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martedì 26 dicembre 2023

Venne a Bordighera un ufficiale della Milizia Confinaria a prelevarmi con un'autovettura per trasportarmi a Ventimiglia

Bordighera (IM): Piazza Eroi della Libertà

A Ventimiglia in ambienti che gravitavano intorno alla stazione ferroviaria si formò una rete clandestina con l’obiettivo di sabotare i trasporti tedeschi e difendere le infrastrutture ferroviarie e stradali in concomitanza di un’eventuale sbarco alleato. A questa organizzazione aderirono una decina di ferrovieri assieme a carabinieri, poliziotti, civili. Il gruppo, che assunse il nome di Giovine Italia, riuscì a collaborare con un’altra organizzazione legata al partito comunista di Bordighera, la quale in clandestinità forniva documenti falsi a militari sbandati e antifascisti ritenuti sovversivi dalle autorità della Repubblica Sociale. Gli ufficiali dell’esercito e i carabinieri che aderirono avrebbero dovuto stabilire il controllo dell’ordine pubblico una volta il territorio fosse stato liberato. A causa di un incauto approccio da parte di Olimpio Muratore, tentato con due suoi compagni di scuola arruolatisi nella GNR ferroviaria, Carlo Calvi e Ermanno Maccario, questi rivelarono l’esistenza dell’organizzazione al loro comandante. Iniziarono subito le indagini portate avanti dalla G.N.R. e dal Commissario Capo della Polizia Repubblicana di Ventimiglia, Pavone. All’alba del 23 maggio 1944 una retata portò alla cattura di una trentina di persone, ventuno delle quali consegnate ai tedeschi, e di queste tredici furono successivamente inviate a Fossoli e poi a Mauthausen: Airaldi Emilio, Aldo Biancheri, Antonio Biancheri, Tommaso Frontero, Stefano Garibaldi, Ernesto Lerzo, Amedeo Mascioli, Olimpio Muratore, Giuseppe Palmero, Ettore Renacci, Elio Riello, Alessandro Rubini, Silvio Tomasi, Pietro Trucchi e Eraldo Viale. Solamente Elio Riello, Tommaso Frontero, Amedeo Mascioli, Aldo e Antonio Biancheri sopravvissero alla deportazione. Emilio Airaldi, invece, già sul carro merci destinato in Germania, riuscì a scardinare un finestrino del carro e a gettarsi di notte nel vuoto nei pressi di Bolzano: venne aiutato da ferrovieri che lo aiutarono a nascondersi e quindi a ritornare a casa dove giunse dopo 3 mesi. Giuseppe Palmero e Ettore Renacci furono fucilati a Fossoli, Olimpio Muratore, Silvio Tomasi, Alessandro Rubini, Eraldo Viale, Ernesto Lerzo e Pietro Trucchi morirono nel campo di Mauthausen. Di Antonio Biancheri - salvatosi dagli stenti e appena tornato dal campo di concentramento di Mauthausen - esiste all'Archivio di Stato di Genova (per l'informazione si ringrazia Paolo Bianchi di Sanremo) la denuncia presentata al locale C.L.N. in Bordighera il 6 luglio 1945 contro Salvatore Moretta già milite della Guardia Nazionale Repubblicana, nel documento siglata come G.R.F. anziché G.N.R. come più usuale. Il Moretta, in effetti, era stato molto attivo nel quadro delle operazioni che portarono all'arresto di Biancheri nella notte tra il 22 ed il 23 maggio 1944. Sottolineava, infatti, Biancheri che un mese circa prima del suo arresto, allorquando si trovava nell'attuale Corso Italia di Bordighera in compagnia di Stefano Garibaldi - un altro patriota antifascista, che a luglio 1945 all'amico sembrava ancora detenuto in Germania, mentre, in effetti era già deceduto -, si era accorto del pedinamento effettuato a suo danno dal Moretta: entrati nella farmacia del corso ebbero piena conferma dell'appostamento effettuato dal miliziano repubblichino. Per quanto attiene le modalità del suo arresto, Biancheri specificava i nomi degli uomini della G.N.R. intervenuti, tra i quali, logicamente, compariva il Moretta, ma anche un appuntato dei carabinieri della stazione di Bordighera. In questa circostanza, mentre Biancheri era riuscito in qualche modo a far sparire i documenti per lui più compromettenti, gli agenti sequestravano tutta la sua corrispondenza personale, anche quella vecchia di quattro anni. All'alba, Antonio Biancheri veniva portato - presente sempre il Moretta - nella sede G.N.R. in Piazza della Stazione [oggi Piazza Eroi della Libertà], accanto agli uffici delle Poste e Telegrafi, dove, circa un'ora dopo, venne un ufficiale della Milizia Confinaria a prelevarmi con un'autovettura per trasportarmi a Ventimiglia; e così ebbe inizio la mia lunga e terribile odissea che mi portò a  Mauthausen. In seguito Antonio Biancheri fu molto attivo in seno al Partito socialista, ma reticente - come tanti reduci dalle tragiche odissee del secondo conflitto mondiale - a parlare delle vicende personali più dolorose. Di lui tramanda un vivo ricordo Giorgio Loreti, dinamico animatore dell'Unione Culturale Democratica di Bordighera.

Adriano Maini

venerdì 1 settembre 2023

Un bambina alla sfilata dei partigiani in Piazza San Marco a Venezia il 5 maggio del 1945

Fonte: Maria Teresa Sega, art. cit. infra

Le immagini delle due partigiane che sfilano in Piazza S. Marco il 5 maggio del 1945, davanti ai Comandi alleati, ci hanno accompagnati per anni nei manifesti, nelle copertine dei libri, negli inserti fotografici. La donna esultante con il fucile a tracolla e l’altra con una bambina per mano, sono diventate simbolo di una Resistenza veneziana che si vuole rappresentare, almeno visivamente, corale e plurale e di una Liberazione popolare e partecipata, almeno quella come fatto non strettamente militare. Ma una memoria intermittente non aveva dato nome ai volti, facendo sembrare incongrui quel fucile esibito sul seno e quella bambina con le trecce.
Queste immagini continuavano a interrogarmi: non mi piace l’anonimato, non amo vedere le persone ridotte a simboli, senza sapere delle loro vite, delle loro scelte, dei loro sentimenti. Mi chiedevo cosa provasse la bambina con la testa reclinata sulla spalla, intimidita forse dalla folla vociante, dai militari armanti, dalla macchina da presa dell’operatore che riprende la scena (le istantanee sono fotogrammi di un film girato dal Luce). Che ci faceva ad una sfilata di partigiani? Volevo conoscere l’identità delle due partigiane, le loro storie, ma nessuno dei veneziani da me interpellati le riconosceva: “saranno di fuori”. Andando nella sede dell’Anpi di Mestre, qualche anno, fa seppi invece i loro nomi.
La partigiana col fucile è la Elisa Campion (Lisetta), staffetta della “Ferretto”, sempre presente ai raduni dell’Anpi. Era originaria della zona del Montello dove, dopo l’8 settembre 1943, organizzò un gruppo di donne per assistere i soldati sbandati: li conducevano in case private da dove ripartivano con abiti borghesi. Si mise quindi in contatto con i partigiani della zona del Piave e le vennero affidati i servizi di collegamento del Comando militare provinciale, tra il Piave e Treviso. Poi la formazione si spostò verso Casale sul Sile e Bonisolo. Ricercata si nascose in Cansiglio. Dopo il rastrellamento dell’ottobre ’44 ridiscese in pianura ed entrò nella Brigata “Ferretto”, che operava tra Mestre e Quarto D’Altino. Partecipò con “Volpe” (Martino Ferretto che aveva assunto il comando dopo l’uccisione del fratello Erminio) all’azione che portò alla liberazione di Vincenzo Fonti (Alì), prigioniero nella caserma della Gnr di Treviso e condannato a morte. Fu lei che distrasse la guardia e la immobilizzò sotto il tiro della sua pistola. Arrestata a Mestre e portata a S. Maria Maggiore, partecipò alla liberazione del carcere e all’insurrezione in città.
Della donna che sfila sorridente con la bambina per mano - Maria, figlia di Giovanni Fornaro, assassinato dalle Brigate nere a Ca’ Littoria - non ho saputo niente fino a quando, intervistando ex tabacchine per una ricerca sulla Manifattura tabacchi, qualcuna mi ha parlato della giudecchina Maria Scarpa (Mima) che “era andata con i partigiani”. Ho rintracciato la sorella novantenne che ancora abita alla Giudecca e così ho saputo che Maria, tra le organizzatrici delle proteste che alla Manifattura si verificarono anche durante l’occupazione tedesca, temendo di essere denunciata e catturata se ne andò in montagna, anche lei in Cansiglio. Tornata a Venezia dopo il rastrellamento, rimase nascosta a casa di amici, continuando l’attività clandestina. Era in contatto con Anita Mezzalira e Pina Boldrin, sue compagne di lavoro (l’Anita era stata licenziata nel ’27 ed era sorvegliata speciale, la Pina era anche lei in clandestinità); si incontravano in barca in laguna e organizzavano gli “scioperi del sale” all’interno della Manifattura (il più importante nel dicembre del ’44). Dopo la guerra, rientrata in fabbrica, assieme alla Mezzalira, alla Boldrin e a Tosca Siviero, operaia della Junghans, si impegnò nell’Unione donne italiane, che si occupava di assistenza ai bambini, ai profughi, ai reduci ed entrò nel Partito comunista. Con Renato Rizzo, anch’egli partigiano, organizzò alla Giudecca una manifestazione per chiedere che fossero riassunti gli antifascisti come Bibi Fagherazzi, marito della Tosca e operaio della Junghans, che aveva combattuto nella guerra di Spagna e, dopo essere ritornato dalla Francia, dove era prigioniero, era entrato nella Resistenza. È lui l’uomo che le sta accanto nella foto, l’altro è colui che diventerà suo marito, Aldo Cucco, che aveva conosciuto in Cansiglio.
Allo stato attuale delle mie ricerche le informazioni sulle due partigiane si fermano qui, ma conto di continuare a seguire piste, a verificare indizi e ascoltare testimoni; sono certa che altri nomi e altre vicende affioreranno da memorie un po’ sbiadite ma rivitalizzate da opportune domande, altre immagini riemergeranno dai fondi dei cassetti.
La Resistenza veneziana ha ancora storie da raccontare. Di uomini, di donne e di bambine.
Maria Teresa Sega, Le due partigiane simbolo della Liberazione ora hanno un nome, Notizie dall'Isever, Isever, Anno V - n. 1, 13 aprile 2007


Elisa Campion

ANPI Sezione di Mestre “Erminio Ferretto” bandisce un concorso per un premio annuale intitolato a Elisa Campion “Lisetta”, partigiana combattente e medaglia d’argento (Breda di Piave 1925 - Bollate 1997).
Il premio è destinato a una tesi di laurea magistrale o di dottorato di ricerca in storia contemporanea, discussa presso l’università di Venezia o di Padova tra l’01/09/2021 e il 19/12/2022 e inedita alla data di scadenza della domanda di partecipazione.
La tesi di laurea magistrale o di dottorato deve affrontare, riservando particolare attenzione al ruolo delle donne, uno dei seguenti filoni di ricerca relativi alla storia del Veneto:
- Antifascismo
- Resistenza
- Partiti, organizzazioni e movimenti politici nell’immediato secondo dopoguerra
Il premio di € 1000 sarà assegnato entro i primi mesi del 2023 a giudizio insindacabile della commissione nominata da ANPI Mestre in collaborazione con le Università Ca' Foscari Venezia e Università di Padova.
Scadenza per l'invio delle candidature: 20 dicembre 2022 ore 12
Dettagli e informazioni nel bando in allegato.
Redazione, Premio Elisa Campion, per una tesi di laurea in storia contemporanea, prima edizione, cfNews Università Ca' Foscari Venezia, 20 dicembre 2022

Erano in 25 e, armati di gessetti rosa e bianco, stesi a terra sui masegni della Corte del Teatro Goldoni, hanno colorato il ritratto della partigiana Maria Scarpa che il 28 aprile 1945 entrò in Piazza San Marco, tenendo a mano la piccola Maria Fornaro, per festeggiare la liberazione di Venezia dal nazifascismo a cui aveva partecipato in prima persona. Sono i bambini della scuola dell'Infanzia "B. Capitanio", nota a Venezia per una serie di iniziative didattiche innovative e coinvolgenti per gli alunni. L'iniziativa, ideata dagli artisti Frediano Bortolotti e Vladimir Isailovi, ha trovato piena approvazione da parte del Comune, dell'Anpi e di Iveser, che hanno condiviso con gli autori le finalità: rendere omaggio a tutte le donne partigiane che vengono ricordate poco, e coinvolgere, attraverso il gioco, i bambini in un'attività di sensibilizzazione. Presenti oltre alle insegnanti e ai genitori, anche il commissario straordinario del Comune di Venezia, Vittorio Zappalorto, il direttore della Direzione Affari Istituzionali, Luigi Bassetto, i rappresentanti dell'Anpi (Serena Ragno, Gabrielle Poci detto 'bocia', Bruno Stocchetto detto 'Venezia') il direttore dell'Iveser, Marco Borghi, il nipote di Maria Scarpa, Renzo Giuponi.
Redazione, Erano in 25 e, armati di gessetti rosa e bianco, stesi a terra sui masegni della Corte del Teatro Goldoni, Il Gazzettino.it, 27 aprile 2015

lunedì 1 maggio 2023

Fui aggregato ad una unità segreta di uomini dell'Haganà che operava dentro l'esercito inglese


Il 22 maggio 1945 la Brigata Ebraica raggiungeva il passo del Tarvisio, un’area strategica a ridosso dei confini austriaco e jugoslavo. Nei mesi seguenti la fine della guerra, gran parte di coloro che oltrepassavano il confine proveniva dalle località di Villach, Klagenfurt, Salisburgo, Gratz, dove le autorità Alleate avevano allestito luoghi di soccorso per rifugiati. Trovandosi al centro di numerose linee di passaggio, interessate soprattutto dal transito di profughi, il passo del Tarvisio acquisiva una sempre più significativa rilevanza strategica. Il governo Italiano intendeva mantenere il controllo della città di Trieste e premeva affinché l’esercito britannico impedisse l’ingresso di forze ostili dalla Jugoslavia. <383 L’incarico assegnato alla Brigata Ebraica sarebbe stato proprio quello di sorvegliare la zona di confine fungendo da raccordo nella catena dei rifornimenti verso l’Austria. <384
All’interno dell’area controllata dai «battaglioni palestinesi», i volontari ebrei allestivano due campi per il soccorso ai profughi: il primo battaglione al di fuori della città di Tarvisio ed il terzo a Camporosso; il secondo battaglione veniva collocato invece all’interno della città. Dopo aver provveduto alle attività di accoglienza e di primo soccorso, i soldati del Jewish Brigade Group iniziavano ad organizzare il trasferimento di migliaia di profughi. <385 Nel maggio ’45 venivano avviate delle vere e proprie staffette verso la città di Milano e altri luoghi, come l’orfanotrofio di Sciesopoli a Selvino, <386 in provincia di Bergamo, la clinica per tubercolotici di Merano o le numerose hacsharot <387 vicino Roma, Mantova, Torino, fra cui quelle di Magenta, Boffalora, Tradate, Nonantola. <388
Al Tarvisio i volontari ebrei avevano ampio spazio di manovra. Essi disponevano, come emerge nei vari resoconti giornalistici dei corrispondenti di guerra, di una grande libertà d’azione: "La Brigata [Ebraica] staziona nella parte italiana del confine e non si trova in Austria, tuttavia convogli delle compagnie trasporti palestinesi e colonne di trasporti della stessa Brigata attraversano quotidianamente il confine per recarsi nei centri di occupazione dell’Ottava Armata, ricoprendo ruoli di responsabilità più vari e gestendo problemi connessi ai rifornimenti". <389
La scelta di trasferire la Brigata Ebraica al Tarvisio rappresentava una formidabile occasione per i sionisti che intendevano entrare in contatto con i profughi oltreconfine, <390 mentre si rivelava per i britannici un grave errore di valutazione poiché finì col determinare una indubbia accelerazione delle operazioni di immigrazione degli ebrei in Palestina. Afferma Shlomo Shamir “Rabinowitz”, il comandante degli ufficiali della Haganà nella Brigata Ebraica: "Sul perché i britannici decisero di schierarci in questa posizione strategica, un luogo che si confaceva ai nostri bisogni nazionali, non ho una risposta chiara. È possibile sia stato un miracolo. Forse i britannici semplicemente non capirono che questo luogo avrebbe potuto essere il nostro trampolino di lancio per stabilire il destino dell’ebraismo d’Europa. A pensarci bene, sono quasi certo che l’elemento ebraico non fu preso in considerazione. Dopo tutto, nemmeno noi sapevamo bene in quel momento cosa fosse successo agli ebrei in Europa". <391
La Brigata Ebraica fu trasferita al confine con l’Austria in virtù della sua particolare duttilità operativa e per il fatto che molti volontari ebrei conoscevano le lingue diffuse nella Mitteleuropa. <392 Ad essere sottovalutato, o almeno in un primo momento non considerato, fu pertanto il fattore legato alle esigenze nazionalistiche della dirigenza sionista, per la quale diventava fondamentale riuscire a far giungere in Palestina il più alto numero di sopravvissuti ebrei, unitamente alla efficace capacità operativa dei nuclei sionisti attivi nell’esercito britannico, i quali riuscirono ad organizzarsi autonomamente, ricevendo solo generali e sporadiche direttive da Gerusalemme a causa della precarietà delle comunicazioni, costituendo una avanguardia dalla fondamentale importanza strategica. <393
[...] Nel maggio del ‘45 era già stata avviata una collaborazione fra le organizzazioni ebraiche che operavano in soccorso ai profughi, fra cui il JOINT e la DELASEM, ed i volontari del Jewish Brigade Group, assieme a quelli di altre compagnie ebraiche, in particolare del RASC, che godeva di una più ampia dotazione di veicoli rispetto alle altre unità militari.
Nel mese di giugno aveva luogo al passo del Tarvisio un incontro fra alcuni esponenti della Brigata Ebraica ed i rappresentanti delle Jewish Companies per decidere le modalità di tradotta dei profughi. <394 Oltre ai circa 4 500 uomini del Jewish Brigade Group erano presenti in Italia otto compagnie formate da ebrei, per un totale di altri 3 000 uomini circa: <395 tre compagnie a Milano e dintorni, la 462esima, la 735sima e la 739sima compagnia; <396 due a Trieste, la 179sima e la 643sima compagnia; una nei pressi di Bologna, la 650sima compagnia; <397 una a Napoli e Bari, rispettivamente la 544sima e la 743sima compagnia; a queste si aggiungevano due compagnie interamente formate da volontari ebrei dislocate in Austria, fra cui la 468sima compagnia, proprio a ridosso del confine con l’Italia. <398 L’incontro era organizzato da Yehuda Arazi, il comandante del "Mossad Le Alyiah Bet" in Italia, <399 e da altri luogotenenti della Haganà giunti dalla Palestina; <400 vi partecipava insieme ad altri commilitoni il volontario della 462esima compagnia del RASC Yoseph Koren: "Fui aggregato ad una unità segreta di uomini dell'Haganà che operava dentro l'esercito inglese. Il suo compito era quello di preparare le vettovaglie: acqua, cibo ed equipaggiamento vario per l’immigrazione clandestina in Israele. L'unità 462 tornò a Milano. Dopo qualche giorno ci fu richiesto di presentarci da Eliyahu Cohen, <401 il warrant officer del nostro battaglione. Egli ci diede il compito di andare al comando della «brigata» che si trovava al momento nel triangolo di confine: Italia-Austria-Jugoslavia. Una volta arrivati sul posto ci avrebbero dato altre istruzioni sulla nostra missione. Nel campo militare che si trovava vicino alla «brigata» si ammassarono numerosi autisti con i loro camion delle unità 178, 179, 462, 468, 650. Il nostro compito era quello di prelevare profughi dell'olocausto dall'Austria e poi sparpagliarli tra i diversi campi UNRRA che c'erano in Italia. Solamente in questo momento siamo riusciti a concepire le dimensioni dell'olocausto. Questa era un'immensa marea umana che faceva il suo primo incontro con soldati ebrei provenienti da Israele". <402
L’unità segreta alla quale si riferisce Yoseph Koren era nota con il nome di unità TTG, una sigla che compariva su certificati e fogli di circolazione, acronimo della locuzione arabo-yiddish «Tilhas Tizi Gescheften» (letteralmente «lick my ass business»), che si riferiva ad una unità Alleata in realtà inesistente. <403
Il T.T.G. era formato da una squadra di 50 autisti che appartenevano ad unità di trasporto dell'esercito inglese. Gli uomini del T.T.G. furono meticolosamente scelti dalla Haganà. Ci fu ordinato di mantenere il silenzio, non solo con gli inglesi ma anche con i nostri compagni di altre unità ebraiche, anche se buoni amici dovevano rimanerne all'oscuro. La nostra attività era ritenuta illegale dagli inglesi e dagli italiani. <404
Una volta provveduto ad una prima ed immediata azione di soccorso, i rifugiati sarebbero stati trasferiti dalle zone di confine verso i principali centri di raccolta del nord Italia, soprattutto attorno a Milano e Torino, a bordo dei veicoli militari dell’esercito britannico: "Alla fine della guerra la compagnia di trasporto 462 fu sciolta. I soldati più avanti negli anni rimpatriarono in Israele mentre invece io e altri soldati più giovani siamo rimasti per continuare l'attività di soccorso ai profughi ovunque in Italia. Gli automezzi erano indispensabili per la nostra attività, li abbiamo sottratti così all'esercito inglese. Abbiamo restituito gli automezzi della compagnia, facendoli entrare da un ingresso principale, ma dopo le pratiche burocratiche li abbiamo fatti uscire da un’apertura nella recinzione. Così passarono nelle mani del T.T.G., rimuovemmo poi i numeri e le insegne che avrebbero potuto tradire la loro origine. Con questo metodo siamo riusciti a procurare 50 automezzi per la nostra banda con lo scopo di utilizzarli nell’azione di trasporto profughi nei centri di raccolta e verso i porti. Questi camion servirono anche per trasportare rifornimenti vari e cibarie per i campi, e anche per rifornire la navi per l'immigrazione clandestina di tutto il necessario". <405
A bordo dei veicoli dell’esercito britannico i volontari ebrei godevano di una relativa libertà di movimento anche secondo quanto sostiene Ada Sereni, una delle figure di spicco della Alyiah Bet in Italia: «I confini, in questo momento, sono aboliti e i camion militari alleati non sono fermati da nessuno. Solo la Military Police ha l’autorità di fermarli, ma quando gli autisti hanno i fogli di via in ordine, neppure la polizia può intromettersi». <406
Questa particolare circostanza consentiva ai volontari ebrei, e a quelli della Brigata Ebraica e del RASC in special modo, di offrire un contributo logistico alla Alyiah Bet in un momento in cui la precarietà dei collegamenti limitava in maniera significativa lo spostamento organizzato di un gran numero di profughi. Essi garantivano al contempo una efficace azione di pronto soccorso grazie alla scrupolosa organizzazione militare e al diffuso sentimento di solidarietà nazionale che caratterizzava le Jewish Companies dell’esercito britannico. In altre parole, i volontari ebrei sfruttavano la macchina bellica dell’esercito britannico per trasferire i profughi verso zone sicure, laddove diveniva per loro indispensabile impartire ai futuri «olim», ossia i nuovi cittadini, nozioni di sionismo nonché i rudimenti della vita in kibbutz.
[NOTE]
383 Circa l’importanza strategica della città di Trieste, si faccia riferimento all’appunto della Direzione Generale Affari Politici del Ministero degli Affari Esteri del 27 agosto 1945, ASMAE, Affari Politici, Gran Bretagna, B. 63 (1945) F. 3. Sionismo. Disponibile anche presso Hagana Museum Archive, Tel Aviv, sotto la collocazione 123/איטל /2. Citato anche in M. Toscano, La porta di Sion, p. 17.
384 The Jewish Infantry Brigade Group (1944-1946) - Brigadier E. F. Benjamin C. B. E Memorandum, CZA DD\12828. In un articolo dell’11 giugno 1945 contenuto in CZA J112\1020 viene riportato che «nel frattempo la Brigata Ebraica staziona a 100 miglia da Udine, in Italia, verso il confine con l’Austria, aiutando insieme ad altre unità dell’ottava Armata Britannica e della decima Divisione Alpina Americana a mantenere una sezione della linea dei rifornimenti delle forze di occupazione in Austria». Si veda anche H. Bloom, The Brigade: an epic story of Vengeance, Salvation, and WWII, Hardscrabble Enterteinment, New York 2002 [H. Bloom, La Brigata: una storia di guerra, di vendetta e di redenzione, Saggiatore, Milano 2005, pp. 157-158].
385 D. Porat, One side of a Jewish triangle in Italy: the encounter of Italian Jews with Holocaust survivors and with Hebrew soldiers and Zionist Representative in Italy (1944-1946), in «Italia Judaica IV, Gli ebrei nell’Italia unita (1870-1945)», Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Roma 1993, p. 506.
386 Si faccia riferimento a questo proposito a S. Luzzatto, I bambini di Moshe - Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele, Einaudi, Torino 2019.
387 Centri di educazione professionale agricola allestiti dai sionisti per preparare i nuovi immigrati in Palestina. Tali strutture erano generalmente situate in campagna all’interno di cascine, poderi, fabbricati agricoli.
388 Si vedano A. Sereni, I clandestini del mare e S. Minerbi, Raffaele Cantoni.
389 CZA J112\1020.
390 Report for Week Ending 13 June 1945, 13/6/1945, AMG Bolzano, Repatriation Division. NA, RG 331, ACC Italy, 11202/128/36; S. Kokkonen, Jewish displaced persons in Postwar Italy (1945-1951), in «Jewish Political Studies Review», 20:1/2, 2008, p. 92.
391 S. Shamir, Intervento divino e una bandiera ebraica nell’esercito britannico, p. 217.
392 Ibid.
393 Hagana Museum Archive, File 29.00046/Yitzhak Levi. Ada Sereni afferma che alcuni radiotelegrafisti ed altri emissari dalla Palestina giunsero in Italia a bordo della nave «Pietro», nell’agosto del 1945, probabilmente per ovviare alle difficoltà di comunicazione e per coordinare la gestione dell’immigrazione clandestina. Questo solo dopo che la Brigata Ebraica lasciò il Tarvisio. A. Sereni, I clandestini del mare, p. 44.
394 A. Sereni, I clandestini del mare, p. 21.
395 Lo storico Yoav Gelber sostiene che vi fossero in Italia, nel novembre 1944, circa 10.000 volontari ebrei, Y. Gelber, The Meeting Between the Jewish Soldiers from Palestine Serving in the British Army and She’erit Hapletah, in Y. Gutman; A. Drechsler (a cura di), «She’erit Hapletah, 1944-1948», p. 66. Mario Toscano riporta la cifra di circa 8.000 volontari per quanto riguarda l’estate del 1945, M. Toscano, La porta di Sion, p. 39. Ciò che emerge con chiarezza dalla documentazione del National Archive è che, al maggio 1945, erano operativi al di fuori della Palestina 12 662 volontari ebrei, di cui 5 777 in Egitto e 4 553 nella Brigata Ebraica. Il resto dei volontari ebrei era distribuito fra le Jewish Companies in Italia e nei Balcani. Nei mesi seguenti, alcune centinaia di volontari ebrei lasciavano l’Egitto e raggiungevano i propri commilitoni in Italia, inclusi alcuni membri del Jewish Brigade Group; appare pertanto verosimile che vi fossero circa 7/8 000 volontari ebrei in Italia nel giugno/luglio 1945, Monthly Strenght of Jews and Arabs in Armed Forces and Police - Foreign Office Memorandum, London, 19/3/1946, TNA FO 371/495. Il volontario Piero Cividalli, ad esempio, raggiunse l’Italia insieme ad un centinaio di commilitoni nel maggio 1945, per poi aggregarsi alla Brigata Ebraica, in Belgio, ai primi di ottobre. Intervista a Piero Cividalli (Ramat Gan, 16/5/2020).
396 C. Villani, Milano, Via Unione 5. Un centro di accoglienza per ‘displaced persons’ ebree nel secondo dopoguerra, in «Studi Storici», Anno 50, No. 2, Aprile-Giugno 2009, pp. 335.
397 Intervista al figlio di Ariè Sheck Eugenio (Milano, 15/1/2015).
398 Bintivey Ha’apala Information Center, Atlit Detention Camp Archive, File Peilim/Yoseph Koren.
399 Ada Sereni riporta un dialogo con Arazi nel corso del quale egli avrebbe affermato: «Prima che lasciassi Tel Aviv, Elyahu Golomb [uno dei capi della Hagana] mi disse chiaramente che sarei stato il comandante in Italia». A. Sereni, I clandestini del mare, p. 22.
400 S. Minerbi, Raffaele Cantoni, p. 151.
401 Elyahu Cohen era sergente maggiore della 462esima compagnia trasporti del RASC, «il più alto ufficiale dell’Hagana arruolato nell’esercito britannico», A. Sereni, I clandestini del mare, p. 35.
402 Bintivey Ha’apala Information Center, Atlit Detention Camp Archive, File Peilim/Yoseph Koren.
403 M. Beckman, The Jewish Brigade, pp. 56-59.
404 Bintivey Ha’apala Information Center, Atlit Detention Camp Archive, File Peilim/Yoseph Koren.
405 Ibid.
406 Illegal immigration movements in and through Italy - Vincent La Vista Memorandum, Israeli Defence Forces and Defence Establishment Archives (Tel HaShomer military base, Kiryat Ono), F. 87/1867/1998.
Stefano Scaletta, La Brigata Ebraica e le compagnie di ebrei volontari nell’esercito britannico (1939-1946), Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, Anno accademico 2020-2021

mercoledì 2 febbraio 2022

I partigiani italiani e francesi ed i patti di Saretto

Saretto in una vecchia cartolina - Fonte: Marco Travaglini, art. cit. infra

Gli accordi sottoscritti a Saretto, in Val Maira, il 30 maggio 1944, furono approdo della complessa sequenza di iniziative di alcuni partigiani di rilevante preparazione  culturale e di rigoroso impegno politico per l'avvento della libertà  democratica. Va ricordato e posto in evidenza, in via preliminare, che a ideare, avviare e preparare nei dettagli l'inizio dei colloqui infine sfociati nell'intesa furono partigiani italiani, ai quali non sfuggiva la disparità di posizione dalla quale avrebbero preso le mosse qualsiasi confronto diretto italo-francese e che tuttavia non rinunziarono a priori a imboccare la via della ricerca di accordi nella lotta di liberazione, mirando a obiettivi politici in una visione di respiro europeo, che richiama l'attenzione dello storico per acume e lungimiranza, non disgiunta da solido pragmatismo.
Ben inteso i Patti furono impresa di uomini immersi da mesi in una guerra senza frontiere, nella quale non sempre si facevano prigionieri e la vita stessa era continuamente in gioco. Mentre la Repubblica sociale italiana intensificava una campagna volta a ottenere la "partecipazione", aleggiava l'illusoria speranza che la conclusione del conflitto fosse alle porte, almeno per l'ltalia o quanto meno per la costiera liguro-provenzale e il suo immediato entroterra, sicché ogni atto militare assumeva rilievo politico e qualsiasi decisione su contingenze particolari sembrava proiettarsi sul futuro, con conseguenze di portata vastissima.. Citando Mario Giovana, Frontiere, nazionalismi e realtà locali: Briga e Tenda (1945-1947), in Il Presente e la Storia, rivista dell'Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in provincia di Cuneo, n° 48, 1995, si piò ancora sottolineare che "oltre ad esprimere la soddisfazione dei contraenti per il ritrovamento di una base di intenti comune, avevano dichiarato l'inesistenza di ragioni di risentimento e di scontro per il recente passato politico e militare, che - affermavano i sottoscrittori - impegnava le responsabilità dei rispettivi governi e non quelle dei popoli medesimi, entrambi vittime di regimi d'oppressione e di corruzione. Inoltre, italiani e francesi proclamavano la piena solidarietà nella lotta contro il fascismo ed il nazismo, nonché contro le forze della reazione, quale necessaria fase preliminare dell'instaurazione delle libertà democratiche e della giustizia sociale in una libera comunità europea".
Questa piattaforma stipulata tra i partigiani che agivano ad est e ad ovest delle Alpi Marittime venne completamente disconosciuta dal generale Charles De Gaulle, in quanto i firmatari francesi degli accordi di Saretto erano "un avvocato radical-socialista di Aix-les- Bains, Max Juvenal, capo della R.2 , un avvocato democratico di sinistra nizzardo organizzatore del maquis del Laverq, Jean Lipman (caduto da valoroso nell'insurrezione), il socialista Maurice Piautier (vice comandante della R.2, anch'egli morto sul campo). Personaggi distanti anni luce dal rapimento di grandeur cui De Gaulle rimetteva il senso medesimo della propria missione".
La missione della quale si sentiva investito il generale francese, nei confronti del confinante stato italiano, consisteva prima di tutto nel non riconoscere il suo status di cobelligerante in quanto "nessun governo francese aveva aderito all'armistizio dell'8 settembre ed il Comitato francese di liberazione nazionale, che vi aveva aderito implicitamente, non era munito di riconoscimento come governo".
Sulla base di questa considerazione si doveva "punire" severamente l'Italia. 

Francobollo commemorativo dei patti di Saretto - Fonte: Marco Travaglini, art. cit. infra

Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

La borgata Saretto di Acceglio (CN) - Fonte: Marco Travaglini, art. cit. infra

Il 31 maggio 1944, a Saretto di Acceglio (CN), si svolse un cruciale incontro tra la resistenza italiana e francese.
L’incontro tra italiani e francesi fu organizzato per firmare gli accordi che sancivano rapporti di solidarietà, intesa, collaborazione e lotta contro la dominazione nazifascista. Queste intese rivestirono un importante valore storico, rappresentando la comunanza politica tra i due movimenti in lotta, il reciproco desiderio di stabilire relazioni e ricercare collaborazioni di tipo militare.
All’appuntamento si giunse grazie alle relazioni politiche avviate da Costanzo Picco, sottotenente della IV armata rimasto in territorio francese dopo lo sbandamento dell’8 settembre 1943, che stabilì i contatti fra la resistenza francese e italiana tramite Detto Dalmastro, comandante del III settore del Comitato di Liberazione Nazionale. Un primo incontro avvenne il 12 maggio 1944 in alta montagna, al bivacco sul Colle Sautron, per iniziativa della Brigata “Giustizia e Libertà della Valle Maira”, al quale presero parte in rappresentanza dei partigiani italiani Detto Dalmastro, Costanzo Picco, Luigi Ventre - comandante della brigata Valle Maira - e Giorgio Bocca, comandante della brigata Valle Varaita.
I francesi erano rappresentati da Jacques Lecuyer, del Comité de Libération National, e da diversi comandanti delle formazioni di maquisards. Al Colle del Sautron ci si accordò per un secondo incontro da tenersi a Barcelonnette, nella valle dell’Ubaye, a una trentina di chilometri dal confine italiano. Al rendez vous del 20 maggio presenziarono Duccio Galimberti, Detto Dalmastro e Giorgio Bocca. L’occasione servì a concordare l’intensificazione dei collegamenti tra le formazioni partigiane dei due versanti del confine, scambiandosi armi, munizioni e due ufficiali che si sarebbero stabiliti presso i rispettivi comandi per concordare azioni comuni: Costanzo Picco e Jean Lippmann. Si giunse così all’incontro decisivo, fissato per il 30 e 31 maggio, per sancire gli accordi anche sul versante italiano con l’arrivo dei maquis francesi attraverso il Colle delle Munie; inizialmente l’intesa doveva essere firmata ad Acceglio, dove si erano ritrovate le due delegazioni passando la notte in paese, ma un improvviso rastrellamento tedesco nella mattinata del 31 costrinse i partigiani a riparare più a monte, nella borgata di Saretto.
Parteciparono all’incontro i partigiani Dante Livio Bianco, Ezio Aceto e Luigi Ventre, mentre i francesi vennero rappresentati dal comandante Max Juvenal (Maxence) e dal suo vice Maurice Plantier. L’importanza degli accordi si distingue per il valore dell’enunciazione di una solidarietà tra i popoli oppressi, la volontà di cooperare per la sconfitta del nazifascismo e la costruzione di una nuova Europa democratica e libera da guerre fratricide. Dal punto di vista politico si riconobbe che non vi era ragione di risentimento fra i popoli italiano e francese per le passate vicende belliche in quanto la responsabilità risaliva ai rispettivi governi e non ai popoli; dal punto di vista militare i Patti di Saretto, preso atto della fratellanza fra i combattenti dei due movimenti partigiani, evidenziò la necessità di unire le forze nella lotta contro i nazisti nella fascia alpina, stabilendo contatti continui per creare obiettivi comuni nelle azioni di guerriglia. Il testo, coinciso e denso di significati, rappresentò una delle dichiarazioni più rilevanti della Resistenza europea, di fondamentale importanza nei rapporti tra Italia e Francia dopo la fine della guerra.
[...] In quelle indimenticabili giornate passate sui monti fra l’alta Valle Maira e la Val d’Ubaye, sprofondando nella neve, combattendo contro il gelo e attraversando di nascosto le postazioni tedesche a presidio delle terre di confine, si consolidò tra quegli uomini l’ideale di un’Europa dei popoli come traguardo della lotta di Resistenza e di liberazione. Il loro pensiero si rivelò così audace che quanto scrissero nei Patti di Saretto venne criticato dai comandi italiani, poiché i concetti espressi andavano ben oltre i confini dell’idea monarchica ponendo le basi per una fase preliminare di costituzione delle libertà democratiche e della giustizia sociale in una comunità europea libera.
Marco Travaglini, I “patti” di Saretto. Una pagina di antifascismo europeo tra i monti della Valle Maira, Crpiemonte, 10 agosto 2020 


Un'ampia relazione al Comitato di Liberazione Nazionale, non firmata ma sicuramente di Duccio Galimberti, fornisce l'interpretazione data a quell'intesa preliminare da parte del suo più autorevole propugnatore di parte italiana.
Essa doveva ristabilire la solidarietà latina e rafforzare la lotta comune per l'affermazione delle libertà democratiche.
Anche alla delegazione di parte francese, integrata con un inviato della Commissione Interalleata di Algeri, era evidente la portata politica degli accordi, tantoché venne convenuto di diramare da radio Algeri un comunicato del seguente tenore: "Fra il Comitato di Liberazione Nazionale Italiano e le Forces Françaises de l'Intérieur si sono raggiunti concreti accordi ufficiali, sulla base del riconoscimento dell'identità della lotta per la liberazione dai tedeschi e per la instaurazione delle libertà democratiche".
Nella relazione al CLN Galimberti aggiunse: "Ho assunto l'incarico di far fare la trasmissione da radio Londra in italiano e confido che sia possibile al C.L.N. ottenerlo, anche ai fini di dimostrare la nostra efficienza organizzativa".
La trasmissione da quella emittente non avrebbe comunque bilanciato l'oggettiva disparità segnata dal fatto che la lingua ufficiale di tutta la trattativa - dai preliminari all'incontro al Sautron, dal Convegno di Barcellonette ai "patti di Saretto" - fu il francese, così come esclusivamente in inglese erano i testi originali dell'atto di resa incondizionata sottoscritto dal generale Castellano a Cassibile ("armistizio lungo" firmato da Badoglio a Malta il 29 dello stesso mese).
[...] Rimanevano infine particolarmente severe e fuori discussione le rivendicazioni di parte francese, ispirate a criteri che riesce difficile non catalogare come punitivi anziché politici. Se è vero che parevano accantonati i piani di smembramento e di occupazione permanente dell'Italia, messi a punto a Londra e in altre sedi negli anni precedenti, sul modello poi attuato ai danni della Germania, i gollisti non nascondevano di voler occupare un lungo tratto della costa ligure e di attestarsi, a est delle Alpi, almeno sulla linea Pinerolo-Cuneo, oltre ad annettersi la Valle d'Aosta: un 'bottino di guerra' che inevitabilmente avrebbe spinto altre potenze vincitrici, anche di seconda fila, come Grecia e Jugoslavia, ad accaparrarsi 'compensi' proporzionati ai vantaggi pretesi dai francesi, sì da gettare le basi di un contenzioso destinato ad avvelenare a tempo indeterminato la possibile pace, come già era accaduto all'indomani della Grande Guerra con i Trattati del 1919-20.
[...] I principi ispiratori di quanti, dal versante italiano, avevano tenacemente voluto l'incontro diretto con i francesi erano dunque gli stessi che nel 1942-43 avevano animato i primi 'manifesti' di riorganizzazione dell'Europa su basi federalistiche e di ciascuno Stato attraverso le autonomie regionali: gli stessi assunti a base della '"carta di Chivasso" <9.
Dal canto suo, Duccio Galimberti proprio nel 1942-43 aveva tracciato, con Antonino Repaci, un progetto di costituzione confederale europea ed interna la cui revisione in vista della stampa, ormai programmata, - scrisse Repaci - venne interrotta la sera dell'8 settembre 1943 dalla notizia dell'"armistizio" <10 .
Quel testo sostituiva il principio dell'indipendenza con quello dell'autonomia: una differenza notevole, sia dal punto di vista etico, sia sul piano giuridico, giacché avrebbe segnato l'abolizione della cosiddetta "sovranità esterna".
Lo Stato - spiegò Repaci stesso - "in altri termini sarebbe rimasto sovrano, e non senza certe limitazioni..., solo nei confronti dei suoi sudditi, cioè rispetto a quella che si suol chiamare politica internaa. <11.
Alla vigilia dell'estate 1944, l'imminenza dell'apertura del "secondo fronte" in Francia conferiva concretezza e valenza pratica immediata a prospettive sino a quel momento apparentemente relegate nella sfera dell'immaginazione e della  mera  letteratura  politica <12. Si trattava infatti di stabilire concretamente quale ruolo assegnare - almeno in prospettiva - alle potenze che stavano per risultare definitivamente vincitrici e ai vinti: fissandone durevolmente la disparità o ponendo tutti su basi di uguaglianza in nome della fratellanza universale tra i popoli.
Il carteggio di due tra i più rappresentativi esponenti del giellismo in Piemonte - ormai in larga parte disponibile anche a stampa - consente alcune sommarie considerazioni. Nessuno poneva in dubbio che le sorti dell'Italia sarebbero dipese dalle decisioni delle potenze occidentali (termine che invero non troviamo in uso, mentre vediamo impiegata la formula "anglo-americani", perché era ancora del tutto assente la previsione della spartizione dell'Europa in due aree, una delle quali ridotta a 'satellite' dell'URSS). In tale quadro, gli scenari postbellici risultavano variabili dipendenti della sorte dai vincitori riservata all'Europa centrale, segnatamente alla Germania.
[...] Il primato dell'amicizia italo-francese quale perno della ricostruzione europea era respinto con ostentata preoccupazione da parte di quanti v'intravvedevano il nucleo di un'aggregazione tra i Paesi 'latini' e affini (dalla penisola iberica al Belgio) nel cui ambito sarebbe risultata rilevante la funzione sociale della Chiesa cattolica: che l'esperienza insegnava essere per nulla incompatibile con la Repubblica francese, neppure quando Marianne aveva avuto una dirigenza laicistica e anticlericale (come ai tempi di Jules Ferry e Waldeck Rousseau).
Su quest'ultimo terreno il peso della Tradizione, comprensivo delle singole personalità e dei rispettivi seguiti (ed era la luce in cui taluni vedevano Duccio Galimberti, figlio di un notabile dell'età giolittiana), si riteneva fosse destinato a esercitare un ruolo frenante contro la realizzazione delle aspirazioni rivoluzionarie coltivate dalla frazione movimentistica della lotta di liberazione in costante contrasto, durante e dopo la guerra, con quanti, anche nel Partito d'Azione e oltre, ritenevano che la libertà non sia incompatibile con l'ordine.
Il testo dei patti siglati a Saretto il 30 maggio 1944 risultò, appunto, quale era atteso, espressione di tale "rivoluzione". Andò, anzi, oltre il segno. I firmatari, infatti, non si limitarono a esprimere il punto di vista delle rispettive organizzazioni. Essi sottoscrissero tre dichiarazioni di principio, una più impegnativa dell'altra:
a - la maggiore responsabilità dei rispettivi governi per il "recente passato politico e militare" (che si spingeva a equiparare il regime di Pétain al fascismo);
b - la piena solidarietà e fraternità franco-italiana nella lotta contro il nazifascismo e le forze della reazione quale fase necessaria e preliminare per l'instaurazione delle libertà democratiche e della giustizia sociale, in una libera comunità europea;
c - per l'Italia, non meno che per la Francia, la forma di governo più atta ad assicurare la saldezza delle libertà democratiche e della giustizia sociale è la repubblica.
La comitiva che - appuntò Bianco nel diario - il 29 maggio prese la corriera per Acceglio andò insomma a consumare un atto rivoluzionario: a dichiarare decaduta la monarchia e a sconfessare quel governo Badoglio che, completo di Croce, Togliatti e quant'altri, aveva il sostegno del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e Nazioni Unite. A ben vedere almeno in quel passo i Patti di Saretto mettevano a nudo il potenziale contrasto fra CLN Regionale Piemontese e CLN Centrale, tra Nord e Sud, tra le due Italie.
[...] A Saretto venne annunziata l'esistenza di un'altra Italia: quella della democrazia in armi il cui obiettivo ultimo, al di là delle liberazione dell'Italia dai nazifascisti, era la rivoluzione republicana.
Ciò che per la delegazione francese era ovvio e ordinario, per gli italiani era invece una sfida alla storia passata e futura. A infondere determinazione in Bianco, Ezio Aceto, Gigi Ventre erano i nove mesi di resistenza armata e la convinzione di essere portatori di un 'ordine nuovo', fondato sull'impiego delle armi, oltreché sull'esercizio di tutti i poteri (giustizia, amministrazione locale...), in nome del "popolo", ovvero del secondo (e spesso dimenticato) termine della formula posta a base dello Statuto Albertino, al quale i giellisti non volevan certo tornare e che anzi intendevano cancellare per sempre.
[NOTE]
(9) Il convegno di Chivasso ebbe luogo il 19 dicembre 1943 con la partecipazione di Emilio Chanoux, Osvaldo Coisson, Gustavo Malan, Mario Albeno Rollier e altri. In merito v. G. PEYRONEL, La dichiarazione dei rappresentami delle popolazioni alpine al Convegno di Chivasso il 19 dicembre 1943 in "Il Movimento di liberazione in Italia", 1949, n. 2 ; E. CHANOUX, Fédéralisme et autonomie, Aosta, 1960.
(10) Come attestò lo stesso A. Repaci nella Avvertenza all'edizione del Progetto di Costituzione confederale europea ed imerna, Torino-Cuneo, Fiorini-ICA, 1946, su cui v. anche FRANCO FRANCHI. Caro nemico. La costituzione scomoda di Duccio Galimberti eroe nazionale della resistenza, Roma, Settimo Siugillo, 1990.
(11) Op. cit.
(12) Per talune cui esemplificazioni v. LIVIO PIVANO, Risalire dal fondo, Panna, Guanda, 1947 e FELICE BERTOLINO, L'ltalia libera, Borgo S. Dalmazzo, Benello 1946
Aldo Alessandro Mola, I "patti" di Sareto del 31 maggio 1944 ed i loro riflessi militari in Cahiers de la Méditerranée, n° 52, 1, 1996 - Relations franco-italiennes - pp. 59-84
 
Un documento senza data e senza firma conservato nell’Archivio dell’Istituto Nazionale, comincia con queste parole: «Evidenti ragioni di generale interesse, non solo per l’immediatezza della lotta partigiana, ma anche per i futuri sviluppi della nostra battaglia di risorgimento patrio mi han sempre indotto a cercare di stabilire un collegamento ufficiale stabile con le forze organizzate ai medesimi fini al di là delle Alpi». Il contenuto di questi quattro fogli, che si presentano come relazione al Comitato di Liberazione Nazionale, fa supporre che l’autore sia Duccio Galimberti, comandante regionale delle formazioni GL del Piemonte, poiché soprattutto all’iniziativa di lui, uomo di fede mazziniana e combattente per la libertà nel senso europeo, si dovettero i primi tentativi di riallacciare i rapporti con l’organizzazione clandestina francese. Nel suo pensiero e in quello di coloro che gli erano vicini era giunto il momento che gli italiani liberi, che nel giugno del 1940 avevano sofferto tutta la vergogna dell’assalto proditorio alla Francia, collaborassero con quei francesi liberi che, nel silenzio, preparavano la resurrezione della loro patria, in un nuovo spirito di fraternità fra i due popoli al di sopra e al di fuori della corrotta realtà politica.
In questo documento, che evidentemente è del maggio 1944, sono narrati successivamente i due momenti più importanti di questi accordi: il primo avvenne il 12 maggio quando il Comandante del terzo settore a capo di un gruppo di ufficiali delle formazioni GL della Val Maira, si incontrò al Colle del Sautron a 2800 m., in una baracca affondata nella neve, con il Comandante francese delle Basse Alpi, rappresentante del comando del sud-est della Francia: «Il nostro ufficiale sapeva energicamente eliminare un iniziale atteggiamento di alterigia del delegato francese e mettere in degna luce l’importanza del nostro movimento, tanto che quegli dimostrando per esso particolare considerazione, stima ed interesse, palesava l’intento di addivenire al più presto e con carattere di estrema urgenza ad un colloquio conclusivo con un rappresentante del C.L.N. italiano il quale fosse munito di poteri per stringere concreti accordi generali ed operativi». <2.
Il nuovo incontro, decisivo, ebbe luogo il 20 maggio, con la partecipazione di Duccio Galimberti, che prese su di sé la responsabilità e il peso della pericolosa missione: «Tra il 19 ed il 20 maggio, con una marcia notturna e diurna durata 15 ore, abbiamo valicato un colle sui tremila metri, nonostante la presenza di mezzo metro di neve fresca, ed abbiamo percorso una trentina di chilometri nella Valle della Ubaye, controllata da numerosi e forti presidi tedeschi che fanno oggetto di particolare vigilanza la fascia prossima al confine e vi avevano, il giorno innanzi, arrestato un gruppo di contrabbandieri, fucilandone due. Al ritorno fu necessario marciare per 23 ore consecutive, evitando gli speciali controlli disposti anche nel versante italiano in vista delle operazioni di rastrellamento allora giudicate imminenti, data la scadenza del bando di franchigia (21-22 maggio). Ritengo peraltro che l’esito sia stato tale da compensare i rischi e le fatiche. Partecipavano alla riunione: da parte francese il Comandante del Sud-Est col suo Vice Comandante, un inviato (paracadutato) della Commissione Interalleata di Algeri, i Comandanti di Settore ed i rappresentanti dei Comitati di Liberazione della zona; mentre io ero assistito dal Comandante del III Settore, dal Com. Mil. della Val Varaita e dal ricordato Ten. P.C. <3. È interessante notare che, aprendo la seduta, il capo della delegazione francese dichiarava che quanto fossimo per fare e concludere sarebbe stato di grande utilità per noi italiani, onde cancellare l’eredità fascista e dimostrare il nostro diritto alla libertà. Dovevo, quindi, interromperlo per precisare che i progettati accordi avrebbero giovato non esclusivamente a noi ma per ristabilire la solidarietà latina e rafforzare la comune lotta per l’affermazione delle libertà democratiche. Su quest’ultimo punto ho particolarmente insistito sempre indicandolo come fondamentale, caratteristica finalità della nostra lotta, di cui ho fatto notare tutta la pericolosità, lo slancio audace ed i significativi risultati, ottenuti a prezzo di così gloriosi e cruenti sacrifici» <4.
Il convegno si concluse su questi punti precisi:
«1) riconoscimento di identità dei fini della lotta, non solo per la materialità della liberazione dallo straniero, ma anche per l’aspirazione politica (instaurazione delle libertà democratiche); 2) intensificazione dei contatti fra tutte le vallate confinanti. A questo proposito giova notare che noi confiniamo quasi esclusivamente colla R. 2 il cui capo conferiva con me. Con l’altra regione confinante (R. 1) il solo punto di contatto è il Piccolo S. Bernardo, ove sono avvenuti accordi locali meramente ufficiosi, mentre si studieranno collegamenti a carattere ufficiale e preciso; 3) collaborazione permanente ai fini di operazioni militari concordate. Si era pensato all’invio di un nostro ufficiale in Francia e viceversa. Ma si è concluso esser più pratica la collaborazione diretta dei due elementi. Siccome la R. 2 confina con noi da Ventimiglia al Monte Tabor, è stato necessario suddividerla in due sottozone: alpina l’una (nord) marittima l’altra (sud). Per ogni sottozona un delegato nostro ed uno francese stabiliranno una collaborazione a carattere permanente, onde studiare quali azioni militari coordinate si possano eseguire nel comune interesse.
Per quanto riguarda la zona nord il delegato francese è già stato designato ed ha raggiunto il comando del III Settore» <5.
Per dare un carattere ufficiale fu concordata la seguente comunicazione radio: «Fra il Comitato di Liberazione Nazionale Italiano e le F.F.I. si sono raggiunti concreti accordi ufficiali, sulla base del riconoscimento della identità di intenti nella lotta per la liberazione dai tedeschi e per la instaurazione delle libertà democratiche» <6.
Qui finisce la narrazione contenuta nel documento citato, e già altrimenti nota; racconta poi Livio Bianco <7 che il 30 maggio successivo, per iniziativa del cap. Lippmann, un avvocato lorenese amico dell’Italia, destinato a cadere per mano dei tedeschi, un nuovo convegno avvenne a Saretto, al fine di suggellare la collaborazione; convegno che si chiuse con un importante documento sottoscritto dal capo della II Regione francese Max Jouvenal e dallo stesso Bianco, commissario politico del II Settore; alcuni punti dell’accordo sono fondamentali per comprendere lo spirito della rinnovata intesa:
« ... entre les peuples français et italien il n’y a aucune raison de ressentiment et de heurt pour le recent passé politique et militaire, qui engage la responsabilité des respectifs gouvernements, et non pas celle de ces mêmes peuples, tous les deux victimes de régimes d’oppression et de corruption;
... Affirment la pleine solidarité et fraternité franco-italienne dans la lutte contre le fascisme et le nazisme et contre toutes Jes forces de la réaction, comme nécessaire phase préliminaire de l’instauration des libertés démocratiques et de la justice sociale, dans une libre communauté européenne;
... S’accordent pour engager les forces des respectives organisations dans la poursuite des buts comme ci-dessus definis, dans un esprit de pleine entente et sur un plan de réconstruction européenne» <8.
Una dichiarazione supplementare proposta da Livio Bianco si concludeva con queste parole:
«D’ores et déjà est prévue une étroite collaboration entre les respectives forces de la résistance dans la phase insurrectionnelle qui devra assurer la conquête des libertés démocratiques» <9.
Animato da questo spirito il piano di collaborazione divenne concreto: «Sulle montagne e nelle valli del Cuneese, era un lembo della nuova Europa che emergeva dalle torbide acque dell’oppressione nazifascista». <10
La naturale identificazione della Resistenza francese col generale De Gaulle che volle esclusivamente rappresentare l’antica tradizione nazionalista della Francia, i cui accesi spiriti egli si apprestava a restaurare, non tardò, dopo la liberazione di Parigi e l’arrivo del generale in patria nell’agosto 1944, a far sì che questi accordi, pur conservando il loro valore ideale, venissero a perdere gran parte della loro forza concreta, soprattutto perchè dopo l’agosto 1944 nei rapporti con la Francia si inserirono quelli assai più complessi e determinanti con i Comandi Anglo-americani.
Perciò il 15 novembre con una deliberazione del CVL, il cui documento porta la firma autografa di Maurizio, il dott. Eugenio Dugoni, rappresentante del Comando Militare del Piemonte, che già aveva partecipato alla fine di agosto 1944 ad una missione preliminare in Savoia allo scopo di prendere contatti col Maquis <12, riceve il mandato di mettersi in rapporto con le Organizzazioni Speciali Alleate (Special Force n. 1 e O.S.S.) e collaborare con esse; lo stesso mandato gli è affidato per quanto riguarda le autorità locali francesi, non appena possano essere stabiliti con esse rapporti normali.
[...] È noto che fra i problemi che rendevano irte di difficoltà le relazioni con la Francia, due in particolare premevano: la questione valdostana e il trattamento di tutti i partigiani italiani sconfinati in seguito a rastrellamento; sia che fossero tenuti in campo di concentramento, sia che fossero ammessi al lavoro in territorio francese.
Per facilitare i rapporti fra il Governo di Roma e la Francia e quindi affrettare la soluzione dei molti problemi contingenti, era stato nominato quale ufficiale di collegamento presso il Ministero della Guerra italiana il cap. Roger Guirche, che avrebbe dovuto fare in modo che il Governo francese riconoscesse il Dugoni quale delegato del CVL nella zona sud-est della Francia, perchè costui, che circolava coperto da un documento dell’O.S.S., fosse posto in condizioni di collaborare con le autorità militari francesi e con le speciali Missioni Militari Anglo-americane, al fine di provvedere al riarmo, all’assistenza, all’addestramento di reparti di Volontari della libertà, passati temporaneamente al di là delle Alpi.
In quel tardo autunno 1944 i problemi organizzativi della Resistenza italiana erano resi più difficili dal fatto che gli Alleati non avevano ancora concesso il riconoscimento ufficiale al C.L.N.A.I. e al suo Comando Militare, il CVL, cosa che, come è noto, si effettuò il 7 dicembre 1944 con i Protocolli di Roma firmati dal generale inglese Maitland Wilson, comandante Supremo Alleato del teatro operazioni Mediterraneo e dai componenti la Missione Sud: Ferruccio Parri, Alfredo Pizzoni, Giancarlo Pajetta ed Edgardo Sogno.
[NOTE]
1 Archivio C.L.N.A.I., documento n. 27, s.d., non firmato.
2 Vedi nota 1.
3 Costanzo Picco.
4 Vedi nota 1.
5 Vedi nota 1.
5 Vedi nota 1.
7 Livio BIANCO, Guerra partigiana, Einaudi, Torino, 1954.
8 L. Bianco, op. cit., pag. 77.
9 L. Bianco, op. cit., pag. 78.
10 L. Bianco, op. cit., pag. 79.
11 Archivio C.L.N.A.I., doc. 10 - XXI.
12 Archivio C.L.N.A.I., doc. Personale C.L.N.A.I. a firma II Delegato del C.G.A.I. in Svizzera
Bianca Ceva, Le trattative della delegazione del CLNAI con la Resistenza francese (dicembre 1944) sulla base dei documenti conservati nell'Archivio dell'Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia [Testo della comunicazione presentata al Convegno su «Forme e metodi dell’occupazione nazista in Italia» organizzato dall’Amministrazione provinciale di Roma (23-24 ottobre 1964)] in  Italia contemporanea (già Il Movimento di liberazione in Italia dal 1949 al 1973), n° 75, 1964, Rete Parri

Al termine della guerra iniziò, però, a emergere da parte francese la volontà di annettere la Valle Roja: l’Italia, responsabile del conflitto, era un paese sconfitto e quindi avrebbe dovuto soddisfare quelle modifiche territoriali considerate irrinunciabili dalla Francia per la sicurezza dei propri confini. A ciò si aggiungevano altri tre elementi: il primo riguardava il prestigio gollista teso a far pagare all’Italia «la pugnalata alla schiena» (ovvero l’aggressione) che aveva scavato un solco piuttosto profondo dai due paesi.
Il secondo affondava le proprie ragioni nel quadro della politica internazionale che vedeva la Francia - questa la posizione di De Gaulle - circondata dall’ostilità degli anglo-americani, che miravano a disfarne l’impero coloniale, e inserita in uno schieramento occidentale non sufficientemente coeso e deciso per fronteggiare la minaccia sovietica.
Il terzo verteva invece sul piano economico, con l’intenzione francese di sottrarre all’Italia rilevanti risorse industriali che nel caso della Valle Roja erano rappresentate dalle centrali idroelettriche.
L’Italia, come vedremo in seguito, aveva dal canto suo poche e flebili motivazioni per opporsi nelle sedi istituzionali a una Francia così determinata.
Enrico Miletto, «L’italianissima valle». L’annessione di Briga e Tenda alla Francia (1945-1947) in (a cura di) Francesco Panero, Le comunità alpine dell'arco occidentale: culture, insediamenti, antropologia storica, Atti del Convegno «Le comunità dell’arco alpino occidentale: culture, strutture socio-economiche, insediamenti, antropologia storica» (Torino e La Morra 27 e 28 aprile 2018 - CISIM e Università di Torino), Centro Internazionale di Studi sugli Insediamenti Medievali (CISIM), Cherasco, 2019

[n.d.r.: ma i problemi tra partigiani italiani e francesi insorsero subito, ancor prima che le alte sfere golliste avanzassero o facessero intendere le loro richieste di annessione di territori italiani: in tale senso risulta significativa la relazione di un comandante partigiano di Giustizia e Libertà che si pubblica in stralcio qui di seguito a conclusione di questo articolo; cui fa seguito la chiusura dell'articolo di Bianca Ceva, che aggiunge altri pesanti aspetti dell'atteggiamento francese verso la Resistenza italiana]

FORMAZIONI "GIUSTIZIA E LIBERTÀ"
II DIVISIONE ALPINA
COMANDO III SETTORE - BRIGATA VALLE MAIRA
"R. BLANCHI DI ROASCIO". "GIUSTIZIA E LIBERTÀ"
Sede, 14 settembre 1944
AL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE PER IL PIEMONTE - SEDE
Relazione sul trattamento riservato dai francesi agli italiani profughi in Francia.
ALLEGATO: Copia del memorandum presentato alle FFI.
II sottoscritto Aurelio, Commissario politico della Brigata "Val Maira della II Divisione Alpina "GIUSTIZIA E LIBERTÀ", inviato in Francia dal proprio Comandante di Divisione in missione speciale per prendere collegamento e accordi con i Comandi Alleati e i Comandi delle Forze Francesi dell'interno (FFI), doveva constatare, colà giunto, alcuni gravi fatti commessi a danno dei patrioti e dei civili italiani, profughi in quel paese in seguito allo sbandamento di alcune valli sotto la preponderante pressione germanica. Ecco una minuta esposizione di quanto egli potè accertare:
Non appena oltrepassato il confine nella zona del Passo San Veran, che mette in comunicazione la Valle Varaita con la Francia, egli e la sua guida furono fermati da due elementi delle FFI, muniti di bracciale di riconoscimento, i quali affermarono di aver ricevuto preciso ordine dal comandante il distretto Guillestre - Queyras - Vars di aprire il fuoco senza preavviso di sorta su qualunque individuo, partigiano o civile non importa, che tentasse di passare la frontiera in direzione della Francia, e che soltanto per il fatto che il sottoscritto era munito di bracciale tricolore, che per la lontananza non avevano distinto se italiano o francese, non avevano aperto il fuoco.
Stupefatto per quest'ordine di cui nessuno mai aveva avvertito i Comandi italiani, il sottoscritto si recava al primo comando delle FFI della zona, precisamente al villaggio di San Veran, dove gli veniva confermata non solo l'esistenza di tale ordine, ma pure di un secondo, secondo cui le FFI dovevano disarmare ogni italiano che si presentasse nella zona e internarlo in fortezza (esattamente nel castello-prigione di Mont-Dauphin situato a 5 chilometri da Guillestre). Egli si recava allora immediatamente a Guillestre, sede del comando FFI della zona Guillestre-Queyras-Vars e di alcuni comandi alleati.
Munito delle credenziali consegnategli dal proprio comandante, che gli permettevano di stringere come rompere accordi con le FFI, egli veniva accolto molto freddamente dal tenente George, comandante la zona, e fu grazie se costui si decise, dietro richiesta, di offrirgli ospitalità.
Interrogato il suddetto ten. George, chi fosse ad aver emanato gli ordini suesposti, egli, con tono violento e sprezzante, caratteristico della boriosa e megalomane mentalità del borghese francese, diceva di averli emanati egli stesso, di assumersene la responsabilità e di avere l'approvazione del proprio generale. Richiesto poi del motivo dell'emanazione di tali ordini le sue parole furono esattamente le seguenti: "Car tous ces italiens viennent à immerder le sol de nôtre Patrie!"
Superato il primo impulso di riempirgli il volto di schiaffi, volendo il sottoscritto evitare incidenti troppo clamorosi essendo egli in missione ufficiale, credette opportuno limitarsi a rifiutare l'ospitalità offerta dalle FFI a lui e alla sua guida, gettando sul viso del tenente George i suoi buoni alberghieri, a ricordare in termini molto recisi, ma pur sempre corretti, l'esistenza di accordi di mutua assistenza fra le FFI e i partigiani italiani, di rinfacciargli l'ospitalità offerta a centinai di profughi francesi nel giugno c.a. nei migliori alberghi della Valle Stura e della Valle Maira, a rendergli ufficialmente noto che dal suo ritorno in Italia, analoghi provvedimenti sarebbero stati presi contro tutti i francesi ospiti delle nostre formazioni, e alle nostre pattuglie di confine sarebbe stato dato ordine di aprire il fuoco contro tutti gli sconfinanti francesi in Italia.
A questo punto il Maggiore inglese Hamilton Cross, che assisteva alla discussione, richiese perché ancora i nostri feriti che erano attesi dalle loro ambulanze, non fossero ancora giunti dall'Italia. Il sottoscritto credette bene di rispondere (esprimendo effettivamente l'opinione generale) che noi preferivamo far morire i nostri feriti sulle rocce delle nostre montagne per una pallottola tedesca che farli vivere in Francia, vista la mentalità delle FFI.
Il Tenente George, frattanto, che evidentemente aveva compreso di aver fatto un passo falso, richiese al sottoscritto se fosse pronto ad assumersi la responsabilità di quanto affermava e se fosse pronto a sostenerlo davanti al generale comandante la zone delle Hautes Alpes.
Il sottoscritto accettô tutte le responsabilità e si fece introdurre presso il generale, cui consegnò il memorandum in calce allegato. Il generale, molto conciliante, e soprattutto più educato del suo dipendente ten. George, pretese che quest'ultimo porgesse ufficialmente le sue scuse al sottoscritto per l'espressioni usate verso l'Italia, e cercò di spiegare a suo modo il motivo degli ordini emanati dal suo dipendente.
A giustificazione produsse:
1°) Motivi di sicurezza della frontiera, in seguito alla presenza di elementi tedeschi e fascisti su taluni valichi, che un'infiltrazione insieme ai profughi italiani di spie nazifasciste, essendo la zona percorsa da importanti formazioni alleate.
Di fronte a questo stato di cose, per salvaguardare il nostro prestigio, il sottoscritto rimase così inteso col Comando FFI.
1) Per un tratto di frontiera pari a quella in precedenza stabilita dai francesi anche da parte nostra si sarebbe aperto il fuoco contro tutti gli sconfinanti, perché anche per noi sussiste il pericolo di infiltrazioni germaniche dalla zona dei paesi e non solo per i francesi.
2) II transito attraverso la zona di confine è permesso in appositi corridoi determinati sulla carta topografica e soltanto per persone autorizzate, o per gruppi di patrioti guidati dai loro ufficiali, che preavvisino del loro passaggio e abbiano modo di farsi riconoscere.
3) Un rappresentante nostro verrà inviato presso il Comando francese, onde poter prendere in esame il caso dei partigiani italiani internati, e, sotto la sua responsabilità, far rilasciare e riarmare coloro che egli riconosca come appartenenti alle nostre formazioni e che desiderino rientrare in Italia.
La richiesta di questo rappresentante verrà fatta dai magg. Hamilton Cross incaricato per gli affari riguardanti l'Italia, in modo da non dover chiedere il gradimento delle FFI.
Il generale presentò inoltre le sue scuse per non aver avvertito le nostre formazioni degli ordini impartiti di aprire il fuoco sulla linea di confine, mentre, dianzi, alla stessa domanda il tenente George aveva risposto che i francesi avevano ben altro da fare che preoccuparsi di avvertire degli italiani.
In questi termini l'incidente fu chiuso: sussiste però il fatto di una profonda ostilità dell'opinione pubblica, in particolare delle FFI nei riguardi degli italiani, su cui non si esita a gettar il discredito sino a considerare dei paurosi fuggiaschi quei patrioti che sono stati costretti a sconfinare solo dopo aver sostenuto per giorni e settimane l'urto di forze nemiche enormemente superiori e di aver esaurito sin l'ultima cartuccia.
Resta il fatto che gli internati vengono trattati come comuni prigionieri, sfilano per il paese sotto scorta armata e vengono utilizzati in lavori servili a vantaggio delle FFI [...]

Quanto sia stata aspra l'ostilità dei francesi contro i nostri rappresentanti, lo prova un episodio che avvenne nella seconda metà di dicembre 1944, durante il ritorno della missione italiana, quando all’aeroporto del Bourget Ferruccio Parri si trovò accolto da un reparto schierato della polizia francese, che lo minacciava d’arresto se fosse sceso dall’apparecchio.
Una volta di più apparve chiaro quanto grave e triste fosse per gli uomini della Resistenza il compito di dissipare quei rancori che la dichiarazione di guerra alla Francia il 10 giugno 1940 aveva addensato non solo contro il governo fascista, ma contro tutti gli italiani.
Bianca Ceva, art. cit.