op. cit., p. 8
624 V. Cirefice, op. cit., pp. 13-14
625 M. Scelba, cit. in G. De Lutiis, op. cit., p. 153
626 G.C. Marino, op. cit., pp. 221-22

Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

giovedì 23 giugno 2022

Dall’ambasciata statunitense capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni»


Il rapporto Italia-Stati Uniti sulla crisi del ’60 è stato in gran parte trascurato dalla storiografia <85, tuttavia il comportamento di Tambroni, che tentò di rilanciare il condizionamento del conflitto bipolare sulla politica italiana, <86 impone un’attenzione ben maggiore. L’incarico, come ha ricordato Nuti, non fu accolto dall’ambasciata con particolare soddisfazione, soprattutto per la vicinanza di Tambroni a Gronchi <87. «Nel breve periodo - ha scritto Zellerbach - non c’era motivo di preoccuparsi, visto che la cooperazione con gli Usa e con la Nato non sarà molto diversa da quella di Segni». Addirittura le prospettive sulla politica estera italiana venivano definite «eccellenti». Tuttavia la scelta non era giudicata «una soluzione felice». Tra i maggiori pericoli legati al nuovo esecutivo c’erano la possibilità di altre «scorribande» neutraliste in politica estera e l’opportunismo del nuovo capo del Governo. Nello stesso tempo la solidarietà di Gronchi, a cui erano legati il futuro e la stabilità del governo, era tutt’altro che assicurata. <88 A fronte della nuova maggioranza, furono immediate le dimissioni dei ministri della sinistra democristiana Bo, Sullo e Pastore. Poi seguì un tentativo - fallito - di Fanfani, che rispecchiava lo stato di confusione in cui versava la Dc, più volte rilevata dagli osservatori statunitensi. Alla fine di aprile Gronchi invitò Tambroni a completare la procedura e presentarsi al Senato. La direzione Dc approvava e l’ampia maggioranza democristiana confermava il nuovo, tormentato governo. Commentando l’investitura, i funzionari di via Veneto non erano in grado di stimare le probabilità che l’esecutivo arrivasse all’estate. Il presidente del Consiglio, in una formula efficace e sintetica, veniva descritto come un uomo «temuto da molti, ma di cui nessuno si fidava». Tambroni, da par suo, considerava il plauso americano un fattore non secondario per la durata del suo governo. Fu Francesco Cosentino - segretario generale della Camera e consigliere legale di Gronchi - a “sponsorizzare” il governo, ma dall’ambasciata capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni».
[...] In varie città italiane salirono la tensione e il nervosismo <104. I comizi missini nelle città di Reggio Emilia, Parma e Messina furono impediti <105. A Bologna, invece, era stato il discorso di Pajetta, pronunciato in piazza Malpighi il 21 maggio, a provocare l’intervento della polizia <106. Gli scontri durarono quaranta minuti provocando numerosi feriti, tra cui Giovanni Bottonelli, deputato del Pci, che riportò gravi ferite <107.
L’episodio, secondo quanto annotava un funzionario del consolato, rifletteva ancora una volta la «prontezza comunista nello sfruttare gli scontri con le pubbliche autorità» <108. Era questo uno dei tratti maggiormente sottolineati dalle relazioni americane. In più, il giudizio sul partito era a dir poco lapidario. Il Pci non era più in grado di «cavalcare le agitazioni e la propaganda come faceva una volta». La sede dei disordini non poteva che dare credito all’intuizione. Dopotutto, si era trattato di uno scontro in una roccaforte del Pci dove un deputato comunista era stato arrestato e ferito. «Qualche anno fa - ha scritto il segretario d’ambasciata Lister - avremmo assistito a dimostrazioni di massa, scioperi e altre azioni contro il governo in tutta Italia» <109.
Altrettanto attivo era il partito neofascista, galvanizzato dall’appoggio esterno al governo. Il Msi aveva indetto il VI congresso nazionale a Genova, dal 2 al 4 luglio. In quell’occasione, avrebbe dovuto dichiarare fedeltà al metodo democratico e alla Costituzione, anche se la Carta non sarebbe stata accettata come documento intoccabile.
Com’è noto, la scelta di Genova, peraltro conosciuta da tempo <110, fu un’opzione poco felice.
Molti esponenti missini, negli anni successivi, avrebbero fatto autocritica sia sull’effettiva maturità del partito che sulla scelta della sede <111. A suscitare la protesta del fronte antifascista furono soprattutto due elementi. L’oltraggio di un congresso neofascista in una città medaglia d’oro della Resistenza e la presenza - più vociferata che accertata - dell’ex prefetto della città ai tempi di Salò, Carlo Emanuele Basile. Secondo alcuni avrebbe addirittura dovuto presiedere i lavori. Il nome di Basile bastava ad evocare lo spettro dei non lontani massacri di guerra, rendendo l’affronto missino insostenibile.
Sulla scelta di Genova e sulle voci che riguardavano Basile, però, rimangono forti perplessità. Il 15 maggio, quando vennero resi noti i giorni e la sede del congresso le reazioni furono piuttosto blande <112. Genova, inoltre, non era la prima città fortemente legata alla Resistenza in cui il Msi convocava il suo raduno nazionale. Quattro anni prima la sede prescelta era stata Milano. In più, dal 1956, la giunta comunale della città ligure era appoggiata dai voti missini. Certamente Genova era «più contaminata dal Msi con il voto determinante del governo cittadino che con un congresso di tre giorni» <113.
[...] Veniamo ai fatti. Una prima grande mobilitazione contro il Msi ebbe luogo il 25 giugno. Protagonisti - ed è una costante delle proteste anti-tambroniane - furono i movimenti giovanili dei partiti antifascisti e di altre associazioni <121. Il 28 giugno, poi, venne indetto un comizio in piazza della Vittoria a Genova, che si svolse senza problemi.
Per il 30, la Camera del Lavoro proclamava uno sciopero generale con una manifestazione autorizzata dal prefetto. Quel giorno, una volta giunti in via XX settembre al monumento ai partigiani caduti, i manifestanti andavano in piazza della Vittoria, dove avrebbe dovuto terminare il tutto. Qui, la processione tornò indietro al sacrario, con in testa comunisti e socialisti. Poi il grosso della folla si fermava in Piazza De Ferrari, dove cominciava la battaglia.
Gli ordini alla polizia e ai carabinieri e le misure che poteva aver indicato lo stesso Tambroni sono tuttora un punto oscuro. Per Baget Bozzo la polizia «non reagisce». <122 Citando i rapporti dei carabinieri, Garibaldi ha posto l’accento sul fatto che la polizia avesse le armi scariche, e fu maggiormente presa di mira dai manifestanti, che ne erano a conoscenza <123. Il tenente colonnello Gaetano Genco ha scritto che il comportamento della polizia fu molto diverso da quello dei carabinieri. Questi, infatti, non fecero uso delle armi «nemmeno a scopo intimidatorio» ed ebbero solo cinque feriti. E avrebbero addirittura fraternizzato con i manifestanti <124.
Secondo Adalberto Baldoni, l’unica spiegazione per l’atteggiamento così poco collaborativo dei carabinieri, risiederebbe in una «garanzia militare sull’apertura a sinistra». Tale strategia sarebbe stata ispirata dalla coppia Moro-De Lorenzo e dagli Stati Uniti. A Roma, Reggio Emilia e in Sicilia, sempre secondo Baldoni, si doveva esasperare lo scontro e i carabinieri parteciparono attivamente. Tuttavia, non è azzardato nutrire qualche dubbio sulle fonti utilizzate per avvalorare l’ipotesi del coinvolgimento statunitense nella vicenda <125.
Murgia e Del Boca hanno scritto invece di una polizia «in completo assetto da guerra» pronta a scagliarsi sulla folla, senza menzionare i comportamenti delle altre forze dell’ordine <126. Più equilibrate le posizioni di alcune opere di sintesi sulla storia della prima Repubblica, in cui emerge con una certa continuità la sorpresa degli agenti, almeno in un primo momento <127. Tale sorpresa, poi, era dovuta non tanto alla scarsa prevenzione delle autorità locali, quanto alla sottovalutazione delle autorità centrali, che non diedero il «dovuto peso» alle informazioni provenienti da Genova.
Non si negava, infine, «qualche sintomo di nervosismo» tra gli organi di polizia <128.
L’ambasciatore Zellerbach considerò le proteste «in buona parte giustificate». E definì «stupido» il prefetto Pianese per aver concesso l’autorizzazione ai missini <129. Comprensibilmente, però, prese corpo l’ipotesi di una maggiore irrequietezza della piazza rispetto alle forze dell’ordine, che, non a caso, subirono i danni maggiori <130.
[NOTE]
85 Se ne sono in parte occupati solo Nuti e Gentiloni Silveri, si vedano L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 285-299; U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centro-sinistra 1958-1965, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 49-58.
86 Si veda G. Formigoni, A. Guiso (a cura di), Tambroni e la crisi del 1960, cit., p. 368. Significativo è il fatto che Murgia, citando un editoriale del «New York Times», scrive che «sembra uscito dall’ufficio stampa di Tambroni», si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 139. Sfogliando «L’Unità» e «Il Secolo d’Italia» del luglio 1960 si trova una selezione degli editoriali di molti quotidiani stranieri. Naturalmente la stampa internazionale veniva usata per avvalorare la tesi dell’aggressione da parte delle forze dell’ordine o della provocazione di piazza. Era comunque indicativo dell’attenzione rivolta a quanto scrivevano all’estero per comprovare le proprie idee.
87 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
88 Si veda L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 288-289.
104 Sul generale inasprimento delle autorità pubbliche nei confronti dell’opposizione di sinistra si veda P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., pp. 365-367.
105 G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia, cit., p. 138. Per le reazioni sulla stampa missina si veda Preordinate provocazioni dei socialcomunisti a Parma, «Il Secolo d’Italia», 1 maggio 1960.
106 A. Barbato, Da Bologna il primo squillo di tromba, «L’Espresso», 29 maggio 1960, p. 6. Si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 62.
107 Si veda G. Fanti, G.C. Ferri, Cronache dall’Emilia rossa: l’impossibile riformismo del Pci, Pendragon, Bologna, 2001, pp. 67-68.
108 Police breakup of Bologna communist meeting arouses strong reaction, M. Cootes (American Consul General) to the Department of State, May 30, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/5-3060.
109 Communists provoke incidents in Chamber June 1 over clash with police in Bologna, G. Lister (First Secretary of Embassy) to the Department of State, June 10, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-1060. Tuttavia, proprio in relazione ai fatti di Bologna, il parlamentare democristiano Elkan parlò di una grande quantità di armi detenute nelle case di alcuni arrestati o in luoghi vicini. Erano tutti esponenti del Pci e le armi facevano parte, secondo Elkan, di «oscuri e gravi ricordi di guerra civile», si veda AP, CdD, III Legislatura, Discussioni, Seduta del 1° giugno 1960, p. 14423.
110 «L’autorizzazione era stata data da tempo, addirittura da Segni come ministro degli Interni del suo governo», si veda L. Radi, Tambroni trent’anni dopo, cit., p. 105. La notizia del congresso apparve sul quotidiano neofascista a metà maggio, si veda In difesa dello Stato e della nazione insostituibile la funzione del Msi, «Il Secolo d’Italia», 15 maggio 1960. La mozione congressuale fu pubblicata, sempre sul quotidiano neofascista, il 3 giugno.
111 A. Baldoni, La destra in Italia, cit., p. 553; Servello ha scritto di un partito «completamente impreparato», della «sottovalutazione delle capacità di mobilitazione delle sinistre» e della «sopravvalutazione della capacità del governo Tambroni di gestire la situazione». I tempi, comunque, non erano ancora giudicati maturi, F. Servello, 60 anni in fiamma. Dal Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006, pp. 63-68. Sull’autocritica di Almirante si veda A. Pitamitz (a cura di), Tre protagonisti 25 anni dopo, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 47. Particolarmente netto e amaro fu il giudizio di Anfuso, che nel 1962 arrivò a dire che il Msi avrebbe potuto anche sparire, se la Dc si fosse sforzata di comprendere le intenzioni del partito neofascista, A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 202. La questione delle intenzioni missine è peraltro molto dibattuta. Ne «Il Secolo d’Italia» del 30 giugno ’60 si legge «il Msi rappresenta dunque, e assume apertamente di voler rappresentare, la continuazione del Fascismo». Tarchi ha ricordato la «classica connotazione bicefala del Msi», alla luce della quale l’obiettivo ultimo restava la costruzione di «un regime destinato a richiamare - sia pure in forme che nessuno avrebbe saputo indicare con precisione - quello mussoliniano», M. Tarchi, Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Intervista di A. Carioti, Rizzoli, Milano, 1995, p. 66
112 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 39-41; F.M. Solo la Dc a Genova non protesta contro il congresso dei neofascisti, «L’Unità», 11 giugno 1960; Per le reazioni missine si veda La farsa rossa dell’indignazione popolare contro il Congresso nazionale del Msi a Genova, «Il Secolo d’Italia», 11 giugno 1960. Il console Joyce rimase colpito dalla durezza della campagna che poi iniziò. A tal proposito citò un manifesto con la scritta: «Msi uguale fascismo, fascismo uguale nazismo, nazismo uguale camere a gas», Growing opposition to planned Msi convention in Genoa, R. Joyce (American Consul General, Genoa) to the Department of State, June 27, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-2760.
113 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., pp. 287-288. Pombeni ha scritto che lo «scandalo» per il congresso a Genova «era credibile fino a un certo punto», P. Pombeni, L’eredità degli anni Sessanta, in F. Lussana, G. Marramao (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 46. Secondo Cooke le difficoltà sul nascere del governo Tambroni si erano subito riversate a livello locale. Genova fu una delle prime città in cui i missini votarono contro importanti provvedimenti, provocando così la crisi della giunta, si veda P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 26-27.
121 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
122 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, p. 288; P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., pp. 76-77.
123 Il rapporto è il n. 113 del 30 giugno 1960, L. Garibaldi, Due verità per una rivolta, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 49.
124 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 85-88.
125 A. Baldoni, Due volte Genova, cit., pp. 97-104. L’ipotesi del coinvolgimento dei carabinieri - voluto da Moro - nella caduta di Tambroni non pare priva di fondamento. Ma sembra ragionevole, stando a quanto reperito negli archivi statunitensi e alle più recenti indagini storiografiche, non dare credito a dietrologie un po’ azzardate. In particolare l’autore pone all’origine dell’accordo Sifar-Cia contro Tambroni il piano Demagnetize, in realtà esauritosi nel ’53 senza risultati apprezzabili, si veda M. Del Pero, Gli Stati Uniti e la «guerra psicologica» in Italia (1948-56), «Studi Storici», a. XXXIX, n. 4, ottobre-dicembre 1998, pp. 961-974. In più Baldoni si rifà a opere giornalistiche (R. Trionfera, Sifar Affair, Reporter, Roma, 1968 e R. Faenza, Il malaffare, Mondadori, Milano, 1978) smentite da successivi lavori scientifici.
126 A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”, cit., pp. 200-201; P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., pp. 81-82.
127 «La violenza dei dimostranti, diversi dei quali erano armati, fu tale che le forze di polizia si trovarono a mal partito e lamentarono diverse perdite in uomini feriti e materiale distrutto», G. Mammarella, L’Italia contemporanea, cit., p. 260.
128 File with subject file copy of Genoa’s D-2 (in italiano), July 11, 1960, RG 84, Italy, US Consulate, Genoa, Box 3, f.300/500 Polit/Econ reporting 1960. Nello stesso documento si parla di azioni condotte con molta decisione, forse perché «era stata diffusa la voce che da parte delle forze dell’ordine non si sarebbe fatto uso di armi». Sui timori dei poliziotti si veda S. Medici, Vite di poliziotti, Einaudi, Torino, 1979, pp. 55-57.
129 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 295.
130 L. Garibaldi, Due verità per una rivolta, cit., p. 50. Si veda «Il Secolo XIX», 1 luglio 1960, articolo molto ricco citato interamente in P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 91-95; Sul trattamento riservato ad alcuni agenti, in particolare sul tentativo di annegamento e sull’utilizzo di uncini si vedano G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 288; L. Fazi, Un comando rosso ha diretto l’insurrezione, «Il Secolo d’Italia», 2 luglio 1960.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009/2010