Intellettuale e irruente tribuno, rivoluzionario di professione e incontestata icona antimafia, in bilico tra Sorel, Lenin e Gramsci, Girolamo Li Causi ha incarnato lo slancio degli esordi, i momenti più neri, i fasti e le aporie del movimento operaio italiano del Novecento. Il suo ruolo è stato rilevante e, per certi aspetti, determinante nel psi massimalista di Serrati, nell'organizzazione dell'attività clandestina comunista durante il fascismo, nella formazione della cultura economica del PCI, nell'elaborazione della sua linea meridionalista, nella politica siciliana, nel processo che avrebbe condotto negli anni Sessanta alla reinvenzione di un'antimafia di Stato. Basato su una vasta documentazione d'archivio inedita raccolta tra l'Italia e Mosca, pubblica e privata, il libro analizza per la prima volta l'intero percorso politico del popolare dirigente socialista e comunista, proponendo uno sguardo singolare sulla storia della sinistra e del paese.
È una figura fondamentale della sinistra italiana quella ricostruita e raccontata da Massimo Asta nel libro Un rivoluzionario del Novecento, edito da Carocci. Lo hanno definito un intellettuale in bilico tra Sorel, Lenin e Gramsci, un rivoluzionario di professione. Di sicuro c'è che l'esponente comunista è una protagonista indiscusso nella storia del movimento operaio italiano del Novecento, nella formazione della cultura economica del Pci, nell'elaborazione della sua linea meridionalista.
“Non è vero. È falso, è falso“. È 16 settembre del 1944 e don Calogero Vizzini, lo storico boss di Cosa nostra, è nervoso. Nella piazza di Villalba - il suo regno da mille e poco più anime nel cuore agricolo della Sicilia, sole che brucia le campagne e contadini piegati al padrone dalla violenza dei mafiosi - i comunisti si sono permessi di venire a tenere un comizio. Anzi non i comunisti: il numero uno del Partito comunista in Sicilia. In quella piazza di Villalba, minuscola capitale della mafia agraria, è arrivato addirittura Girolamo Li Causi, dirigente rosso che quindici anni di carcere fascista non sono riusciti a piegare. Una figura fondamentale della sinistra italiana, ricostruita e raccontata da Massimo Asta nel libro Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento, edito da Carocci. Storico e ricercatore all'università di Sciences Po, a Parigi, Asta ha raccolto una vasta documentazione inedita tra l'Italia e Mosca, per analizzare il percorso politico di Li Causi, nativo di Termini Imerese, in provincia di Palermo. Già determinante nel Psi massimalista di Serrati, convertito al comunismo nel 1924, dopo la scarcerazione Li Causi si unisce ai partigiani. Quindi viene mandato in Sicilia per organizzare il Pci, di cui sarà primo segretario sull'isola. Lo hanno definito un intellettuale in bilico tra Sorel, Lenin e Gramsci, un rivoluzionario di professione. Di sicuro c'è che Li Causi è una protagonista indiscusso nella storia del movimento operaio italiano del Novecento, nella formazione della cultura economica del Pci, nell'elaborazione della sua linea meridionalista, nel processo che avrebbe condotto negli anni Sessanta alla reinvenzione di un'antimafia di Stato. Già l'antimafia. Nata forse quel giorno di settembre del '44 a Villalba. Quando la polizia e i carabinieri consigliano a Li Causi e i suoi di non andare a parlare nel regno di don Calò, di non provocare il patriarca mafioso, legato alla Democrazia cristiana e ai separatisti che in quei mesi lavorano per tentare di fare della Sicilia la 49esima stella degli Stati Uniti d'America.E infatti l'inizio di quel comizio è difficoltoso. Anche perché, arrivati nella piazza a bordo di un camion, i comunisti si rendono conto che non possono cominciare a parlare. Il motivo? Le campane della chiesa suonate continuamente dall'arciprete di Villalba, che è il fratello di don Calogero. “Passò quasi un' ora: gli uomini aspettavano nervosi, le campane assordavano la piazza, don Calogero fumava. Finalmente il suono finì e il comizio poté cominciare”, ricostruì sull'Espresso Eugenio Scalfari nel 1956. All'inizio non c'era nessuno, a parte Li Causi e i suoi amici democristiani e separatisti. Piano piano, però, arrivarono una serie di curiosi che apprezzavano i concetti espressi da Li Causi: le terre da togliere ai latifondisti protetti dai gabellotti mafiosi per distribuirle ai contadini. È a quel punto che Vizzini perde la calma forse per l'unica volta nella sua vita: “Non è vero. È falso, è falso“. Fu una specie di segnale: da nulla comparvero una serie di pistole, subito utilizzate contro il palco improvvisato dei rossi e persino alcune bombe a mano. Diversi i feriti, compreso Li Causi che venne colpito a una gamba.
Più volte deputato e senatore, eletto all'Assemblea costituente, il dirigente comunista era anche tra gli obiettivi della strage di Portella della Ginestra il primo maggio del 1947. Episodio sul quale Asta ricostruisce una parte totalmente inedita: poco dopo l'eccidio, infatti, Li Causi ha dovuto utilizzare tutta la sua autorità per impedire una “rappresaglia fuori controllo contro noti esponenti mafiosi e alcuni latifondisti” che un gruppo di comunisti avrebbe voluto mettere in atto sull'onda dell'emozione prodotta dalla strage. Quattordici morti, decine di feriti, tra contadini, donne, bambini che festeggiavano la festa dei lavoratori. Pochi giorni prima il Blocco del popolo aveva vinto le elezioni regionali in Sicilia con il 32% (contro il 20% della Dc). Occorreva un segnale. Si manifestò con le armi di Salvatore Giuliano, della sua banda, e probabilmente non solo. D'altra parte quella di Portella è una strage ancora oggi irrisolta. La prima di una lunga serie nell'Italia repubblicana.
Redazione, Girolamo Li Causi, il comunista che “inventò” l'antimafia. E andò a parlare nella piazza del boss (che gli fece sparare), Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2018
È una figura fondamentale della sinistra italiana quella ricostruita e raccontata da Massimo Asta nel libro Un rivoluzionario del Novecento, edito da Carocci. Lo hanno definito un intellettuale in bilico tra Sorel, Lenin e Gramsci, un rivoluzionario di professione. Di sicuro c'è che l'esponente comunista è una protagonista indiscusso nella storia del movimento operaio italiano del Novecento, nella formazione della cultura economica del Pci, nell'elaborazione della sua linea meridionalista.
“Non è vero. È falso, è falso“. È 16 settembre del 1944 e don Calogero Vizzini, lo storico boss di Cosa nostra, è nervoso. Nella piazza di Villalba - il suo regno da mille e poco più anime nel cuore agricolo della Sicilia, sole che brucia le campagne e contadini piegati al padrone dalla violenza dei mafiosi - i comunisti si sono permessi di venire a tenere un comizio. Anzi non i comunisti: il numero uno del Partito comunista in Sicilia. In quella piazza di Villalba, minuscola capitale della mafia agraria, è arrivato addirittura Girolamo Li Causi, dirigente rosso che quindici anni di carcere fascista non sono riusciti a piegare. Una figura fondamentale della sinistra italiana, ricostruita e raccontata da Massimo Asta nel libro Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento, edito da Carocci. Storico e ricercatore all'università di Sciences Po, a Parigi, Asta ha raccolto una vasta documentazione inedita tra l'Italia e Mosca, per analizzare il percorso politico di Li Causi, nativo di Termini Imerese, in provincia di Palermo. Già determinante nel Psi massimalista di Serrati, convertito al comunismo nel 1924, dopo la scarcerazione Li Causi si unisce ai partigiani. Quindi viene mandato in Sicilia per organizzare il Pci, di cui sarà primo segretario sull'isola. Lo hanno definito un intellettuale in bilico tra Sorel, Lenin e Gramsci, un rivoluzionario di professione. Di sicuro c'è che Li Causi è una protagonista indiscusso nella storia del movimento operaio italiano del Novecento, nella formazione della cultura economica del Pci, nell'elaborazione della sua linea meridionalista, nel processo che avrebbe condotto negli anni Sessanta alla reinvenzione di un'antimafia di Stato. Già l'antimafia. Nata forse quel giorno di settembre del '44 a Villalba. Quando la polizia e i carabinieri consigliano a Li Causi e i suoi di non andare a parlare nel regno di don Calò, di non provocare il patriarca mafioso, legato alla Democrazia cristiana e ai separatisti che in quei mesi lavorano per tentare di fare della Sicilia la 49esima stella degli Stati Uniti d'America.E infatti l'inizio di quel comizio è difficoltoso. Anche perché, arrivati nella piazza a bordo di un camion, i comunisti si rendono conto che non possono cominciare a parlare. Il motivo? Le campane della chiesa suonate continuamente dall'arciprete di Villalba, che è il fratello di don Calogero. “Passò quasi un' ora: gli uomini aspettavano nervosi, le campane assordavano la piazza, don Calogero fumava. Finalmente il suono finì e il comizio poté cominciare”, ricostruì sull'Espresso Eugenio Scalfari nel 1956. All'inizio non c'era nessuno, a parte Li Causi e i suoi amici democristiani e separatisti. Piano piano, però, arrivarono una serie di curiosi che apprezzavano i concetti espressi da Li Causi: le terre da togliere ai latifondisti protetti dai gabellotti mafiosi per distribuirle ai contadini. È a quel punto che Vizzini perde la calma forse per l'unica volta nella sua vita: “Non è vero. È falso, è falso“. Fu una specie di segnale: da nulla comparvero una serie di pistole, subito utilizzate contro il palco improvvisato dei rossi e persino alcune bombe a mano. Diversi i feriti, compreso Li Causi che venne colpito a una gamba.
Più volte deputato e senatore, eletto all'Assemblea costituente, il dirigente comunista era anche tra gli obiettivi della strage di Portella della Ginestra il primo maggio del 1947. Episodio sul quale Asta ricostruisce una parte totalmente inedita: poco dopo l'eccidio, infatti, Li Causi ha dovuto utilizzare tutta la sua autorità per impedire una “rappresaglia fuori controllo contro noti esponenti mafiosi e alcuni latifondisti” che un gruppo di comunisti avrebbe voluto mettere in atto sull'onda dell'emozione prodotta dalla strage. Quattordici morti, decine di feriti, tra contadini, donne, bambini che festeggiavano la festa dei lavoratori. Pochi giorni prima il Blocco del popolo aveva vinto le elezioni regionali in Sicilia con il 32% (contro il 20% della Dc). Occorreva un segnale. Si manifestò con le armi di Salvatore Giuliano, della sua banda, e probabilmente non solo. D'altra parte quella di Portella è una strage ancora oggi irrisolta. La prima di una lunga serie nell'Italia repubblicana.
Redazione, Girolamo Li Causi, il comunista che “inventò” l'antimafia. E andò a parlare nella piazza del boss (che gli fece sparare), Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2018
Privo di una tradizione delle autonomie locali, il Pci dovette affrontare qualche resistenza interna prima di muoversi in senso regionalista. L'autonomismo in molti militanti evocava lo spettro dell'isolamento dal movimento operaio nazionale e dalla lotta partigiana, il cui peso specifico in vista di un prossimo governo democratico era ormai prevedibile. Fu il segretario nazionale del partito, Palmiro Togliatti, a dissolvere dubbi e localismi indicando nella linea autonomista il fondamento della politica comunista in Sicilia. Costui nell'agosto del 1944 inviò nell'isola un leader autorevole come Girolamo Li Causi, già prigioniero politico e resistente al Nord, affidandogli l'incarico di organizzare il partito. La sua azione fu improntata al disciplinamento delle tendenze radicali e del plebeismo diffusi alla base, dunque al principio del centralismo democratico, chiave di volta del movimento comunista internazionale <17.
[...] Le rivendicazioni popolari si inquadrarono dunque in un più complessivo disegno autonomistico, il cui indispensabile valore di cornice fu confermato in occasione del congresso comunista regionale del gennaio 1945: la posizione del Pci sull'autonomia consisteva, secondo Li Causi, in una «lotta per l'emancipazione contro le forze reazionarie dell'isola […]». Attraverso l'autonomia, le masse popolari siciliane potevano «intervenire direttamente nella vita politica, farvi direttamente udire la loro voce, porre direttamente i loro problemi» <21. Quel congresso, a riprova della specificità attribuita dal Pci ai problemi dell'isola, segnò anche la nascita della Federazione comunista regionale, concepita idealmente per dotare il partito siciliano di ampi poteri decisionali e di elaborazione, ma sciolta di lì a poco per essere sostituita dal Comitato regionale <22.
[...] L'inflessibile avversione del Pci siciliano alla mafia ebbe un preciso momento genetico: la sparatoria scatenata dal capomafia Vizzini contro Li Causi a Villalba il 16 settembre '44. Nel centro nisseno la fazione cattolico-separatista di Vizzini e di suo nipote Beniamino Farina esercitava un potere indiscusso: i due congiunti si alternavano alla guida del comune, controllando la locale sezione della Dc associata al Mis. Una storica famiglia ad essi avversa era quella dei Pantalone, il cui giovane erede e futuro collaboratore de «L'Ora», Michele, dirigeva in paese un gruppo socialista. Giunto a Villalba per un comizio insieme a Pantaleone e altri militanti, Li Causi non evitò, come pare avesse chiesto Vizzini, di riferirsi alle questioni locali, denunciando la gestione affaristica dei subaffitti del feudo Micciché. Fu allora che dalla piazza antistante al palco scariche di proiettili e bombe a mano investirono i comizianti, provocando 14 feriti tra cui Li Causi.
La vicenda fu emblematica per diverse ragioni: a differenza dei tipici agguati mafiosi, l'aggressione venne compiuta alla luce del sole, al cospetto dell'opinione pubblica <37, legittimando platealmente il ruolo della mafia nel sistema di potere della Sicilia interna. L'episodio ebbe tuttavia anche un altro significato, e dalle conseguenze di lungo periodo: fino ad allora dal punto di vista dei comunisti non si era escluso che nella battaglia contro la grande proprietà i gabellotti - ossia gli affittuari di estrazione per lo più mafiosa - potessero schierarsi dalla parte dei contadini. «I componenti della vecchia mafia, nella lotta per la conquista della terra - giunse a scrivere prima del comizio villalbese Li Causi- non avranno più bisogno di mettersi fuori legge […] essi potranno realizzare le loro aspirazioni ed emanciparsi economicamente come tutti i contadini» <38.
Questa prospettiva di apertura verso settori della mafia rurale riprendeva precedenti formulazioni, elaborate in età fascista da due autorevoli dirigenti comunisti, Ruggero Grieco ed Emilio Sereni: il primo aveva dipinto la mafia come «la difesa più solida del feudalesimo siciliano» <39, distinguendo al suo interno una piccola mafia formata da contadini senza terra, piccoli borghesi poveri, funzionari, avvocati, venuta a scontrarsi con il fascismo, e una mafia grande legata al feudalesimo e inquadrata nel regime. La sua schematica previsione aveva postulato «lo spostamento delle masse di bassi mafiosi di origine contadina, sconfitti dal fascismo e dalla grossa mafia, verso il proletariato rivoluzionario» <40.
Più articolata l'interpretazione di Sereni il quale, sulla scorta delle riflessioni di Franchetti, aveva individuato nella mafia una borghesia impedita nel suo sviluppo, uno strato intermedio «rivolto da un lato contro il grande proprietario latifondista, dall'altro contro il contadino povero e contro il salariato agricolo. E questo secondo volto della maffia si rivela ancor più apertamente nel suo atteggiamento di ostilità [non esitando] di fronte ai mezzi più radicali, come l'assassinio dei capi del proletariato agricolo e industriale siciliano» <41. Ciononostante, il fascismo con la sua repressione indiscriminata avrebbe insinuato un contrasto fra ceti intermedi mafiosi e latifondisti, ristabilendo «l'ordine dei grandi proprietari feudali»; ad aggravare ulteriormente tale frattura in seno alle classi dominanti sarebbe stata la crisi del '29. «È probabile […] - proseguiva Sereni - che la maffia, in quanto forma semifeudale di lotta di classe ancora embrionale e indistinta, sia superata dallo sviluppo delle prossime lotte che l'isola, col popolo italiano tutto, è chiamata a combattere» <42.
Queste letture in chiave classista orientarono i leader siciliani del Pci nel secondo dopoguerra, per quanto anche sul versante cattolico la mafia dei gabellotti fosse ritenuta utile ad aggregare gli strati intermedi delle aree interne: lo dimostrò, subito dopo la sparatoria, la rivendicazione dell'amicizia di Vizzini da parte della stessa Democrazia cristiana <43. Tali dichiarazioni d'interesse nei confronti di un soggetto come la mafia, notoriamente radicato a livello locale, riflettevano la scala di priorità delle forze politiche isolane nel quadro siciliano del '44: ai fini di una valutazione dell'approccio da assumere riguardo al fenomeno mafioso prevalevano non tanto considerazioni di tipo legalitario, quanto invece criteri di realismo politico intesi a costruire un insediamento territoriale.
In seguito all'attentato l'approccio dei comunisti alla questione mutò radicalmente, nonostante permanesse l'attitudine a considerare la dimensione popolare dei gruppi mafiosi o delle formazioni banditesche come una componente in qualche misura redimibile <44. Da allora ebbe inizio un lento e contradditorio processo attraverso il quale il rispetto della legalità democratica avrebbe occupato per il Pci uno spazio progressivamente maggiore fra i parametri di giudizio della questione mafiosa. Che il principio legalitario faticasse ad imporsi era anche risultato della sistematica violazione della legge operata dagli agrari e dell'appoggio loro fornito in questo senso dalle autorità costituite.
[NOTE]
17 Su Li Causi, cfr. la recente sintesi di M. Asta, Girolamo Li Causi. Un rivoluzionario del Novecento. 1896-1977, Carocci, Roma 2018.
21 Cfr. G. Li Causi, Rapporto politico, in «La voce comunista», 18 gennaio 1945, ora in M. Rizza (a cura di), I Congressi regionali del P.C.I. in Sicilia. Storia documentaria. Vol. I., Istituto Gramsci Siciliano, Palermo 1988, pp. 176-192.
22 Ivi, pp. 268 sgg.
37 R. Mangiameli, La regione in guerra, cit., p. 354.
38 L'intervento di Li Causi in «La voce comunista», 24 giugno 1944, cit. in Ivi, p. 554.
39 R. Grieco, Scritti scelti. Vol. I. La formazione del partito e le lotte antifasciste, a cura di Enzo Modica, pp. 194-195, ora in F. Petruzzella (a cura di), La posta in gioco. Il Pci di fronte alla mafia. Vol. I. Da Grieco a Li Causi, La Zisa, Palermo 1993, pp. 19-20.
40 Ivi, p. 21.
41 E. Sereni, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Einaudi, Torino 1946, p. 240. Cfr. anche Id., Il capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino 1947.
42 Ivi, p. 242.
43 R. Mangiameli, La regione in guerra, cit., p. 555.
44 Ibid.
Ciro Dovizio, Scrivere di mafia. «L'Ora» di Palermo tra politica, cultura e istituzioni (1954-75), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2018-2019
[...] Le rivendicazioni popolari si inquadrarono dunque in un più complessivo disegno autonomistico, il cui indispensabile valore di cornice fu confermato in occasione del congresso comunista regionale del gennaio 1945: la posizione del Pci sull'autonomia consisteva, secondo Li Causi, in una «lotta per l'emancipazione contro le forze reazionarie dell'isola […]». Attraverso l'autonomia, le masse popolari siciliane potevano «intervenire direttamente nella vita politica, farvi direttamente udire la loro voce, porre direttamente i loro problemi» <21. Quel congresso, a riprova della specificità attribuita dal Pci ai problemi dell'isola, segnò anche la nascita della Federazione comunista regionale, concepita idealmente per dotare il partito siciliano di ampi poteri decisionali e di elaborazione, ma sciolta di lì a poco per essere sostituita dal Comitato regionale <22.
[...] L'inflessibile avversione del Pci siciliano alla mafia ebbe un preciso momento genetico: la sparatoria scatenata dal capomafia Vizzini contro Li Causi a Villalba il 16 settembre '44. Nel centro nisseno la fazione cattolico-separatista di Vizzini e di suo nipote Beniamino Farina esercitava un potere indiscusso: i due congiunti si alternavano alla guida del comune, controllando la locale sezione della Dc associata al Mis. Una storica famiglia ad essi avversa era quella dei Pantalone, il cui giovane erede e futuro collaboratore de «L'Ora», Michele, dirigeva in paese un gruppo socialista. Giunto a Villalba per un comizio insieme a Pantaleone e altri militanti, Li Causi non evitò, come pare avesse chiesto Vizzini, di riferirsi alle questioni locali, denunciando la gestione affaristica dei subaffitti del feudo Micciché. Fu allora che dalla piazza antistante al palco scariche di proiettili e bombe a mano investirono i comizianti, provocando 14 feriti tra cui Li Causi.
La vicenda fu emblematica per diverse ragioni: a differenza dei tipici agguati mafiosi, l'aggressione venne compiuta alla luce del sole, al cospetto dell'opinione pubblica <37, legittimando platealmente il ruolo della mafia nel sistema di potere della Sicilia interna. L'episodio ebbe tuttavia anche un altro significato, e dalle conseguenze di lungo periodo: fino ad allora dal punto di vista dei comunisti non si era escluso che nella battaglia contro la grande proprietà i gabellotti - ossia gli affittuari di estrazione per lo più mafiosa - potessero schierarsi dalla parte dei contadini. «I componenti della vecchia mafia, nella lotta per la conquista della terra - giunse a scrivere prima del comizio villalbese Li Causi- non avranno più bisogno di mettersi fuori legge […] essi potranno realizzare le loro aspirazioni ed emanciparsi economicamente come tutti i contadini» <38.
Questa prospettiva di apertura verso settori della mafia rurale riprendeva precedenti formulazioni, elaborate in età fascista da due autorevoli dirigenti comunisti, Ruggero Grieco ed Emilio Sereni: il primo aveva dipinto la mafia come «la difesa più solida del feudalesimo siciliano» <39, distinguendo al suo interno una piccola mafia formata da contadini senza terra, piccoli borghesi poveri, funzionari, avvocati, venuta a scontrarsi con il fascismo, e una mafia grande legata al feudalesimo e inquadrata nel regime. La sua schematica previsione aveva postulato «lo spostamento delle masse di bassi mafiosi di origine contadina, sconfitti dal fascismo e dalla grossa mafia, verso il proletariato rivoluzionario» <40.
Più articolata l'interpretazione di Sereni il quale, sulla scorta delle riflessioni di Franchetti, aveva individuato nella mafia una borghesia impedita nel suo sviluppo, uno strato intermedio «rivolto da un lato contro il grande proprietario latifondista, dall'altro contro il contadino povero e contro il salariato agricolo. E questo secondo volto della maffia si rivela ancor più apertamente nel suo atteggiamento di ostilità [non esitando] di fronte ai mezzi più radicali, come l'assassinio dei capi del proletariato agricolo e industriale siciliano» <41. Ciononostante, il fascismo con la sua repressione indiscriminata avrebbe insinuato un contrasto fra ceti intermedi mafiosi e latifondisti, ristabilendo «l'ordine dei grandi proprietari feudali»; ad aggravare ulteriormente tale frattura in seno alle classi dominanti sarebbe stata la crisi del '29. «È probabile […] - proseguiva Sereni - che la maffia, in quanto forma semifeudale di lotta di classe ancora embrionale e indistinta, sia superata dallo sviluppo delle prossime lotte che l'isola, col popolo italiano tutto, è chiamata a combattere» <42.
Queste letture in chiave classista orientarono i leader siciliani del Pci nel secondo dopoguerra, per quanto anche sul versante cattolico la mafia dei gabellotti fosse ritenuta utile ad aggregare gli strati intermedi delle aree interne: lo dimostrò, subito dopo la sparatoria, la rivendicazione dell'amicizia di Vizzini da parte della stessa Democrazia cristiana <43. Tali dichiarazioni d'interesse nei confronti di un soggetto come la mafia, notoriamente radicato a livello locale, riflettevano la scala di priorità delle forze politiche isolane nel quadro siciliano del '44: ai fini di una valutazione dell'approccio da assumere riguardo al fenomeno mafioso prevalevano non tanto considerazioni di tipo legalitario, quanto invece criteri di realismo politico intesi a costruire un insediamento territoriale.
In seguito all'attentato l'approccio dei comunisti alla questione mutò radicalmente, nonostante permanesse l'attitudine a considerare la dimensione popolare dei gruppi mafiosi o delle formazioni banditesche come una componente in qualche misura redimibile <44. Da allora ebbe inizio un lento e contradditorio processo attraverso il quale il rispetto della legalità democratica avrebbe occupato per il Pci uno spazio progressivamente maggiore fra i parametri di giudizio della questione mafiosa. Che il principio legalitario faticasse ad imporsi era anche risultato della sistematica violazione della legge operata dagli agrari e dell'appoggio loro fornito in questo senso dalle autorità costituite.
[NOTE]
17 Su Li Causi, cfr. la recente sintesi di M. Asta, Girolamo Li Causi. Un rivoluzionario del Novecento. 1896-1977, Carocci, Roma 2018.
21 Cfr. G. Li Causi, Rapporto politico, in «La voce comunista», 18 gennaio 1945, ora in M. Rizza (a cura di), I Congressi regionali del P.C.I. in Sicilia. Storia documentaria. Vol. I., Istituto Gramsci Siciliano, Palermo 1988, pp. 176-192.
22 Ivi, pp. 268 sgg.
37 R. Mangiameli, La regione in guerra, cit., p. 354.
38 L'intervento di Li Causi in «La voce comunista», 24 giugno 1944, cit. in Ivi, p. 554.
39 R. Grieco, Scritti scelti. Vol. I. La formazione del partito e le lotte antifasciste, a cura di Enzo Modica, pp. 194-195, ora in F. Petruzzella (a cura di), La posta in gioco. Il Pci di fronte alla mafia. Vol. I. Da Grieco a Li Causi, La Zisa, Palermo 1993, pp. 19-20.
40 Ivi, p. 21.
41 E. Sereni, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Einaudi, Torino 1946, p. 240. Cfr. anche Id., Il capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino 1947.
42 Ivi, p. 242.
43 R. Mangiameli, La regione in guerra, cit., p. 555.
44 Ibid.
Ciro Dovizio, Scrivere di mafia. «L'Ora» di Palermo tra politica, cultura e istituzioni (1954-75), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2018-2019
Due anni prima anche Girolamo Li Causi, vicepresidente dell'Antimafia, era stato assolto per le sue accuse a Gioia. L'ex senatore e segretario regionale del PCI aveva detto che il ministro era «moralmente» responsabile dell'assassinio di Almerico e, senza entrare nel merito delle responsabilità, il Tribunale di Palermo gli aveva riconosciuto il diritto di esprimere tale giudizio. <230
[...] Poiché parlava al teatro Politeama, dove si poteva accedere solamente tramite inviti, Lima veniva accusato di essersi esposto in un comizio riservato a persone di indiscussa fedeltà, mentre tutti gli altri oratori parlavano in piazza. Numerosi cittadini chiedevano a L'Ora se fosse lecito, in una grande città come Palermo, che il sindaco non parlasse a tutta la cittadinanza ma solo in una sorta di «conferenza familiare». Per avere contezza del suo discorso, dunque, ci si poteva limitare a comprare il giornale. <307
A ridosso delle elezioni [1960], Piazza del Gesù veniva tempestata pure dalle proteste per lo scandalo Genco Russo. Dopo la denuncia della candidatura del boss nelle liste DC, Li Causi ribadiva alla Camera la necessità di un'inchiesta parlamentare sulla mafia. <308
Alla TV Moro ammetteva di non conoscerlo anche se, comunque, la Direzione non aveva la competenza per esaminare tutte le liste presentate negli ottomila comuni dove si andava a votare. <309
[NOTE]
230 Sul ruolo di icona antimafia guadagnato dall'esponente comunista cfr. Massimo Asta, Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento. 1896-1977, Carocci, Roma 2017, pp. 281-304.
307 Il match elettorale respinto dall'on. Gioia, in «L'Ora», 31 ottobre 1960.
308 AP, CD, Leg. III, Discussioni, 13 ottobre 1960, pp. 17579-17610.
309 Nell'ottobre del 1960 i volti dei politici entravano per la prima volta nelle case degli italiani con Tribuna elettorale, fortunata trasmissione condotta da Gianni Granzotto. Sull'esordio del segretario democristiano cfr. Riccardo Brizzi, Aldo Moro, la televisione e l'apertura a sinistra, in «Mondo contemporaneo», n. 2, 2010, p. 144. Sul ruolo di servizio pubblico del mezzo cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Costume, società e politica, Marsilio, Venezia 1999, pp. 333-354.
Vincenzo Cassarà, Salvo Lima. L’anello di congiunzione tra mafia e politica 1928-1992, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2019
[...] Poiché parlava al teatro Politeama, dove si poteva accedere solamente tramite inviti, Lima veniva accusato di essersi esposto in un comizio riservato a persone di indiscussa fedeltà, mentre tutti gli altri oratori parlavano in piazza. Numerosi cittadini chiedevano a L'Ora se fosse lecito, in una grande città come Palermo, che il sindaco non parlasse a tutta la cittadinanza ma solo in una sorta di «conferenza familiare». Per avere contezza del suo discorso, dunque, ci si poteva limitare a comprare il giornale. <307
A ridosso delle elezioni [1960], Piazza del Gesù veniva tempestata pure dalle proteste per lo scandalo Genco Russo. Dopo la denuncia della candidatura del boss nelle liste DC, Li Causi ribadiva alla Camera la necessità di un'inchiesta parlamentare sulla mafia. <308
Alla TV Moro ammetteva di non conoscerlo anche se, comunque, la Direzione non aveva la competenza per esaminare tutte le liste presentate negli ottomila comuni dove si andava a votare. <309
[NOTE]
230 Sul ruolo di icona antimafia guadagnato dall'esponente comunista cfr. Massimo Asta, Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento. 1896-1977, Carocci, Roma 2017, pp. 281-304.
307 Il match elettorale respinto dall'on. Gioia, in «L'Ora», 31 ottobre 1960.
308 AP, CD, Leg. III, Discussioni, 13 ottobre 1960, pp. 17579-17610.
309 Nell'ottobre del 1960 i volti dei politici entravano per la prima volta nelle case degli italiani con Tribuna elettorale, fortunata trasmissione condotta da Gianni Granzotto. Sull'esordio del segretario democristiano cfr. Riccardo Brizzi, Aldo Moro, la televisione e l'apertura a sinistra, in «Mondo contemporaneo», n. 2, 2010, p. 144. Sul ruolo di servizio pubblico del mezzo cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Costume, società e politica, Marsilio, Venezia 1999, pp. 333-354.
Vincenzo Cassarà, Salvo Lima. L’anello di congiunzione tra mafia e politica 1928-1992, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2019