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giovedì 18 maggio 2023

Fu allora che dalla piazza antistante al palco scariche di proiettili e bombe a mano investirono i comizianti, provocando 14 feriti tra cui Li Causi


Intellettuale e irruente tribuno, rivoluzionario di professione e incontestata icona antimafia, in bilico tra Sorel, Lenin e Gramsci, Girolamo Li Causi ha incarnato lo slancio degli esordi, i momenti più neri, i fasti e le aporie del movimento operaio italiano del Novecento. Il suo ruolo è stato rilevante e, per certi aspetti, determinante nel psi massimalista di Serrati, nell'organizzazione dell'attività clandestina comunista durante il fascismo, nella formazione della cultura economica del PCI, nell'elaborazione della sua linea meridionalista, nella politica siciliana, nel processo che avrebbe condotto negli anni Sessanta alla reinvenzione di un'antimafia di Stato. Basato su una vasta documentazione d'archivio inedita raccolta tra l'Italia e Mosca, pubblica e privata, il libro analizza per la prima volta l'intero percorso politico del popolare dirigente socialista e comunista, proponendo uno sguardo singolare sulla storia della sinistra e del paese.
È una figura fondamentale della sinistra italiana quella ricostruita e raccontata da Massimo Asta nel libro Un rivoluzionario del Novecento, edito da Carocci. Lo hanno definito un intellettuale in bilico tra Sorel, Lenin e Gramsci, un rivoluzionario di professione. Di sicuro c'è che l'esponente comunista è una protagonista indiscusso nella storia del movimento operaio italiano del Novecento, nella formazione della cultura economica del Pci, nell'elaborazione della sua linea meridionalista.
“Non è vero. È falso, è falso“. È 16 settembre del 1944 e don Calogero Vizzini, lo storico boss di Cosa nostra, è nervoso. Nella piazza di Villalba - il suo regno da mille e poco più anime nel cuore agricolo della Sicilia, sole che brucia le campagne e contadini piegati al padrone dalla violenza dei mafiosi - i comunisti si sono permessi di venire a tenere un comizio. Anzi non i comunisti: il numero uno del Partito comunista in Sicilia. In quella piazza di Villalba, minuscola capitale della mafia agraria, è arrivato addirittura Girolamo Li Causi, dirigente rosso che quindici anni di carcere fascista non sono riusciti a piegare. Una figura fondamentale della sinistra italiana, ricostruita e raccontata da Massimo Asta nel libro Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento, edito da Carocci. Storico e ricercatore all'università di Sciences Po, a Parigi, Asta ha raccolto una vasta documentazione inedita tra l'Italia e Mosca, per analizzare il percorso politico di Li Causi, nativo di Termini Imerese, in provincia di Palermo. Già determinante nel Psi massimalista di Serrati, convertito al comunismo nel 1924, dopo la scarcerazione Li Causi si unisce ai partigiani. Quindi viene mandato in Sicilia per organizzare il Pci, di cui sarà primo segretario sull'isola. Lo hanno definito un intellettuale in bilico tra Sorel, Lenin e Gramsci, un rivoluzionario di professione. Di sicuro c'è che Li Causi è una protagonista indiscusso nella storia del movimento operaio italiano del Novecento, nella formazione della cultura economica del Pci, nell'elaborazione della sua linea meridionalista, nel processo che avrebbe condotto negli anni Sessanta alla reinvenzione di un'antimafia di Stato. Già l'antimafia. Nata forse quel giorno di settembre del '44 a Villalba. Quando la polizia e i carabinieri consigliano a Li Causi e i suoi di non andare a parlare nel regno di don Calò, di non provocare il patriarca mafioso, legato alla Democrazia cristiana e ai separatisti che in quei mesi lavorano per tentare di fare della Sicilia la 49esima stella degli Stati Uniti d'America.E infatti l'inizio di quel comizio è difficoltoso. Anche perché, arrivati nella piazza a bordo di un camion, i comunisti si rendono conto che non possono cominciare a parlare. Il motivo? Le campane della chiesa suonate continuamente dall'arciprete di Villalba, che è il fratello di don Calogero. “Passò quasi un' ora: gli uomini aspettavano nervosi, le campane assordavano la piazza, don Calogero fumava. Finalmente il suono finì e il comizio poté cominciare”, ricostruì sull'Espresso Eugenio Scalfari nel 1956. All'inizio non c'era nessuno, a parte Li Causi e i suoi amici democristiani e separatisti. Piano piano, però, arrivarono una serie di curiosi che apprezzavano i concetti espressi da Li Causi: le terre da togliere ai latifondisti protetti dai gabellotti mafiosi per distribuirle ai contadini. È a quel punto che Vizzini perde la calma forse per l'unica volta nella sua vita: “Non è vero. È falso, è falso“. Fu una specie di segnale: da nulla comparvero una serie di pistole, subito utilizzate contro il palco improvvisato dei rossi e persino alcune bombe a mano. Diversi i feriti, compreso Li Causi che venne colpito a una gamba.
Più volte deputato e senatore, eletto all'Assemblea costituente, il dirigente comunista era anche tra gli obiettivi della strage di Portella della Ginestra il primo maggio del 1947. Episodio sul quale Asta ricostruisce una parte totalmente inedita: poco dopo l'eccidio, infatti, Li Causi ha dovuto utilizzare tutta la sua autorità per impedire una “rappresaglia fuori controllo contro noti esponenti mafiosi e alcuni latifondisti” che un gruppo di comunisti avrebbe voluto mettere in atto sull'onda dell'emozione prodotta dalla strage. Quattordici morti, decine di feriti, tra contadini, donne, bambini che festeggiavano la festa dei lavoratori. Pochi giorni prima il Blocco del popolo aveva vinto le elezioni regionali in Sicilia con il 32% (contro il 20% della Dc). Occorreva un segnale. Si manifestò con le armi di Salvatore Giuliano, della sua banda, e probabilmente non solo. D'altra parte quella di Portella è una strage ancora oggi irrisolta. La prima di una lunga serie nell'Italia repubblicana.
Redazione, Girolamo Li Causi, il comunista che “inventò” l'antimafia. E andò a parlare nella piazza del boss (che gli fece sparare), Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2018

Privo di una tradizione delle autonomie locali, il Pci dovette affrontare qualche resistenza interna prima di muoversi in senso regionalista. L'autonomismo in molti militanti evocava lo spettro dell'isolamento dal movimento operaio nazionale e dalla lotta partigiana, il cui peso specifico in vista di un prossimo governo democratico era ormai prevedibile. Fu il segretario nazionale del partito, Palmiro Togliatti, a dissolvere dubbi e localismi indicando nella linea autonomista il fondamento della politica comunista in Sicilia. Costui nell'agosto del 1944 inviò nell'isola un leader autorevole come Girolamo Li Causi, già prigioniero politico e resistente al Nord, affidandogli l'incarico di organizzare il partito. La sua azione fu improntata al disciplinamento delle tendenze radicali e del plebeismo diffusi alla base, dunque al principio del centralismo democratico, chiave di volta del movimento comunista internazionale <17.
[...] Le rivendicazioni popolari si inquadrarono dunque in un più complessivo disegno autonomistico, il cui indispensabile valore di cornice fu confermato in occasione del congresso comunista regionale del gennaio 1945: la posizione del Pci sull'autonomia consisteva, secondo Li Causi, in una «lotta per l'emancipazione contro le forze reazionarie dell'isola […]». Attraverso l'autonomia, le masse popolari siciliane potevano «intervenire direttamente nella vita politica, farvi direttamente udire la loro voce, porre direttamente i loro problemi» <21. Quel congresso, a riprova della specificità attribuita dal Pci ai problemi dell'isola, segnò anche la nascita della Federazione comunista regionale, concepita idealmente per dotare il partito siciliano di ampi poteri decisionali e di elaborazione, ma sciolta di lì a poco per essere sostituita dal Comitato regionale <22.
[...] L'inflessibile avversione del Pci siciliano alla mafia ebbe un preciso momento genetico: la sparatoria scatenata dal capomafia Vizzini contro Li Causi a Villalba il 16 settembre '44. Nel centro nisseno la fazione cattolico-separatista di Vizzini e di suo nipote Beniamino Farina esercitava un potere indiscusso: i due congiunti si alternavano alla guida del comune, controllando la locale sezione della Dc associata al Mis. Una storica famiglia ad essi avversa era quella dei Pantalone, il cui giovane erede e futuro collaboratore de «L'Ora», Michele, dirigeva in paese un gruppo socialista. Giunto a Villalba per un comizio insieme a Pantaleone e altri militanti, Li Causi non evitò, come pare avesse chiesto Vizzini, di riferirsi alle questioni locali, denunciando la gestione affaristica dei subaffitti del feudo Micciché. Fu allora che dalla piazza antistante al palco scariche di proiettili e bombe a mano investirono i comizianti, provocando 14 feriti tra cui Li Causi.
La vicenda fu emblematica per diverse ragioni: a differenza dei tipici agguati mafiosi, l'aggressione venne compiuta alla luce del sole, al cospetto dell'opinione pubblica <37, legittimando platealmente il ruolo della mafia nel sistema di potere della Sicilia interna. L'episodio ebbe tuttavia anche un altro significato, e dalle conseguenze di lungo periodo: fino ad allora dal punto di vista dei comunisti non si era escluso che nella battaglia contro la grande proprietà i gabellotti - ossia gli affittuari di estrazione per lo più mafiosa - potessero schierarsi dalla parte dei contadini. «I componenti della vecchia mafia, nella lotta per la conquista della terra - giunse a scrivere prima del comizio villalbese Li Causi- non avranno più bisogno di mettersi fuori legge […] essi potranno realizzare le loro aspirazioni ed emanciparsi economicamente come tutti i contadini» <38.
Questa prospettiva di apertura verso settori della mafia rurale riprendeva precedenti formulazioni, elaborate in età fascista da due autorevoli dirigenti comunisti, Ruggero Grieco ed Emilio Sereni: il primo aveva dipinto la mafia come «la difesa più solida del feudalesimo siciliano» <39, distinguendo al suo interno una piccola mafia formata da contadini senza terra, piccoli borghesi poveri, funzionari, avvocati, venuta a scontrarsi con il fascismo, e una mafia grande legata al feudalesimo e inquadrata nel regime. La sua schematica previsione aveva postulato «lo spostamento delle masse di bassi mafiosi di origine contadina, sconfitti dal fascismo e dalla grossa mafia, verso il proletariato rivoluzionario» <40.
Più articolata l'interpretazione di Sereni il quale, sulla scorta delle riflessioni di Franchetti, aveva individuato nella mafia una borghesia impedita nel suo sviluppo, uno strato intermedio «rivolto da un lato contro il grande proprietario latifondista, dall'altro contro il contadino povero e contro il salariato agricolo. E questo secondo volto della maffia si rivela ancor più apertamente nel suo atteggiamento di ostilità [non esitando] di fronte ai mezzi più radicali, come l'assassinio dei capi del proletariato agricolo e industriale siciliano» <41. Ciononostante, il fascismo con la sua repressione indiscriminata avrebbe insinuato un contrasto fra ceti intermedi mafiosi e latifondisti, ristabilendo «l'ordine dei grandi proprietari feudali»; ad aggravare ulteriormente tale frattura in seno alle classi dominanti sarebbe stata la crisi del '29. «È probabile […] - proseguiva Sereni - che la maffia, in quanto forma semifeudale di lotta di classe ancora embrionale e indistinta, sia superata dallo sviluppo delle prossime lotte che l'isola, col popolo italiano tutto, è chiamata a combattere» <42.
Queste letture in chiave classista orientarono i leader siciliani del Pci nel secondo dopoguerra, per quanto anche sul versante cattolico la mafia dei gabellotti fosse ritenuta utile ad aggregare gli strati intermedi delle aree interne: lo dimostrò, subito dopo la sparatoria, la rivendicazione dell'amicizia di Vizzini da parte della stessa Democrazia cristiana <43. Tali dichiarazioni d'interesse nei confronti di un soggetto come la mafia, notoriamente radicato a livello locale, riflettevano la scala di priorità delle forze politiche isolane nel quadro siciliano del '44: ai fini di una valutazione dell'approccio da assumere riguardo al fenomeno mafioso prevalevano non tanto considerazioni di tipo legalitario, quanto invece criteri di realismo politico intesi a costruire un insediamento territoriale.
In seguito all'attentato l'approccio dei comunisti alla questione mutò radicalmente, nonostante permanesse l'attitudine a considerare la dimensione popolare dei gruppi mafiosi o delle formazioni banditesche come una componente in qualche misura redimibile <44. Da allora ebbe inizio un lento e contradditorio processo attraverso il quale il rispetto della legalità democratica avrebbe occupato per il Pci uno spazio progressivamente maggiore fra i parametri di giudizio della questione mafiosa. Che il principio legalitario faticasse ad imporsi era anche risultato della sistematica violazione della legge operata dagli agrari e dell'appoggio loro fornito in questo senso dalle autorità costituite.
[NOTE]
17 Su Li Causi, cfr. la recente sintesi di M. Asta, Girolamo Li Causi. Un rivoluzionario del Novecento. 1896-1977, Carocci, Roma 2018.
21 Cfr. G. Li Causi, Rapporto politico, in «La voce comunista», 18 gennaio 1945, ora in M. Rizza (a cura di), I Congressi regionali del P.C.I. in Sicilia. Storia documentaria. Vol. I., Istituto Gramsci Siciliano, Palermo 1988, pp. 176-192.
22 Ivi, pp. 268 sgg.
37 R. Mangiameli, La regione in guerra, cit., p. 354.
38 L'intervento di Li Causi in «La voce comunista», 24 giugno 1944, cit. in Ivi, p. 554.
39 R. Grieco, Scritti scelti. Vol. I. La formazione del partito e le lotte antifasciste, a cura di Enzo Modica, pp. 194-195, ora in F. Petruzzella (a cura di), La posta in gioco. Il Pci di fronte alla mafia. Vol. I. Da Grieco a Li Causi, La Zisa, Palermo 1993, pp. 19-20.
40 Ivi, p. 21.
41 E. Sereni, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Einaudi, Torino 1946, p. 240. Cfr. anche Id., Il capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino 1947.
42 Ivi, p. 242.
43 R. Mangiameli, La regione in guerra, cit., p. 555.
44 Ibid.

Ciro Dovizio, Scrivere di mafia. «L'Ora» di Palermo tra politica, cultura e istituzioni (1954-75), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2018-2019

Due anni prima anche Girolamo Li Causi, vicepresidente dell'Antimafia, era stato assolto per le sue accuse a Gioia. L'ex senatore e segretario regionale del PCI aveva detto che il ministro era «moralmente» responsabile dell'assassinio di Almerico e, senza entrare nel merito delle responsabilità, il Tribunale di Palermo gli aveva riconosciuto il diritto di esprimere tale giudizio. <230
[...] Poiché parlava al teatro Politeama, dove si poteva accedere solamente tramite inviti, Lima veniva accusato di essersi esposto in un comizio riservato a persone di indiscussa fedeltà, mentre tutti gli altri oratori parlavano in piazza. Numerosi cittadini chiedevano a L'Ora se fosse lecito, in una grande città come Palermo, che il sindaco non parlasse a tutta la cittadinanza ma solo in una sorta di «conferenza familiare». Per avere contezza del suo discorso, dunque, ci si poteva limitare a comprare il giornale. <307
A ridosso delle elezioni [1960], Piazza del Gesù veniva tempestata pure dalle proteste per lo scandalo Genco Russo. Dopo la denuncia della candidatura del boss nelle liste DC, Li Causi ribadiva alla Camera la necessità di un'inchiesta parlamentare sulla mafia. <308
Alla TV Moro ammetteva di non conoscerlo anche se, comunque, la Direzione non aveva la competenza per esaminare tutte le liste presentate negli ottomila comuni dove si andava a votare. <309
[NOTE]
230 Sul ruolo di icona antimafia guadagnato dall'esponente comunista cfr. Massimo Asta, Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento. 1896-1977, Carocci, Roma 2017, pp. 281-304.
307 Il match elettorale respinto dall'on. Gioia, in «L'Ora», 31 ottobre 1960.
308 AP, CD, Leg. III, Discussioni, 13 ottobre 1960, pp. 17579-17610.
309 Nell'ottobre del 1960 i volti dei politici entravano per la prima volta nelle case degli italiani con Tribuna elettorale, fortunata trasmissione condotta da Gianni Granzotto. Sull'esordio del segretario democristiano cfr. Riccardo Brizzi, Aldo Moro, la televisione e l'apertura a sinistra, in «Mondo contemporaneo», n. 2, 2010, p. 144. Sul ruolo di servizio pubblico del mezzo cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Costume, società e politica, Marsilio, Venezia 1999, pp. 333-354.
Vincenzo Cassarà, Salvo Lima. L’anello di congiunzione tra mafia e politica 1928-1992, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2019

domenica 30 gennaio 2022

Tutti uniti attorno al democristiano dissidente Silvio Milazzo


Proprio in occasione dell’inaugurazione del nuovo Palazzo di Giustizia di Palermo, il 2 marzo 1958, Giuseppe Togni, ministro dei Lavori pubblici, teneva così un comizio, dal tema "La Democrazia cristiana risponde ai suoi avversari", dove precisava che, in merito al risanamento dei quattro mandamenti, presto sarebbero stati stanziati 10 miliardi da parte del governo e 10 dalla Regione. Le sue dichiarazioni servivano, in primo luogo, ad attenuare l’impressione sconfortante suscitata dal fallimento della Legge speciale e, in vista delle elezioni politiche, più che altro ad avere un effetto psicologico sulla cittadinanza. <190
L’inizio della campagna elettorale richiedeva la mobilitazione di tutti gli iscritti della DC. Dalla caduta di De Gasperi, infatti, cinque anni difficili avevano caratterizzato la legislatura, a causa delle ripetute crisi di governo, dell’instabilità e dell’incertezza della situazione parlamentare. <191 Un decreto del presidente della Regione, in Sicilia, apriva la campagna suscitando però non poche perplessità: l’ex sindaco Cusenza, un otorinolaringoiatra, veniva nominato alla presidenza della Sicilcassa in sostituzione di Restivo, dimesso perché candidato alla Camera. <192 Era il frutto di un evidente compromesso elettorale, perché la designazione del suocero di Gioia arrivava da Piazza del Gesù come merce di scambio, visto che anche il segretario provinciale si apprestava a candidarsi. A nulla valevano le proteste dei comunisti, che per salvare il nome dell’istituto chiedevano all’ARS l’annullamento della nomina. <193 In attuazione delle norme stabilite dal Consiglio nazionale DC sui candidati al Parlamento, dopo cinque anni Gioia si dimetteva pertanto dalla Segreteria palermitana per far posto a Giuseppe Lo Forte. <194 Nel frattempo non si placavano gli attacchi contro Lima, ritenuto responsabile di aver tenuto vacanti duemila alloggi popolari, negandoli a chi ne aveva diritto, per prometterli in cambio del voto. <195 Il PCI protestava anche per l’invadenza della Chiesa. Nella dichiarazione della CEI, che aveva ribadito la necessità dell’unità dei cattolici per costruire «un argine valido ai gravissimi pericoli» che gravavano sul Paese, rilevava infatti una minaccia alla laicità dello Stato. Nel timore che le elezioni venissero trasformate in una sorta di censimento religioso, contro l’intromissione dei vescovi protestavano pure Il Mondo, che parlava di «assalto allo Stato» da parte dei ministri del culto, e L’Espresso, che indirizzava al presidente della Repubblica una lettera aperta di protesta. <196
Già incandescente, la situazione precipitava in occasione della celebrazione dei dodici anni dell’Autonomia, il 15 maggio 1958, quando Fanfani teneva un comizio a Palermo. La scelta dell’oratore scatenava le polemiche perché il segretario della DC era ritenuto il principale responsabile degli ostacoli che da Roma si erano frapposti alla Legge speciale. Il senso di fastidio era avvertibile già alla vigilia, perché Lima aveva fatto allestire una grande parata con i preparativi durati più di una settimana. Di proporzioni gigantesche, il palco era stato addobbato con metri di stoffa e velluti, e lungo l’impalcatura correva un impianto d’illuminazione a formare a grandi lettere il nome di Fanfani. Il tutto era stato preceduto dalla distribuzione di quintali di manifestini, alcuni dei quali lanciati da un aereo appositamente noleggiato dalla Segreteria provinciale. Accolto da tale contesto celebrativo, quando iniziava il suo discorso Fanfani non si aspettava dunque di essere contestato: nel momento in cui invitava gli ascoltatori a ringraziare la DC, infatti, alcuni militanti comunisti confusi tra la folla iniziavano a fischiarlo, finché, persa la calma, il segretario invitava il questore a ristabilire l’ordine accusandolo platealmente di avere la «spina dorsale di pastafrolla». Chiudeva il suo discorso maledicendo tutti coloro che il 25 maggio non avrebbero votato per la DC. Le critiche, verso un tale atteggiamento autoritario, erano unanimi: "il Giornale di Sicilia" lanciava comunque un appello perché la libertà di dissenso non degenerasse in provocazione e sopraffazione. <197 Poco dopo Domenico Modugno, noto simpatizzante socialista, citava tuttavia in giudizio la DC, perché, invitando a "votare…sì, sì / votare… per la DC", aveva sfruttato senza autorizzazione la sua celebre "Nel blu dipinto di blu". <198
Alle elezioni la DC guidava l’area centrista alla maggioranza assoluta dei voti. Rispetto al 1953 recuperava il 2,2% alla Camera e l’1,3% al Senato, guadagnando dieci seggi in entrambi i rami del Parlamento. Smentendo le previsioni della vigilia, che sull’onda della rivoluzione ungherese del 1956 ritenevano probabile un crollo dei comunisti, anche il PCI e il PSI aumentavano i consensi. L’incremento dei liberali era più contenuto rispetto alle previsioni, mentre il PSDI e il PRI mantenevano invariate le posizioni. Soltanto le destre subivano pertanto un arretramento, sia il MSI che i monarchici, che oltretutto si erano presentati divisi in due movimenti (PNM e PMP). <199 I dati nazionali venivano confermati a Palermo, dove la DC guadagnava 31mila voti danneggiando le destre - 18mila in meno al PNM e 13mila al MSI - mentre i due partiti di sinistra ne guadagnavano 16mila. Gioia veniva eletto alla Camera con 82.492 voti, quarto nella lista democristiana dopo Mattarella (120.392), Restivo (102.550) e Aldisio (89.310). Con 47mila voti, veniva eletto anche Barbaccia. <200
Il giorno prima del voto, improvvisamente, era venuto a mancare Luciano Maugeri, il sindaco settantenne. Secondo il PCI, la scelta del nuovo primo cittadino avrebbe pertanto dovuto tenere conto dei risultati elettorali. Scongiurando le «solite manovrette di corridoio», i comunisti si auguravano che il Comune potesse rimettersi sulla strada della buona amministrazione grazie alla loro collaborazione. Senza nemmeno consultare gli altri gruppi consiliari e zittendo gli oppositori interni che proponevano una soluzione più aperta e condivisa, la DC sosteneva invece l’elezione di Lima. Non solo appariva a molti acerbo e sprovveduto per il compito, ma la sua stessa attività a capo dell’assessorato ai LL.PP. non era stata esente da critiche. Queste le opinioni raccolte da "L’Ora" intorno alla sua candidatura: per il liberale Nicola Sanguigno, assessore all’Igiene, non avrebbe ottenuto il consenso degli stessi democristiani poiché, data la particolare gravità della situazione, serviva un uomo di esperienza; rammaricandosi per la mancata consultazione, Giuseppe Ingrassia, capogruppo del PNM, affermava che il sindaco della sesta città italiana non poteva essere un cittadino qualsiasi, ma una personalità conosciuta e con un passato di notorietà politica e professionale; il socialista Purpura parlava dell’ennesima prova, in seno alla DC, di «un inguaribile spirito di faziosità intorno a qualsiasi considerazione di interesse cittadino»; Ferretti aggiungeva infine che la DC voleva nominare il sindaco tramite «i soliti colpi di maggioranza», quando un riesame dei fallimenti precedenti avrebbe dovuto indurre a nuove scelte. Al di là delle riserve legate alla sua età, la candidatura di Lima poneva soprattutto la questione di come la corrente fanfaniana, carica dopo carica, si stesse ormai impossessando di tutte le leve del potere cittadino. <201 A Sala delle Lapidi la candidatura superava comunque abbondantemente i 31 voti necessari alla maggioranza assoluta: Lima veniva così proclamato la sera del 7 giugno 1958. Condividendo le incertezze di quanti vedevano in lui un sindaco privo di esperienza - era il più giovane capo di un’amministrazione capoluogo di provincia in tutta Italia - nell’accettare la carica si limitava a dire che avrebbe fatto del suo meglio. <202 La sua prima giunta era di centrodestra, sostenuta da una maggioranza composta da 27 democristiani, 7 monarchici (4 PNM, 3 PMP), 2 socialdemocratici e 1 liberale. Per la presenza del monarchico Antonino Sorci, la conferma di Ciancimino e l’ingresso di Giuseppe Trapani e Giuseppe Brandaleone, la presenza della mafia, a Palazzo delle Aquile, rimaneva pressoché inalterata. <203
All’estate del 1958 la Sicilia arrivava carica di tensione anche perché, caduto a Roma il monocolore DC retto da Adone Zoli, il 1° luglio Fanfani aveva presentato un gabinetto nel quale la componente siciliana aveva subito un forte ridimensionamento. L’unico ministro era Giardina (per la Riforma della pubblica amministrazione, peraltro senza portafoglio), mentre erano assenti esponenti come Mattarella e Scelba, che in qualità di leaders locali avevano contribuito al successo democristiano. <204 Considerato che la rappresentanza siciliana era la più numerosa in Parlamento (22 senatori e 57 deputati), a molti sembrava inaccettabile. Secondo Mario Ovazza, capogruppo comunista all’ARS, era preoccupante l’orientamento antisiciliano ripetutamente manifestato da Fanfani. Il socialista Michele Russo parlava di un’accentuata settentrionalizzazione del governo, mentre l’indipendente di sinistra Paolo D’Antoni lamentava che l’isola era ormai «una colonia a disposizione delle regioni del Nord». <205 La convinzione che fanfanismo e poteri forti del capitalismo italiano si apprestavano a restringere gli spazi delle libertà e delle competenze attribuite all’Autonomia era dunque largamente diffusa. Gli attacchi allo Statuto erano iniziati un anno prima con la soppressione di uno dei pilastri dell’edificio autonomista, l’Alta corte per la Sicilia, assorbita dalla Corte costituzionale con la sentenza 9 marzo 1957, n. 38. <206 Quando La Loggia si dichiarava vicino ai monopoli del Nord si giungeva così alla clamorosa rottura tra la Sicindustria, guidata da Domenico La Cavera, e Confindustria. <207 All’interno della DC non vi era spazio per gli oppositori, tanto che Fanfani incitava il presidente della Regione ad andare avanti con o senza voti. Preso alla lettera il suggerimento, La Loggia rifiutava così di dimettersi, il 2 agosto, nonostante il bilancio veniva bocciato dall’Assemblea. Con spavalderia, sfidava anzi l’aula ripresentando lo stesso documento la settimana successiva. In un’incandescente seduta, a Palazzo dei Normanni, le sinistre dichiaravano illegittimo il governo, dando inizio a un ostruzionismo che si sarebbe protratto per due mesi. Per la sua ostinazione a restare a tutti i costi, quello di La Loggia veniva ritenuto un «ostruzionismo alla rovescia». <208 Sfiancato dalla dura opposizione parlamentare, rassegnava le dimissioni dopo due mesi esatti, il 2 ottobre. Piazza del Gesù aggiungeva ulteriore benzina sul fuoco quando, in contrasto con la volontà del gruppo parlamentare della DC siciliana, imponeva come candidato Barbaro Lo Giudice, un fanfaniano suggerito da Gullotti. <209 Questa ennesima forzatura, di fatto, consegnava il candidato ai franchi tiratori. La mattina del 23 ottobre, gli italiani apprendevano infatti che in Sicilia la DC era stata estromessa dal governo regionale. <210 L’avvenimento era senza precedenti, perché, anomalia dei tradizionali valori politici, un inedito patto autonomista dava corpo a una maggioranza composta da socialisti e comunisti, da un lato, e missini e monarchici, dall’altro, tutti uniti attorno al democristiano dissidente Silvio Milazzo. <211
Alla lettura dei risultati, se nei banchi democristiani si rimaneva in sbigottito silenzio, le opposizioni si levavano al grido: «Viva Milazzo! Viva la Sicilia! Viva l’autonomia!». Per i socialisti e i comunisti era la vittoria del Parlamento siciliano contro le intimidazioni, le coercizioni esterne e la prepotenza dei fanfaniani. Per il gruppo democristiano, la sconfitta era invece talmente cocente che nessuno era in grado di esprimere un giudizio sulla vicenda. Poiché la congiuntura assembleare aveva fatto confluire su Milazzo i suffragi di due schieramenti contrapposti, fin da subito la Direzione democristiana sosteneva che quel «ponte fra le estreme ali assembleari» avrebbe avuto una durata effimera. <212 Convocato Milazzo, pena l’esclusione dal partito, il segretario gli intimava le dimissioni. Era però l’ennesimo atto di prevaricazione da parte della Segreteria nazionale, tanto che il calatino opponeva un coraggioso rifiuto e tornava a Palermo intenzionato a formare un governo su base assembleare. Nominata la giunta con i voti di PCI, PSI, PNM, MSI e democristiani dissidenti, già il 31 ottobre Fanfani annotava nei suoi "Diari" che la DC avrebbe fatto di tutto per «rendere la vita impossibile ad un simile governo». <213
Sul settimanale diocesano palermitano il cardinale Ernesto Ruffini non tardava a far apparire la sua condanna. Poiché la giunta era nata da un’ibrida coalizione di ideologie e interessi, gli esponenti DC che ne avevano favorito la costituzione avevano assunto comportamenti «politicamente e moralmente gravi». Il «console di Dio», figura forte e discussa della Chiesa siciliana, definiva quegli uomini «pavidi e schizzinosi», avendo occultato le proprie responsabilità nel segreto dell’urna. <214 Gli inviati dei principali giornali nazionali si precipitavano così a Palermo, e "L’Espresso" titolava: "Roma ha paura di Caltagirone". <215 La situazione aveva ripercussioni anche al Consiglio nazionale della DC (15-18 novembre 1958), dove, giustificando il suo comportamento, Fanfani sosteneva apertamente di non aver sbagliato nulla nei confronti della Sicilia. Per lui i transfughi erano mossi unicamente da interessi personalistici, perciò era doverosa la sua decisione di espellere chi aveva accettato di entrare in un governo appoggiato dai comunisti. La sua autodifesa non veniva tuttavia condivisa da parecchi colleghi: Scelba non condivideva nulla, rimproverando al segretario d’aver messo in soffitta l’alleanza con i liberali per inseguire il PSI e aver quindi provocato la crisi del partito nell’isola; Pella e Andreotti denunciavano la mancanza di fraternità interna e di unità d’intenti, mentre Colombo esprimeva il timore che la frana potesse allargarsi alle altre regioni; il più critico era comunque Roberto Lucifredi, che senza mezzi termini attaccava il malcostume dei «gerarchetti» fanfaniani. <216
Il primo effetto dell’operazione Milazzo era perciò uno scossone alla posizione del segretario e del suo apparato. Se il caso avrebbe appassionato l’opinione pubblica per un anno e mezzo, conclusa l’esperienza e placatosi il fervore polemico che ne avrebbe accompagnato l’«epilogo non certo edificante», molto poco però si sarebbe discusso e ancor meno scritto negli anni successivi. Solamente alla fine degli anni Settanta un convegno organizzato dall’Istituto socialista di studi storici avrebbe affrontato il tema col necessario rigore critico e documentario. <217 Un primo bilancio era stato tracciato da Macaluso, per il quale con l’esperienza milazziana l’Autonomia aveva vissuto i suoi momenti più esaltanti: il merito principale dell’operazione, infatti, era quello di aver risvegliato nell’animo dei siciliani «uno spirito di fierezza e di ribellione alla prepotenza esterna». Momento di rottura della preclusione anticomunista, il milazzismo aveva inoltre rappresentato il più serio tentativo di creare un fronte, seppur composito ed eterogeneo, contro il malgoverno democristiano. <218 Su questa scia interpretativa si inseriva la ricostruzione di Alberto Spampinato, giornalista de "L’Ora", che più avanti avrebbe ripercorso le tappe della vicenda arricchendo la narrazione con l’utilizzo di fonti allora inedite quali le testimonianze di Ovazza e di Francesco Pignatone, segretario dell’USCS. <219 Un taglio diverso avrebbero avuto gli scritti di Pasquale Hamel, storico di formazione cattolica, che non circoscrivendo l’analisi in un ambito esclusivamente regionale ha evidenziato i nessi con la situazione nazionale. <220 Il missino Dino Grammatico, assessore all’Agricoltura del primo governo Milazzo, avrebbe infine considerato l’operazione come una lezione alla DC, una clamorosa protesta contro la partitocrazia che Fanfani aveva legalizzato attraverso l’occupazione sistematica delle istituzioni. <221
[NOTE]
190 ACS, MI Gab. 1957-1960, Attività dei partiti, b. 55, f. Palermo, Telegramma del prefetto, 2 marzo 1958.
191 Democrazia cristiana - SPES, 5 anni difficili, SPES, Roma 1958.
192 Sulla Cassa di risparmio, la cui storia si è chiusa nel 1997 con la messa in liquidazione, cfr. Dino Grammatico, Sicilcassa: una morte annunciata. La svendita del sistema creditizio siciliano e la crisi delle banche in Italia, Sellerio, Palermo 1998.
193 ARS, Leg. III, Resoconti parlamentari, interrogazione n. 1403, 25 marzo 1958, pp. 1538-1539.
194 Giuseppe Lo Forte segretario provinciale della DC, in «Sicilia del Popolo», 25 aprile 1958.
195 Lanciata una sfida ai DC Lima e Cacopardo, in «La Voce della Sicilia», 5 maggio 1958.
196 E. Scalfari, Chi comanda in Italia?, in «L’Espresso»; L’assalto allo Stato, in «Il Mondo», 11-13 maggio 1958.
197 L’on. Fanfani segretario politico della DC ha pronunziato l’annunciato discorso a Palermo, in «Giornale di Sicilia»; Mario Farinella, Clamorosa protesta di Palermo durante il comizio di Fanfani, in «L’Ora», 16 maggio 1958.
198 Ugo Ugolini, Modugno querela la DC, in «L’Ora», 21 maggio 1958. La DC parodiava così la canzone vincitrice del Festival di Sanremo: «Penso che un tempo così / non ritorni mai più / Se non votiamo lo scudo / dipinto nel blu / Che tutto il bene che abbiamo / verrebbe abolito / Da chi di falce e martello / si è sempre servito... Votare… sì, sì… / Votare… per la DC / lo scudo dipinto nel blu / E non ascoltare Palmiro che lo devi votare anche tu! / dice: Ti dono la luna e anche più! / Mentre al mondo pian piano / aiuta a donar schiavitù / E con la lusinga vorrebbe / il tuo voto per sé…Votare… sì, sì… / Votare… per la DC / lo scudo dipinto nel blu / lo devi votare anche tu!».
199 Sulle elezioni cfr. P. Pombeni, Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea. 1830-1968, il Mulino, Bologna 1994, p. 518. Per le tabelle cfr. M. S. Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 433.
200 ACS, MI Gab. 1957-1960, Elezioni politiche 1958, b. 415, f. voti di preferenza.
201 Lima sindaco? È un po’ troppo…, in «L’Ora», 6 giugno 1958.
202 ASMPa, DCC, Elezione del sindaco, 7 giugno 1958.
203 O. Cancila, Palermo, cit., p. 292.
204 F. Malgeri, Storia della Democrazia cristiana, cit., III, pp. 146-153.
205 Delusione e disappunto negli ambienti regionali, in «L’Ora», 2 luglio 1958.
206 Sull’Alta corte e sui difficili rapporti Stato-Regione cfr. R. Menighetti - F. Nicastro, Franco Restivo, cit., pp. 195-241.
207 Sulla linea confindustriale al Sud negli anni Cinquanta, in generale, cfr. Anna Lucia Denitto, Confindustria e Mezzogiorno (1950-1958), Congedo, Lecce 2001; sul caso Sicindustria cfr. Nino Amadore, L’eretico. Mimì La Cavera un liberale contro la razza padrona, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012.
208 V. Nisticò, Diabolicum perseverare, in «L’Ora», 1° ottobre 1958.
209 C. Pumilia, La Sicilia al tempo della Democrazia cristiana, cit., p. 38.
210 ARS, Leg. III, Resoconti parlamentari, 23 ottobre 1958, pp. 4863-4873.
211 Fin da giovane attivista del Partito popolare di Caltagirone, Milazzo aveva frequentato il liceo con Scelba. Durante il fascismo era sfuggito all’esilio andando a presiedere la cassa di San Giacomo, una banca di credito agrario fondata da don Sturzo. Nel 1947 era stato segretario della DC catanese, poi, eletto deputato regionale, era stato assessore ai LL.PP. e all’Agricoltura. Cfr. Felice Chilanti, Chi è Milazzo. Mezzo barone e mezzo villano, Parenti, Firenze 1959.
212 Enzo Passiglia, Sicilia ’58. Nascita e declino del milazzismo e dei cristianosociali, Acropoli, Palermo 2006, pp. 27-30.
213 A. Fanfani, Diari, cit., p. 385.
214 Giuseppe Petralia, Ibrida coalizione nel governo regionale, in «Voce Cattolica», 7 novembre 1958. Sull’anticomunismo di Ruffini cfr. Francesco Michele Stabile, I consoli di Dio. Vescovi e politica in Sicilia, 1953-1963, Sciascia, Caltanissetta 1999, pp. 245 sgg.
215 Manlio Del Bosco, Roma ha paura di Caltagirone, in «L’Espresso», 9 novembre 1958.
216 A. Damilano, Atti e documenti della Democrazia cristiana, cit., I, pp. 968-975; F. Malgeri, Storia della Democrazia cristiana, cit., III, pp. 168-173.
217 Rosario Battaglia - Michela D’Angelo - Santi Fedele (a cura di), Il Milazzismo. La Sicilia nella crisi del centrismo, atti del Convegno organizzato dalla sezione di Messina dell’Istituto socialista di studi storici, Messina, marzo 1979, pp. 99-106.
218 Emanuele Macaluso, I comunisti e la Sicilia, Editori riuniti, Roma 1970, p. 109.
219 Alberto Spampinato, Operazione Milazzo. Cronaca della rivolta siciliana del 1958, Flaccovio, Palermo 1979. Pignatone era deputato alla Camera nelle prime due legislature. Non rieletto nel 1958, per la difficoltà di sopravvivere alla lotta tra Alessi e Volpe nello scudocrociato nisseno, passava all’USCS, di cui diveniva segretario (1959-1963). Tornato nella DC al termine del milazzismo, veniva nominato presidente dell’ESPI. Per i suoi scritti cfr. Nella crisi dell’autonomia siciliana e del cattolicesimo politico. Testi da L’Unione Siciliana (1959-1961), Centro studi A. Cammarata, San Cataldo 1994.
220 Pasquale Hamel, Dalla crisi del centrismo all’esperienza milazzista (1956-1959). Cronaca della terza legislatura dell’Assemblea regionale Siciliana, Vittorietti, Palermo 1978; Da Nazione a Regione. Storia e cronaca dell’autonomia regionale siciliana (1947-67), Sciascia, Caltanissetta 1984.
221 D. Grammatico, La rivolta siciliana del 1958. Il primo governo Milazzo, Sellerio, Palermo 1996.
Vincenzo Cassarà, Salvo Lima. L’anello di congiunzione tra mafia e politica (1928-1992), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2019